Proposta di lettura «transazionale» del vangelo

Sandro Spinsanti

PROPOSTE DI LETTURA «TRANSAZIONALE» DEL VANGELO

in Kerigma e Therapeia

Quaderni di V.M. Camaldoli, n. 21

Camaldoli, 1979

pp. 96-101

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1.  Un cieco comincia a vedere (meditazione su Giov. 9)

Gesù e i suoi discepoli incontrano un uomo che era cieco fin dalla nascita. Si imbattono nella stessa persona, eppure non vedono la stessa cosa. I discepoli vedono la realtà così come è stato loro insegnato a guardarla: un uomo che porta nel corpo lo stigma della malattia o dell’handicap è un «segnato» da Dio. Nel loro «Genitore» hanno registrato fedelmente quello che insegnavano i rabbini («Nessuna punizione senza colpa», «Dove c’è il patire, c’è stato prima il peccato») e quanto ripetevano i loro genitori («Hai visto cosa capita a chi è cattivo?», «Comportati bene, e Dio ti darà buona salute!»). Nel cieco vedono un caso che illustra la regola, una conferma del principio trasmesso. Tutt’al più possono avventurarsi in una disquisizione dottrinale: «Maestro, se questo uomo è nato cieco, di chi è la colpa? Sua o dei suoi genitori?», v. 2. L’Adulto dei discepoli è contaminato dal Genitore: il loro giudizio è in realtà un pre-giudizio.

Gesù rifiuta di sacralizzare le contaminazioni genitoriali dei suoi discepoli. Là dove essi vedono un «segnato», Gesù vede un uomo che soffre; mentre i discepoli si dispongono a dibattere, lasciando la realtà com’è — il pregiudizio è oppressivo e impotente —, Gesù si accinge a guarire. Non si limita a dissentire dalla loro «teologia» («Non ne hanno colpa né lui né i suoi genitori, ma è così perché in lui si possono manifestare le opere di Dio», v. 3), ma si sente interpellato da quel bisogno: «Finché è giorno, io devo fare le opere del Padre che mi ha mandato», v. 4. Guarire vuol dire rispondere alla muta richiesta di colui che ha bisogno attivando il proprio Genitore protettivo.

I discepoli, che guardano il cieco con occhio contaminato, non fanno niente per lui. Neppure il cieco può fare niente per se stesso. Probabilmente ha interiorizzato il pregiudizio: «Dio mi ha colpito! Sono un peccatore». Un confuso senso di colpa lo tormenta. Se, come Giobbe, ha provato qualche volta a protestare la propria innocenza, avrà certamente

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trovato più di un amico disposto a «consolarlo» dimostrandogli che la sua innocenza era solo illusoria, che doveva piuttosto riconoscere la colpa. Il cieco non può aiutare se stesso perché il pregiudizio interiorizzato gli ha sottratto la propria potenza. Gesù invece è libero e potente per guarire. E guarisce il cieco, non sostituendosi a lui, nell’opera terapeutica, ma mettendolo in grado di scoprire in se stesso la potenza di cui era pur dotato («Va a lavarti alla piscina di Siloe». Quello andò, si lavò e tornò indietro che ci vedeva», v. 7).

Un uomo libero fa notizia. Si discute molto in giro su quel tale che era cieco e ora ci vede. Si discute anche su quell’altro, che lo ha messo in grado di vedere. Le contaminazioni sono dure a morire, il pregiudizio imperversa («Quell’uomo non viene da Dio, perché non rispetta il sabato», v. 16). L’Adulto non può verificare quello che succede nella realtà, finché è sotto l’influenza del Genitore interno che stabilisce quello che può e quello che non può succedere. Quando poi il pregiudizio è sposato con l’autorità, diventa difficile sopravvivere per chi dissente. Ne sanno qualcosa i genitori del cieco guarito, che vengono a scontrarsi con le autorità religiose d’Israele. Apparentemente sono convocati per stabilire i fatti. Raccogliere i dati è il compito dell’Adulto. Ma i farisei non vogliono qualsiasi dato, vogliono solo quelli che confermano i propri pregiudizi. La conversazione che si svolge tra i farisei e i genitori è un caso tipico di transazione a doppio fondo. Il livello sociale apparente è una transazione Adulto-Adulto: i farisei domandano informazioni («È questo il figlio vostro, che secondo voi è nato cieco? E come mai ora vede?», v. 19); il livello psicologico è invece Genitore-Bambino («Guai a voi se dite qualcosa che contraddice quello che abbiamo in mente!»). Anche i genitori apparentemente rispondo Adulto-Adulto («Chiedetelo a lui: è maggiorenne, può parlare per conto suo», v. 21); in realtà hanno trovato un’abile scappatoia per uscire illesi dalla difficile situazione. Hanno fatto ricorso a quella parte del Bambino chiamata «Piccolo Professore»: lo possiamo vedere dal sorriso di soddisfazione che riescono a celere a malapena...

Ma torniamo a quell’uomo che era cieco, e ora ci vede. Anche lui è convocato a confronto dalle autorità religiose. Interrogatorio ripetitivo, snervante. A un certo punto volano insulti, i santoni si stracciano le vesti: luci rosse che indicano un incidente di comunicazione. Le transazioni si sono incrociate. «Noi siamo discepoli di Mosè. A Mosè gli ha parlato Dio, ne siamo sicuri; ma questo Gesù, non sappiamo da dove viene», v. 29. La loro sicurezza su Mosè riposa sull’esperienza dei padri, sulla tradizione. Sono tanto sicuri, che si sentono dispensati dal

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prendere in considerazione fatti nuovi. Così la fede che li ha fatti vivere si è snaturata, l’acqua è diventata stagnante e imbevibile. Difendono una teologia, ma si chiudono all’opera del Liberatore. L’uomo nato cieco, invece, dopo aver sperimentato la salvezza, ha cominciato a ricostruirsi un’altra idea di Dio, del suo agire, dei suoi segni: «Non si è mai sentito, finora, che uno abbia dato la vista a un uomo nato cieco. Se lui non venisse da Dio non potrebbe farlo; perché Dio non ascolta i malvagi, ma ascolta chi lo rispetta e fa la sua volontà», v. 33. La superiorità della sua teologia su quella dei farisei non dipende da una maggiore dialettica, ma dell’esperienza della salvezza che presuppone. Il suo Genitore registra così nuovi elementi, può espungere ciò che è in contraddizione con l’esperienza presente (l’idea che la malattia sia punizione di un peccato, per esempio, o che un uomo dagli oscuri natali non possa essere inviato da Dio).

La storia della nascita della sua fede continua. Ora è il suo Adulto che ha bisogno di raccogliere altri dati. Gliene fornisce l’occasione l’incontro successivo con Gesù. Quel breve scambio di battute («Tu credi nel Figlio dell’Uomo»? ... «Dimmi chi è» ... «È qui, davanti a te: è colui che ti parla», vv. 35-37) equivale a un corso di teologia. Anche la ricerca, lo studio e l’informazione fanno parte integrante del processo che porta a credere. In tempi e modi diversi, tutti gli stati dell’io vi sono coinvolti. Quell’Io che emerge alla fine, nella proclamazione della fede («Si inginocchiò ai piedi di Gesù esclamando: «Signore, io credo!», v. 38), è il trionfo della persona completa e integrata. Ciò che gli impediva di essere un uomo completamente realizzato — le contaminazioni genitoriali, la paralisi della propria potenza interiore, gli intrecci di rapporti interpersonali vischiosi — gli impediva anche di credere. Ora che l’incontro col Salvatore lo ha messo in grado di dire: «Io credo», comincia anche un nuovo capitolo della sua storia di uomo.

2.  Un salvatore che non fa il salvatore (meditazione su Giov. 8, 1-11)

Rileggiamo una pagina del vangelo utilizzando categorie psicologiche sviluppate nell’ambito dell’A.T. Per capire certi comportamenti ripetitivi delle persone, si è trovato utile in terapia metterli in rapporto con i cosiddetti «ruoli drammatici», rispettivamente i ruoli di Persecutore, Salvatore, Vittima. Come tutti i concetti usati dall’A.T., anche quello del ruolo drammatico è intuitivo. Lo conosce già il nostro uso linguistico quotidiano, quando ci preoccupiamo di distinguere tra chi «è» vittima e chi «fa» la vittima. Il ruolo è connesso con

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le prime idee che ci facciamo su noi stessi, sugli altri e sul mondo, con le decisioni di sopravvivenza e quindi con la posizione esistenziale. Una volta deciso, per lo più inconsciamente, di identificare noi stessi con il ruolo prevalente che abbiamo scelto, troviamo il modo di confermarlo con una quantità di transazioni, giochi, comunicazioni più o meno patologiche. I sentimenti connessi col ruolo conoscono un progressivo rafforzamento: la Vittima si sente sempre più vittima, il Persecutore indotto a sempre nuovi interventi punitivi, il Salvatore gratificato dal suo sistematico impegno a favore degli altri. Dal punto di vista intrapsichico i ruoli sono vissuti come qualcosa di coattivo: non si può agire nell’ambito del ruolo, pena il disagio intimo o addirittura la confusione circa la propria identità. Socialmente il ruolo implica una manipolazione dell’altro: chi fa il Salvatore, ad esempio, ha bisogno di avere qualcuno da salvare. Se non gli capita d’occasione, se lo va a cercare; oppure — ed è la situazione più frequente — si crea la persona bisognosa del suo intervento. Per questo il Salvatore è spesso sentito psicologicamente come un Persecutore da colui che intende salvare. Quando il salvando si rivolta contro il Salvatore, questi diventa a sua volta Vittima. Se il gioco coinvolge più persone, è probabile che a questo punto intervenga un terzo giocatore, al quale non resta che schierarsi come Salvatore dell’uno o dell’altro, perseguitando a sua volta o il Salvatore o la Vittima. E così via «giocando» ...

Le relazioni umane, prese nella stretta dei ruoli, possono diventare drammatiche, quando si giunge ai casi estremi. Di questi casi son fatte le cronache dei giornali. Ma il dramma è insito già nel fatto stesso che le relazioni interpersonali, vissute a partire dal ruolo, perdono ogni carattere di autenticità. In qualche modo all’altra persona vien fatta violenza, in quanto non è riconosciuta nella sua individualità; l’altro viene piuttosto «usato» in vista del guadagno psicologico connesso col ruolo che si gioca. Finché si rimane incapsulati nei ruoli, non è possibile alcuna intimità.

In psicoterapia si ricorre alla teoria dei ruoli drammatici per aiutare chi ne è prigioniero a prendere coscienza della sua situazione. Anche questo strumento, come gli altri di cui dispone la psicoterapia, è rivolto alla persona perché analizzi, capisca, si ridecida. Il fine è quello dell’autonomia della persona, affinché si realizzi nella libertà e persegua responsabilmente il proprio benessere psichico.

Gesù non è stato psicoterapeuta; né la predicazione del Regno di Dio equivale a un'analisi, transazionale o altro che sia. Eppure tra la vita secondo il Vangelo e quello che persegue la psicoterapia troviamo dei paralleli strutturali, quasi una sintonia

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profonda. L’autenticità dei rapporti umani fiorisce spontaneamente dietro i passi di Gesù, così come è nei desideri profondi di ogni uomo e negli intenti dei tecnici della comunione interpersonale. Una scena evangelica, l’episodio dell’adultera raccontato da Giov. 8, 1-11, ci aiuta a visualizzare la qualità del rapporto umano di cui Gesù è il portatore e l’iniziatore.

Fin dall’inizio due ruoli almeno son prefissati: ci sono i Persecutori e c’è la Vittima, i farisei e la donna sorpresa in adulterio. I Persecutori hanno bisogno di vittime: per dimostrare la propria giustizia e l’iniquità del mondo, la santità della Torà e il peccato dell’uomo, la conferma dei modelli di comportamento basati sugli stereotipi (in questo caso a discapito dell’uguaglianza tra l’uomo e la donna) e la necessità della repressione. Non è difficile immaginare il sospetto metodico, gli appostamenti, la gioia maligna del «Ti abbiamo beccato!». Siamo anche di fronte a una donna che si compiace nel ruolo di Vittima? Certamente nella situazione evangelica è vittima della macchinazione legalistica dei farisei; che faccia la vittima non lo possiamo dire. Certo, succede anche questo: che alcune persone si mettano in situazioni pregiudizievoli per una specie di vertigine autopunitiva. Non sappiamo niente sul significato che quel rapporto amoroso aveva per la donna. Neppure i farisei lo sapevano, ma a loro non importava: era illegale, un adulterio, e tanto bastava. Ora avevano bisogno di qualcuno che facesse il Salvatore, per continuare la triste ruotazione dei ruoli drammatici. «Maestro, questa donna è stata sorpresa mentre tradiva suo marito. Nella sua legge Mosè ci ha ordinato di uccidere queste donne infedeli a colpi di pietra. Tu, che, cosa ne dici?». Sanno bene che Gesù non fa parte, come loro, dei Persecutori di chi trasgredisce la Legge. È proprio questa l’accusa di fondo che hanno nei suoi confronti: non possono contare su di lui per la campagna di riarmo morale della nazione. Ha delle posizioni ambigue; magari qualche sprovveduto del popolo potrebbe anche servirsi del suo insegnamento per giustificare il peccato. Se non vuol fare il Persecutore, farà il Salvatore dell’adultera. È questo il loro calcolo. Se si schiererà dalla parte di lei, se si metterà a perseguitare i Persecutori della donna, si troverà ad essere contro la Torà. Allora gli succederà come a molti Salvatori, che finiscono a loro volta nel ruolo di vittima. Sarà lapidato insieme alla donna che avrebbe voluto salvare («Parlavano così per metterlo alla prova: volevano avere pretesti per accusarlo»).

Gesù scriveva col dito nella polvere. Alla loro insistenza, invita chi è senza peccato a scagliare la prima pietra. Una risposta che ha sempre avvinto per la sua eleganza, la finezza diplomatica, la

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profondità spirituale. Che cosa ha scritto Gesù nella polvere? Se lo sono chiesto in tanti. Finché gli archeologi biblici non riporteranno alla luce quel pezzo di terra, con le parole autografe di Gesù e la sua firma, è lecita ogni ipotesi. I transazionalisti avanzano questa: che Gesù abbia scritto; «Io sono il salvatore, non faccio il Salvatore». La sua risposta è stata più che un’abile scappatoia per sfuggire alla trappola che gli avevano teso. Ha rifiutato di incontrare un’altra persona a partire da un ruolo drammatico. Ed ecco la sorpresa: gli altri protagonisti della scena si trovano confrontati con se stessi. Gli aspiranti Persecutori con le loro colpe personali, l’adultera con quel fatto amoroso che la mette in contrasto con la Torà. Per lei la salvezza passa attraverso il cammino che la riconduce a se stessa. Nessuno la condanna a partire dalla Legge; libera ormai dal suo ruolo di vittima, può ridecidere della sua vita con responsabilità. «Và, ma d’ora in poi non peccare più». Non è soltanto un’esortazione morde. È l’invito a vivere fuori della triste schiavitù dei ruoli, a entrare nella terra promessa dove gli esseri umani si incontrano come persone. Perché è così che Dio li vuol incontrare.