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Sandro Spinsanti
MEDICINA NARRATIVA
in Attive
anno XXXI, n. 2, novembre 2014, pp. 20-21
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Nei giorni 11-13 del giugno scorso ha avuto luogo presso l’Istituto Superiore di Sanità, a Roma, una “consensus conference" dedicata alla “medicina narrativa”. Questo tipo di conferenze vengono convocate quando ci si trova di fronte a questioni dibattute che possono essere risolte non d'autorità, ma solo attraverso un confronto tra esperti che porti, appunto, a un “consenso” condiviso. In questo caso si trattava di trovare un allineamento sul posto che spetta alla “narrazione” in medicina. Grazie alla narrazione si risanano ferite profonde.
Ci sono forme diverse di narrazione che riguardano le vicende del corpo. Non sono solo gli scrittori che producono letteratura a occuparsi di ciò che ha che fare con la malattia e la cura. I banconi delle librerie traboccano di scritti che nascono dalle situazioni che si sono trovati a vivere sulla propria pelle coloro che hanno dovuto traslocare improvvisamente dal territorio della salute a quello della malattia. Chi traduce la propria sofferenza in narrazione non lo fa per ottenere riconoscimenti letterari. Né il criterio estetico ― ovvero la ricerca del piacere che ci offre la lettura delle grandi creazioni della narrativa ― può essere la pietra di paragone su cui misurare questo genere di produzioni. I bisogni che prendono la via della scrittura sono i più diversi. Il più fondamentale è quello di sentirsi esistere. La nostra vita diventa vera solo quando la raccontiamo. “Chi non può raccontare la sua vita non esiste” (Salman Rushdie).
Le malattie e i drammi della salute non fanno eccezione: sono davvero nostri quando troviamo un orecchio disposto ad ascoltare il nostro racconto. La narrazione del dolore ha spesso la funzione di valvola di sfogo: serve a dare libero corso alle emozioni. Soprattutto quelle collegate al “punto di svolta” che la perdita della salute o di una persona cara introducono nella vita. Non si narra la routine; invece il cambiamento che spesso divide l’esistenza in un prima e un dopo si presta bene a diventare oggetto del racconto che ne facciamo.
È quanto dire che il racconto del dolore ha un valore terapeutico. Anche traumi esistenziali come prigionia, tortura e persecuzione, che hanno profondamente scosso i confini dell’identità personale, possono essere in parte risanati quando sono raccontati. Pensiamo a quanto beneficio hanno ricavato dalle narrazioni autobiografiche i superstiti dei campi di sterminio. In prima battuta la narrazione è destinata a rafforzare i confini dell’ego personale: aiuta quindi a sopravvivere (psicologicamente). Ognuna di queste storie di sofferenza potrebbe portare in esergo la frase con cui Montaigne ha introdotto i suoi Saggi: “Sono io la materia del mio libro”. Un eloquente esempio della funzione positiva che può svolgere la narrazione nel percorso di malattia è il libro curato dal chirurgo oncologo Lorenzo Spaggiari: Io... dopo (Il Pensiero Scientifico, 2013). È una raccolta di scritti redatti da giovani che si trovano a lottare contro il cancro e a vivere con esso. Il curatore del volume ha chiesto ai
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suoi pazienti di scrivere un testo come fosse un ipotetico tema scolastico dal titolo: “Come il cancro ti ha cambiato la vita (se te l’ha cambiata!)”. Per scoprire che quasi tutti avevano scritto qualcosa del genere e lo tenevano nel cassetto. I “racconti del dolore” nascono spontaneamente, senza bisogno di sollecitarli, e hanno un’importante funzione da svolgere: dare una forma diversa all'“io” di chi deve integrare la malattia nel proprio percorso esistenziale.
La “consensus conference” ha concentrato la sua attenzione su un ulteriore tipo di narrazione in medicina: quella che permette a chi cura di “personalizzare” il suo intervento. La persona assistita entra nel processo di cura in modo diverso dal medico: questi porta il suo sapere e la sua volontà di fare il bene del paziente (decide “in scienza e coscienza”, si dice con una formula collaudata); il malato porta il suo vissuto di malattia, le emozioni, le aspettative, i propri valori e preferenze. Dall’incontro dei due punti di vista nasce la cura condivisa. La narrazione è lo strumento per realizzarla. Permettere al paziente di portare la sua narrazione non è un gesto di gentilezza del medico: è una condizione necessaria per poter avere una cura in armonia con la cultura del nostro tempo. Per questo la “consensus conference" ha sottolineato che la medicina narrativa richiede una “competenza comunicativa” da parte del medico: non si improvvisa, né è sufficiente un gesto di buona volontà.
Senza la narrazione del paziente oggi non possiamo più parlare di “buona medicina”.