- Antropologia cristiana
- L'etica cristiana della malattia
- Il linguaggio del corpo nella comunicazione rituale
- Gli animali nell'orizzonte della bioetica
- Gesù psicoterapeuta
- I concetti fondamentali della teologia spirituale
- Artista
- Martire
- Utopia
- Revisione di vita
- Modelli spirituali
- Quel filo imprevedibile
- Chiesa ubriaca o chiesa ispirata?
- I compagni scomodi dell'uomo-massa
- La chiesa anno zero: i primi tre giorni
- Gli stati di vita: vecchie e nuove prospettive
- Bioetica per la promozione della vita
- In cammino oltre il senso di colpa
- In cammino oltre il senso di colpa - conclusione
- La fede guarisce?
- Spiritualità nella malattia
- Irruzione di Dio
- Oltre il dualismo soma-psiche
- Psicologia del pellegrinaggio
- Proposta di lettura «transazionale» del vangelo
- Una nuova concezione dell'assistenza spirituale
- Digiunare oggi: come e perchè
Sandro Spinsanti
MARTIRE
in Nuovo dizionario di spiritualità
Ed. Paoline, Roma 1973
pp. 913-917
913
II ― SPIRITUALITÀ ODIERNA DEL MARTIRIO
Il martirio non si è introdotto nel mondo spirituale cristiano con la morte di Stefano ad opera del sinedrio, né si è concluso con la pace costantiniana. Anche se storicamente il "martirio" è stato prerogativa dei credenti ai quali la fedeltà al Cristo è costata la vita, il valore semantico del termine è più ampio. Come è stato dimostrato [↗ sopra, I, 1], la nozione di "testimonianza", più fondamentale e originaria, include quella di martirio. La testimonianza è connaturale alle fede cristiana, in quanto questa implica l'attestazione di quella verità non astratta ma concreta che per il cristiano si identifica con la persona e la storia di Gesù. È connaturale anche il martirio? Esso dà piuttosto l'impressione di essere una modalità contingente della testimonianza, destinata a scomparire là dove prevalgono la tolleranza civile, il principio della libertà di coscienza e i valori del pluralismo.
Se vogliamo basarci sull'uso linguistico, abbiamo un'indicazione favorevole all'attualità della testimonianza. Mentre infatti la «testimonianza» gode tutte le simpatie dei cristiani del nostro tempo (fino magari a un uso inflazionistico del termine nell'ambito delle spiritualità attivistiche), il "martirio" è considerato piuttosto con distacco: più un fenomeno storico del passato che un fatto emblematico del presente. Si sa che in epoca patristica, e soprattutto nei primi due secoli, il martire ha costituito il modello del cristiano perfetto. Oggi, pur con tutto l'interesse per un cristianesimo testimoniante, non si saprebbe come costruire una spiritualità cristiana sul martirio.
A qualcuno questa emarginazione del martirio dall'orizzonte spirituale del cristiano appare sospetta. All'indomani del Vat II la voce di un noto teologo richiamava la comunità cattolica, entusiasmata dal dialogo con il mondo, al martirio come "caso serio" della fede cristiana. Hans Urs von Balthasar additava polemicamente in Cordula — la giovane di cui racconta la leggenda delle undicimila vergini; sfuggita dapprima alla morte, era uscita poi spontaneamente dal nascondiglio e si era offerta volontariamente al martirio — l'antitesi di molti cristiani contemporanei. Capo d'accusa nei loro confronti è l'aver cessato di considerare il cristianesimo come "caso serio" (questa espressione, traduzione letterale del termine tedesco Ernstfall, è inadeguata a rendere tutte le risonanze dell'originale; esso indica l'elemento essenziale di una Weltanschauung che coinvolge esistenzialmente, e quindi l'impegno assoluto con cui si risponde a una percezione nuova della realtà, o ancora il caso di emergenza in cui bisogna giocare il tutto per il tutto). Lo svuotamento della "serietà" del caso posto dalla croce e dalla risurrezione di Cristo provocherebbe il dimezzamento del mistero, la perdita dell'identità cristiana, la fuga in avanti utopica sul fronte del futuro del mondo; insieme alla disponibilità al martirio, i cristiani moderni perderebbero anche la legittima fierezza del nome cristiano, preferendo l'anonimato.
La liquidazione del martirio non era nelle intenzioni del concilio. Oltre al testo della LG 42 — citato da von Balthasar in apertura del volume —, che presenta
914
il martirio come una prospettiva sempre aperta per la chiesa di Cristo, si potrebbe richiamare la dichiarazione sulla libertà religiosa, in cui si esorta i cristiani a «diffondere la luce della vita con ogni fiducia (cf At 4, 29), fino all'effusione del sangue» (DH 14). Contro quei cristiani che identificano il compito dell'ora presente con l'adattamento al mondo, il teologo di Basilea riconosce come volontà del concilio l'«esposizione inerme della chiesa al mondo. Demolizione dei bastioni; i baluardi spianati in viali. E ciò senza alcun nascosto pensiero di un nuovo trionfalismo, dopo che l'antico è divenuto impraticabile. Non pensare che, quando i cavalli di battaglia della Santa Inquisizione, del Santo Uffizio, sono stati eliminati, si possa entrare nella celeste Gerusalemme cavalcando il mite asino dell'evoluzione tra lo sventolare delle palme». L'aggiornamento della chiesa non dovrebbe dunque mirare alla definitiva evacuazione del martirio dalla vita spirituale del cristiano, bensì a un martirio reso quasi più ovvio.
Il richiamo alla "serietà" della fede cristiana e al martirio che ne è il suggello può essere opportuno. Esso non va inteso però come proposta di un cristiano come martire nel senso di un modello eroico [↗ Modelli spirituali I]. L'epoca in cui viviamo non è più stagione di eroi, anche se alcune caratteristiche di ciò che in passato era appannaggio degli eroi continuano a essere attuali. Se consideriamo eroico ciò che dipende da una eccezionale abilità, sviluppata mediante uno sforzo straordinario, troviamo anche nella nostra cultura figure eminenti che attraggono l'ammirazione comune. Ma da questo angolo visuale ci precludiamo ogni possibilità di capire ciò che è tipico del santo cristiano. La vita del santo non è un exploit di grandezza umana, bensì un exploit del Dio dell'alleanza. Essa non è adatta a celebrare la grandezza dell'uomo, ma piuttosto ad annunciare la fedeltà di Dio. L'uso apologetico deteriore come autocelebrazione della comunità confessionale che può essere fatto dell'eroismo dei santi — in particolare di quello dei martiri — muore sul nascere quando consideriamo che la chiesa è tanto poco padrona dei santi quanto lo è della parola di Dio. Non può servirsene per la propria glorificazione, né per qualsiasi forma di trionfalismo e autocompiacimento. Non è dunque nel potere della chiesa il programmare i martiri. Anche l'autocandidatura al "martirio" — nelle forme più blande del vituperio e dell'essere discriminati — dei gruppi integralisti è piuttosto sospetta; e, in ogni caso, non può pretendere di essere l'unica forma di vivere consequenzialmente l'impegno cristiano. Pienamente legittima è invece l'accentuazione della fortezza come virtù che accompagna e rende possibile la fede. Oggi come in passato. Non si tratta di riproporre con Nietzsche un superuomo che viva "pericolosamente"; ciò che importa è condurre una "buona" vita. Orbene, da due millenni nella tradizione culturale dell'Occidente la vita dell'uomo eticamente realizzato è vista attraverso uno spettro di quattro colori, costituito dalle virtù della prudenza, giustizia, fortezza e temperanza. Tutte le forze originali dell'Occidente — greci e romani, giudaismo e cristianesimo — hanno contribuito a mettere a punto questo schema della struttura etica che permette all'uomo di realizzarsi. La teologia cristiana, accettandolo, ammetteva che il bene non si realizza da solo, ma richiede lo sforzo dell'individuo disposto a lottare e, se necessario,
915
a sacrificarsi per esso. Nei casi limite può essere richiesto anche di rinunciare alla vita. Nel filone tradizionale dell'Occidente questa prospettiva ha prodotto il principio della libertà di coscienza e una considerazione reverenziale per coloro che subiscono violenza a causa della fedeltà a principi etici e religiosi. Per la religione della libertà di coscienza sono martiri tanto Socrate che Cristo. Entrambi hanno realizzato un ideale di bontà-verità-bellezza e con fortezza vi hanno aderito; è stato più facile staccarli dalla vita che da quel mondo di valori.
Fin dall'inizio i cristiani hanno preso coscienza che con lo stesso atto con cui aderivano al Cristo dovevano contrapporsi al "secolo", dal momento che in esso agivano "potenze" antitetiche alla salvezza che Dio offriva in Cristo. La morte stessa di Gesù, il "martire" per eccellenza, è stata vista come il tragico esito di una lotta tra forze antagoniste. La fortezza necessaria ai testimoni della fede non è quella esemplata sullo stampo eroico. Lo vediamo nello stile in cui avviene la testimonianza. La forza dei testimoni non è quella di un arco che si tende, ma piuttosto quella di un getto di fonte che prorompe irrefrenabile. Posti in situazione di scontro frontale con le potenze antievangeliche, mostrano fiducia, sicurezza gioiosa, fierezza. Due termini greci, in particolare, sono stati piegati a esprimere la novità cristiana: parresia e kàuchesis. La parresia si manifesta esteriormente nel comportamento di chi, in piedi, a faccia alta, parla apertamente, con piena libertà di linguaggio, del proprio incontro con la "potenza"; interiormente essa dà al testimone/martire una sicurezza indefettibile per annunciare in tutta libertà la parola di Dio. Dall'incontro è nata infatti una leale consacrazione alla parola stessa. Riflesso della fiducia è la kàuchesis, cioè il fatto di gloriarsi di qualcosa, dopo aver fatto di essa il fondamento delle proprie scelte esistenziali.
I cristiani hanno sempre riconosciuto in questo comportamento non tanto una grandezza etica da proporre a modello ai pochi uomini forti che potrebbero assumerlo come proprio, quanto piuttosto un vissuto mistico, vale a dire un'esperienza interiore e personale della salvezza. Freud ha affermato che la maggior parte dell'eroismo deriva dall'istintiva convinzione che «niente può capitare a me». Egli intendeva smascherare in questo tipo di comportamento un ingenuo narcisismo, proprio dell'"io" che non si è ancora confrontato col "principio della realtà". Forse però la sua osservazione è vera anche in un senso più profondo, che il padre della psicanalisi non aveva in mente. L'esperienza personale della salvezza amplia i confini del proprio "io"; in questo "io" più grande il credente sperimenta un senso di preservazione, di tutela, di sicura garanzia. A differenza di quanto avviene nell'ideale eroico, il testimone della fede non fa riferimento alla propria virtù individuale, bensì alla "potenza" con la quale si sente in intima comunione.
In questa più grande realtà, con la quale il suo "io" si confonde, la morte non è più il male più grave; anzi, non è neppure interamente un male. Paolo ci ha lasciato la celebrazione lirica più toccante di questa interiore fiducia del credente, quasi la fotografia interiore di una fede aperta al martirio (cf Rm8, 35-39).
Il carattere particolare, mistico più che etico, della fortezza cristiana, giustifica il legame essenziale tra cristianesimo e martirio. Allo stesso tempo ci permette di
916
specificare in quale senso sia attuale per i cristiani del XX sec. il richiamo al martirio. Non si tratta di rispolverare i modelli eroici passati, o di sobillare un gruppo confessionale contro i principi civili della tolleranza e del pluralismo. È legittimo e urgente, invece, perorare una professione del cristianesimo basata sull'esperienza personale della salvezza, più che sui riferimenti culturali. Come direbbe von Balthasar, il cristianesimo che dà i martiri non è quello dei "professori", ma quello dei confessori. Là dove si incontra e si esperimenta la salvezza il cristianesimo è il "caso serio"; altrimenti può diventare tutt'al più "un caso interessante".
Il martirio, in quanto habitus permanente di una autentica spiritualità cristiana, porta dunque il credente a interrogarsi su che cosa è fondata la propria fede. Un ulteriore motivo dell'attualità del discorso sul martirio è il valore kerygmatico che anche oggi possiede. Valore kerygmatico, non apologetico. Il martirio annuncia un mondo nuovo futuro, eppure già sostanzialmente presente. La predicazione cristiana non batte la via della conversione morale, come quella di Giovanni Battista, né della previsione della catastrofe cosmica, come l'apocalittica giudaica. La predicazione del regno di Dio fatta da Gesù è partita dall'annuncio delle beatitudini. Anche il martirio è una beatitudine: «Beati siete voi quando vi oltraggeranno e vi perseguiteranno e diranno, mentendo, ogni male contro di voi per causa mia. Gioite ed esultate, perché la vostra ricompensa è grande nei cieli» (Mt 5,11-12).
Il martirio diventa segno del regno di Dio solo nella logica delle beatitudini. Il suo contenuto è una felicità che ha l'attesa come sua dimensione essenziale, perché partecipa della tensione tra il "già" e il "non ancora" che è propria del regno di Dio. La felicità del cristiano è fondata su una promessa. Coloro che sono dichiarati "beati" nelle beatitudini non lo sono in forza della loro situazione, bensì in seguito alla volontà di Dio di riservar loro il regno. Né la povertà, né la fame, né l'afflizione, né il martirio dànno la beatitudine. Solo la condizione nuova che risulterà dal rovesciamento del disordine attuale farà dei diseredati di oggi i destinatari della ricchezza del regno, in cui Dio sazierà la fame e asciugherà le lacrime. L'annuncio di una beatitudine legata agli stati di povertà, di tristezza, di oppressione violenta è possibile solo in un orizzonte di speranza escatologica. In assenza di questa, il sentirsi felici in quelle situazioni sarebbe masochismo e favorirebbe l'alienazione sociale. La beatitudine in situazione di tribolazione ha un effetto kerygmatico: annunzia e mostra che le ideologie che mantengono l'oppressione sono tigri di carta.
Gli esseri umani toccati da questo tipo di beatitudine sono di una tempra speciale. Anche se non sono protagonisti di una rivolta diretta contro le potenze oppressive, le minacciano ben più pericolosamente dei rivoluzionari. I martiri protestano contro una situazione in cui domina il male. Essi sanno vedere però che non solo gli oppressi, ma anche gli oppressori sono vittime di esso. Anticipano così un rovesciamento radicale della condizione umana. Il vincitore di oggi sarà vinto a sua volta: non da una rivincita del martire, ma da quella "potenza" che lo sostiene e costituisce il "più grande io" a cui il martire si è abbandonato; una vittoria che non umilia il vinto, ma lo libera a sua volta. Il martirio è annuncio della fedeltà di
917
Dio, fatto di fronte e contro un mondo in cui l'ingiustizia trionfante è diventata endemica e istituzionalizzata. Tenere il martirio davanti agli occhi significa per la chiesa d'oggi assumere l'atteggiamento giusto di fronte al mondo: né quello della resa accomodante, né quello della provocazione autocompiaciuta. L'atteggiamento, appunto, dei martiri di tutti i tempi, i quali hanno saputo trovare nella promessa la luce sufficiente per camminare incontro al Signore che viene, sopportando la tribolazione, senza mai spegnere il canto. Il canto dei martiri, che abbiano a subire la prova cruenta o quella incruenta, è quello intonato da Giobbe:
«Sì, io lo so: il mio redentore vive,
e alla fine sulla terra si ergerà,
e, dopo che sarà straziata la mia pelle,
nunzio di buone novelle per me, vedrò Dio.
Lo vedrò io, proprio io:
lo mireranno i miei occhi non più avversario!
Mi si strugge il cuore in petto!»
(Gb 19,25-27).
BIBLIOGRAFIA
Il termine
N. Brox, Zeuge und Märtyrer. Untersuchungen zur frühchristlichen Zeugnis-Terminologie (Studien zum Alten und Neuen Testament 5), Monaco, Kösel 1961.
Gli atti dei martiri
G. Lazzati, Gli sviluppi della letteratura sui martiri nei primi quattro secoli. Con Appendice di testi, Torino, SEI 1956.
H. Musurillo, The Acts of the Christian Martyrs. Introduction, Texts and Translations (Oxford Early Christian Texts), Oxford, Clarendon Press 1972.
Storia
H. Delehaye, Les Passions des martyrs et les genres littéraires, Bruxelles, Société des Bollandistes 1921;
Sanctus, Essai sur le culte des saints dans l'antiquité (Subsidia Hagiographica 17), Bruxelles, Société des Bollandistes 1927;
Les origines du Culte des martyrs, Bruxelles, Société des Bollandistes 19332.
L. v. Hertling, Die Zahl der Martyrer, in Gr 25 (1944) 103-129.
E. de Moreau, Le nombre des martyrs, in NRT 73 (83 année, 1951), 812-832.
B. de Gaiffier, Réflexions sur les origins du culte des martyrs, in MaisD 52 (1957) 19-43.
A.P. Frutaz, Martyrer, I. Begriff, II. Würde, III. Verehrung, IV. Geschichtliches, in LTK VII (1962) 127-132.
Teologia e spiritualità
M. Viller, Martyre et perfection, in RAM 6 (1925) 3-25; Le martyre et l'ascése, ivi, 105-142.
K. Baus, Das Gebet der Märtyrer, in TriererTheologischeZeitschrift 62 (1953) 19-32.
M. Pellegrino, L'imitation du Christ dans les Actes des martyrs, in VSp 38 (1958) 38-54;
Le sens ecclesial du martyre, in Revue des Sciences Religieuses 35 (1961), 151-175.
E. Barbotin, Le sens existential du témoignage et du martyre, in Revue des Sciences Religieuses 35 (1961) 176-182.
P. Molinari, I santi e il loro culto (Collectanea Spiritualia 9), Roma, Univ. Greg. 1962.
K. Rahner, Sulla teologia della morte. Con una digressione sul martirio (Quaestione sdisputatae), Brescia, Morcelliana 1965.
L. Bouyer, La spiritualità dei Padri (Storia della spiritualità 2), Bologna, Dehoniane 1968.
A. Kubiś, La théologie du martyre au vingtième siècle, Roma, Univ. Greg. 1968.
H.U. v. Balthasar, Cordula, ovverosia il caso serio, Brescia, Queriniana 19692.