La lotta al dolore: un orizzonte possibile?

Sandro Spinsanti

LA LOTTA AL DOLORE: UN ORIZZONTE POSSIBILE?

in Uscire dal dolore?

Atti degli incontri con la cittadinanza promossi dall'ADVAR

Treviso 2005

pp. 83-92

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Sandro Spinsanti

Tutto quello che possiamo e dobbiamo dire riguardo alla lotta al dolore ha un'assoluta priorità. È doveroso mettere in atto tutto quello che la medicina è in grado di fare per prolungare la vita, per combattere le malattie; ma se dovessimo stabilire un ordine di priorità tra i diversi aspetti che rientrano nell'ambito della medicina, la lotta al dolore va collocata ai primi posti.

Combattere il dolore è possibile, tuttavia non va da sé. Basta ripercorrere la storia di quanto nella medicina italiana si è fatto al fine di dar scacco al dolore per rendersi conto che urtiamo contro resistenze inaspettate. Il primo elemento sorprendente è l'assoluta

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brevità di questa storia. Il detto antico, tante volte ripetuto, secondo cui Divinum est sedare dolorem inclinerebbe a pensare che da sempre la medicina si è esercitata in quest'arte radicata nella dimensione più alta, addirittura divina, della sua vocazione. Così non è, invece. Se ci riferiamo al ricorso alla moderna farmacopea, solo da pochissimi anni in Italia abbiamo una medicina del dolore degna di questo nome.

Questa storia la possiamo raccontare in poche battute. È commista alla cronaca. Prendiamo come punto di partenza un articolo di giornale apparso soltanto sei anni fa, nel 1999. Un giornalista di Repubblica, Mario Pirani, racconta una vicenda ripresa da un altro giornale della capitale: Il Messaggero. È la storia della signora Maria Cristina Di Luigi, che accudisce un paziente anziano affetto da neoplasia polmonare in preda sovente a dolori acuti.

La signora racconta in una lettera al giornale come si sia rivolta invano, durante un intero weekend, a una serie di medici e di guardie mediche, tutti privi dello speciale ricettario per rilasciare oppioidi. Quando alla fine ne ha trovato uno, anche con l'aiuto dei carabinieri, l'odissea si è prolungata per reperire, dopo molti inutili tentativi, una farmacia che fosse fornita del Durogesic, che rilascia la morfina senza iniezione e rappresenta oggi una delle più avanzate terapie del dolore. Questo non in uno sperduto paesino, ma nella capitale della Repubblica. Non è solo il cancro ― conclude la lettera ― ma anche il nostro Stato a condannarci, con la sua assurda burocrazia. Per non parlare del costo di tali farmaci. Era il 1999.

Merita raccontare, sempre mescolando storia e cronaca, che pochi mesi dopo questo atto di denuncia Successe una Cosa molto interessante, sempre attribuibile al farmaco menzionato, il Durogesic. Si tratta di un cerotto a base di oppioidi a lento rilascio, che ha un effetto per tre giorni. Ebbene, è successo che un solerte funzionario di una Ulss della Toscana, per la precisione di Grosseto, in un momento di zelo burocratico si è reso conto che le confezioni di Durogesic contenevano tre cerotti. Ogni cerotto valeva per tre giorni. E ha concluso che chi prescriveva e chi vendeva

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quel farmaco violava la legge. Perché nell'anno di grazia 2000, il medico poteva prescrivere una terapia antalgica solo per otto giorni; quindi un farmaco valido per nove era contrario alla normativa vigente. Tant'è vero che i medici e i farmacisti che hanno distribuito il Durogesic si sono visti comminare una solenne multa. Ciò accadeva nell'anno 2000, cioè ieri.

Questo scivolone amministrativo ha fatto sì che lo stesso giornalista cavalcasse una campagna di stampa volta a modificare la legge che regolamentava la prescrizione dei farmaci oppioidi. Nel giro di pochi mesi abbiamo avuto, nel gennaio del 2001, la nuova legge. È interessante osservare che il principale ostacolo a fare un'efficace terapia del dolore fosse costituito dalle leggi. Le leggi che regolavano l'uso degli oppioidi risalivano al 1975, l'ultima era del 1990: questo tipo di farmaci erano inseriti entro misure repressive contro la diffusione degli stupefacenti. Le norme in vigore facevano sì che la prescrizione dei farmaci oppiacei fosse difficile e lontana da una quotidiana praticabilità. Una delle norme, ad esempio, prevedeva che non si potesse prescrivere tali farmaci per un periodo superiore a otto giorni. Se un paziente aveva bisogno di un analgesìco per un periodo più lungo ― pensiamo a una persona affetta da cancro! ... ― si dovevano fare prescrizioni ripetute. Inoltre era necessario un ricettario apposito che doveva essere ritirato all'ordine dei medici; ogni ricetta doveva essere fatta in triplice copia, scritta ognuna in originale; ogni ricetta poteva essere fatta per un farmaco solo ecc. ecc. Insomma, una selva di inutili e vessatorie misure restrittive.

Perché la signora di cui parla l'articolo di denuncia ha girato tanto? Perché i medici di medicina generale non avevano il ricettario (possiamo immaginare da parte dei medici dichiarazioni del tipo: "Mi spiace molto che il suo familiare abbia dolore, ma purtroppo non le posso prescrivere niente perché non ho il ricettario"...). Tra la selva di ostacoli alla diffusione di una efficace terapia del dolore potremmo anche citare le misure relative al trasporto degli oppioidi: il medico o l'infermiere che portavano questi farmaci a casa del malato erano sottoposti alle stesse restrizioni

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che riguardavano narcotrafficanti e spacciatori di strada. Fino al 2001, dunque, la via dei farmaci analgesici era piena di ostacoli.

Si potrebbe credere che, con la nuova legge che regola la prescrizione, le cose siano molto cambiate. Certo, la legge del 2001 ha di fatto un po' semplificato le procedure. Ma alcuni nodi cruciali sono rimasti intatti. Per esempio, non si è riusciti a introdurre una piccola clausola relativa alla obbligatorietà per i medici di essere dotati del ricettario speciale necessario per la prescrizione di questi farmaci. Questa era una delle richieste fatte dai medici della società di cure palliative, dagli oncologi e da altre società scientifiche già nel 1998 al ministro della Sanità, allora Rosy Bindi, con una lettera molto dura che denunciava le carenze della terapia del dolore: "Bisognerebbe che quanto meno la dotazione del ricettario per prescrivere i farmaci fosse obbligatoria. Come si può pensare che un medico sia nel servizio sanitario nazionale o inserito come dipendente o in regime di convenzione e manchi di uno strumento fondamentale per fare una buona medicina?".

Per quanto si debbano ancora registrare ritardi, la legge recente tuttavia ha ottenuto una semplificazione delle procedure. È stato eliminato qualcuno degli ostacoli alla lotta del dolore, snellendo l'intreccio delle norme burocratiche, qualche volta miopi, qualche volta fuorvianti perché trattano il farmaco antalgico alla stessa stregua di una droga di consumo voluttuario. Ma abbiamo con questo risolto il problema del ritardo nella lotta al dolore? Mi sembra che la risposta sia negativa, perché gli ostacoli si situano a una profondità maggiore di quella in cui troviamo gli ostacoli legislativi.

Oltre alla revisione delle norme di legge che regolano la prescrizione dei farmaci antalgici, nel 2001 c'è stata anche un'altra iniziativa molto importante, parallelamente all'inizio del primo stanziamento di denaro pubblico per le cure palliative e la creazione degli hospice. Fino ad allora erano stati soprattutto dei privati e associazioni di volontariato a prendere iniziative in questo ambito. Finalmente lo Stato ha deciso di impegnarsi concretamente

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nel promuovere le cure palliative, stanziando dei fondi. Allo stesso tempo venivano create strutture e posti di responsabilità che hanno fatto sorgere improvvisamente interessi per questo settore della medicina in medici che fino ad allora avevano guardato alle cure palliative con sufficienza (sono comportamenti umani, molto umani, dei quali non ci stupiamo).

Nello stesso periodo si registra una forte spinta ad avviare programmi di lotta contro il dolore che non riguardano soltanto la revisione delle norme legislative di cui abbiamo parlato. Anche questo programma più generale, riconducibile al progetto "ospedale senza dolore", ha una storia abbastanza breve. Ha avuto origine in Canada negli anni '90. Non è nato, quindi, da un paese sottosviluppato: anche nei Paesi con sistemi sanitari all'avanguardia si avvertivano carenze rispetto a quello che la medicina può fare per tenere sotto controllo il dolore. Il programma "ospedale senza dolore", fatto proprio anche dall'Organizzazione Mondiale della Sanità e inserito nel progetto "ospedali che promuovono la salute" (Health Promoting Hospitals) ha avuto per diversi anni poca risonanza in Italia. Ma nel 2001 il Ministero ha fatto proprio il progetto, investendolo della massima legittimazione sociale.

Le linee guida che istituiscono l'Ospedale senza dolore fanno una fotografia molto pessimistica dell'impegno attuale della medicina nelle terapie antalgiche: "Oggi anche nelle istituzioni più avanzate il dolore continua ad essere una dimensione cui non viene riservata adeguata attenzione, nonostante sia stato scientificamente dimostrato quanto la sua presenza sia invalidante dal punto di vista fisico sociale ed emozionale. Il medico ancora oggi è portato a considerare il dolore un fatto secondario rispetto alla patologia di base a cui rivolgere la maggior parte dell'attenzione e questo atteggiamento può estendersi anche ad altre figure coinvolte nel processo assistenziale". Dunque, secondo il Ministero non esistono solo gli ostacoli creati da normative legali inadeguate: la negligenza nei confronti del dolore è dovuta anche a un atteggiamento di fondo che porta a privilegiare quello che si può fare per combattere la malattia, mettendo in ombra l'impegno a

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diminuire le sofferenze che accompagnano i fatti morbosi.

Alla base di questo atteggiamento troviamo una grande disattenzione verso il dolore, che non viene considerato qualche cosa di rilevante. Se un malato ha la febbre, l'aumento della temperatura viene considerato un sintomo importante da monitorare; così se il malato ha la pressione alta o se qualunque dei suoi parametri vitali si discosta dalla norma. Per quanto possa sembrare strano, il dolore non entra tra i parametri da valutare sistematicamente.

La diffusa disattenzione si accompagna a una mancanza di conoscenze relative ai trattamenti efficaci del dolore. Molti sanitari semplicemente ignorano come si fa terapia del dolore. A questa dura annotazione medici e infermieri sono soliti rispondere che questo tipo di conoscenze non ha fatto parte del loro curriculum di formazione. E questo è già un altro paradosso: qualcuno in Italia può diventare medico e essere autorizzato a esercitare la medicina, ma se non ha fatto la specializzazione in anestesia, dove forse ha avuto qualche ora di insegnamento ad hoc, non sa come si tratta il dolore. Da questo punto di vista risulta molto pertinente l'osservazione che abbiamo citato dalle linee guida ministeriali, secondo cui la medicina stessa è orientata a considerare il dolore come secondario rispetto a quello che invece è l'obiettivo della medicina, cioè somministrare trattamenti in vista della restituzione della salute.

Quando si avvia un programma di terapia del dolore, è opportuno iniziare misurando il livello di conoscenze di terapia antalgica degli operatori. All'interno del progetto internazionale "ospedale senza dolore" è stato elaborato un questionario sulle conoscenze di base, costituito da 21 domande con risposta binaria: vero o falso. Le domande riguardano come si somministrano i farmaci, come si rileva il dolore, la funzione del placebo, le questioni delle dipendenze dai farmaci oppiacei, come comportarsi con il dolore pediatrico ecc. Quando questo questionario viene somministrato a medici e infermieri, la media delle risposte esatte non supera il 50%. Questo livello di conoscenze è stato confermato tutte le volte che il questionario è stato riproposto. Con un personale

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sanitario che non conosce come si somministrano i farmaci antalgici o che è animato da tutti i pregiudizi che le risposte al questionario evidenziano, le possibilità di avere una terapia del dolore efficace sono molto ridotte.

Se si vuole dar vita a un programma efficace di lotta al dolore, si deve iniziare in modo molto concreto. Anzitutto avviando un'indagine sulla prevalenza del dolore. Significa andare a chiedere alle persone ricoverate se hanno dolore, se ricevono o non ricevono un trattamento. Non basta chiederlo ai medici o agli infermieri. Non voglio dire che i professionisti sanitari falsifichino deliberatamente la realtà, ma tendono ad averne una percezione distorta (in inglese si chiama bias). La prevalenza del dolore documenta la distanza tra ciò che siamo in grado di fare e ciò che in realtà viene fatto in questo ambito.

Allo stato attuale delle conoscenze mediche siamo in grado di tenere sotto controllo più del 90 delle forme di dolore (non siamo al 100: ci sono dei dolori resistenti ai farmaci e agli interventi invasivi, ma le situazioni in cui possiamo tenere sotto controllo il dolore si avvicinano al 95 della casistica). Se dalle nostre indagini sulla prevalenza del dolore risulta che in un reparto abbiamo il 50, il 60, talvolta il 70 di malati che dicono di avere dolore, vuol dire che lo scarto tra il fattibile e ciò che viene messo in atto è molto rilevante. La seconda iniziativa concreta è un intervento relativo alle conoscenze e agli atteggiamenti nei confronti delle terapie antalgiche. Se il dolore non lo si riconosce o non si è capaci di trattarlo, non lo si prenderà di petto.

Quando si parte da indagini attendibili sulla prevalenza del dolore e si avviano progetti seri di formazione degli operatori, si possono ottenere risultati sorprendenti. Un esempio è stato pubblicato di recente sulla rivista Janus (G. Cossolini: "Guerra ai dolori forzati", Janus n015, 2004 pp. 108-111). Riguarda gli Ospedali Riuniti di Bergamo. Per rendere effettivo il progetto "Ospedale senza dolore" si è proceduto in due tempi. Anzitutto viene lanciato il progetto in tutto l'ospedale. Con locandine e brochures distribuite all'ingresso dell'ospedale e nei reparti si comunica

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che quel giorno avrà inizio un intervento sulla terapia del dolore in alcuni reparti scelti. Nella giornata viene condotta un'indagine sulla prevalenza del dolore presso i pazienti ricoverati nei reparti presi in esame. Successivamente ha luogo l'intervento di tipo formativo, preceduto da un'indagine sui bisogni formativi per individuare le carenze di tipo medico, di tipo infermieristico e anche di natura etica. A un anno esatto di distanza ha avuto luogo un altro intervento negli stessi reparti, per rilevare se ci sono stati cambiamenti.

Il resoconto pubblicato documenta che a un anno di distanza (i due rilievi sono stati fatti rispettivamente il 13 giugno 2002 e il 16 giugno 2003) c'è stata una riduzione della prevalenza del dolore, ovvero di pazienti ricoverati che denunciano di avere dolori, del 51,4%. Un altro indicatore molto importante è il consumo di analgesici prima e dopo l'intervento formativo. Sappiamo che in una graduatoria mondiale l'Italia sta al 101° posto nel consumo di farmaci antalgici efficaci (questa classifica ci colloca un po' prima del Ghana...; in Europa dopo di noi c'è solo la Grecia: tutti gli altri ci precedono). Per sapere se facciamo terapia del dolore abbiamo bisogno di indicatori oggettivi. Il consumo di oppioidi, prima e dopo l'intervento formativo, è una di quelle solide misurazioni non soggette a distorsioni soggettive. Ebbene, l'articolo a cui ci stiamo riferendo documenta che, grazie al progetto, negli Ospedali Riuniti di Bergamo il consumo degli analgesici efficaci è aumentato del 5,4%. Ecco, dunque, delle solide risultanze: il dolore percepito diminuisce, il consumo dei farmaci aumenta.

Frequentemente si pensa che, quando esiste un problema etico in sanità, con una legge si potrebbe risolvere. Questa almeno è la reazione relativamente alla procreazione medicalmente assistita, all'eutanasia, alle direttive anticipate... Se ciò fosse vero, potremmo pensare che, varata la legge del 2001 che facilita la prescrizione dei farmaci antalgici, il problema della terapia del dolore sia risolto.Non è così: non basta una legge per risolvere il problema.

Una seconda reazione molto diffusa è: se esiste un problema, si crea un comitato per risolverlo. Anche questa via è stata praticata,

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mediante l'obbligo di creare in tutte le aziende sanitarie e negli ospedali il comitato ospedale senza dolore (COSD). Creato il COSD, risolto il problema del dolore in ospedale...! Vale forse la pena di ricordare a questo punto il detto americano: se vuoi che una cosa si faccia, falla; se vuoi che non si faccia, crea un comitato per farla! Si rischia così di creare quella situazione che conosciamo tristemente anche nell'ambito delle cure palliative: nell'epoca in cui non si faceva niente per i malati che andavano verso la morte, c'erano almeno dei pionieri; nel momento in cui le cure palliative sono state riconosciute e ufficializzate, si sono creati meccanismi di delega: quando non si può più fare niente di curativo, si passa la mano alle cure palliative o all'hospice. Da questo punto di vista il comitato per l'ospedale senza dolore diventa un pericolo per la causa che ci sta a cuore, se la lotta al dolore viene confinata tra la decina di persone che fanno parte del COSD e non diventa invece una cultura di base per tutti gli operatori.

Non dobbiamo solo cambiare l'atteggiamento dei sanitari nei confronti del dolore, ma la nostra azione si deve estendere anche ai cittadini, perché una cultura è fatta di atteggiamenti e di comportamenti condivisi. La Francia ha, ben prima di noi e con molto più impegno, lanciato due campagne nazionali pluriennali di lotta al dolore. La seconda campagna è del 2000, va dall'anno 2000 al 2005, quindi è ancora in corso. Ha identificato tra gli obiettivi prioritari la lotta all'emicrania. È un capitolo importante, perché una donna su 5 ha l'emicrania mentre colpisce soltanto un maschio su 17. Questa differenza ci pone il problema del gender come discriminante, se i dolori delle donne e i dolori degli uomini vengono trattati differentemente. Dare priorità ai dolori che colpiscono prevalentemente le donne è una scelta politica molto significativa.

Il secondo obiettivo della campagna nazionale francese sono i dolori dei bambini. Tutto il dolore pediatrico è un campo dove si registrano molti peccati di omissione. Il terzo obiettivo della campagna francese è la sensibilizzazione dei cittadini, attraverso uno slogan tanto semplice quanto efficace: "Cittadini, se avete il dolore

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ditelo. Fate sentire la vostra voce". C'è un sottotrattamento del dolore che dipende dal fatto che siamo quasi rassegnati. Se nell'ambiente sanitario un dolore non viene trattato come un'alta priorità, il cittadino tende a pensare che non sia importante.

Far crescere la cultura della lotta al dolore vuol dire anche cambiare l'atteggiamento dei cittadini, iscrivendo questo tipo di trattamento nell'ambito dei diritti. Non è perché i dottori sono buoni che devono trattare il dolore, ma perché è un diritto del cittadino. Il cambiamento di prospettiva che ciò comporta è di importanza fondamentale. Ciò non vuol dire che tendiamo a una società anestetizzata, dove il dolore non ha più il diritto di esistere.

Vogliamo piuttosto tenere sotto controllo il dolore proprio perché vorremmo che sia possibile esprimere una spiritualità non soffocata da un dolore fuori controllo. Per illustrare questa affermazione, vorrei chiudere con un piccolo aneddoto che ho raccolto dal dotto Franco Toscani, uno dei pionieri delle cure palliative in Italia. Una volta gli hanno portato una suora che soffriva per un tumore. Il cancro le dava dolori incoercibili, per i quali non era stato intrapreso nessun trattamento. Avviata una terapia antalgica, il dolore scompare. La suora torna a ringraziare il medico: "Grazie per avermi tolto il dolore, perché adesso riesco a pregare. Continui questa cura ma, la prego, mi lasci un po' di dolore, perché questo mi ricorda la mia vocazione". Ecco: la lotta al dolore può essere conciliabile con la spiritualità. Anzi, può costituirne un presupposto.