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Sandro Spinsanti
L'ARTISTA: UN CARISMATICO ECCLESIALE?
in Nuovo dizionario di spiritualità
Edizioni Paoline, Roma 1973
pp. 62-65
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Pensiamo alla prima comunità ecclesiale di Corinto. Ci è descritta come un mosaico umano molto variopinto. Vi si trovava di tutto: poveri e benestanti, liberi e schiavi, rigoristi e lassisti. C'era chi godeva di una penetrazione particolare delle sacre scritture, chi era dotato di facilità di parola per spiegarle, chi sapeva consolare, chi aveva il dono di guarire le malattie. È noto quanto valore abbia attribuito Paolo alle capacità differenziate di ciascuno. Il dono di uno non esclude quello di un altro: «C'è, certo, diversità di doni spirituali, ma è lo stesso Spirito» (1Cor 12,4); la comunità ha bisogno dell'apporto particolare di ciascuno per sussistere e per svilupparsi: «A ciascuno la manifestazione dello Spirito è stata data in vista del bene comune» (12,7). Con questi principi l'Apostolo fondava teologicamente la comunità cristiana su basi carismatiche.
Il Vat II ha proposto la rivalutazione della chiesa come organismo carismatico per un rinnovamento in profondità. La diffidenza nei confronti dei carismi è ingiustificata: la comunità cristiana deve piuttosto — esorta il concilio — assumere un atteggiamento di accettazione riconoscente: «Questi carismi, straordinari o anche più semplici e più comuni, siccome sono soprattutto adattati e utili alle necessità della chiesa, si devono accogliere con gratitudine e consolazione» (LG 12) [↗ Carismatici].
Con questa premessa sembra legittimo avanzare l'ipotesi che l'arte possa essere considerata un carisma dato in vista della costruzione della comunità. È vero che gli artisti non sono nominati tra i carismatici in nessuno degli elenchi paolini dei carismi. La questione, tuttavia, non è pregiudicata, perché sappiamo che tali elenchi sono esemplificativi, non esaustivi.
Una difficoltà più radicale è piuttosto la seguente: la comunità che si forma sulla base della fede nel Cristo ha bisogno di artisti? La fede instaura infatti una comunione vitale tra il credente e l'opera artistica completa e perfetta: la vita umana di Gesù di Nazaret. Per il credente quest'opera è il capolavoro di Dio, la più alta opera di "poesia" (se questa, secondo quanto suggerisce la sua radice greca, è riferita al "fare": il Cristo è ciò che Dio ha "fatto" — "poiesis" — per creare l'uomo nuovo).
Forse c'è la stessa intuizione, magari implicita — che cioè Cristo sia la "poesia" di Dio — alla base di due fatti contraddittori nella storia del cristianesimo: che alcuni credenti abbiano nutrito avversione per qualsiasi espressione artistica, mentre altri, al contrario, hanno espresso il loro vissuto religioso in forme universalmente celebrate come realizzazioni artistiche (Francesco d'Assisi, Giovanni della Croce, Michelangelo, Bach...).
Diverso atteggiamento, a seconda che si consideri il Cristo come l'opera d'arte perfetta che soppianta tutti gli abbozzi o che, al contrario, suscita altre opere artistiche come linguaggio meno inadeguato a esprimere il suo mistero.
Le riserve sulla possibilità di considerare gli artisti cristiani come carismatici ecclesiali si sciolgono
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quando consideriamo che anche il confessare Cristo come "charis" (grazia, benevolenza, perdono, tenerezza definitiva) del Padre non impedisce l'esistenza di "carismatici" nella comunità. La condizione storica rende impossibile, infatti, di poter dire tutto allo stesso tempo. La comunità peregrinante nella storia ha bisogno di carismatici che riflettano in mille sfaccettature la grazia sovrana di Dio.
Dal momento che l'opera divina è anche "poesia", manifestazione di bellezza in una forma esistenziale, non può mancare in seno alla comunità cristiana un posto per gli artisti, che storicizzino il capolavoro di Dio e lo annuncino per il loro tempo.
L'artista, dunque, è un kerygmatico. Questa designazione rende possibile impostare in modo nuovo l'ormai logora discussione sul rapporto tra arte religiosa e arte sacra. Il kerygma è funzione della chiesa, ma nello stesso tempo la chiesa ne dipende, esiste grazie ad esso. Una chiesa che si limitasse a predicare il vangelo senza lasciarsi ricreare dalla parola che annuncia scadrebbe ben presto a funzionaria della parola.
Il rapporto tra kerygma come funzione della chiesa e kerygma come ispirazione interiore illumina il rapporto tra arte sacra e arte religiosa. Se assumiamo come arte sacra quella che si dà un tema o soggetto sacro e come artista sacro quello che mette la sua opera a servizio dell'annuncio della chiesa, comprendiamo facilmente che essa non può essere autentica che a condizione di mantenere un contatto vitale con l'arte religiosa, vale a dire con l'arte ispirata dal sentimento, dal contenuto emotivo e dal vissuto religioso che essa cerca di esprimere.
In altre parole: l'artista cristiano non può ridurre il proprio compito a quello di apologeta o di propagandista della fede della comunità.
Possiamo spingere ancora più a fondo l'analogia con il kerygma. Come questo, quando è portato da credenti profetici, può trovarsi in contrasto con la forma storica contingente della comunità, così l'arte religiosa può contestare il vissuto della comunità, richiamare ciò che è stato dimenticato, anticipare sviluppi successivi.
L'artista, come il kerygmatico, non è un semplice portaparola dell'istituzione: è un'istanza creativa che contrasta la sclerosi istituzionale.
Ma nella fedeltà, che implica un legame vitale col passato. L'artista cristiano è tale in riferimento al Cristo. Non però unicamente a quel Cristo della storia che ci è dato, in senso riduttivo, dalla storiografia. Ciò farebbe di ogni pittura oleografica (fatta col pennello, con penna o con la macchina da presa) che abbia per oggetto Gesù di Nazaret un'opera cristiana: una pretesa tutt'altro che indiscutibile.
Spesso tali prodotti, malgrado l'intenzione devota che li ispira, vanno catalogati come kitsch piuttosto che come opera d'arte. Il Cristo a cui si riferisce l'artista cristiano è il Cristo della fede, vale a dire quella manifestazione della salvezza che getta la sua luce sulle vicende dei "poveri cristi" della storia, riempie di sensi vissuti che magari sono fallimentari agli occhi degli uomini.
Che cosa sarebbe mai l'arte, si domandava Th.W. Adorno, se perdesse la memoria del dolore sofferto dall'umanità? Essa è vera ed essenziale solo quando conserva il ricordo della sofferenza accumulata nel corso della storia. Per le forze repressive questa memoria è scomoda; il potere tende a rendere mitica la realtà esistente; l'ideologia maschera i rapporti di forza.
«La grandezza delle opere d'arte consiste nel fatto che esse dicono ciò che l'ideologia nasconde», per
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usare un'altra delle formule lapidarie di Adorno.
Questa concezione dell'arte sembra averci portato lontano dal Cristo storico. Non è così. L'arte che non chiude gli occhi di fronte alle mancanze di essere (dolore, sofferenza, colpa), fornisce il presupposto ermeneutico per comprendere Gesù di Nazareth. E capire Gesù è capire il mondo come lo vede Dio.
Oggi sempre più ci si aspetta dall'arte che sia uno spietato riflesso del mondo sconvolto. È un modo di considerare l'arte che si oppone a quello greco, ripreso poi dall'idealismo, dell'arte come fugace bagliore nel tempo del bello atemporale, come epifania in forma visibile dell'eterno.
In netto contrasto con l'arte vista come luogo dove si manifestano valori eterni, quale cosmo ideale, la concezione moderna dell'arte è quella di mondo svelato, liberato dalle mistificazioni in cui l'avvolgono i sistemi ideologici e autoritari.
Al cristianesimo è più congeniale questa seconda concezione; anzi, è forse possibile dimostrare che esso ha contribuito in modo determinante a farla prevalere. La negazione della dialettica tra sacro e profano che ha origine nella rivelazione cristiana si riflette anche nell'arte.
Dopo il Cristo ogni arte è diventata essenzialmente profana. Il luogo dell'incontro con Dio non è il tempio, ma il «sudicio fosso della storia» in cui l'uomo Gesù subisce la violenza degli uomini; nella sua vicenda si svela l'ipocrisia dei sistemi e delle gerarchie di valori oppressive.
L'ordine del mondo si mostra antitetico all'ordine di Dio; la sofferenza del mondo, scontrandosi con la follia della croce (cf 1Cor 1,17-3,4), viene sbugiardata.
L'opera d'arte ci aiuta a leggere il significato più profondo della realtà (essa è, secondo la definizione di Heidegger, la «messa in opera della verità»).
Per il cristiano la realtà non si identifica con un ordine cosmico eterno, ma con la parabola storica del Cristo, confessato come «via, verità e vita» (cf Gv 14,6).
Nella "bruttezza" della sua morte si disvela il disordine del mondo; nella "bellezza" della sua vita (autenticità, intimità di rapporti umani, capacità di aggregazione comunitaria, dottrina, potere terapeutico per il corpo e per lo spirito, vita nuova da risorto) si rivela la nuova creazione.
Il carisma dell'artista cristiano è di condurre la comunità dei credenti a scoprire le potenzialità racchiuse nell'esistenza individuale e sociale. Perché ciò si realizzi è necessario dapprima che la realtà attuale, immutabile all'apparenza, riveli la sua contingenza.
Tutti siamo schiavi dell'assuefazione e dei meccanismi ripetitivi. Bisognerebbe potersi lavare gli occhi tra uno sguardo e l'altro. L'artista ce lo rende possibile. Una melodia, un film ben riuscito, una pagina letteraria: ecco che ritroviamo un rapporto creativo con la nostra propria vita, perché ci si dischiudono gli orizzonti del possibile. Un processo che ha l'immediatezza, la facilità, la radicalità della metànoia evangelica; un processo che assomiglia a un gioco.
La categoria del gioco sembra la più adatta ad approssimarsi al mistero della creazione artistica. Non porta pregiudizio all'arte considerarla tra le attività dell'homo ludens. Gioco non equivale a divertimento. Lo mostra la serietà con cui il bambino si dedica al gioco. Il gioco è la via regale per cui passa la creatività.
La bibbia non esita a ricorrere al gioco per descrivere l'attività creatrice di Dio. La Sapienza, secondo la celebre immagine, era accanto al Creatore «giocando
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tutto il tempo alla sua presenza» (cf Pro 8,30). È lecito, estendendo l'immagine, considerare anche la redenzione — la "nuova creazione", secondo la terminologia biblica — come un "gioco" della Sapienza di Dio? Cristo, il "poema" del Padre, sarebbe anche il suo grande gioco.
La vita di Gesù non è già forse in se stessa strutturata come un dramma classico? Il racconto di essa non ha un effetto catartico? E quante vite di santi hanno bisogno proprio di categorie ludiche per essere capite a fondo? E ancora: che cos'è la fede in ogni esistenza cristiana se non un "mettersi in gioco"?
Rivendicando all'arte il carattere di gioco difendiamo un tratto antropologico tra i più minacciati dalla seriosa efficienza della civiltà tecnologica. Allo stesso tempo difendiamo lo spazio per l'esperienza religiosa.
Il giorno in cui non ci fosse più disponibilità interiore per il libero gioco delle forme, per il fluire della fantasia, per la gratuità, per la sperimentazione esistenziale, non ci sarebbe più neppure lo spazio per l'adorazione.
Le comunità cristiane del passato hanno intrapreso opere di civilizzazione e di assistenza, hanno prodotto benessere e cultura; ma soprattutto hanno adorato. A quelle comunità non sono mancati carismatici che, con la poesia e col pennello, col canto e con l'architettura, coi "misteri" giullareschi e con le sacre cerimonie, hanno rammentato che il significato ultimo della vita umana si trova nella lode della maestà divina.
Nel libero gioco della creazione artistica il kerygma è stato annunciato e la profezia ha risvegliato la speranza. Possiamo presumere che il Signore non faccia mancare neppure alle comunità che hanno la loro casa nel mondo della tecnica artisti come carismatici.
Il monito apostolico è sempre attuale: «Ciascuno di voi metta a servizio degli altri il dono ricevuto, come buoni dispensieri delle diverse grazie ricevute da Dio» (1Pt 4,10) [↗ Immagine V, 1; ↗ Spiritualità contemporanea IV, 3, d].
BIBLIOGRAFIA
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U. Eco, Il problema estetico in s. Tommaso, Trento 1956
H. Sedlmayr, La rivoluzionedell'arte moderna, Milano 19644
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J.P. Weber, La psychologie de l'art, Parigi 1958
H. Hauser, The Artist in modern society. Nuova York 1954
P. Regamev, L'art sacre au XX siècle, Parigi 1952
A. Haider, Kunst und Kult, Friburgo 1964
G. Flores D'Arcais, Il valore educativo dell'arte, Padova 1935
J. Maritain, Art and scholasticism at the Frontiers of Poetry, Nuova York 1962
G. van der Leeuw, Sacred and Profane Beauty: the Holy in art, Nuova York 1963