In cammino oltre il senso di colpa

S. Spinsanti - L. Ancona - L. Boggio Gilot - D. Mongillo - P. Scabini - G. Crocetti - M. Tejera de Meer - N. Borri Alimenti

IN CAMMINO OLTRE IL SENSO DI COLPA

a cura di Sandro Spinsanti

Cittadella Editrice, Assisi 1984

pp. 9-20

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INTRODUZIONE

Un incontro interdisciplinare...

Psicoterapeuti e pastori: non capita di frequente che categorie di persone così eterogenee per orientamento ideale e professionale si ritrovino insieme; anzi, che siano esplicitamente invitati a incontrarsi in nome della loro professionalità per confrontarsi reciprocamente.

È un avvenimento singolare: nel pur folto panorama di congressi e convegni di ogni genere figura come una rondinella che venga da altri lidi. Una rondine che annuncia un cambiamento di stagione.

Fino a un passato molto recente tra psicanalisti/psicoterapeuti e teologi/pastori la polarizzazione era estrema. Pur svolgendo, da una parte come dall’altra, un analogo servizio all’uomo, i punti d’incontro erano nulli. Non solo dal punto di vista dei rispettivi modelli antropologici di riferimento (la polemica si è a lungo nutrita di schematizzazioni deformanti: il discredito gettato sulla religione come parente stretta della nevrosi ossessiva, da una parte, l’accusa di teoria pansessualista e di magistero del sospetto, dall’altra), ma anche della prassi.

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Per quanto riguarda l’azione concreta, la conflittualità aveva anche dei risvolti quasi di concorrenza. La psicoterapia ha sostituito, infatti, la religione come agenzia di riferimento per le persone che cercano un cambiamento risolutivo del proprio malessere 1.

È un cliché troppo semplificato dire che nella società contemporanea il divano dello psicoanalista ha sostituito il confessionale; tuttavia un cambiamento nella gerarchia di valori che godono di considerazione sociale ha avuto luogo. L’esperienza religiosa aveva un aspetto globalizzante; dall’incontro con Dio ci si attendeva, oltre che la salvezza dell’anima, anche una riverberazione benefica sulla psiche e sul corpo. Il sacerdote, uomo del sacro, si poneva come mediatore di questo processo soterico globale. È comprensibile che l’emergere della figura professionale dello psicoterapeuta fosse vissuta in senso concorrenziale. È meglio il confessore o lo psicoanalista?, diceva a chiare lettere il titolo di un libro apologetico di qualche anno fa.

Il mondo della psicoterapia e quello della pratica religiosa sembravano due universi chiusi l’uno all’altro, senza varchi. Oppure avvenivano delle aperture totali, a mo’ di capitolazione, con effetti peggiori delle chiusure. Mi riferisco,

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a titolo esemplificativo, alla discussa esperienza di P. Lemercier, a Cuernavaca, di mettere un intero monastero in psicoanalisi 2.

Questi schieramenti non riflettono più la situazione attuale. Da una parte come dall’altra sono avvenute trasformazioni di notevole portata, che hanno avuto come conseguenza l’apertura della possibilità di un dialogo. Nell’ambito della pastorale la crisi ha avuto una duplice dimensione: pratica e teorica. La tenuta delle forme tradizionali di servizio pastorale, centrate sul culto e sulla pratica sacramentale, ha ceduto. I confessionali si sono svuotati. Ma la richiesta non si è dissolta: si è solo trasformata. La pastorale, da servizio di annuncio, ha assunto progressivamente le funzioni di servizio di consiglio e di aiuto, così che il rapporto sacerdote/fedele è andato sempre più rassomigliando a quello che intercorre tra terapeuta e cliente. Il cambiamento ha fatto sorgere la questione teorica dell’identità della nuova pastorale. Contemporaneamente, mentre cresceva l’insicurezza nei pastori e il senso di inadeguatezza per i nuovi compiti, nasceva l’esigenza di un confronto. Lo sguardo si è rivolto ovviamente verso le discipline psicoterapeutiche,

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alla ricerca di metodiche per gestire i rapporti umani 3.

Anche nel campo della psicoterapia si sono registrate trasformazioni significative. La preclusione aprioristica nei confronti della religione è rientrata, salvo sopravvivenze isolate di animosità più anticlericale e antiecclesiastica che antireligiosa. La dimensione spirituale dell’uomo ha cominciato ad essere considerata non come frutto morboso della sublimazione, ma come un bisogno autentico della persona integrata e realizzata. È diventato sempre più corrente riferirsi all’uomo in quanto caratterizzato dalla triplice scansione bio-psico-spirituale. Nell’ambito linguistico anglosassone si parla di «approccio distico». Dapprima la psicologia umanistica (singolare impasto di fermenti derivanti da Jung, Rogers, Maslow, dalla psicologia nella Gestalt e dall’esistenzialismo europeo reinterpretato all’americana) e più di recente la psicologia transpersonale, hanno riportato lo spirito sulla scena psicoterapeutica. L’incontro con le religioni tradizionali, tanto dell’Occidente quanto dell’Oriente, è diventato un momento indispensabile di un recupero antropologico, base per una prassi psicoterapeutica che tenga conto dell’uomo nella sua integrità 4.

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Possiamo salutare, dunque, l’inizio di un nuovo ecumenismo psico-teologico? Bisogna intendersi. La storia dell’ecumenismo tra le confessioni cristiane può essere molto istruttiva anche a proposito di questo singolare tipo di dialogo interdisciplinare. Essa ci insegna che l’irenismo, cioè la pace a buon mercato ottenuta glissando sui contrasti e minimizzando le differenze, non è mai stato produttivo, nei tempi lunghi. Il vero dialogo esige il rispetto della verità, tanto in se stesso come nell’altro. Più precisamente, il rispetto del modo, certamente imperfetto e parziale, in cui ciascuno dà corpo alla propria percezione della verità. Proprio dalla parzialità, accettata e valorizzata, può derivare l’utilità dell’uno per l’altro, come correzione e integrazione reciproca, come stimolo alla crescita.

Dalle vicende dell’ecumenismo ecclesiale si può anche imparare che il vero dialogo comincia con una rivoluzione copernicana, che cambi il centro di gravitazione del proprio universo concettuale. Nel caso del dialogo tra scienze psicologiche e teologia, il «geocentrismo» dell’autovalidazione ideologica si supera quando, da una parte come dall’altra, si mette al centro l’uomo a cui si intende rivolgere il proprio servizio: l’uomo sofferente, oppresso dal male (comunque si voglia concettualizzare questo male). Il confronto sulla natura e la modalità dei rispettivi servizi di liberazione diventa allora costruttivo e fecondo. È quello che il nostro incontro vuol verificare a proposito del senso di colpa.

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… sul senso di colpa

La scelta del senso di colpa come tema dell’incontro è avvenuta per la convergenza di indicazioni diverse. Uno stimolo è venuto dal VI sinodo dei vescovi (ottobre 1983). Il sinodo ha mobilitato un vasto dibattito intraecclesiale sulla riconciliazione e la penitenza, come nucleo essenziale dell’annuncio cristiano. Tale problematica confluisce con quella relativa al senso di colpa, da cui deriva l’impulso alla prassi della riconciliazione e della confessione. Oltre che da questo motivo occasionale, la scelta del tema è suggerita dal fatto che pastori e psicoterapeuti sono quotidianamente confrontati col senso di colpa delle persone che ricorrono al loro aiuto.

Gli interrogativi che sorgono sono numerosi e inquietanti. Anzitutto: come si rapportano reciprocamente l’azione dello psicoterapeuta e quella del pastore? Sono antergiche o sinergiche? (Detto altrimenti: lo psicoterapeuta lavora per togliere il senso di colpa, mentre il pastore lavorerebbe per crearlo?). Quali sono le responsabilità storiche del cristianesimo rispetto al senso di colpa che travaglia l’uomo moderno? Quale comprensione della natura e della funzione del senso di colpa è maturata da più di ottant’anni di clinica psicanalitica, nonché dal più recente germinare di nuovi indirizzi psicoterapeutici? Come si può esercitare una critica costruttiva degli uni verso gli altri, in clima di dialogo, al fine di migliorare la prassi?

Le questioni sono tante, e non possono certamente ricevere una risposta esaustiva nell’ambito del nostro incontro. Alcuni punti di riferimento vanno però tenuti presenti come pietre

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miliari del cammino da fare insieme. Uno di questi è la maggiore consapevolezza che l’annuncio cristiano è stato storicamente, e in parte continua ad essere, uno strumento di colpevolizzazione.

A livello storiografico un materiale documentario impressionante è stato fornito dall’opera di Jean Delumeau 5. Esplorando i diversi generi della letteratura religiosa e il materiale iconografico ― immagini e opere d’arte ― delinea il profilo storico dell’opera della chiesa postmedievale nei confronti del mondo moderno sottrattosi alla sua tutela. Per sfuggire all’impressione di cittadella assediata, la chiesa ha cercato di riconquistare la società servendosi di una pastorale della paura. L’insegnamento cristiano è venuto così a costituire un grande sistema di intimidazione e di repressione, poggiato su tre capisaldi: la paura ossessiva del peccato (soprattutto dell’impurità), della morte e dell’inferno. La paura si nutriva delle immagini terrificanti delle prediche e dei catechismi: l’abbandono del peccatore a Satana, i terribili supplizi dell’inferno e del purgatorio, il piccolo

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numero degli eletti, l’idea di un Dio vendicatore. Progressivamente la confessione si è trasformata da strumento di liberazione in tribunale del terrore 6. Il grande nemico dell’uomo è individuato in lui stesso, ed è il peccato. Il peccato personale e quello originale vengono messi al centro di un sistema integrato di cultura religiosa. La malattia degli scrupoli non fa che evidenziare un meccanismo in atto anche nei credenti «sani».

Senza questo entroterra storico-culturale non è possibile capire la repressione e le nevrosi che hanno pesato sull’Occidente fino al XX secolo, fornendo materiale così abbondante alla psicanalisi. Non c’è liberazione dal passato senza intelligenza del presente come prodotto di quel passato. La psicanalisi, a sua volta, offre alla teologia la sua comprensione del processo e dei meccanismi di colpevolizzazione.

Nell’ambito del pensiero psicologico-psicanalitico ha avuto luogo una riflessione sul senso di colpa la cui importanza trascende la dimensione propriamente pratico-operativa. La colpevolezza, grazie al lavoro teorico che le ha dedicato la psicanalisi, appare infatti come una categoria fondamentale dello spirito umano. È talmente incuneata nelle pieghe dell'inconscio, che non è bastato il rifiuto del cristianesimo per produrre una liberazione dall’universo morboso della colpa.

Il senso di colpa è onnipresente, tanto da farsi facilmente riconoscere anche sotto le più frenetiche proteste di non colpevolezza. Dopo la rivoluzione freudiana, che ha permesso di

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scoprire il senso di colpa, oltre che sotto le forme di un’autoaccusa tirannica che dà luogo ai morsi della cattiva coscienza, anche sotto i travestimenti che assume nelle nevrosi, negli atti mancanti e negli insuccessi di ogni genere, la parola è passata a sociologi e psicologi, che hanno cercato di smontare i meccanismi della colpevolezza per risalire alla sua origine 7.

Il dibattito si è polarizzato intorno a un’alternativa: la diffusione del senso morboso di colpa va imputata alla società o alla soggettività stessa? La teoria della sociogenesi del senso di colpa ha indicato nella società la responsabile della formazione del Super-Io e della morale, così come delle modalità patologiche del senso di colpa: è la società che stabilisce la legge, imputa la colpa e punisce il contravventore. Il behaviorismo ha portato all’estremo la concezione di una genesi del senso di colpa all’organismo, pretendendo addirittura di dimostrare «sperimentalmente» come il soggetto risalga dalla sanzione all’idea di colpa (dimostrazione avvenuta sui topi di laboratorio, naturalmente...). Una versione più sofisticata della teoria sociogenetica della colpevolezza è quella elaborata dal freudomarxismo di W. Reich ed H. Marcuse. Secondo le loro indicazioni, la ragione della crescente angoscia delle coscienze va cercata nella multiforme oppressione che le civilizzazioni avanzate, sia capitaliste che socialiste, fanno pesare sugli istinti. Alle interdizioni iniziali le società industriali aggiungono altre repressioni e inducono l’individuo a rivoltare

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contro se stesso, nell’angoscia e nel senso di colpa, le proprie reazioni aggressive. La concezione esogena della colpevolezza comporta che solo una trasformazione culturale potrà operare l’eliminazione del senso di colpa. L’utopia della controcultura sessantottesca non ha avuto il fiato abbastanza lungo per verificare se «l’uomo pluridimensionale» sarebbe stato esente da sensi di colpa...

L’altra ipotesi, quella della psicogenesi, sviluppa il pensiero classico di Freud, per il quale l’unico modo di comprendere le vicissitudini del senso di colpa è di partire dalla posizione originaria del desiderio inconscio rispetto all’interdizione. L’individuo è considerato come essenzialmente mosso da bisogni fisiologici che devono trovare una soddisfazione appropriata e realizzare tra di loro l’equilibrio più armonioso possibile. L’alienazione imposta dalla differenza dei sessi e dal tabù fondamentale provoca il turbamento della ripartizione della libido, da cui si alimenta il senso di colpa, e allo stesso tempo getta le fondamenta dell’intersoggettività.

La ripresa più creativa dell’impostazione freudiana del senso di colpa è quella dovuta a J. Lacan 8. Egli va al di là del rapporto strutturale che lega indissolubilmente il desiderio e la sua condanna; attribuisce alla colpevolezza un carattere non accidentale ma essenziale, in quanto derivante dalle leggi che strutturano i rapporti intersoggettivi. Si può capire la colpevolezza fondamentale solo se la si lega a un ordine universale e prestabilito, «a un simbolismo le cui forme positive si coordinano nella società, ma che si inscrive nelle strutture radicali

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che il linguaggio trasmette inconsciamente». La legge che, secondo la sentenza paolina, fa il peccato, non è dunque una necessità psicobiologica, né un ordine posto in modo contingente dalla società, e neppure un valore etico, ma è la legge che presiede all’ordine simbolico. E l’ordine simbolico è anteriore rispetto alle leggi della parentela. Le interdizioni che il bambino incontra necessariamente, e in primo luogo quella dell’incesto, definiscono quali relazioni intersoggettive sono compatibili o incompatibili con la posizione che gli è propria, e lo sottomettono così a una legge di riconoscimento reciproco tra i soggetti. Sono queste interdizioni o esclusioni logiche che rendono possibile il riconoscimento di sé e dell’altro all’interno della famiglia.

La riflessione per rendere ragione del dato clinico si apre, a questo punto, su una speculazione filosofica, che cerca di ricondurre l’onnipresenza e la pervasività del senso di colpa a una determinazione fondamentale dell’essere umano. La questione, così formulata, può essere ripresa dalla teologia. Questa può contribuire all’approfondimento del problema con il proprio sapere antropologico. A condizione, però, che non sia il sapere tributario di una prassi storica di colpevolizzazione manipolatrice, bensì quello che la sapienza della fede deriva dalla prassi messianica di Gesù.

Il carattere ineluttabile del senso di colpa, comunque la teoresi psicologico/psicanalitica e la teologia vogliano fondarlo, non giustifica, tuttavia, il suo mantenimento. Al contrario: la prassi pastorale della liberazione religiosa e quella psicoterapeutica si incontrano in un corpo a corpo col senso di colpa. È una lotta

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che richiama per alcuni versi quella di Giacobbe con l’angelo (cfr. Gn 32,23-33): una lotta da cui si può ricavare una benedizione.

Note

1 «Ci sono sempre state nel mondo persone che hanno desiderato cambiare i loro sentimenti, il loro modo di vivere e di pensare, e altre persone disposte ad aiutarle. Cambiamenti di questo tipo sono stati ottenuti, in genere, nella cultura orientale, all’interno di una esperienza religiosa; nella cultura occidentale, al contrario, i cambiamenti che un tempo avvenivano ugualmente nell’ambito della religione, vengono ricercati adesso all’interno di un diverso quadro di riferimento»: J. Haley, Le strategie della psicoterapia, Roma 1975, p. 29.

2 G. Lemercier, Psicoanalisi in monastero, Milano 1968. Nel saggio introduttivo premesso alla raccolta di scritti di G. Lemercier, Adriana Zarri analizza l’esperimento senza prevenzioni ma anche senza compiacimenti. Si distanzia, in particolare, dall’entusiasmo illuministico di Lemercier verso la nuova strada, quasi fosse una nuova ascesi, sostitutiva della vecchia (Lemercier: «La lunga ascesi della psicoanalisi mi ha condotto a una vita spirituale che non avrei potuto raggiungere in trent’anni di vita monastica»). La psicoanalisi è uno strumento non già da idoleggiare, ma da adoperare con discrezione e tranquillità.

3 Si vedano i saggi raccolti nei due volumi curati da J. Scharfenberg, Freiheit und Methode, Wien 1979 e Glaube und Gruppe, Wien 1980. La pastorale si confronta in un serrato dialogo con le scienze dell’uomo, interrogandosi sulla possibilità e sull’opportunità di mutuare metodiche dalla psicoterapia per il trattamento pastorale sia del singolo che del gruppo.

4 Cfr. K. Wilber, Oltre i confini. La dimensione transpersonale in psicologia (in preparazione presso la Cittadella Editrice di Assisi).

5 J. DelumeauLe péché et la peur. La culpabilisation en Occident (XIII-XVIII siècles), Paris 1983. Quest’opera costituisce il completamento di un lavoro di esplorazione storica cominciato con La Peur en Occident (du XIV au XVIII siècles), Paris 1978. Tutt’e due tracciano un ritratto completo del «cristianesimo della paura», qual è stato proposto dalle chiese cristiane, cattoliche e riformate, ed è stato vissuto in Occidente dalla fine del medioevo al XVIII secolo. Mentre la prima analizza la paura rivolta all’esterno, Le péché et la peur studia la «paura di sé», ottenuta mediante il lavoro di colpevolizzazione. Non è fuori luogo ricordare che Delumeau si dichiara storico e credente, e che nei suoi intenti il suo lavoro di storico è finalizzato a illuminare la vita religiosa.

6 Si veda l’opera in collaborazione Pratique de la confession. Des pères du désert au Vatican II, Paris 1983.

7 Un esauriente bilancio del dibattito si può trovare nell’art. «Culpabilité» dell’Encyclopaedia Universalis, vol. I, pp. 223-225.

8 Cfr. J. LacanÉcrits, Paris 1966.

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