I concetti fondamentali della teologia spirituale

Vladimir Truhlar

I concetti fondamentali della teologia spirituale

Queriniana, Brescia 1971

pp. 5-16

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INTRODUZIONE

1. L’opera di Vladimir Truhlar: una parabola esemplare

Sembra sia arrivata l’ora della spiritualità. La domanda è esplosa improvvisa, sorprendendo gli osservatori culturali e i commentatori dei costumi. Il fenomeno è stato ben presto etichettato dalla saggistica con il termine di ‘riflusso’, come se la diagnosi — vera, falsa o approssimativa che sia — bastasse a esorcizzarne gli aspetti più inquietanti. Certo, si può immaginare lo sconcerto del giornalista che, volendo intervistare qualcuno dei protagonisti più in vista delle rivolte studentesche del mitico ’68, deve prendere la via di Poona, in India, dove incontra esseri umani trasformati dalla meditazione, dalla danza, dal lavoro creativo. La vita spirituale sarebbe dunque il rifugio dei delusi, al risveglio dai sogni di rinnovamento delle controculture giovanili che intendevano ‘cambiare la vita’? Oppure la contemplazione è un bisogno essenziale della natura umana, che riprende i suoi diritti dopo essere stato troppo mortificato dall’entusiasmo per l’azione e la politica? La vita spirituale è un’involuzione — un ‘riflusso’, appunto —, o piuttosto l’espressione sana dell’essere che si protende e si realizza, che va verso le ‘vette’? H. Maslow parlerebbe dell’esperienza spirituale come di una peakexperience, che emerge naturalmente quando l’esistenza individuale, non più condizionata dall’appagamento dei bisogni fondamentali, si lasci guidare dalle motivazioni di accrescimento.

Anche in teologia si è aperta una nuova epoca per la spiritualità. Il tempo delle cattedre di ‘teologia ascetica e mistica’ è ormai solo un ricordo. Concepite come complemento della morale, dovevano assicurare un insegnamento circa la perfezione spirituale (laddove la morale manualistica si arrestava al ‘minimo’ richiesto), e abilitare alla direzione spirituale. Era un insegnamento facoltativo, e quindi considerato come secondario. Negli istituti

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di formazione teologica non ha mai goduto un’altra reputazione; doveva ripetutamente essere raccomandato d’autorità: basta sfogliare la rivista Seminarium degli anni ’50... In breve volger di tempo la teologia spirituale ha trovato cultori, metodo, udienza. Ne fanno fede le pubblicazioni di volumi e dizionari specifici, moltiplicatesi in questi ultimi anni. Come coronamento di questa vistosa crescita dell’interesse per la spiritualità, è stata costituita, una ‘Associazione italiana di spiritualità’ (1979), con lo scopo — scritto a statuto — di favorire la conoscenza e la promozione delle ricerche sulla vita spirituale, per una sempre più ampia circolazione dei valori spirituali.

Nel contesto della promozione della teologia spirituale a disciplina di tutto rispetto l’opera di P. Truhlar merita una considerazione speciale. Rappresentante tipico di quella austera accademia di studio che è l’Università Gregoriana, P. Truhlar scompare dietro la sua opera; o piuttosto, la sua vita si identifica con essa. Diverse volte, nell’introduzione ai propri libri, Truhlar osserva di aver potuto seguire passo passo, al ritmo dei suoi 25 anni di insegnamento alla Gregoriana, le fasi dello sviluppo della teologia spirituale. A questo sviluppo ha contribuito in modo peculiare, con un’azione che continua oltre la sua morte. Ne è una prova il presente volume. Pubblicato dieci anni or sono, continua ad essere oggetto di una richiesta così pressante che l’Editrice si è vista indotta a una riedizione. Il decennio intercorso è stato ricco di sviluppi per la spiritualità. Una Nota bibliografica sulla Spiritualità offre nella presente riedizione un opportuno aggiornamento. Il contributo di P. Truhlar alla formazione della spiritualità come disciplina teologica è stato quello di un onesto e laborioso artigiano del pensiero teologico, attento a condurre un lavoro solido sulla traccia della tradizione, e destinato perciò a durare oltre le mode effimere. Considerando l’insieme della sua produzione, lo si può agevolmente collocare nell’area del moderato riformismo conciliare, secondo cui la situazione culturale contemporanea è un’occasione per un annuncio cristiano purificato e più fedele al Vangelo. Rasserenati orizzonti conciliari: ethos cattolico postconciliare: in questo titolo di una sua opera c’è un riflesso fedele dello spirito a cui attingeva e che cercava di diffondere. Le opere pubblicate a ridosso del Concilio riflettono la sua preoccupazione dell'equilibrio, come caratteristica fondamentale

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della spiritualità cristiana. Non è mai stato uomo di polemica o amante delle posizioni di rottura. La sensibilità storica lo teneva al riparo dai massimalismi, propri di coloro che procedono secondo lo schema: prima le tenebre, ora la luce. La lezione del passato gli aveva insegnato che la coscienza cristiana può subire l’influenza di disparate correnti di pensiero esterne alla Chiesa. È un fatto inevitabile, che però non esclude la possibilità di un discernimento secondo lo spirito del Vangelo. Nella questione, ad esempio, dell’emergenza del mondo e dei suoi valori nell’orizzonte conciliare, P. Truhlar sapeva giustamente valutare tanto la novità dell’approccio, quanto la continuità del messaggio cristiano. Nel volume Fuga dal mondo e coscienza cristiana oggi (1966) proponeva il ritorno conciliare al mondo non come un’adorazione del mondo da parte della Chiesa, ma come una purificazione da alcune infiltrazioni del passato — la speciale valorizzazione della contemplazione, conformemente ad alcuni insegnamenti della filosofia greca; l’atteggiamento negativo riguardo alla creazione visibile ispirato al dualismo gnostico —. Ugualmente esemplare, per capire la sensibilità che anima la sua teologia spirituale, è un altro tema di sovente ripreso da P. Truhlar nei corsi e nelle pubblicazioni: la struttura antinomica della spiritualità. Nel volume Antinomie della vita spirituale (1967) ha affrontato direttamente il tema, domandandosi se nel substrato stesso della vita cristiana non si celi un’antinomia di fondo, irriducibile, tra l’ordine di valori della natura e quello della grazia. Prendendo in considerazione successivamente la totalità del cristianesimo e la debolezza del cristiano, l’evoluzione e la crocifissione delle forze umane, la trasformazione del mondo e la fuga dal mondo, la contemplazione e l’azione, la coscienza del proprio valore e l’umiltà, stabilisce una costante: nella vita spirituale il credente, più che a un aut… aut, si trova confrontato a un et... et. La conclusione è che la spiritualità implica una retta composizione o sintesi di elementi che apparentemente sono opposti. Così, la fuga del mondo deve comporsi con il giusto uso del mondo, l’umiltà con la retta coscienza del proprio valore, l’obbedienza con l’iniziativa personale, l’‘infanzia spirituale’ con la maturità psicologica. La prospettiva antinomica aveva per Truhlar il vantaggio di «diminuire una certa unilateralità e grettezza di posizioni, perduranti in vari settori del nostro cattolicesimo anche da parte

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di quanti, troppo unilateralmente, credono di poter monopolizzare il vanto dell’ortodossia e di una genuina spiritualità cristiana».

Equilibrio e conciliazione come caratteristiche del suo pensiero teologico e del suo ethos personale; ma lucida rigidità circa la nozione stessa di spiritualità. La chiarezza a questo proposito era indispensabile per condurre a buon termine il suo progetto di nobilitazione della teologia spirituale. Sgombrato l’equivoco di una spiritualità come regno del sentimento, era necessario trovare a questa disciplina un centro unificatore che desse coerenza tanto al metodo quanto ai contenuti. P. Truhlar lo individuò nel concetto di ‘esperienza dell’Assoluto’.

2. Teologia ‘esperienziale’

L’uso della categoria di ‘esperienza’ per parlare di ciò che ha attinenza con la vita spirituale ha antecedenti storico-culturali molto complessi. Sotto l’influenza remota dell’irrazionalismo di Dilthey, per il quale l’esperienza vissuta — o Erlebnis — era l’unico strumento dell’indagine storica e il solo veicolo adeguato per la comprensione dell’uomo, l’esperienza è diventata la struttura portante della fenomenologia della religione di van der Leeuw e di M. Eliade.

In questa ottica l’Erlebnis religioso diventa una forma di esperienza a sé, autonoma rispetto ad altre esperienze, retta da meccanismi strutturali propri che isolano il fatto religioso da tutto il contesto culturale e storico in cui si sviluppa. Il sacro è autonomo rispetto al profano; solo quando le strutture religiose subiscono la perdita dei significati e dei valori originali entrano nell’ambito del profano, e quindi anche della ragione che le ‘spiega’.

L’esperienza che per Truhlar è nucleo germinale della vita spirituale non è di tipo irrazionalistico. O piuttosto, essa va situata su un piano in cui l’antinomia ‘razionale’ ― ‘irrazionale’ è inappropriata. Inspirandosi a quei teologi che hanno stabilito un fecondo confronto tra la metafisica classica e il punto di vista della filosofia trascendentale moderna — in particolare a K. Rahner — Truhlar considera l’esperienza come una situazione gnoseologica sui generis. Il sapere di cui è questione nella vita

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spirituale non è il ‘pensare’ concettuale, né quella conoscenza della realtà che acquisiamo mediante la sperimentazione: è il sapere relazionato all’esperienza del proprio essere e dell’assoluto, comune a tutti gli uomini. Nella via esperienziale l’essere si ‘sente’: non mediante determinate percezioni sensitive, immaginative, concettuali; e neppure per il tramite della volontà o del sentimento (il Gefühl dei tedeschi, in quanto si oppone alla conoscenza). L’accesso all’essere passa al di sopra di tali categorie: è diretto, ‘acategoriale’. Si perviene a questo contatto immediato con l’essere indirizzando l’attenzione non verso gli oggetti così come sono nell’uomo, ma verso ciò che li accompagna e in cui essi sono immersi, verso ciò che costituisce il loro orizzonte. Quest’esperienza dell’essere accompagna ogni categoria dell’attività umana, benché come tale non possa mai essere afferrata con i concetti. È una possibilità dell’essere umano, anche se non si realizza per tutti e con frequenza. Il centro personale dell’uomo può rivolgersi ad essa solo tramite una certa attenta apertura.

È molto importante che la via esperienziale non venga confusa con una fuga nell’irrazionale. L’esperienza dell’essere afferra la realtà e la sua ‘verità’ in un modo che appartiene senz’altro all’ordine intellettuale, sebbene l’attuazione dell’intelletto venga realizzata in un’unità esistenziale con la volontà e con l’affetto. Il fondamento di quest’unità è la comune sorgente dell’intero atto esperienziale, cioè il centro personale che percepisce l’assoluto. Come può la percezione interiore della realtà assoluta, non connessa ad alcun contenuto determinato, essere espressa nei modi determinati che sono propri del nostro linguaggio? Truhlar ama riferirsi a Soloviev, il filosofo-teologo studiato in gioventù. Stabilito che ogni realtà rimanda a quella realtà assoluta che noi troviamo in noi stessi come percezione immediata, indirizza ai segni e ai simboli attraverso cui l’assoluto può indicare la sua presenza. Perché il linguaggio delle immagini è più adeguato di quello logico-discorsivo ad esprimere i bagliori dell’essere. È la via privilegiata che Truhlar percorre ogni volta che si presenti l’occasione. Nei suoi scritti di teologia spirituale ci dà ad ascoltare non solo la testimonianza della Scrittura, ma anche la voce di poeti, narratori e contemplativi, che hanno lasciato un’eco della loro esperienza dell’assoluto. Ricorrono più spesso a Tagore, Ungaretti, Quasimodo, Silone, e soprattutto l’uomo con cui

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Truhlar sentiva la più profonda affinità spirituale: Dag Hammarskjöld.

L’esperienza dell’assoluto viene interpretata all’interno del sapere, della cultura, della Weltanschauung, della religione di colui che percepisce l’assoluto. Nelle filosofie teiste, l’assoluto è Dio. Ma anche l’ateo può fare un’esperienza autentica; la quale però, all’interno della sua visione del mondo, viene interpretata ateisticamente. È una prospettiva profondamente innovatrice in teologia spirituale, un attacco a sorpresa contro la cittadella dell’autosufficienza farisaica degli ‘spirituali’, un ponte ecumenico.

A rischio dell’identità cristiana? No. Per chi vive all’interno del quadro di riferimento storico-culturale-cultuale cristiano, la realtà assoluta che si attinge con l’esperienza è Cristo. Cristo nostra esperienza: è il titolo di una delle opere centrali nella produzione teologica di Truhlar. L’istanza che l’ha dettata è quella di ricondurre a Cristo, come realtà viva di esperienza, non solo certi fenomeni straordinari — come quelli mistici — ma anche la vita ordinaria di qualsiasi credente. Il theologumenon su cui si appoggia è una tesi della cristologia di K. Rahner: Cristo incarnato anche oggi è, non solo ontologicamente, ma anche esperienzialmente, fondamento, fine e causa della vita cristiana. L’esperienza, la percezione, la coscienza di Cristo permeano l’esperienza di Dio come assoluto. Non in modo aggiuntivo. L’esperienza è unitaria: Dio-Dio incarnato ― l’uomo ― il mondo vengono sperimentati globalmente. Sempre però al modo dell’esperienza religiosa, cioè come una percezione acategoriale. Una pagina particolarmente vibrante di quell’opera merita di essere riletta: «Un’esperienza cristiana armonica e sviluppata sotto ogni aspetto implica l’intrecciarsi reciproco di diverse realtà di esperienza: dell’esperienza di Dio ― dell’esperienza di Cristo ― dell’esperienza di se stesso nell’ambito dell’esperienza di Dio e di Cristo e, partendo da quest’esperienza, dell’esperienza dell’uomo e del mondo nell’ambito dell’esperienza di Dio e di Cristo e a partire da esse. Così Dio, il Verbo incarnato, l’uomo, il mondo, sono vicendevolmente compenetrati nell’esperienza di Dio e di Cristo. Umanità e mondo si trovano così unificati in Dio e in Cristo, loro origine fontale, a cui tendono e dove, visti e amati da Cristo, sono immersi in un intimo processo di trasformazione che conduce al definitivo mondo umano glorificato. In tutte queste

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realizzazioni dell’esperienza, i contenuti sovraoggettivi vengono penetrati da contenuti concettuali e sensibili; il divino, e l’umano glorificato in Cristo, vengono a trovarsi intessuti con colori, linee, toni... di questi contenuti».

Valorizzando l’elemento esperienziale della vita umana, la teologia spirituale trova un centro unificatore. In quanto disciplina può essere definita in termini di ‘mistagogia cristiana’, cioè di iniziazione alla vita esperienziale umana e cristiana. Ne è influenzata anche la sua stessa strutturazione interna. Essa non si occupa solo di una parte della vita cristiana — magari una parte privilegiata come poteva essere la ‘mistica’ nell’accezione tradizionale —; il suo oggetto è la vita interna del cristiano in quanto esperienza della grazia. La seconda parte di questo volume dedicato ai ‘concetti fondamentali’ dimostra quanto la vita spirituale tragga beneficio dall’irruzione di linfa nuova attraverso la porta dell’esperienza. Si può parlare francamente di un sovvertimento dell’antica disciplina. Temi della spiritualità diventano — oltre alla preghiera, alla virtù, alla Scrittura e alla liturgia, che lo sono stati sempre considerati a buon diritto — anche il lavoro e il tempo libero, la cultura e la vita estetica. E il corpo. E la respirazione. Perché la via esperienziale conduce a un centro, in cui tutto l’uomo è presente come nel punto di partenza della sua vita intera. Tutto è unificato: lo spirito, la psiche, l’immaginazione, i sensi. L’esperienza dell’assoluto si manifesta attraverso il corpo, si iscrive nella respirazione. La spiritualità perde così il carattere rarefatto che il termine era solito evocare, per assumere la concretezza poliedrica della vita umana.

3. Spiritualità e scienze dell’uomo

La spiritualità, così come la teologia la propone alla cultura odierna, ha un profondo radicamento in un insieme di problemi che sono familiari a chi abbia presente la tradizione di pensiero dell’Occidente. In pratica, ha molti punti di contatto con il problema dell’uno e del molteplice, che la filosofia ha discusso per secoli. «Come fare perché il tutto sia uno e ogni essere sia uno in se stesso?». Quest'antica formula orfica contiene il problema essenziale della filosofia. Esprime già la coscienza di due esigenze

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antitetiche, quella dell’unità e quella della diversità, impossibili sia da rifiutare che da realizzare isolatamente. Da questo conflitto fondamentale sono sorti diversi tipi di unificazione, corrispondenti ad altrettanti sistemi filosofici. Mentre l’Oriente ha inclinato verso soluzioni di tipo monistico — come certe dottrine indù, secondo cui l’individuo è un’illusione destinata a risolversi in un tutto indifferenziato —, l’Occidente ha scelto la strada delle filosofie dell’Essere (concepito come una totalità infinitamente sublimata) o delle filosofie dell’uno (in cui l’Uno è simbolo dell’ineffabile). Questa seconda alternativa coincide praticamente col neo-platonismo, che ha esercitato un influsso così significativo sulla spiritualità cristiana. Il processo di interiorizzazione, caro a chi vuol ricondurre lo spirito umano al suo silenzio originale facendo coincidere il nostro centro col centro universale, porta a superare l’indefinita moltiplicazione di discorsi e di intuizioni mediante i quali l’Uno, indicibile perché non riconducibile né a un’ipostasi trascendente, né a uno stato immanente, si dà come presenza. «Il regno dell’unità è dentro»: questa formula lapidaria di Maurice Blondel indica la via per la ricerca dell’autorealizzazione spirituale presa lungo i secoli da molti cristiani, specialmente da coloro che si è soliti designare come i ‘mistici’. La stessa metafora della ‘presenza di Dio nel santuario dell’anima’ fa parte del linguaggio neo-platonico, estremamente evocativo anche per coloro che sono rimasti estranei alla problematica filosofica di fondo.

Il clima analogo a quello che è stato proprio in passato alla ricerca filosofica dell’‘Uno’ va cercato oggi altrove. La filosofia ha per lo più abbandonato la metafisica per rivolgersi all’etica o alle questioni formali — la logica, l’epistemologia, il linguaggio —. I problemi dell’essere che confinano con la spiritualità sembrano oggi più prossimi alla preoccupazione dello psicologo che del filosofo. L’affermazione può sembrare azzardata, qualora si tenga presente esclusivamente la conoscenza, teorica e pratica, dell’uomo promossa dalla psicanalisi classica. Può sembrare, anzi, che l’apertura della prospettiva dell’inconscio abbia detronizzato per sempre l’uomo dalla pretesa di possedersi, rivelando l’alienazione che abita dentro lo stesso soggetto pensante. Non è gratuito che Freud continui ad essere citato come ‘maestro del sospetto’. L’esplorazione dell’inconscio, attività tipica con cui

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la psicoanalisi è stata identificata, ha fatto crollare l’immagine ingenua dell’essere umano come soggetto psichico. Risultato di questo lavoro sull’inconscio è stata la demistificazione dell’immagine del soggetto reale propria del ‘senso comune’. L’individuo non corrisponde alla figura di un ‘ego’ centrato sull’‘io’ o sulla ‘coscienza’; il soggetto umano è decentrato: i determinanti decisivi del comportamento (le pulsioni) sono relegati nell’inconscio, mentre nella coscienza emergono solo gli epifenomeni e i determinanti apparenti (l’‘io’). L’inconscio introduce nell’‘autonomia’ del soggetto una serie di istanze che lo spossessano dalla sicurezza soggettiva. Il soggetto non è più di fronte soltanto all’esteriorità del mondo: è anche di fronte a se stesso; deve ammettere la determinazione multipla del proprio comportamento, la sua fondamentale eteronomia. Il forte impatto, emotivo oltre che intellettuale, di queste scoperte ha fatto perdere di vista che nel programma originario della psicoanalisi era inscritta l’esplorazione di tutte le strutture psichiche, vale a dire anche dell’io e del Super-Io, oltre che dell’Es. Questa parte del programma fu sviluppata pienamente solo nei decenni successivi, da parte della corrente psicoanalitica nota come ‘psicologia dell'Io’. L’Io viene opposto all’Es (sistema inconscio di esperienze pulsionali) e al Super-Io (sistema di esigenze normative ugualmente inconsce). Ad esso spetta in sostanza un compito di mediazione. Già Freud stesso aveva descritto l’io come «sottomesso a una triplice schiavitù e perciò minacciato da tre sorta di pericoli: quello che viene dal mondo esterno, quello della libido dell’Es e quello della severità del Super-Io». L’Io è dunque un ‘essere di frontiera’, un sistema di scelta e di rifiuto, grazie al quale il soggetto si riconosce come un’individualità coerente ed autonoma. Gli psicologi dell’io hanno privilegiato proprio questa struttura psichica, col suo duplice compito di adattarsi alle esigenze della realtà esterna e di dominare i conflitti interni.

Lo sviluppo della ‘psicologia dell’io’ non è solo un fatto privato interno della famiglia degli analisti. Esso ha avuto ampie ripercussioni sulla pratica stessa dell’analisi, e, di riflesso, sull’antropologia corrente. La psicoterapia, nelle sue innumerevoli ramificazioni, è stata sempre più concepita come una forma di educazione dell’io, per metterlo in grado di sottrarsi alle tre minacce individuate da Freud: la realtà esterna, la libido e la rigidità

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morale. Il fine della terapia si è sempre più chiaramente delineato come adattamento più funzionale: «aiutare gli uomini a raggiungere una sintesi e un rapporto con l’ambiente che funzionino meglio», per esprimersi con le parole di H. Hartmann. La psicoterapia si è integrata organicamente alla vita dell’uomo contemporaneo. Ad essa è stato demandato in misura crescente il compito di rimediare al malessere della civilizzazione, insegnando agli ‘alienati’ (non solo a quelli che una volta erano custoditi nelle istituzioni apposite, bensì praticamente a tutti i beneficiari-vittime di una civilizzazione costruita su disvalori) a difendersi dall'esproprio di ciò che compete loro in quanto esseri umani. Le scienze umane si sono trovate a condurre una battaglia a favore dell’essere, contro le realtà culturali che lo decurtano.

Un influsso determinante in questo senso ha esercitato quella corrente della psicologia moderna che ha assunto il nome di ‘psicologia umanistica’. Si riconoscono in questo movimento quanti hanno a cuore l’uomo come essere che è capace di formulare progetti, valutazioni, opzioni; che tende all’auto-realizzazione e alla creatività; determinato nel suo comportamento più dalle motivazioni che dalle pulsioni o rinforzi.

La psicologia umanistica ha preso coscienza di sé come movimento appena una quindicina d’anni fa. Attualmente è più un insieme di orientamenti che una teoria sistematica della personalità umana e della psicoterapia. Riconosce come suoi presupposti la filosofia dell’umanesimo rinascimentale, la fenomenologia e l’esistenzialismo europei, il liberalismo politico anglo-americano. Questi nobili ascendenti vanno piuttosto intesi in senso lato. L’esistenzialismo di cui si parla, per fare un esempio, è diverso da quello di Heidegger o di Sartre. Mentre i pensatori europei considerano un’esistenza che trae il suo senso dall’ineluttabilità della morte, i contemporanei umanisti, soprattutto americani, parlano di espansione dell’esperienza, di gioia, di crescita personale, di pienezza del processo vitale e di auto-perfezionamento.

Le varie teorie psicologiche e metodi terapeutici che si riconoscono nella psicologia umanistica condividono alcuni princìpi comuni: la persona umana va considerata come un tutto; le mete, i valori, le aspirazioni, il futuro contano più delle determinanti storiche e ambientali; si devono valorizzare le qualità del comportamento che sono più propriamente umane, come la capacità

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di scelte, la creatività e l’autorealizzazione. In prospettiva umanistica, la terapia consiste essenzialmente nell’incontro autentico tra due individui reali, per promuovere il passaggio ad uno stato di maggiore crescita. Dal momento che le persone davvero realizzate sono rare, e che ognuna ha la capacità di trovare maggiormente se stesso, l’indicazione psicoterapeutica diventa fluida: è di utilità tanto ai malati che ai ‘sani’. La psicoterapia è finalizzata alla liberazione dell’energia bloccata, ad attuare il potenziale integrale della persona, a promuovere la crescita per vivere con piena consapevolezza le esperienze più significative. Sulla scia dell'human potential movement, originariamente nato in California, migliaia di persone normali, desiderose di una maggiore crescita e maturazione personali, alla ricerca di aiuto per arrivare al riconoscimento del proprio valore e alla fiducia in se stessi, hanno preso la strada della psicoterapia.

Come valutare, dal punto di vista della spiritualità cristiana, questa spinta massiccia delle scienze dell’uomo verso la riappropriazione dell’essere, specialmente seguendo la strada della psicoterapia? In particolare: si può identificare l’auto-realizzazione umana con la conversione predicata da Gesù? La teologia cristiana non può dimenticare la trascendenza del piano di Dio rispetto ai progetti umani. L’uomo creativo e ‘spirituale’ potrebbe diventare il nuovo vitello d’oro dell’idolatria moderna. Tuttavia il cristiano, se da una parte deve evitare il pericolo dell’idolatria, dall’altra deve aver cura di non cadere nell’eccesso opposto, che è quello dell’iconoclastia. Vi soccombono coloro che inveiscono contro le iconi che Dio si è fatto nella storia. Già la tradizione patristica indicava nell’ ‘uomo vivente’ la vera immagine di Dio. Non c’è solo un’umanità che pretende di costruirsi a immagine propria; c’è n’è anche una che si lascia costruire a immagine del Dio vivente. La psicologia a matrice medico-scientifica può diventare iconoclasta, mentre quella umanistica, proponendo un modello di uomo in cui la spiritualità è un valore immanente, può scivolare nell’idolatria.

La teologia spirituale e le scienze dell’uomo sono mature per un dialogo con reciproco vantaggio. Le questioni che la teologia pone alle scienze dell’uomo — in particolare quella relativa allo spazio per l’adorazione del Signore — costringe queste ultime a prendere coscienza dei modelli antropologici che veicolano, spesso

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senza avvedersene. D’altra parte, chi ha il compito di annunciare la parola di Dio liberatrice è stimolato dai risultati delle scienze dell’uomo — in primo luogo dalla psicologia — a riconoscere che alcune versioni storiche del cristianesimo non hanno avuto effetti liberatori per l’umano; anzi, sono state patogene perché patologiche. Si sta formando un nuovo ethos tra i cultori delle scienze dell’uomo e quelli delle scienze sacre come la teologia spirituale, sulla base dell’ascolto reciproco.

La via dell’integrazione personale mediante le tecniche delle scienze dell’uomo non è quella dell’esperienza spirituale. Però conducono l’uomo che le percorre fino in fondo alla stessa meta: ‘a casa’. Troviamo l’espressione nel diario di Hammarskjöld, il politico-contemplativo così spesso citato da Truhlar: «Sempre assetato dell’acqua delle sorgenti, ingabbiato nell’impossibilità di cercarle. La risposta, la risposta dura, netta e greve: nell’uno non sei mai solo, nell’uno sei sempre a casa tua». E la ritroviamo sulla bocca di un bambino, figlio di uno psichiatra. Ascoltando i pazienti che sono in terapia da suo padre, ha capito che «vogliono tornare a casa però non sanno la via di casa», mentre il padre cerca di aiutarli a ritrovare la strada. (D. Laing, Conversando con i miei bambini).