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Paola Caboara Luzzatto
ARTE TERAPIA
Una guida al lavoro simbolico perl'espressione e l'elaborazione del mondo intero
Prefazione di Sandro Spinsanti
Cittadella Editrice, Assisi 2009
pp. 7-10
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PREFAZIONE
Che cosa ha a che fare l’arte con la terapia? Diamo per scontato che per un certo numero di medici l’accostamento provocherà solo irritazione e un rifiuto carico di sufficienza. È l’atteggiamento rappresentato idealmente da una dichiarazione che fonti giornalistiche attribuivano di recente al prof. Daniel Weinberg, direttore della divisione clinica per i disordini mentali dell’istituto nazionale per la salute mentale di Bethesda (Washington). Illustrando i risultati scientifici della ricerca più recente sulle malattie mentali, Weinberg affermava: “Per ora della schizofrenia conosciamo veramente solo le cause genetiche, biologiche. E gli effetti positivi dei farmaci sui sintomi. Tutto il resto è poesia”. Quel “resto” qualificato come poesia viene svalutato, ironizzato ed esiliato dallo scenario clinico perché considerato ospite indesiderato nella casa della scienza. Si è diffuso però un certo malessere nei confronti di una medicina che sembra allontanarsi dai pensieri e dalle emozioni che abitualmente associamo con la cura. Il grande successo editoriale arriso all’opera in cui Tiziano Terzani riferisce il suo percorso attraverso la malattia, è legato alla sua capacità di catturare e di esprimere quel malessere:
“Io ero un corpo: un corpo ammalato da guarire. E avevo un bel dire: ma io sono anche una mente, forse anche uno spirito, e certo sono un cumulo di storie, di esperienze, di sentimenti, di pensieri ed emozioni che con la malattia hanno probabilmente avuto un sacco a che fare! Nessuno sembra volerne o poterne tenere conto... ” (Tiziano Terzani, Un altro giro di giostra, Longanesi 2004, p. 15).
È per correggere questo squilibrio che è nato il movimento
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delle medical humanities. Non nasce dalla sfiducia nei confronti della medicina scientifica, né è assimilabile ai vari esoterismi e pratiche mediche alternative: è piuttosto una consapevole e deliberata ricerca di una medicina intera, che sappia rispondere alla pluralità dei bisogni della persona malata. Per un curare che sia un prendersi cura è necessaria una medicina che sappia integrare le due culture in cui si è differenziato il sapere umano. L’arte come terapia che ci propone Paola Caboara Luzzatto con questa rigorosa opera, frutto di riflessione e di lunga pratica, acquista tutto il rilievo che le spetta se la collochiamo nel contesto più ampio che viene denotato con il termine inglese Medical Humanities. L’incontro sui percorsi di cura di un bisturi e di un pennello non fa parte del surreale, ma del reale. Non si tratta di minare alle radici la serietà della medicina, ma di riconoscerle tutto lo spessore che le è connaturale.
La consapevolezza che la medicina presuppone due sguardi diversi sull’uomo ha una lunga storia. Non a caso l’immagine di Giano bifronte ― figura mitologica centrale nel pantheon latino ― è stata utilizzata innumerevoli volte per illustrare la caratteristica peculiare della medicina di guardare contemporaneamente in due direzioni: quella della scienza della natura (Naturwissenschaften) e quella delle scienze dello spirito (Geistwissenschaften), per usare la terminologia proposta dallo storico e filosofo tedesco Wilhelm Dilthey. Da una parte le scienze dell’uomo basate sulle scienze esatte, tese all’accertamento di leggi e meccanismi; dall’altra la storia, la narrazione, l’esperienza; mentre le scienze della natura ricorrono alle spiegazioni (in tedesco: erklären) le altre richiedono la comprensione (verstehen). Per questo il medico, che è uno scienziato di uomini, e di uomini malati deve non solo sapere che cos’è la malattia, ma deve anche capire il malato. Il processo di integrazione dei due aspetti della medicina ha conosciuto diversi tentativi, più o meno coronati da successo. L’obiettivo delle medical humanities è di tenere insieme i diversi sguardi, senza negare la rilevanza di ognuno nella sua irriducibilità.
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Una ulteriore messa a fuoco del problema delle “due culture” (così è stato identificato dopo il successo del libro di Charles P. Snow, The two cultures and the scientific revolution 1959, Cambridge university press, Cambridge) parte dalla constatazione che le scienze dell’uomo hanno subito una certa discriminazione all’intemo del mondo della cultura generale. In particolare, la penalizzazione delle scienze umane si riscontra nella formazione dei medici. A fronte di un ampio spazio assegnato nel curriculum degli studi alle scienze biologiche, pressoché assente è l’attenzione dedicata a quelle sociali e psicologiche. Lo spazio adeguato alle scienze umane nell’ambito della formazione universitaria dei futuri medici non è ancora previsto nell’agenda di nessuna proposta di riforma. Tuttavia non si è mai spenta del tutto la convinzione che i medici sono adeguati al loro compito solo quando considerino la dimensione sociale e psicologica degli esseri umani che curano, oltre agli aspetti propriamente biologici.
La malattia ha un profondo legame con la creatività. Una storia di malattia può finire “bene” o “male”. Questi due scenari non sono semplicemente sinonimi di guarigione o di assenza di guarigione, ma si riferiscono al modo in cui l’evento patologico si integra nell’esistenza di una persona o di un nucleo familiare. La creatività necessaria per far finire bene una vicenda di malattia equivale al saper dare “forma”, compiuta e gradevole, alla propria vita. Anche se in Italia il movimento che in ambito anglosassone è stato chiamato delle Medical Humanities è lungi dall’ aver riscosso l’attenzione che gli spetta, l’arteterapia non è all’anno zero. Una Associazione Nazionale Arteterapeuti (APIArT) collega diverse scuole di formazione; convegni di arte terapia si tengono a cadenza abituale e la Cittadella di Assisi si è già particolarmente distinta per l’ospitalità offerta a questo tipo di eventi. Quello di cui ancora lamentiamo la carenza è il riconoscimento formale di questa specifica professionalità e la sua integrazione nella rosa degli interventi che costituiscono un processo di cura integrale, quello in cui il bisturi e il pennello non si contrappongono, ma si completano.
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Mentre le terapie mediche mirano alla salute, quelle creative hanno come obiettivo la salute in un senso più ampio. Se la malattia non è l'antitesi della vita, ma un altro modo per dire la vita stessa, l'arte vi fa parte di diritto. Paola Luzzatto ci guida autorevolmente a capire come.