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Sandro Spinsanti
SPIRITUALITÀ NELLA MALATTIA
in Testimoni nel mondo
anno 16, n. 4, pp. 34-39
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Qualsiasi minaccia alla salute è vissuta in prima istanza come una violenza indebita. L’atteggiamento di rifiuto della malattia, caratteristico della nostra cultura medicalizzata, è quello che riceve il massimo supporto all'interno dei sistemi dì riferimento antropologici di cui disponiamo. Prevale infatti una concezione della malattia che la riduce a una «res» che aggredisce l’organismo dall’esterno, sprovvista di significato personale e comprensibile solo nei termini «scientifici», quando cioè è ricondotta a quei cambiamenti che intervengono nelle strutture cellulari dell’organismo e sono esprimibili nel linguaggio delle scienze della natura.
Per una personalizzazione della malattia
Questo modo di rappresentarsi la malattia è funzionale a un approccio pragmatico e favorisce la lotta a oltranza contro di essa. Tende però a rendere impossibile un approccio «sapienzale», in cui la sofferenza legata al percorso accidentato della salute — sempre esposta a minacce, crisi, recupero, ulteriori disequilibri, nuovi adattamenti, fino alla definitiva perdita — diventa una parte essenziale della biografia della persona. Solo quando le minacce della salute, da accidentalità indebita e del tutto marginale alla persona, diventano una «crisi» biografica possono essere percepite come una chance offerta all’individuo di diventare se stesso.
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Il compito di ricondurre la sofferenza legata alla patologia della salute nella sfera della persona è difficile, in quanto si trova a cozzare contro un’impresa terapeutica, gestita dalla medicina, tutta tesa a rimuovere la sofferenza come un’assurdità insensata, estranea al soggetto. Anche il linguaggio che il malato usa per designare la malattia illustra questo processo di allontanamento del fatto morboso dalla sfera personale. Nelle lingue che hanno anche il genere neutro questo pronome viene usato per distanziarsi dal fenomeno: il male fisico è «es» in tedesco, «it» in inglese... Ma anche le altre lingue conoscono dei modi che permettono al parlante di sottolineare l’estraneità della malattia da se stesso. Il linguaggio riduce la malattia a un soggetto agente che intrude nel corpo umano, inteso come luogo di un succedere che confina l’uomo al ruolo di «patiens». L’uomo e la sua malattia rimangono, insomma, due realtà separate e non comunicanti.
Affinché le situazioni di sofferenza legate al cammino della salute diventino un’autentica opportunità di crescita spirituale, bisogna favorire una graduale riappropriazione della malattia da parte del soggetto. Ciò avviene quando la malattia cessa di essere qualcosa che si ha, per diventare qualcosa che si è. A questo punto la personale e attiva partecipazione alla malattia (esistenzialmente: «io sono la mia malattia», in essa si realizza la mia modalità di essere al mondo) diventa una questione spirituale di prim’ordine. Solo a questa condizione la malattia e la sua evoluzione possono costituire degli avvenimenti «presso i quali si illumina la questione del senso della vita» (A. Mitscherlich).
Perché questa assunzione della malattia nella sfera dell’«io» avvenga bisogna favorire la ricerca di una risposta personale. Lo scoglio è costituito dalle risposte preconfezionate, che spesso si sovrappongono alla domanda e ne impediscono la graduale formulazione. Il provvidenzialismo («Dio ti manda questo male per il tuo bene») e il dolorismo (il dolore come «privilegio», come segno di eccellenza spirituale, e varie altre espressioni di mistica della sofferenza) sono i più frequenti tra tali pericoli.
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Sofferenza, educazione all'umano
Affrontata con questo atteggiamento di fondo, la sofferenza può diventare un’educazione all’umano, tanto a livello personale che comunitario. I due elementi sono uniti, anche se la priorità assiologica ed esperienziale va al secondo.
La sofferenza, infatti, emerge nella vita interiore del soggetto sotto la figura primaria del distacco dalla comunità. Che sia colpito nella salute fisica, negli affetti o nel significato della propria vita, il sofferente è sempre seduto, come Giobbe, su un mucchio di letame, al di fuori del contatto vitale con la comunità. In questo senso la sofferenza è percepita come opera «diabolica». In senso letterale, infatti, il «dia-bolos» (il «separatore») è in azione quando la sofferenza infrange il senso di appartenenza beata a un «tutto»: a un corpo come strumento docile e armonioso dello spirito, a un altro essere umano, alla vita come insieme dotato di senso divino.
La condizione di isolato propria del sofferente crea un’interpellazione all’altro, in particolare a colui che rappresenta l’istanza religiosa. La forma più frequente è quella di richiesta di una spiegazione causale: «Perché mi capita quello che mi capita?». Anche la protesta contro Dio, condotta fino alla forma estrema della bestemmia, può esprimere questo stesso atteggiamento. La consapevolezza del pastore che il cristianesimo non è tanto portatore di razionalizzazioni teologiche, quanto di orizzonti finalistici (non il «perché», ma il «per che cosa» della sofferenza) gli farà evitare i sentieri insidiosi delle presunte spiegazioni del dolore.
L’interpellazione che soggiace alla richiesta di un perché è sempre fondamentalmente una domanda di presenza. La comunità deve riaggregarsi attorno a colui che soffre e si sente da essa respinto. La risposta all’opera disgregatrice del «diabolos» è il «symbolon»: il mettere insieme i pezzi separati.
Nei costumi dell’antica Grecia i frammenti di tessere o monete combacianti erano il «simbolo» che permetteva di riconoscere il portatore del frammento come ospite o amico. All’atto
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del confrontare — «sym-ballo» — avveniva un riconoscimento dell’identità dell’altro e della reciproca appartenza. La forza motrice del simbolo è l’amore. Nel ricongiungimento «simbolico» il sofferente trova il fratello e nella comunione la risposta pratica alla sua interpellazione. La risposta può consistere a volte in un concreto aiuto offerto in una situazione di necessità (da un intervento di natura economica fino al gesto supremo del dono di un organo che permette di salvare una vita minacciata). Altre volte il «simbolo» che dischiude la dimensione della fraternità, dando così una risposta alla sofferenza, è di natura solo spirituale. La vera solidarietà, che si esprime nel «com-patire», anche se vissuto nell’impotenza a rimuovere le cause della sofferenza, crea una «Gestalt» nuova. Il sofferente, scoprendosi parte di un tutto integrato, può fare della prova dolorosa la porta di accesso a un’esperienza di appartenenza, che guarisce la lacerazione più profonda causata dalla sofferenza.
Sofferenza, scuola di pazienza
La «compassione» è la via alla «pazienza». Questa è la seconda dimensione della crescita, intesa come un nuovo modo di sperimentare se stesso e la comunità umana. La sofferenza è scuola di pazienza: l’opera del pastore è rivolta a facilitare l’acquisizione di questa virtù, in quanto atteggiamento generale verso ciò che coarta la libertà. La prima accezione del termine «pazienza», così come è usato nel linguaggio comune, dice riferimento all’accettazione dei limiti. La sofferenza è legata alla vita nelle sue determinazioni concrete. È un esercizio umile, ma fondamentale, di pazienza accogliere la vita come processo oggettivo, e non solo come proiezione della soggettività. Il desiderio — di piena salute, di intesa interpersonale perfetta, di autoaffermazione e successo — deve confrontarsi col reale, pagando un prezzo di sofferenza per questa incarnazione. Con la pazienza si impara il peso dell’oggettività.
Una dimensione ulteriore della pazienza emerge se ci lasciamo guidare dalla traccia fornita dall’etimologia. La pazienza
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contiene il «pathos», cioè quella modalità dell’esistenza che dipende non da ciò che facciamo, ma da ciò che subiamo. La cultura tecnologica dell’Occidente tende a valutare esclusivamente l’azione. La determinazione volontaria è entrata abbondantemente anche in fatti esistenziali che prima dipendevano dal caso o dalla Provvidenza: come il numero e la temporalità delle nascite, e anche il momento della resa alla morte (rivendicazione di un diritto all’eutanasia). Questo sbilanciamento unilaterale verso l’azione produce una deformazione antropologica. La modalità «patica» dell’esistenza ha non solo diritto di cittadinanza negli atteggiamenti etici che costituiscono l’umano autentico, ma è un’esigenza per arrivare là dove l’azione non ci può portare. «Passività di crescita» chiama Teilhard de Chardin questi eventi dell’esistenza, che richiedono la pazienza come risposta comportamentale. La passività costituisce l’altro braccio rispetto a quello dell’azione, con cui Dio ci attira a sé.
Una terza concezione della «pazienza» ci introduce nella valorizzazione piena della sofferenza dal punto di vista etico e spirituale. Ancora una volta dobbiamo ricorrere all’etimologia. L’originale greco degli scritti neotestamentari che in latino è stato tradotto con «patientia» esprime la virtù richiesta con il termine greco «hypomoné». Questa non è la «pazienza» nella sua accezione di sopportazione passiva o rassegnata di una realtà che contrasta i desideri o i progetti personali, quanto una virtù attiva che richiede la «costanza», anche nelle avversità. Per il cristiano il modello più eccelso di «hypomoné» è Gesù stesso, rimasto fedele al Padre e all’amore per tutti gli uomini anche nella situazione estrema di una vita strappatagli con la violenza. Il «Christus patiens» è il costante per eccellenza.
La virtù della «pazienza» che costituisce l’ideale cristiano nelle situazioni di sofferenza acquista così una connotazione pasquale. È la virtù del Venerdì santo solo in quanto questo si apre sulla Domenica della risurrezione. La virtù della «pazienza» = «costanza» caratterizza l’uomo che, in una situazione di sofferenza, tiene duro grazie alla fiducia con cui aspetta il soccorso da
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Dio. Il cristiano «paziente» (costante) non è dunque un dimissionario di fronte alle potenze di diminuzione che aggrediscono l’uomo. Egli può e deve resistere al male. Ma la sua è una lotta nella speranza, cioè nella situazione spirituale di chi, nella fede, si è arreso a Dio e ha accettato che egli dica l’ultima parola sulla storia dell’uomo.
Per il cristiano, dunque, la costanza è la forma tipica della speranza (cf. Rm 5, 3-5; 8, 24-25; 1 Cor 13,7; 2 Cor 1, 6-7 ecc.). La pedagogia della sofferenza, in questo ultimo senso, non è altro che la dimensione etica dell’annuncio della fede.