La riflessione antropologica in medicina

Sandro Spinsanti

La riflessione antropologica in medicina

in Medicina e Morale

fasc. 1, 1980, pp. 5-16

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LA RIFLESSIONE ANTROPOLOGICA IN MEDICINA

In ambito medico l’invito alla riflessione filosofica non è visto in genere di buon occhio. Specialmente quando questo venga da chi rappresenta un’«antropologia», cioè un sapere sistematico e riflesso sull’uomo (si tratta in questo caso dell’antropologia filosofica; l’antropologia biologica, che studia i caratteri morfologici, filosofici e patologici dei popoli della terra, estinti e attuali, nonché i rapporti con le altre specie animali, è parente stretto della medicina scientifica e deriva dallo stesso ceppo positivistico: non suscita perciò diffidenza). C’è un sospetto pregiudiziale nei confronti di una concezione dell’uomo che venga imposta alla scienza da un’istanza esterna, filosofica o religiosa che sia. La medicina sembra essersi acquistata questo diritto di autonomia da quando, nella cultura greca, si è emancipata dalla tutela della religione. Nel secolo scorso, reagendo alle speculazioni sulla natura di tipo romantico e scegliendo la metodologia delle scienze della natura, la medicina ha fatto un passo ulteriore verso l’empirismo. Si difende da interrogativi inquietanti (che tipo di medicina? per quale uomo? in che modello di società?) barricandosi dietro la pretesa di neutralità scientifica, oppure rivendicando il suo carattere pratico.

La medicina, secondo un detto di C.G. Jung, evoca qualcosa in cui non si sta a pensare a lungo, ma ci si rimbocca le maniche e ci si dà subito da fare. È una caratteristica del curriculum di formazione medica la mancanza di luoghi in cui si chiede di riflettere (se si prescinde da alcuni settori secondari, che in genere non vengono utilizzati a questo scopo: storia della medicina, igiene, patologia generale). Eppure non esiste una prassi medica che non sia orientata ai valori, e che quindi non contenga implicitamente un’antropologia. La medicina deve mantenere la salute, eliminare le malattie: basta già questa

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affermazione per mettere in moto una riflessione su che cosa sia salute e che cosa malattia. Lo storico, l’antropologo culturale, il sociologo ci insegnano che le norme che definiscono salute e malattia mutano con le società. È solo nella prospettiva delle scienze della natura che salute e malattia si pongono come grandezze fisse. Anche questa è una visione dell’uomo che veicola un’antropologia, con i suoi vantaggi e i limiti connessi: ha solo bisogno di non essere assolutizzata e di confrontarsi con altre. È forse un imperativo del momento che i professionisti della salute si applichino ad esplicitare il «progetto uomo» sotteso alla loro professione.

Hanno bisogno di questa riflessione per rendersi conto in che misura l’antropologia a cui si riferiscono condiziona in concreto l’attività medica.

1. La medicina come scienza naturale

La medicina come insieme di interventi terapeutici per ristabilire la salute è antica quanto l’uomo; anche in quanto scienza — vale a dire come complesso di conoscenze sistematiche sul corpo, le sue funzioni fisiologiche, la sua patologia — non è nata ieri: per quanto riguarda l’Occidente, va fatta risalire almeno alla medicina greca. Quel che invece è relativamente recente è la medicina concepita come scienza della natura. In quanto tale si è formata in Germania nella prima metà del XIX sec., opponendosi alla medicina speculativo-romantica. Uno dei suoi padri fondatori Rudolf Virchow, nel primo articolo dell’«Archiv für pathologische Anatomie» (1847) ne stabiliva il programma in questi termini: «Il punto di vista che noi intendiamo mantenere è semplicemente quello delle scienze della natura. L’ideale al quale tendiamo, per quanto le nostre forze ce lo permettono, è la medicina pratica come fisiologia teoretica applicata, e la medicina teoretica come fisiologia patologica».

Assumendo lo statuto epistemologico delle scienze naturali, la medicina ha cercato di adeguarsi a quella forma particolare di conoscenza che è fondata sulla razionalità e acquisita con l’osservazione o l’esperimento, secondo una particolare metodologia «critica». In quanto scienza naturale, la medicina procede dunque empiricamente.

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La sua base è costituita da fisiologia e patologia. Disfunzione e malattia sono considerate come conseguenze di disturbi di processi materiali-organici.

Il metodo analitico e il microscopio hanno mostrato che la cellula è la sede reale del male. Nella sua opera più importante, «La patologia cellulare» (1858), Virchow paragonava il corpo umano ad uno stato di cui ogni cellula sarebbe un cittadino; la malattia è rappresentata come una guerra civile in seno allo stato.

La malattia non è più qualcosa che capita all’uomo nel suo insieme, ma qualcosa che succede ai suoi organi. Lo studio delle cause della malattia si restringe alla ricerca di mutamenti locali nei tessuti. Il fatto morboso si ritiene capito quando si può spiegare stabilendo il rapporto causa-effetto, sulla base delle leggi che regolano i fatti fisico-chimici. Tra l’uomo che cura e quello che è curato si insinua un terzo elemento completamente senz’anima: lo strumento. Il medico, in quanto essere umano con la sua capacità di interpretare i sintomi e stabilire in una sintesi creatrice la diagnosi, tende a diventare superfluo: il microscopio scopre per lui il germe batterico, lo strumento misura il ritmo cardiaco e la velocità del sangue, la radiologia sostituisce il suo sguardo. Lo strapotere della tecnica trionferà in medicina solo più tardi, con l’ingresso nell’era tecnologica che viviamo, ma tutti i presupposti sono già presenti nella svolta che ha portato la scienza del guarire ad allinearsi alle altre scienze della natura. La razionalizzazione di tipo naturalistico porta a spogliare la malattia di ogni carattere storico e personale. Essa è significativa per il medico solo in quanto caso «tipico».

La stessa organizzazione della clinica riposa sul modello organicistico: le malattie vengono suddivise per reparti come le merci di un supermercato e i medici, passando di letto in letto come tecnici ad una catena di montaggio, si dedicano a scoprire le cause del guasto per riparare l’organo malato.

Quando la medicina si organizzò come scienza della natura, adottò il metodo già usato con successo dalle discipline scientifiche più progredite, cioè il metodo analitico già messo a punto per la chimica e la fisica. Ad esso la medicina deve i successi stupefacenti che ha ottenuto in un secolo e mezzo. Non si può non riconoscere nel periodo

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del laboratorio una delle fasi più brillanti della storia della medicina. I progressi della chirurgia, della batteriologia, della farmacologia non sarebbero stati ottenuti se la medicina non si fosse allineata tra le scienze della natura. Tuttavia la strada imboccata non era senza pericoli. Senza misconoscere i momenti positivi della concezione natural-scientifica (in particolare il principio della ricerca empirica esatta e il significato fondamentale del lavoro di indagine di tipo fisiologico e biochimico), si deve però acquistare coscienza che quando l’uomo è considerato semplicemente come un pezzo di natura tra gli altri, si opera una violenta mutilazione antropologica. La riflessione su questo presupposto della medicina come scienza della natura costituisce il nucleo della moderna «crisi della medicina».

Storicamente i primi sintomi della crisi vanno collocati nel periodo di fermentazione culturale che è seguito alla prima guerra mondiale, dopo il crollo degli ideali dello scientismo positivista e della cultura liberal-borghese. Li ha colti molto bene un profano di medicina, un umanista, lo scrittore Stephan Zweig, in un libro singolare pubblicato nel 1931 e dedicato alla «guarigione attraverso lo spirito». Si tratta di tre biografie di personaggi che apparentemente non hanno nulla in comune: Mesmer, Mary Baker-Eddy e Freud. In tutti e tre lo scrittore ha visto realizzato un fenomeno significativo, addirittura un «segno dei tempi»: al di fuori della medicina scientifica, spesso anzi contro di essa, si è fatto ricorso alle forze psichiche e spirituali per guarire. Mesmer si serviva del rafforzamento della volontà di salute mediante la suggestione; la fondatrice della Christian Science attingeva alla fede estatica; Freud alla conoscenza di sé, che permette la soluzione dei conflitti psichici che gravano inconsciamente. Attraverso strade diverse hanno reagito alla frammentazione dell’uomo malato in organi malati, operata dalla medicina scientifica, esprimendo il medesimo bisogno di conoscere non le singole malattie che colpiscono l’uomo, ma la sua stessa personalità. Lo sguardo rivolto alla «totalità» dell’essere umano era per Zweig la vera inversione di tendenza della medicina come scienza della natura, tendente all’analisi e al dettaglio («to know more and more about less and less»).

In una pagina dell’introduzione, che merita di essere riletta dopo

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cinquant'anni, così descriveva il bisogno di una nuova medicina che si percepiva nella cultura del tempo: «Il trionfo di cure e sistemi psichici non dimostra affatto il torto della medicina scientifica, bensì solo di quel dogmatismo che si irrigidisce sul metodo terapeutico appena scoperto, considerandolo come universale e unico possibile, e deride gli altri come non moderni, non giusti e non possibili. Solo questa boria autoritaria ha sofferto un duro colpo. Attraverso i successi, ormai innegabili, dei metodi di cura psichici, è subentrato un salutare ripensamento proprio presso i leaders culturali della medicina. Tra le loro fila è iniziato un leggero sospetto, ma già percepibile anche da parte di noi profani, che cioè la pura concezione batteriologica delle malattie abbia condotto la medicina in un vicolo cieco; che attraverso lo specialismo da una parte e il predominio del calcolo quantitativo al posto della diagnosi della personalità dall’altra, la terapia da servizio all’uomo abbia cominciato lentamente a mutarsi in qualcosa di fine a se stesso e estraneo all’uomo; che già — per ripetere una formula eccellente — ‘il medico è diventato troppo scienziato medico’. Quello che oggi si chiama ‘crisi di coscienza della medicina’ non è una questione che riguarda solo un ristretto settore specialistico; è inclusa nel fenomeno globale dell’insicurezza europea, nel relativismo generale che, dopo decenni di pretese dittatoriali e rifiuti incondizionati in tutti i settori della scienza, insegna agli specialisti a voltarsi finalmente indietro e a interrogarsi» 1.

2. La prospettiva della «totalità»

Oggi abbiamo sempre più difficoltà ad accettare come esclusivo in medicina il punto di vista delle scienze della natura. Il ripensamento, che trascende l’ambito della medicina, è legato al superamento del positivismo. Inteso come rispetto dei fatti osservati, il positivismo costituisce una delle acquisizioni della storia moderna a cui non si può rinunciare. Ma l’uomo di scienza, legandosi ad esso, aveva creato situazioni parziali e tendenziose, illudendosi sulla professata obiettività impersonale dei fatti. Ciò si verificava soprattutto quando

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oggetto della scienza era l’uomo. Dapprima nelle scienze umane, e poi anche in quelle naturali, lo scienziato contemporaneo ha imparato che quelli che il positivismo considerava come «fatti» erano il prodotto delle nostre operazioni. Il metodo condiziona i risultati della ricerca. Una soggettività misconosciuta si insinuava perciò anche nelle osservazioni considerate più obiettive.

Per la medicina come scienza della natura superare il positivismo implicava la scoperta della illusoria obiettività dei «fatti» biologici, quali li isola la prospettiva dell’osservatore. Dal punto di vista del metodo, veniva rimessa in discussione l'autosufficienza dell’analisi. Per tornare dalla chimica all’uomo, era necessario recuperare la capacità di sintesi, la percezione della «totalità», che è più della somma delle parti: la «totalità» è la persona umana nei suoi rapporti con il mondo. La nosologia frazionante è inevitabilmente un tradimento del vissuto. La classificazione delle malattie sulla base degli organi colpiti, inventata dalla medicina come scienza della natura, è una grossolana approssimazione che ci prende nella trappola della sua semplicità. Nella prospettiva della «totalità» la malattia non è solo un fatto biologico-organico; essa traduce lo squilibrio della persona nel suo rapporto col mondo, includendo elementi psicologici, sociali ed ecologici.

Aprendosi alla preoccupazione della «totalità», la medicina ritrova una continuità profonda con lo spirito originario della medicina scientifica occidentale. È il ceppo dell’ippocratismo che torna a germogliare. Il maestro, sotto il platano nell’isola di Cos, insegnava ai suoi discepoli a mettere in relazione diretta i fatti del microcosmo con quelli del macrocosmo. L’organismo era concepito come un’unità, in rapporto con l’ambiente naturale. Il medico non poteva studiare il singolo paziente senza considerare l’ambiente geografico, il clima e le stagioni. I dati ambientali condizionano l’igiene, l’alimentazione, le abitudini di vita. Ambiente è anche la vita sociale, con i suoi riflessi sulle condizioni di lavoro, sulla vita familiare, sulla psicologia del singolo individuo. Sarà certamente diverso — scrive Ippocrate, raggiungendo una consapevolezza che per molti secoli la medicina non potrà più recuperare — un paziente schiavo da uno libero, un paziente che vive in una società democratica che uno che vive in una

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società monarchica, e così via. Nella medicina ippocratica a questa integrazione nell’ambiente andava connessa l’integrazione nella storia, sia sociale che individuale. È la nozione di «anamnesi», che restò poi fondamentale nella medicina. Bisognava ricostruire la storia del malato per comprendere — e per fargli comprendere, secondo una istanza costante dell’ippocratismo — la serie di processi che stanno a monte della malattia attuale. L’anamnesi completa aveva anche una dimensione sociale: per fare la diagnosi del presente bisognava anche tracciare le linee essenziali dello svolgimento della civiltà 2.

Al recupero del punto di vista sintetico e globale nella medicina non si è giunti in un momento. Alcuni stimoli sono venuti dalla stessa medicina scientifica. Basterebbe pensare allo sviluppo dell’endocrinologia. La scoperta delle ghiandole a secrezione interna portò un contributo decisivo all’orientamento sintetico. Permise di capire le interrelazioni tra le differenti funzioni vegetative dell’organismo. Le ricerche attuali vanno indicando che la maggior parte delle funzioni delle ghiandole a secrezione interna è probabilmente soggetta, in ultima analisi, alla funzione dei centri più elevati dell’encefalo, vale a dire alla vita psichica. È un passo avanti decisivo verso l’integrazione.

Il merito principale della reazione alla concezione meccanicistica della malattia va attribuito a Freud ed al movimento psicoanalitico. Grazie alla sua opera, lo sviluppo analitico unilaterale della medicina nella seconda metà del XIX sec. ha subito una inversione di tendenza. L’organismo come unità è stato riportato al centro dell’interesse medico. La psicoanalisi, pur basandosi sullo studio preciso e particolareggiato («analisi», appunto), è un’attività scientifica rivolta alla sintesi, cioè allo sviluppo e alla funzione della personalità. Essa ci ha insegnato che per comprendere quella unità sintetica che noi chiamiamo corpo dobbiamo tener presenti i bisogni, consci ed inconsci, che l’individuo con la sua attività, normale o patologica, cerca di soddisfare. Non si può perciò rendere conto della patologia limitandosi alle alterazioni cellulari rivelate dalla ricerca di laboratorio. Ai suoi inizi la psicoanalisi si dedicò a un problema di diagnosi

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pratica: l’espressione somatica delle nevrosi, e a un problema teorico: la psicogenesi di certe affezioni organiche. Freud stesso aveva escluso dalle sue preoccupazioni lo studio delle malattie psicosomatiche nel senso ampio del termine. Ma la psicoanalisi ha aperto gli occhi, a chi voleva vedere, sul ruolo giocato dallo psichismo sulla genesi delle malattie organiche. La «conversione isterica» fu sempre più considerata come un caso particolare di un meccanismo più generale, piuttosto che il caso anomalo. Il medico non poteva più esimersi dall’attribuire ai conflitti emotivi un valore altrettanto reale e concreto di quello che spetta ai germi patogeni. Non si trattava solo di aggiungere un microscopio psicologico a quello ottico — né tanto meno di sostituire l’uno all’altro — ma di affrontare in modo nuovo la vita e la malattia del paziente, per arrivare ad una sintesi fra i processi fisiologici interni e le relazioni dell’individuo con il suo ambiente sociale. La malattia non è in se stessa né fisica né psichica: l’elemento fisico e quello psichico sono solo un prodotto del metodo col quale ci avviciniamo al malato, che è un’unità completa nella sua globalità. È intuitivo quali conseguenze questa prospettiva possa avere nel pensiero teoretico e nella pratica della medicina. Si potrebbe addirittura ipotizzare qualcosa come una rifondazione della medicina a partire dal punto di vista antropologico della «totalità». Di fatto però non è avvenuto così. È successo piuttosto che una nuova specializzazione è sorta accanto alle altre: la «psicosomatica». Agli «specialisti» di questo settore — psichiatri, psicoanalisti o psicologi in genere — viene indirizzato il malato di fronte al quale il medico clinico si sente impotente. Quando non si riesce ad individuare un organo malato, o non si riscontra la base fisiopatologica della malattia, ci si ritiene autorizzati a credere che si tratti di una malattia «di testa».

Malattie «funzionali», per distinguerle da quelle «organiche», le sole vere e proprie malattie. L’itinerario tipico per il paziente «psicosomatico» è quello che lo porta dal medico generico allo specialista, da uno specialista all’altro, e infine sul divano dello psicoanalista. Lo iato che separa la medicina organica — che possiamo chiamare «medicina della mano», in quanto si riferisce alla materia che impressiona i sensi — dalla medicina psichica — o «medicina

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della parola», che si rapporta alle idee e al mondo dei significati — tende ad approfondirsi. I due approcci della malattia, ambedue legittimi e parzialmente validi, non rispondono però al nostro bisogno di ritrovare una medicina capace di avvicinarsi al malato in una maniera globale, che non lo mutili nella sua esperienza concreta, che sia capace di far fronte terapeuticamente a quelle forme patologiche sempre più diffuse, in cui i confini tra somatico e psichico sono confusi e nella cui eziologia troviamo in modo prevalente il malessere della nostra civiltà.

3. Verso una medicina della persona

Abbiamo tracciato il profilo di un cammino che dalla concezione meccanicistica della malattia, passando per quella psicosomatica, conduce verso una prospettiva di «totalità». L’interesse si sposta progressivamente dalle malattie all’uomo malato. La medicina come scienza di cause-effetti-terapia conosce solo quadri clinici che chiama «malattie». Essa ha limiti evidenti. Ci pianta in asso quando il sintomo morboso non può essere ricondotto eziologicamente al sostrato corporeo; non spiega neppure il decorso delle malattie, anche organiche, diverso secondo le varie persone. Tutto il settore della soggettività rimane tagliato fuori dalla medicina orientata alle scienze della natura: perché l’uomo in una situazione per lui significativa reagisca con la malattia, e come la elabori personalmente. Paradossalmente, è stato proprio il pensiero scientifico delle scienze della dimostrazione (o della natura) che ha ostacolato lo sviluppo di una scienza dell’uomo nell’ambito della medicina. Per rendere conto del modo specificatamente umano di essere malati è necessario fare riferimento a un’antropologia diversa da quella implicita nella medicina scientifica. Ciò implica una rottura con il naturalismo, che considera l’uomo come un essere vivente in tutto e per tutto simile agli altri e si attiene ad una neutralità metodologica nei confronti degli aspetti psichici, spirituali, storico-biografici e sociali dell’esistenza umana. La medicina oggi ha bisogno di recuperare il suo oggetto, cioè l’umano in quanto essere umano; ha bisogno dell’antropologia come scienza

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dello specifico umano. Non una «doctrina genuinae naturae humanae» — la doppia natura, corpo e anima —, come la proponeva la filosofia dell'Umanesimo. La definizione di «animal rationale» che emerge dall’antichità è opposta a quell’antropologia che tende al recupero dell’uomo «totale». L’umanesimo razionalista, che servirà da modello culturale all’antropologia filosofica dell’Occidente finché non sarà sostituito dal razionalismo cristiano, si fonda sul «conosci te stesso» di Socrate. È la qualità razionale dell’uomo la «misura di tutte le cose». Il concetto di antropologia che si è formato nei tempi moderni, a partire da Kant, è concreto, non filosofico-deduttivo. Kant, che riduceva tutta la metafisica al problema dell’uomo, distingueva due aspetti dell’antropologia: quella «fisiologica» — che considerava quello che la natura fa dell’uomo — e quella «pragmatica» — che riguarda ciò che l’uomo come essere libero fa, oppure può e deve fare di se stesso. La classificazione in un certo senso è rimasta. Anche oggi il termine «antropologia» è usato in ima duplice accezione. In quanto «antropologia fisica», studia i caratteri biologici dell’uomo (l’uomo nella sua struttura somatica, nei suoi rapporti con l’ambiente, nelle sue classificazioni razziali, nel suo passato paleontologico). In quanto «antropologia culturale», invece, considera l’uomo nelle caratteristiche che gli derivano dai suoi rapporti sociali.

L’uso anglosassone del termine «antropologia» è quello che offre un orizzonte meno limitante. Kluckhohn, in un libro classico, ne parla come della «comprehensive science of man». In questa accezione potrebbe diventare mediatrice tra le diverse scienze e ricoprire un ruolo di primo piano nell’integrazione delle scienze umane.

Per capire l’uomo non è sufficiente l’informazione che può venire dalla singola disciplina specializzata. Le scienze della natura e quelle storiche devono mettere in comune le loro conoscenze, perché l’individuo è anche il punto di arrivo dell’umanità collettiva, il frutto di un lungo passato. Secondo Kluckhohn, «una vera scienza dell’uomo deve comprendere le più varie capacità, interessi e conoscenze. Alcuni aspetti della psicologia, della medicina, della biologia, dell’economia, della sociologia e della geografia dovrebbero fondersi con l’antropologia allo scopo di dar vita a una scienza generale, che potrebbe

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ricorrere agli strumenti propri del metodo storico e statistico per ricavare dati sia dalla storia, sia dalle altre discipline umanistiche» 3.

Questa è l’antropologia di cui ha bisogno la medicina attuale, se vuol finalmente integrare quei fermenti che, fin dalle prime decadi del secolo, la sollecitano ad occuparsi dell’«uomo totale» (ecologia, olismo, medicina sociale, medicina antropologica). Riprenderà allora a vedere non solo la causa meccanica delle malattie, ma l’uomo che le porta (e che in qualche modo le «forma»), nel contesto concreto costituito dal suo mondo fisico, culturale e storico. L’orientamento ecologico e la prospettiva storica non tendono a minare le acquisizioni della medicina scientifica, ma ad integrare le gravi deprivazioni di cui la medicina stessa ha sofferto 4.

Il punto di vista della «totalità» nel linguaggio della tradizione cristiana è il primato della «persona». Il concetto di persona rimase in generale precluso all’antichità. La filosofia greca per determinare la natura e la posizione dell’uomo ha fatto ricorso a due assi: uno forma lo spirito (cioè l’universale, l’assoluto, il trascendente), l’altro è rappresentato dall’ente materiale (che individualizza l’universale dello spirito racchiudendolo nella realtà corporea, dalla quale lo spirito si libera di nuovo nella morte). È il fondamento del dualismo, così caratteristico del pensiero classico.

Il concetto cristiano di «persona» si è sviluppato sullo sfondo della esperienza religiosa dell’alleanza tra Dio e l’uomo. La storia della salvezza è stata vissuta dalla comunità credente non come una serie di eventi che l’umanità abbia subito in modo inerte, bensì come un impegno sviluppantesi nel tempo, con cui l’uomo risponde all’appello di Dio; essa implicava perciò l’accettazione o il rifiuto di un ruolo, l’aprirsi o il chiudersi alla comunione. In quanto persona, l’uomo è un essere conscio di sé, che dispone di se stesso e si costruisce progressivamente, prendendo posizione con opzioni libere. La categoria di «persona» evidenza dell’uomo la storicità, la libertà, la particolare posizione nel cosmo, la socialità.

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L’antropologia cristiana, proponendo una medicina della persona, non pretende di sostituire semplicemente una prassi medica con un’altra. La medicina della persona non è neppure, in ultima analisi, una medicina, bensì uno spirito in cui la medicina deve essere praticata. Include la tecnica, pur non limitandosi ad essa; presuppone l’apertura alla conoscenza antropologica moderna, ma non vi si identifica. Essa porta nella prospettiva della «totalità» un punto di vista più ampio, che colloca l’uomo nell’ascolto di una chiamata. L’avventura della salute, acquistando il carattere di un’opzione totale, viene così a trovarsi sulla linea della conversione religiosa.

1 S. ZweigDie Heilung durch den Geist, Salzburg 1931, p. 11.

2 M. VegettiLe scienze della natura e dell’uomo nel V sec., in Storia del pensiero filosofico e scientifico, Milano 1970, I, p. 126 ss.

3 J. Galdstone (ed.), Man’s Image in Medicine and Anthropology, New York 1963.

4 C. KluckhohnL’umanità allo specchio. Introduzione all’antropologia, tr. it. Milano 1967, p. 1.