Oltre il dualismo soma-psiche

Sandro Spinsanti

OLTRE IL DUALISMO SOMA-PSICHE:

LA MALATTIA COME FATTORE DI SENSO NELL'ESPERIENZA DI VITA

in Prospettive Sociali e Sanitarie

anno XVIII, N. 6, 1 aprile 1988, pp. 10-12

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Il mio contributo non sarà né scientifico né accademico in senso stretto.

Come genere letterario direi che scelgo piuttosto una riflessione “in-disciplinata” (nel senso di non lasciarsi ricondurre nell’ambito esclusivo di una disciplina).

Tuttavia una collocazione accademica è necessaria: non certo come garanzia della validità delle cose che si dicono, bensì come aiuto a chi legge a conoscere l’angolatura da cui si affronta il problema.

Ora, la collocazione accademica che mi è propria si chiama “bioetica”.

I mass-media hanno dato dell’esperto di bioetica un’immagine quanto mai riduttiva.

Egli viene infatti per lo più identificato con il personaggio chiamato a sentenziare se l’ultimo procedimento terapeutico o la più recente impresa sperimentale della biologia o della medicina siano o no conformi ai valori condivisi dalla società, vadano valutati come morali o immorali, in riferimento ad una determinata etica.

Siamo abituati a sentire dei “bioetici” interpellati quando si tratta di fertilizzazione “in vitro”, manipolazioni del patrimonio genetico, trapianti di organi, eutanasia, accanimento terapeutico, e via dicendo.

Non voglio far cadere una condanna sommaria sui rituali dei mass-media che prevedono il ricorso agli “esperti”: a certe condizioni, possono svolgere anche un utile ruolo pedagogico.

Tuttavia personalmente ritengo che il vero compito del bioetico sia piuttosto quello di alimentare una riflessione sulla salute e la malattia, più vasta e radicale possibile.

L’etica, infatti, intesa come filosofia pratica, come identificazione di quello che noi vogliamo fare della nostra vita, come ricerca del bonum, incontra necessariamente la salute e la malattia, la guarigione e la morte.

Un compito fondamentale della riflessione su queste realtà esistenziali è quello di porsi in maniera critica, nel senso di operare un discernimento degli atteggiamenti che noi assumiamo verso le vicende essenziali alle quali ci assoggetta la nostra corporeità.

Il presupposto ingenuo che tutti, in diversa misura, condividiamo può essere formulato in questi termini: noi vogliamo conoscere la malattia per combatterla con gli strumenti adeguati, debellare il fatto morboso, riacquistare la salute ed essere felici.

In questo modo di rappresentare il fine dell’esistenza (ivi compreso il senso e la finalità della medicina) c’è un presupposto implicito e un’equazione.

Il presupposto è che noi cerchiamo la conoscenza e la felicità; l’equazione riguarda conoscenza e felicità, come beni equivalenti.

È proprio questa concezione ingenua, saldamente radicata in considerazioni di buon senso, che, a mio avviso, dovrebbe essere rimessa in discussione.

Nessuno sollecita questa operazione dal “bioetico”; eppure è proprio questo il contributo più valido che egli è chiamato a dare per la fondazione di un’etica della salute e della malattia.

Veramente vogliamo la conoscenza circa la malattia? Veramente vogliamo essere felici?

L'insight paradossale da cui partire è che noi, in quanto esseri umani, non cerchiamo di sapere che cos’è la malattia, allo stesso modo con cui non cerchiamo di essere felici.

Lo psichiatra di Palo Alto Watzlawick, molto noto come provocatore, in un libro scritto qualche anno fa, Istruzioni per rendersi infelici, partiva dal presupposto che rovescia il luogo comune: è poi così sicuro che noi vogliamo essere felici? Oppure l’infelicità ci è dolorosamente necessaria?

Guardando infatti fenomenologicamente il comportamento degli esseri umani ― afferma Watzlawick ― non quello che dicono di ricercare ma quello che fanno, noi ci accorgiamo che di fatto quello che cercano è l’infelicità.

Di fatto esistono delle ricette che tutti utilizziamo empiricamente per renderci infelici; per esempio la ricetta del “sempre di più la stessa cosa”.

Per illustrare questa ricetta Watzlawick racconta la storiella molto nota dell’ubriaco che sta cercando la chiave di casa sotto il lampione. La guardia cerca di aiutarlo: a un certo punto, mosso da un sospetto, gli domanda se è proprio là che ha perso la chiave. E l’ubriaco: “No, non l’ho persa qui; ma qui c’è la luce”.

Non è una storia per far ridere; la si può piuttosto chiamare una storia con un forte contenuto epistemologico.

Noi in realtà troviamo quello che cerchiamo; sappiamo quello che vogliamo sapere.

Nell’ambito della realtà esistenziale della malattia tutto si spiega molto più facilmente se partiamo dal presupposto che noi facciamo di tutto per essere ignoranti...

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e infelici.

La realtà fenomenologica ci presenta un quadro completamente dissonante rispetto alle intenzioni proclamate.

La scienza medica sa sempre di più e offre risultati sempre più efficaci, ma il livello di salute è sempre più basso; investiamo sempre di più in spese per la sanità, mentre la soddisfazione soggettiva nella fruizione dei servizi sanitari è sempre più deficiente; si registra uno scontento sempre maggiore dei medici verso i pazienti e dei pazienti verso i medici.

Qual è la ricetta che noi stiamo utilizzando per essere infelici e ignoranti nel campo della salute e della malattia?

A mio avviso è una ricetta tanto semplice quanto efficace: è l’esclusione del soggetto.

Noi cerchiamo sempre di più dove crediamo che ci sia la luce, non à dove la chiave di casa è stata realmente smarrita.

Oggi è quasi di moda mettere sul banco degli imputati quella che si presenta come “medicina scientifica”, con la sua pretesa di portare una luce oggettiva e incontrovertibile sui fatti biologici: ma forse questo discorso potrebbe essere ripetuto per tutte le discipline accademiche, in quanto sapere frazionato.

La chiave che è stata persa è, metaforicamente, il soggetto nella sua autotrascendenza, in quanto unica possibilità di accedere al significato di malattia e di realizzare quel complesso processo che è la guarigione.

Detto in altri termini: senza il soggetto noi non capiamo la malattia; senza il soggetto noi non realizziamo la guarigione.

Forse la guarigione in un senso riduttivo, intesa come restaurazione di uno “status quo ante”, può darsi (nel senso cioè che, tolto il sintomo, ritorno “sano”, vale a dire come ero prima).

Ma in un senso antropologico pieno la guarigione, che differisce dal recupero della salute come status precedente e comprende variabili quali aumento di consapevolezza, cambiamento dello stile di vita, acquisizione di una conoscenza di sé che include quella parte di ombra che probabilmente gioca un certo ruolo nella creazione della malattia, non può darsi senza la partecipazione attiva del soggetto.

Quello che osserviamo nella prassi medica quotidiana è invece proprio la sistematica esclusione del soggetto, inteso come momento fondamentale unificatore, in cui il biologico, lo psichico e il sociale si riuniscono sotto la categoria del biografico.

Pretendere di capire la malattia mettendo tra parentesi, eliminando, evacuando il soggetto, è una contraddizione in termini.

Registriamo allora una dipendenza, che è allo stesso tempo psicologica e istituzionale, dall’apparato sanitario, cui corrisponde un’implicita delega agli “esperti”.

In senso antropologico, quindi, la mia malattia non mi riguarda; non sono io l’artefice della malattia, e tanto meno l’artefice della guarigione.

Contribuisco a quest’ultima soltanto in quanto mi affido al medico o alla struttura sanitaria competenti, seguo attentamente le prescrizioni, mi sottopongo al trattamento chirurgico o farmacologico giusto.

La medicina scientifica ufficiale: esclusione del soggetto dalla carica di senso implicita nella malattia

Questo abbandonarsi passivo, con la relativa delega, trova spesso riscontro nella volontà esplicita di coloro che rappresentano la medicina scientifica di escludere le complicazioni che derivano da un coinvolgimento del soggetto.

Vorrei citare, come illustrazione emblematica, una pubblicazione recentissima di carattere divulgativo, dedicata al tumore della mammella.

Dopo che l’intero fascicolo si è diffuso sull’analisi degli aspetti organici della malattia e di tutti gli interventi terapeutici oggi disponibili, l’illustre ed eminente studioso che firma il fascicolo conclude con un’esortazione: soprattutto voi medici non fate lo sbaglio di accondiscendere all’idea che il cancro sia frutto di una repressione di natura emotiva! Vale a dire: guardatevi dal mettere il soggetto dentro la malattia!

Un simile atteggiamento può avere delle ragioni comprensibili e rispettabili, in quanto molte volte la responsabilizzazione è confusa con la colpevolizzazione.

Quando ciò si verifica, è cosa sacrosanta reagire: la malattia è una cosa troppo seria per lasciarla ai moralisti!

Come constatiamo ancora frequentemente, il moralismo in senso deteriore (malato uguale peccatore; la demonizzazione di determinate patologie; il senso di colpa utilizzato in chiave manipolatoria) trova un terreno fecondo nel campo della malattia.

Ma l’alternativa alla colpevolizzazione non è la deresponsabilizzazione.

Il messaggio: “tu non c’entri per niente con la tua malattia”, produce un irreparabile impoverimento antropologico della malattia.

Allo stesso modo la guarigione, intesa come un evento esistenziale più pregnante, più globale del semplice recupero della salute, cioè come una capacità di riappropriarsi di se stesso, non può avvenire soltanto adattandosi alle regole di comportamento che i rituali sanitari stabiliscono per il “buon” malato.

Nessuno può sapere al posto nostro qual è il cammino verso la guarigione, nel suo equilibrio assolutamente unico di resistenza e resa, di male da combattere e male da accettare.

Per quale ragione non vogliamo sapere, non vogliamo essere felici, non vogliamo integrare salute e malattia in un progetto esistenziale?

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La domanda suona retorica.

Anche la risposta rischia di esserlo, in quanto non può che rimandare all’idea più generale che ci facciamo dell’umanità.

Per rimanere nella metafora: quella forma diffusa di stoltezza che chiamiamo “sapere scientifico" sulla malattia non è altro che l’espressione della stoltezza dell’umanità: se siamo un’umanità stolta, come potremmo avere una medicina saggia?

Se non vogliamo vedere la verità in altri campi della nostra vita spirituale, perche dovremmo vedetela verità e cercare il bene proprio là dove si manifesta sotto forma di malattia e di morte?

Un’umanità ostinata che, posta di fronte all’alternativa tra capire o morire, sceglie il martirio, quale altro atteggiamento potrebbe conoscere di fronte alla malattia"

Con interrogativi di questo genere la bioetica assolve il suo compito più alto: quello di essere coscienza critica dell’umanità.

Non possiamo avere un orientamento giusto verso il “bios”, verso la vita in tutte le sue manifestazioni ― vita sana, vita malata, vita carente, vita morente ― se non aderiamo a un’etica che favorisca un movimento di integrazione di tutta la nostra esistenza.

Ma come può presentarsi, in positivo, un approccio etico che rispetti il senso soggettivo della malattia e della guarigione e non deresponsabilizzi il malato, ma lo aiuti a riprendersi la responsabilità della propria vita, proprio attraverso la vicenda patologica che sta attraversando?

La necessità di interrogare il sintomo per evocarne il senso implicito

La psicanalisi ha portato nella clinica una rivoluzione fondamentale nell’atteggiamento rispetto al sintomo.

Si è distaccata dall’approccio medico, che concepisce il sintomo esclusivamente come qualcosa da eliminare, intendendolo invece come un prodotto del soggetto carico di significato.

Il sintomo deve essere interrogato dal soggetto, affinché lasci trapelare il suo senso.

La guarigione passa non attraverso l’eliminazione, ma attraverso l’interrogazione e l’appropriazione del significato del sintomo.

Questo è il lavoro che la psicoanalisi ha fatto e sta facendo.

È un lavoro fatto però solo a metà, perché questa concezione si è limitata tutt’al più alle somatizzazioni nevrotiche; non si è estesa al resto della medicina organica.

Ancor oggi ci muoviamo dentro una contrapposizione tra il comprendere e l’eliminare, come se fossero due momenti conciliabili.

Personalmente credo che la clinica si può rinnovare solo se, senza ratificare questa contrapposizione tra il comprendere e l’eliminare, instaura una pace tra queste due dimensioni o due concezioni dell’atto terapeutico.

È necessario abolire la distinzione artificiale o soltanto di comodo tra clinica delle malattie somatiche e clinica di tipo psicologico, che si basa su un dualismo che la medicina cosiddetta psicosomatica ha solo sfumato, senza abolirlo.

Il mettere pace comincia col dissipare gli equivoci.

Coloro che sono tutti tesi verso l’eliminare sospettano coloro che vanno verso il comprendere, quasi fossero alleati della malattia; per contro, coloro che sono sul versante del comprendere accusano pesantemente i medici o i sanitari che sono sul versante dell’eliminare di esercitare una specie di veterinaria applicata all’uomo, di ridursi a un ruolo di meccanici dell’organismo.

Queste due modalità non vanno contrapposte, ma integrate.

Ho un’esperienza diretta dell’integrazione (la cito perché sono convinto che le esperienze dirette valgono più delle teorie), lavorando in un gruppo di donne mastectomizzate.

Non sto parlando di persone che si stiano a crogiolare nella malattia: tutto quello che doveva e poteva essere fatto per eliminare l’espressione somatico-organica della malattia è stato fatto, dall’intervento chirurgico al trattamento chemioterapico.

Ma a questo primo aspetto dell’azione terapeutica viene integrato un secondo, che si realizza mediante un’azione terapeutica di altro tipo, che consiste nel parlare della malattia, ossia della propria vita.

Ciò avviene in gruppo, confrontandosi con le altre donne che hanno conosciuto la stessa vicenda.

Dalla eliminazione alla comprensione

Insieme si passa per un processo di ricerca di senso, che dà qualche frutto solo quando si osa far funzionare la metà destra del cervello, facendo ricorso alla metafora, all’intuizione, al paradosso.

È un processo che assomiglia molto al cercare la chiave al buio, di cui dicevamo sopra.

Eppure può avvenire che, attraverso questo andare a tastoni, un evento organico che si presenta come muto e sordo si dischiuda al senso e possa essere integrato nella propria vita, compresi tutti i cambiamenti psicologici, emotivi e relazionali che esso ha comportato.

Quando alla malattia si dà il permesso di parlare fino in fondo, si può realizzare la chiusura del circolo ermeneutico, mediante un comprendere con non è antitetico ma complementare all’eliminare.

Questo a mio avviso, è un processo terapeutico completo.

Esso nasce precisamente da quell’esigenza, che ho chiamato etica, di dare alla malattia tutto lo spessore che le compete.