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- Parlare o tacere?
- La terapia del dolore: orientamenti bioetici
- Il diritto di non soffrire
- L'aspetto culturale del dolore
- Terapia del dolore ed etica della sofferenza
- Il dolore non necessario
- Dolore e sofferenza nel malato di cancro
- Sofferenza
- Terapia del dolore e problematiche etiche
- Dolore e dolorismo
- La terapia del dolore: le leggi, l'etica e la cultura
- La lotta al dolore: un orizzonte possibile?
- Ma è solo il dolore che può uccidere la voglia di vivere
Sandro Spinsanti
TERAPIE DEL DOLORE E PROBLEMATICHE ETICHE
in CredOg 25
1/2005, n. 145, pp. 111-125
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1. Uno scandaloso ritardo italiano
Combattere il dolore con tutti i mezzi che la medicina ci mette a disposizione è generalmente considerato nella nostra società un comportamento di alto profilo morale. Non solo da parte dell’etica che nasce da una visione secolare: anche le morali di matrice religiosa concordano sostanzialmente su questo punto. Questo richiamo vale in particolare per il cristianesimo, al quale è stata talvolta indebitamente attribuita una coltivazione malsana del dolore. Il «dolorismo» può essersi appoggiato al cristianesimo, ma non ne è un figlio legittimo. La posizione dottrinale cristiana si iscrive in un equilibrio tra il feticismo del dolore di coloro che lo considerano come valore supremo, e la fobia del dolore, che induce a vedere in esso il non-valore assoluto. La teologia cristiana valorizza il dolore ― soprattutto quello connesso con la fase finale della vita e il distacco dal corpo ― attribuendogli un denso significato antropologico e salvifico; senza tuttavia farne un idolo, perché non è il dolore in sé che purifica e salva, ma solo la grazia che produce l’amore.
La morale cattolica ufficiale si ispira ai principi formulati in un celebre discorso di Pio XII al congresso della Società Italiana di anestesiologia (24 febbraio 1957). In modo realistico, il pontefice ha riconosciuto che «a lungo andare, il dolore impedisce il raggiungimento di beni e di interessi superiori. Può accadere che esso sia preferibile per una determinata persona e in una determinata situazione concreta; ma, in generale, i danni che provoca costringono gli uomini a difendersi da esso. Indubbiamente non si riuscirà mai a farlo scomparire completamente dall’umanità, ma si possono contenere in più
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stretti limiti i suoi effetti nocivi». Di conseguenza, secondo la dottrina morale cattolica «il paziente desideroso di evitare o di calmare il dolore può, senza inquietudini di coscienza, avvalersi dei mezzi trovati dalla scienza». È accettato come lecito il ricorso ad analgesici che portano anche alla perdita della coscienza, purché questo mezzo sia giustificato da un intento terapeutico, e l’accettazione di trattamenti antalgici che hanno come effetto secondario quello di abbreviare la vita, purché motivi veramente validi li giustifichino.
Con il tempo l’orientamento dottrinale non è cambiato, se il Catechismo della chiesa cattolica del 1992, a proposito del dolore e del suo contenimento nella fine della vita afferma:
L’uso di analgesici per alleviare le sofferenze del moribondo, anche con il rischio di abbreviare i suoi giorni, può essere moralmente conforme alla dignità umana, se la morte non è voluta né come fine né come mezzo, ma è soltanto prevista e tollerata come inevitabile. Le cure palliative costituiscono una forma privilegiata della carità disinteressata. A questo titolo devono essere incoraggiate 1.
Né diversamente suonano le formulazioni morali di altre tradizioni religiose. Riportiamo, a titolo esemplificativo, le conclusioni cui giunge A. Luzzatto dopo un’analisi accurata dell’atteggiamento ebraico:
La tradizione ebraica, nella sua parte maggiore, non ha fatto propria una specie di vocazione alla sofferenza e al dolore, anche se le circostanze storiche l’hanno spesso costretta a sopportare l’una e l’altro [...]. Il dolore cessa di rappresentare un ideale simile all’ascesi o un aspetto fondamentale del rapporto dell’uomo con Dio, che si sposta a un altro e più elevato livello; e ritorna ad essere una sgradevole ma non evitabile esperienza di vita che, certo con l’aiuto di Dio, ma soprattutto con il permesso e con la compiacenza di Dio, l’uomo ha il diritto di contrastare con i suoi mezzi 2.
Alla legittimità culturale ed etica riconosciuta alla lotta contro il dolore si accompagna l’iscrizione delle azioni rivolte a tale fine tra le priorità del servizio sanitario pubblico. Il Piano sanitario nazionale per il triennio 1998-2000, che si propone come un «patto di solidarietà per la salute», individua l’assistenza alle persone nella fase terminale
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della vita tra gli obiettivi da privilegiare. Nell’ambito del quarto obiettivo ― «Rafforzare la tutela dei soggetti deboli» ― il Piano indica l’assistenza alle persone affette da patologie evolutive irreversibili, per le quali non esistono trattamenti risolutivi. Nell’ambito del patto di solidarietà, la sanità pubblica si impegna a fornire a queste persone «un’assistenza finalizzata al controllo del dolore, alla prevenzione e cura delle infezioni, al trattamento fisioterapico e al supporto psicosociale». Tra le azioni da privilegiare il Piano individua l’erogazione di assistenza farmaceutica a domicilio tramite le farmacie ospedaliere e il potenziamento degli interventi di terapia palliativa e antalgica.
Proprio in Italia la sensibilizzazione alla terapia del dolore dovrebbe aver luogo con carattere di urgenza. La situazione italiana è descritta, con tono di denuncia, da una lettera aperta inviata al Ministro della sanità e sottoscritta da diverse associazioni e società scientifiche (la lettera è stata pubblicata dalla rivista «Tempo Medico» del 25 febbraio 1998). Il primo firmatario è l’Associazione europea per le cure palliative. Quindi è chiaro: la richiesta parte da chi si occupa di malati per i quali la medicina non ha più risposte curative. Ciò non vuol dire che l’arte medica non abbia più niente da fare. In particolare può fare ciò che le concezioni mediche dell’antichità consideravano come l’opera «divina» per eccellenza: togliere il dolore. Questo è appunto uno degli obiettivi principali delle cure palliative.
Per controllare il dolore sono necessari farmaci oppiacei, soprattutto la morfina. Da quasi un ventennio l’Organizzazione mondiale della sanità ha elaborato delle linee-guida per il trattamento efficace del dolore (scala analgesica OMS). Sono tre i gradini da percorrere, a seconda dell’intensità del dolore. Farmaci antinfiammatori non steroidei per il dolore lieve, oppioidi deboli per quello moderato e oppioidi forti per quello severo. Soprattutto per il dolore da cancro, la morfina e altri analgesici oppioidi sono considerati essenziali, tanto che il loro consumo annuale viene assunto come un indicatore sensibile per valutare l’efficacia dei programmi di controllo del dolore da cancro. Da quando l’OMS si è impegnata in questa campagna umanitaria tra tutte ― la lotta al dolore evitabile ― si è registrato un progressivo aumento della morfina nei paesi che già avevano un alto livello di utilizzo. Fino al 1984 il consumo di morfina è stato stazionario, mentre negli anni successivi è progressivamente aumentato, fino a quadruplicare nel 1993.
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Questa tendenza si è registrata solo nei dieci paesi che già avevano un livello alto di utilizzo di morfina. Quelli che ne facevano un basso uso, invece, hanno ulteriormente diminuito l’uso di farmaci antalgici efficaci. L’Italia è tra questi. Anzi, a nostra vergogna dobbiamo riconoscere che l’Italia occupa uno degli ultimi posti nel consumo terapeutico di oppioidi. Ciò vuol dire che migliaia di persone finiscono la vita con dolori gratuiti, che la medicina sarebbe in grado di evitare. La lettera indirizzata al ministro della sanità intendeva portare al centro dell’attenzione un problema reale di «malasanità», molto più grave di quelli sui quali è solita scandalizzarsi la stampa.
La denuncia contenuta nella lettera non è completa: manca la dimensione sociale dello scandalo costituito dal dolore non necessario. Questa emerge da un’altra considerazione: i pochi centri di terapia del dolore che esistono in Italia non sono distribuiti in modo uniforme. Si registra una grande rarefazione di risposte istituzionali al problema del dolore nell’Italia centrale, e praticamente il vuoto in quella meridionale. Se possiamo ipotizzare che la malattia cada sulle persone alla cieca, facendo torto a chi colpisce ma senza ingiustizie, dobbiamo invece riconoscere che il dolore è molto selettivo: predilige coloro che abitano al centro-sud del paese, e tra questi i poveri, che non possono far ricorso ai servizi offerti ― a pagamento ― dalla sanità privata.
Perché la lotta al dolore è gravata da tante scandalose omissioni? Abbiamo la sensazione che qualcosa non sia andata per il verso giusto nell’evoluzione della medicina, se oggi alla capacità tecnica di tenere sotto controllo il dolore non corrisponde un impegno fattivo e una realtà rilevante di persone liberate dal dolore non necessario. Alcune risposte all’interrogativo non dobbiamo andare a cercarle molto lontano. Basti pensare quanto pesano sui comportamenti prescrittivi l’inerzia burocratica e la miopia amministrativa.
Al fine di evitare abusi, le normative italiane hanno costruito intorno alla prescrizione di farmaci oppioidi un percorso a ostacoli tra i più complessi. La legge 685 del 1975 e il DPR 309 del 1990 ― nel quale vengono accomunate le norme per l’impiego dei farmaci antalgici e l’azione repressiva nei confronti del mercato illegale delle sostanze d’abuso! ― prevedevano che per prescrivere tali farmaci i medici dovessero possedere un ricettario ministeriale, da ritirare e controfirmare presso le sedi degli ordini dei medici; la prescrizione in
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triplice copia (ognuna delle quali scritta a mano!); le ricette dovevano essere conservate per almeno due anni; la prescrizione doveva essere limitata al fabbisogno di otto giorni (una norma che ha creato la perla di stupidità burocratica di medici e farmacisti che sono stati multati perché hanno rispettivamente prescritto e venduto una confezione di tre cerotti antalgici a lento rilascio, ognuno con azione prevista per tre giorni, quindi uno in più di quanto prescritto dalla legge!); la prescrizione doveva essere redatta a tutte lettere con estesa indicazione delle dosi e della via di somministrazione, la dichiarazione di responsabilità in caso di dosaggio giornaliero superiore alla quantità prevista dalla farmacopea; sanzioni rilevanti erano previste per i professionisti, medici e farmacisti, in caso di errori, anche meramente formali, nella prescrizione, registrazione, dispensazione, conservazione e smaltimento del farmaco.
A fronte di questa selva di norme, che implicitamente inducono a considerare la prescrizione di un farmaco antalgico analoga all’erogazione del metadone per i tossicodipendenti, si aprono vie di fuga facilmente percorribili. Se il medico non dispone del ricettario, si può ritenere dispensato dal prescrivere questi farmaci. E dal momento che molti medici sono restii a farvi ricorso ― in parte per le complicazioni burocratiche, in parte perché non hanno ricevuto la formazione necessaria in ambito di cure antalgiche ― questa diventa per molti malati la barriera principale che impedisce loro l’accesso alla morfina e altri farmaci oppiacei.
In parte le norme limitative per la prescrizione dei farmaci antalgici sono state superate dalle disposizioni contenute nella legge n. 12 dell’8 febbraio 2001: Norme per agevolare l’impiego di farmaci oppiacei nella terapia del dolore. La nuova legge mira a semplificare i procedimenti che riguardano la consegna, il trasporto e la prescrizione dei trattamenti terapeutici finalizzati al controllo del dolore. Alcune modifiche dei comportamenti sanitari sono vistose: mentre prima le prescrizioni dei farmaci non potevano superare gli otto giorni, ora possono superare i trenta; i medici non potevano approvvigionarsi di stupefacenti attraverso l’autoricettazione, mentre con la nuova legge possono farlo e detenere le quantità necessarie; gli infermieri non potevano trasportare i farmaci oppiacei al domicilio dei pazienti, oggi invece gli infermieri impegnati nei servizi di assistenza domiciliare sono autorizzati a farlo. Per quanti siano i meriti delle nuove disposizioni, la legge ha tuttavia solo uno stretto carattere di regolamentazione,
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a deroga della normativa precedente 3. Per modificare i comportamenti sarà necessario un intervento più in profondità, sulla cultura sottostante e sulla stessa etica medica.
Oltre alle carenze di tipo organizzativo, che ci possono spiegare perché il trattamento del dolore viene trascurato, altre indicazioni possono essere rintracciate nell’ambito della cultura, là dove i nudi fatti sono connotati come valori e si elaborano i comportamenti. Ebbene, la cultura è capace di dare maggiore o minore rilievo al dolore, talvolta di renderlo addirittura invisibile. E se il dolore sfugge al nostro sguardo, si sottrarrà anche a ogni tentativo di combatterlo.
2. Aspetti antropologici del dolore in medicina
L’aspetto più paradossale è che il dolore, di per sé, tende a farsi vedere e a farsi sentire: chi ha dolore urla, in modo vistoso dichiara la sua presenza di essere sofferente e attira l’attenzione su di sé e sul proprio dolore. Eppure noi abbiamo l’incredibile capacità di riuscire a non vedere anche la realtà più evidente. In altre parole, noi vediamo solo la realtà che siamo disposti a vedere, mentre anche ciò che è visibile e palese non lo vediamo semplicemente perché non lo vogliamo vedere. Non ci mancano esempi storici che documentano la singolare selettività delle nostre capacità percettive. Per secoli la sofferenza, la degradazione, il dolore fisico degli schiavi negri era sotto gli occhi degli schiavisti, eppure essi non li vedevano. Nel secolo scorso, all’epoca dell’espansione industriale, la condizione miserabile dei bambini che lavoravano nelle fabbriche era sotto gli occhi di tutti, ma solo gli occhi di qualche artista, come Dickens, di qualche filantropo, o di qualche teorico della rivoluzione sociale hanno saputo vederla.
Per rimanere nell’ambito ristretto del dolore fisico, non può non impressionarci la testimonianza di un neonatologo circa la persistente cecità al dolore dei neonati e dei bambini più piccoli da parte dei medici stessi:
Si è negato a lungo ― con tutta una serie di dimostrazioni di tipo scientifico e di sperimentazioni di vario genere ― che il neonato potesse sentire dolore. Fino a venti anni fa si decideva che si trattava di dolore sottocorticale,
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che la coscienza del dolore non c’era, che i neonati non se lo ricordavano, che veniva percepito ma non localizzato, non elaborato, che vi erano in circolo le endorfine che impedivano di sentire il dolore; insomma, la pratica era che gli interventi chirurgici sul neonato, in particolare sul neonato prematuro, venivano fatti senza anestesia. Nei centri più avanzati gli si dava un bicchierino di cognac, come nel caso della chiusura chirurgica del dotto arterioso di Botallo, che richiede un intervento sul torace e quindi su una zona molto sensibile 4.
L’interesse a promuovere sempre migliori interventi terapeutici non è andato di pari passo in medicina con un uguale impegno a controllare il dolore. Non da oggi. Un’osservazione pungente di M. Crichton relativa al ritardo con cui i prodotti anestetizzanti sono stati introdotti in chirurgia può essere estesa ad altre stagioni della medicina. Dopo aver descritto quanto fossero cruenti e dolorosi gli interventi chirurgici prima che, verso la metà del XIX sec., si facesse ricorso all’anestesia, Crichton annota:
Sarebbe ragionevole aspettarsi che questo deplorevole stato di cose spingesse i chirurghi a cercare modi per alleviare il dolore e a prendere in considerazione qualsiasi nuovo farmaco in grado di dare questo risultato. Ma di fatto questo non avvenne: gli analgesici erano noti già da quarant'anni prima che si pensasse di usarli nella chirurgia. Se, come sostiene Poincaré, la scoperta predilige le menti preparate, i medici devono essere considerati stranamente impreparati 5.
Le sofferenze ― sia fisiche che morali ― degli altri rischiano di sottrarsi alla nostra attenzione benché siano così macroscopiche, apertamente sotto gli occhi di tutti. In casi simili, la disattenzione fisica è del tutto simile alla disattenzione morale, per colpa della quale l’intelletto non si accorge di quelle considerazioni che sono troppo insistenti e tangibilmente chiare (la scelta morale è una questione di «visione», prima e più ancora di decisione; l’attenzione è perciò fondamentale).
Nell’insieme la civiltà di cui siamo figli, pur promuovendo la lotta al dolore, ci ha reso meno capaci di far fronte alla sofferenza: è l’accusa contenuta nel celebre saggio: Nemesi medica di I. Illich 6. La
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tesi di fondo è che la medicina moderna, con la medicalizzazione delle cure, si risolve in un’espropriazione della salute. Illich ha chiamato «iatrogenesi culturale» l’aspetto più insidioso del fenomeno, che ha origine quando l’impresa medica distrugge nella gente la volontà di soffrire la propria condizione reale. «La medicina organizzata professionalmente ― affermava Illich in quel pamphlet che non ha perduto la sua attualità ― è venuta assumendo la funzione di un’impresa morale dispotica tutta tesa a propagandare l’espansione industriale come una guerra contro ogni sofferenza. Ha così minato la capacità degli individui di far fronte alla propria realtà, di esprimere propri valori e di accettare il dolore e la menomazione inevitabili e spesso irrimediabili, la decadenza e la morte». Il culmine di questa impresa è individuato nella «soppressione del dolore». Ciò ha portato a una società anestetizzata.
Con questa espressione non si intende mettere sotto accusa quanto la medesima è in grado di fare per impedire di sentire sulla propria pelle la sferza del dolore, ma ciò che viene messo in atto per impedire che il dolore si trasformi in un’esperienza personale. Ogni cultura dispone di quattro fondamentali risorse per trasformare il dolore: parole, miti (spiegazioni religiose e mitiche del senso e della funzione del dolore), modelli morali («arte di soffrire bene») e farmaci. Con la medicalizzazione del dolore assistiamo alla crescita elefantiaca di quest’ultima risorsa e alla decadenza di tutte le altre. Quando poi ― come abbiamo visto nel caso dell’Italia ― anche la risposta farmacologica è carente, ci troviamo meno equipaggiati delle società che ci hanno preceduto nella gestione del dolore che accompagna le vicende morbose del corpo.
Una medicina veramente umana si costruisce solo sull’assunto-base opposto a quello corrente, il quale implicitamente presume che la malattia abbia un carattere di «in-sensatezza». La prassi corrente sottolinea la richiesta fatta al malato di affidarsi a chi è deputato alla cura del suo male. Le aspettative istituzionalizzate ― vale a dire, ciò che la società abitualmente si aspetta dal malato, e a cui questo deve informarsi se non vuole che il suo comportamento sia considerato come anomalo ― mirano esclusivamente all’abolizione del sintomo, non all’interrogazione appassionata di esso, affinché lasci nelle mani del malato qualche traccia del messaggio esistenziale che ha per lui. L’uomo malato viene così apparentemente decolpevolizzato nei confronti dei mali che l’affliggono, mentre in realtà è deresponsabilizzato.
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La conquista del senso nascosto nel pathos partecipa del carattere notturno e misterioso della lotta di Giacobbe con l’angelo (cf. Gn 33,23-33). La benedizione che rimane nelle mani del lottatore può avere un carattere doloroso, che lo costringerà a zoppicare per tutta la vita. Nel quadro dell’antropologia teologico-biblica, là dove la guarigione è iscritta dentro l’opera della salvezza, l’emergere del senso della sofferenza ci appare come un momento costitutivo del processo della soteria (una realtà più vasta della guarigione in senso clinico, in quanto partecipa del carattere trascendente della salvezza). L’acquisizione di senso ottiene che dalla passività distruttiva di ciò che l’uomo subisce nel corpo scaturisca una possibilità di crescita.
Il senso non può essere donato a nessuno: va trovato all’interno dell’esperienza, grazie a un vero e proprio «lavoro semantico». La creazione del senso della propria patologia è come una porta che si apre solo dal di dentro: nulla si ottiene forzandola dall’esterno. Ma la ricerca può essere facilitata o impedita. Chi si vuol porre in relazione d’aiuto ― come professionista sanitario o come essere umano solidale ― ha bisogno più di esprit de finesse che di esprit de géométrie. Dovrà ricorrere ― in un dosaggio ogni volta da inventare ― all’azione e all’omissione (nel senso di rinuncia a operare con ostinazione), alla parola e al silenzio, alla presenza e alla distanza.
3. La bioetica e il superamento dell’etica medica
Quando diciamo che il dolore, per quanto manifesto, viene reso invisibile dall’insensibilità morale non intendiamo solo il grossolano atteggiamento degli schiavisti o dei capitalisti proprietari delle fabbriche del XIX sec. nei confronti della sofferenza che li circondava; e neppure la tranquilla disinvoltura con cui i chirurghi procedevano a operazioni sui neonati senza anestesia. Anche delle concezioni morali di alto profilo possono costituire un filtro che impedisce di vedere il dolore. Dobbiamo riconoscere che esiste anche un’etica medica che non aiuta a vedere il dolore, anzi nasconde il dolore che abbiamo sotto gli occhi.
C’è una pagina letteraria famosa, tratta dal romanzo: I Buddenbrook di Th. Mann, che ci permette di dare concretezza all’affermazione che anche l’etica può contribuire a mascherare il dolore. In una scena culminante l’anziana madre del console Thomas Buddenbrook
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giace sul letto di morte. L’agonia si protrae dolorosamente. La morente, in grandi difficoltà respiratorie, chiede ai due medici che l’assistono un calmante per dormire. Supplica: «Qualcosa per dormire... Dottori per pietà! Qualcosa per dormire!». Ma i medici sanno che l’azione di un sedativo abbrevierebbe la vita; per cui respingono la richiesta, rifacendosi a dei vaghi motivi etici che non sanno articolare, ma che nondimeno sentono come vincolanti. Annota Th. Mann:
Ma i medici conoscevano il loro dovere. Bisognava in ogni caso conservare ai parenti il più a lungo possibile quella vita, mentre un calmante avrebbe subito provocato la resa dello spirito senza più opposizione. I medici non sono al mondo per facilitare la morte, ma per conservare la vita a qualunque prezzo. In favore di ciò spingono anche certi principi religiosi e morali, dei quali avevano sentito parlare all’università, anche se in quel momento non se li ricordavano bene 7.
Questo tipo di sensibilità morale fa sì che la madre del console Buddenbrook muoia al termine di un’agonia terribile, per la quale i medici hanno ritenuto loro dovere non fare niente, per quanto la morente abbia cercato di indurli a lenire il dolore appellandosi alla loro compassione («Per pietà!»). Consideravano infatti il dolore della morente come un dolore necessario. La nostra sensibilità morale si ribella. Eppure dobbiamo riconoscere che la tendenza che Th. Mann rileva nella medicina del secolo scorso (ispirata a un’etica che imponeva al medico l’obbligo di far vivere l’ammalato il più a lungo possibile, senza individuare anche nel lenimento del dolore un obbligo etico prioritario) non è estranea alla medicina del nostro tempo. Anzi, ai nostri giorni tende a diventare estrema.
L’interrogativo etico (qual è il dovere del medico di fronte a un malato che gli chiede un calmante che può abbreviargli la vita?) poggia su una questione culturale e antropologica relativa ai fini della medicina. Se identifichiamo come obiettivo della medicina esclusivamente la guarigione, entriamo molto facilmente nel vicolo cieco che coinvolge la medicina medesima: si sente mobilitata a fare tutto il possibile per guarire, ma non fa niente ― o quanto meno non agisce con un impegno analogo ― per sedare il dolore.
Questa osservazione non deve essere interpretata come un atto di accusa contro i medici per aver deformato la concezione della medicina:
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mentre in passato era sufficientemente bilanciata fra il dovere di guarire e il dovere di lenire il dolore, oggi è invece tutta polarizzata sul dovere unico di guarire, di prolungare la vita, di tentare tutto il possibile per aggiungere qualche giorno o qualche ora all’esistenza del morente. Questo atteggiamento dei medici è un problema culturale, in quanto sta a significare che tale offerta deriva da una specifica domanda.
La richiesta alla medicina di fare sempre di più per guarire, per prolungare la vita e, in ultima analisi, per assicurare l’immortalità, proviene dagli uomini e dalle donne del nostro tempo. Noi non accettiamo più di morire; abbiamo rimosso la cultura della morte intesa come un momento della nostra vita, caricando la medicina delle nostre attese di immortalità. Chiediamo oggi alla medicina quello che una volta si chiedeva alla religione, quasi che la medicina sia diventata la nostra «religione laica», e i medici e la scienza il sacerdozio di questa religione.
Perché dobbiamo rassegnarci alla morte, dal momento che non solo possiamo prolungare la vita, ma forse siamo in grado anche di raggiungere l’inversione del meccanismo di degrado che ci porta alla morte, e quindi possiamo diventare immortali? C’è una collusione profonda tra una medicina che si sente potente ― anzi onnipotente ― e una cultura che si sente immortale o che aspira all’immortalità. In questo incontro fatale fra una domanda e un’offerta speculari ne fa le spese soprattutto chi ha bisogno di una medicina diversa, quella che chiamiamo «palliativa». Si tratta di una medicina che non tiene conto solo delle malattie e si accorge anche delle sofferenze; che sa cambiare marcia ed è in grado di capire, a un certo punto, che la priorità non è più la lotta a oltranza alla patologia in atto, né il dare scacco alla morte, ma diventa l’accompagnare, favorendo il processo naturale della fine della vita nella maniera più indolore possibile.
4. Far fronte al dolore: modelli etici
Per comprendere come la risposta al dolore possa essere soggettiva e personalizzata, più che il riferimento alle norme ― legali ed etiche ― si rivela utile la considerazione dei modelli etici incarnati nelle vite esemplari. In misura maggiore di quanto amino ammettere i giuristi e gli esperti di etica, la vita morale delle persone si struttura
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modellandosi. Ciò vale anche per la capacità e la volontà di affrontare il dolore, soprattutto nella fase terminale della vita e relativamente alle decisioni che strutturano la morte e la quantità di dolore destinata ad accompagnarla. Per quanto riguarda la morte, la varietà dei comportamenti che possono fungere da modello è enorme. Una raccolta di biografie curata da H.J. Schultz si limita a raccontare gli ultimi giorni di una quindicina di personaggi diversi, rappresentativi di varie culture ed epoche storiche: da A. Schweitzer a Mozart, da Pascal a Seneca 8. Anche se in numero ridotto, questi racconti sono sufficienti a darci la misura della molteplicità di stili di morte esemplari. Forse nessuno di questi resoconti degli ultimi giorni interpella i nostri contemporanei come quello che riguarda S. Freud. È noto che Freud morì per un cancro che gli fu diagnosticato nel 1923, a sessantasette anni. Sostenuto nelle sue decisioni da M. Schnur, il suo medico di fiducia, Freud affrontò con coraggio la lotta contro la malattia: fino al 1939, l’anno della sua morte, subì trentatré interventi chirurgici per far fronte alla devastazione progressiva causata da quello che egli chiamava «das Ungeheuer», cioè «il mostro». Sedici anni di lotta continua; finché il 21 settembre 1939, Freud convoca il dottor Schnur per dirgli: «Caro Schnur, lei si ricorda del nostro primo colloquio? Allora mi ha promesso che non mi avrebbe lasciato in asso quando sarebbe giunto il momento. Ora è solo tormento e non ha più alcun senso». Lo stesso giorno, il 21 settembre, il dottor Schnur somministra al suo paziente, che finora ha sempre rifiutato ogni calmante, una forte dose di morfina e due giorni dopo Freud, senza svegliarsi, muore.
È una narrazione di morte che si colloca con naturalezza nel grande filone dello stoicismo, insieme a Seneca, Marco Aurelio, Epitteto (nonché di altri stoici nostri contemporanei). L’autodeterminazione della persona è il centro di gravità di questo modello. Freud mette in atto una strategia a lungo termine per attuare quello che ritiene un suo diritto: strutturare la propria morte. Dare alla propria vita e alla propria morte la forma e i limiti ritenuti più opportuni non è una benevola concessione, ma un diritto del paziente, che equivale alla sua rivendicazione a essere soggetto. Ciò permette la personalizzazione della morte e del morire. La struttura della morte di Freud
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risponde ai suoi valori, in particolare a quello centrale della sua vita: la razionalità, il giudizio chiaro. Scriveva al fratello: «La vita non mi dà più gioia, da diversi punti di vista sono un relitto, ma sono in possesso delle mie facoltà intellettuali, lavoro ancora». E al dottor Schnur ha comunicato di non volere i calmanti affermando: «Preferisco pensare tra i tormenti che non pensare». La sua morte è stata coerente con la sua gerarchia di valori. Può darsi che per un altro il valore dominante non sia quello di conservare l’uso della ragione, la lucidità fino alla fine, ma piuttosto di essere libero dal dolore. Per questo le morti, quando sono personalizzate, non si assomigliano le une alle altre. Un altro elemento importante che troviamo nel racconto della morte di Freud è la negoziazione con il medico. Il medico e il malato non sono due nemici, non prevaricano l’uno sull’altro; il medico non impone la sua etica, il malato non fa prevalere il suo punto di vista, ma si confrontano e trovano insieme, in maniera dialogica e negoziale, la giusta soluzione. Due posizioni diverse, ma non one up (posizione superiore o primaria) e one down (posizione inferiore o secondaria): sono tutt’e due sullo stesso piano.
Nel sottofondo di questo modello riconosciamo i tratti caratteristici della modernità: il valore dell’individuo, la soggettività, il diritto all’autodeterminazione; in una parola l’illuminismo. Può essere istruttivo confrontarci con la morte dell'«eroe culturale» dell’illuminismo I. Kant. Lo scrittore inglese Th. de Quincey, che aveva un’ammirazione sviscerata per Kant, ne ha lasciato una relazione accurata: Gli ultimi giorni di Immanuel Kant 9. De Quincey ha scritto questa relazione nel 1827, quindi appena una ventina d’anni dopo la morte di Kant, che è avvenuta nel 1804, basandosi sulle relazioni di Vasiansky che aveva assistito Kant in tutta la fase terminale della sua vita. Anche qui troviamo il modello di una vita e di una morte dignitosa. Sono altamente rappresentati l’autodeterminazione individuale e lo stile di vita conforme ai valori personali.
Il racconto presenta anche un episodio singolare. Il vecchio Kant, che aveva anche enormi difficoltà a esprimersi ― Vasiansky interpretava le parole che Kant balbettava ― riceve il suo medico; questi vorrebbe che Kant si sedesse, ma il filosofo rimane in piedi. Racconta de Quincey, con le parole di Vasiansky:
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Intanto continuava a tenersi in piedi, ma si vedeva che era sul punto di cadere a terra. Allora avvertii il medico, e ne ero ben convinto, che Kant non si sarebbe seduto, per quanto potesse soffrire rimanendo in piedi, finché non si fossero seduti i suoi ospiti. Il dottore sembrava dubbioso, ma Kant, che aveva udito quel che avevo detto, con uno sforzo prodigioso confermò la mia spiegazione del suo comportamento e pronuncio distintamente queste parole: «Dio non voglia che io cada cosi in basso da dimenticare i doveri dell'umanità».
Certamente nel termine «Humanität» usato da Kant c'è il significato arcaico di «cortesia», «gentilezza»; ma non soltanto questo. C'è un riferimento ai doveri dell'umanità, doveri verso se stessi, ma anche doveri verso gli altri: esistono i doveri della co-umanità. La strutturazione della propria fine non è soltanto un diritto, ma comporta diritti e doveri. Per dirla con il vecchio Kant: Dio non voglia che noi strutturiamo la nostra vita ― e le decisioni di fine vita ― soltanto sul diritto, anche se sappiamo che il diritto di dare una forma personale alla vita e alla morte è stato acquisito dalla nostra cultura. Vorrebbe dire che saremmo caduti tanto in basso da dimenticare anche i nostri doveri nei confronti dell'umanità.
Sommario
L'etica medica ha tradizionalmente identificato la lotta contro il dolore (sedare dolorem) come un impegno fondamentale della medicina, accanto al curare e a consolare. Tuttavia non sembra che alle accresciute capacità antalgiche proprie della medicina dei nostri giorni corrisponda un impegno a combattere le diverse espressioni del dolore Come afferma il Comitato nazionale per la Noetica, «tra quanto è possibile e giusto fare per eliminare e controllare il dolore fisico e quanto in pratica viene atto riscontriamo una vistosa differenza». La spinta verso un'efficace terapia antalgica che proviene dalla bioetica è un'occasione anche per rivisitare la posizione dottrinale cristiana circa il dolore. I due pericoli da evitare ci appaiono come un «dolorismo» e una fobia del dolore, che lo priva di senso nell'esperienza umana.
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NOTA BIBLIOGRAFICA
L. Benci, La nuova legge: molte luci e qualche ombra, in «Janus» 1 (2001) 39-43.
Comitato nazionale per la bioetica, La terapia del dolore: orientamenti bioetici (30 marzo 2001), reperibile al sito internet: http://www.palazzocbigi.it/bioetica/testi/ 300301. html [27/12/2004].
M. Crichton, Casi di emergenza, Rizzoli, Milano 1995.
I. Illich, Nemesi medica. L'espropriazione della salute, Mondatori Bruno, Milano 2004 (nuova edizione con due saggi inediti di rivisitazione del tema a vent'anni dalla sua prima formulazione [19761]); cf. anche Edizioni RED, Como 1991.
A. Luzzatto, L'uomo a fronte della sofferenza nella tradizione ebraica, in K. Bergolt - D. von Engelhardt (edd.), Schmerz in Wissenschaft, Kunst und Literatur, Guido Pressler Verlag, Hürtgenwald 2000, pp. 194-201.
Th. Mann, I Buddenbrook, Il Corbaccio, Milano 1992.
M. Orzalesi-B. De Caro, L'alba dei sensi, in «L'Arco di Giano» 17/1998, pp. 15-24.
Th. de Quincey, Gli ultimi giorni di Immanuel Kant, Adelphi, Milano 1983.
H.J. Schultz, Letzte Tage, Kreuz Verlag, München 1983.
NOTE
1 Catechismo della chiesa cattolica, n. 2279.
2 A. Luzzatto, L'uomo a fronte della sofferenza nella tradizione ebraica, in K. Bergolt-D. von Engelhardt, Schmerz in Wissenschaft, Kunst und Literatur, Guido Pressier Verlag, Hürtgenwald 2000, pp. 200 ss.
3 Cf. L. Benci, La nuova legge: molte luci e qualche ombra, in «Janus» 1/2001, pp. 39-43.
4 M. Orzalesi-B. De Caro, L'alba dei sensi, in «L’Arco di Giano», 17/1998, p. 18.
5 M. Crichton, Casi di emergenza, Rizzoli, Milano 1995, p. 97.
6 Cf. I. Illich, Nemesi medica, Arnoldo Mondadori, Milano 19761; anche Edizioni RED, Como 1991.
7 Th. Mann, I Buddenbrook, Il Corbaccio, Milano 1992 (ed. or. 1901), p. 346.
8 Cf. H.J. Schultz, Letzte Tage, Kreuz Verlag, München 1983.
9 Th. de Quincey, Gli ultimi giorni di Immanuel Kant, Adelphi, Milano 1983.