Se la cura è di genere femminile

Sandro Spinsanti

SE LA CURA È DI GENERE FEMMINILE

in Rocca

anno 61, n. 9, 1 maggio 2002, pp. 43-45

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Cambiamenti vistosi stanno modificando il mondo tradizionale di erogare le cure. Se la professionalizzazione è un fatto già acquisito da tempo (con il positivismo e la nascita della medicina scientifica il curare affidato a dei professionisti ha soppiantato la medicina popolare, affidata per lo più alle donne), la frammentazione e specializzazione delle professioni sanitarie è invece un fenomeno più recente. Secondo il sociologo Willem Tousijn, nel giro di pochi decenni è stato sconvolto lo scenario tradizionale, restato immutato per lungo tempo, che vedeva coinvolti nelle cure professionali tre attori principali: medici, farmacisti e ostetriche. Oggi in tutti i paesi avanzati il numero delle occupazioni sanitarie si aggira intorno alla trentina (senza contare le occupazioni rientranti nell’area della medicina non ortodossa, né le specializzazioni infermieristiche) 1.

All’interno delle professioni un fenomeno rilevato dall’analisi sociologica è la crescente femminilizzazione di attività che erano tradizionalmente di competenza maschile. È il caso, ad esempio, della professione medica: la presenza delle donne ormai si attesta intorno al 60 per cento dei dipendenti del Servizio sanitario nazionale, benché sia scarsa nelle qualifiche più elevate e si concentri nei livelli del ruolo sanitario e amministrativo 2. Inversamente, nella professione infermieristica, che era svolta quasi esclusivamente da donne, stanno entrando in numero crescente gli uomini (senza tradire la tendenza a occupare i posti dirigenziali...).

La compassione più della tecnica

Un ulteriore fenomeno che caratterizza la distribuzione dei compiti di cura è la tendenza a suddividerli in due sottocategorie, che possiamo chiamare rispettivamente «curare» e «prendersi cura», e ad attribuirli ad attori diversi.

Più che l’analisi sociologica, un caso clinico ci può aiutare a inquadrare questo aspetto

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della cura. Il caso è raccontato da Peter Frost, che è docente in una università americana di comportamento organizzativo ed è stato uno dei principali promotori dell’approccio culturale allo studio delle organizzazioni: «Nell’aprile del 1997 assistetti all’incredibile salvataggio di una vita umana. Ero con altri tre uomini nel reparto oncologico di un ospedale, in convalescenza. Il mio intervento era consistito nell’asportazione di un melanoma maligno del sistema linfatico. Mi stavo riprendendo bene, e per lunghi periodi della giornata avevo tutto l’agio di osservare chi andava e veniva nel reparto. Di fronte a me c’era un uomo di poco più di 70 anni al quale erano stati asportati l’esofago e lo stomaco, che stava cercando di superare il trauma e di imparare a nutrirsi tramite le cannule che entravano nel suo corpo. Il suo fisico non stava reagendo affatto bene alla dieta o al sistema di alimentazione, e una mattina presto non aveva fatto in tempo a raggiungere il bagno, pur avendo tentato disperatamente di farlo. Era scosso, umiliato e avvilito.

L’infermiera che stava per smontare dal suo turno lo aveva aiutato a tornare a letto dove lo aveva messo comodo, ma egli aveva una bruttissima cera. La nuova infermiera arrivò e si prese cura di ognuno di noi, ma vedevo che teneva d’occhio continuamente quel paziente. Si occupò in modo rapido ed efficiente degli altri tre pazienti (me compreso), poi per il resto del turno rivolse la sua attenzione quasi esclusivamente all’uomo anziano. Chiese il consulto di specialisti e fece molte altre cose tecnicamente e professionalmente corrette, ma era la qualità della sua attenzione, il modo in cui si comportava con lui, la compassione che mostrava per quell’essere umano umiliato, depresso e sconfitto che catturò il mio interesse. Gli prendeva spesso la mano, lo confortava, spiegandogli quello che stava facendo e incoraggiandolo ad assumere un atteggiamento positivo verso l’andamento della giornata. E per tutto il giorno rimase spesso fisicamente presente al suo fianco.

Alla fine del turno verso il termine della giornata, l’uomo aveva un’aria più allegra, comunicava con noi, si muoveva con una certa sicurezza e a suo agio, nel tardo pomeriggio mi avvicinai al suo letto e gli dissi che aveva un buon aspetto e che lo ritenevo molto coraggioso. Mi sorrise e disse che si sentiva molto meglio rispetto al mattino, ma che all’inizio della giornata, dopo ‘l’incidente’ avvenuto in corridoio, aveva avuto la sensazione che la vita gli stesse sfuggendo. Si era sentito inutile, inerme e aveva perso ogni speranza di farcela. ‘Sentivo che il mio ultimo giorno era arrivato’. Io sono convinto che avrebbe potuto essere così. La cosa importante, per capire quello che era successo, è che lui aveva creduto a quella sensazione e questo aveva condizionato il modo in cui aveva iniziato la giornata. La compassione mostrata dalle infermiere aveva probabilmente influito sulla sua ripresa quanto qualsiasi intervento tecnico (se non di più). Forse era stata proprio quella a salvarlo. Era ancora in quella corsia quando uscii, e non so che cosa gli sia successo in seguito. Qualche settimana dopo scrissi una lettera all’amministrazione dell'ospedale per elogiare il comportamento dell’infermiera» 3.

Cura hard e cura soft

Il racconto dettagliato ci porta al centro dei problemi che fanno dell’erogazione delle cure un luogo di conflitti, dietro l’apparenza di una suddivisione di compiti ordinata e razionale. È diventato un luogo comune contrapporre la medicina altamente tecnologica a quella con contenuti umani molto caldi e coinvolgenti (high touch). Il tema è presente soprattutto nelle pubblicazioni infermieristiche. Il nursing è sensibile alla dicotomia che si sta diffondendo nell’ambito delle attività di cura: il «curare» (come impresa eroica, hard) si sta allontanando dal «prendersi cura» (attività lasciata a professioni più soft, dedite alla dimensione relazionale). La tecnologia è imputata di aver accentuato il processo, mettendo una distanza sempre maggiore tra chi eroga le cure e chi le riceve. Si attribuisce all’illustre Campanacci la seguente descrizione del crescente di stanziamento: «Mio padre auscultava posando l’orecchio sul petto del paziente direttamente; io ausculto con lo stetoscopio, a una ventina di centimetri; mio figlio ausculta con fonendoscopio, a un metro e più... Ebbene, questo allontanarsi dal malato, per me, è il segnale del vero pericolo che minaccia la medicina moderna, che perda di vista l’uomo».

Il tocco di una mano femminile

Un altro «topos» che alimenta la diffidenza nei confronti della tecnologia è la contrapposizione tra la modalità maschile e quella femminile di erogare cure. Risale al clinico spagnolo Gregorio Maranon una descrizione che ― almeno in certe circostanze ― presenta la medicina come perdente

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se confrontata con il tocco di una mano femminile: «Nessuno dei rimedi nostri, poveri medici, ha il meraviglioso potere di una mano di donna che si posi su una fronte indolenzita. In quel decisivo momento, la scienza scompare; ed è sopra la donna, piena di mondo, che si appoggia l’angoscia di colui che va addentrandosi nella solitudine senza rive dell’aldilà» 4.

Anche lo storico della medicina Sherwin Nuland attribuisce alla femminilità la capacità di rispondere ai bisogni che l’animo maschile, con le sue prolunghe tecnologiche, non sa cogliere: «La vista di un paziente, l’insorgere della malattia, lo strazio dell’animo, il dolore della sua famiglia, la speranza della guarigione, tutto ciò è diventato parte della cura, esattamente come la conoscenza del livello di ioni di iodio nel suo sangue [...]. Ora noi siamo più capaci di dedizione: ciò che si sta liberando dentro di noi è qualcosa che la società ha visto come una qualità femminile. Con nostro grande stupore, ne siamo orgogliosi» 5.

Rispetto a questa romantica nostalgia della vicinanza, considerata come l’anima permanente e irrinunciabile del processo terapeutico, la tecnologia è indiziata di introdurre un estraneamento crescente tra il professionista che eroga le cure e chi le riceve.

In questa suddivisione dei compiti maschili e femminili il genere è meno importante delle funzioni che costituiscono il curare e il prendersi cura. Il regista Pedro Almodóvar, infatti, nel suo film più recente Parla con lei attribuisce la funzione del prendersi cura a Benigno ― singolare figura di infermiere «materno» ― senza che lo schema venga rimesso in discussione. Che sia esercitata da uomini o da donne, l’attività del curante che diventa un prolungamento del compito della madre schiaccia chi la esercita, sottoponendolo al rischio di burn-out. Né si può dire del tutto positiva per chi la riceve: l’autonomia della persona può essere soffocata dal rapporto di cura. In ambito medico, non meno che nella vita, il maschile e il femminile sono complementari e devono bilanciarsi.

La specificità del genere

Non si tratta solo di interrogativi teorici: per analizzare i conflitti e fornire risposte costruttive è necessario partire dal vissuto degli operatori. Per ridare unità alla coscienza morale e permettere che il maschile e il femminile, liberati dalle false contrapposizioni, sviluppino un libero e creativo gioco delle parti, bisogna ascoltare la voce degli uomini e delle donne che dedicano le loro energie professionali al lavoro di cura. È quanto si propone di fare il convegno annuale organizzato ad Assisi dall’istituto Giano, in collaborazione con Cittadella Incontri, per operatori della salute 6 punta decisamente a evidenziare la specificità di genere.

La specificità di genere in sanità è causa di conflitti. Basti pensare quanto la suddivisione di compiti attorno ai due poli del «curare» e «prendersi cura», intesi come gerarchici, sia discriminante per le donne. Escluse in precedenza dal «curare» medico, alle donne vengono attribuite funzioni che afferiscono al «prendersi cura». «I saperi spontanei delle donne, il loro contatto storico con il corpo e con la cura, diventano attributi «bassi», contro un «alto» che è tecnica scientifica «oggettiva» e «pura» [...] Tutto ciò che chiama in causa, nell’operatività quotidiana, l’approccio e lo stile femminile, l’esperienza e la cultura delle donne, viene rifiutato come poco professionale, squalificante o di disturbo per un’identità asessuata, asettica, depurata dal genere» 7. Ma la consapevolezza della specificità di genere, rifiutando l’equiparazione tra professionale e neutro, si può anche aprire su possibilità positive. Sappiamo poco su come sarà la medicina quando il sapere e le esigenze di cui le donne sono portatrici avranno sviluppato tutte le loro potenzialità. Sappiamo solo con certezza che sarà diversa rispetto a quella che si è sviluppata sotto il segno della predominanza maschile. Basta questo fatto per indurci a considerarla una promessa.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI  

1. Willem Tousijn, Il sistema delle occupazioni sanitarie, Il Mulino, Bologna 2000.

2. Giovanna Vicarelli, «Il medico al femminile. Le donne nello sviluppo della professione medica in Italia», in Polis n. 2, 1989, pp. 225-248.

3. Peter J. Frost, «Perché la compassione è importante!», in Pluriverso n. 3, 2001, pp. 90-97.

4. Citato da G. Ceronetti, Il silenzio del corpo, Adelphi, Milano 2001 (7ed.), p. 62.

5. S.B. Nuland, I figli di Ippocrate, Mondadori, Milano 1992, p. 410.

6. «Se la cura è di genere femminile», Assisi, Cittadella, 31 maggio-2 giugno 2002. 6° Incontro per operatori della salute. Informazioni: Istituto Giano, tel. 0677250540.

7. G. Badolato (a cura di), Le donne nelle professioni d'aiuto, Borla, Roma 1993.

NOTE

1 Willem Tousijn, Il sistema delle occupazioni sanitarie, Il Mulino, Bologna 2000.

2 Giovanna Vicarelli, «Il medico al femminile. Le donne nello sviluppo della professione medica in Italia», in Polis n. 2, 1989, pp. 225-248.

3 Peter J. Frost, «Perché la compassione è importante!», in Pluriverso n. 3, 2001, pp. 90-97.

4 Citato da G. Ceronetti, Il silenzio del corpo, Adelphi, Milano 2001 (7ed.), p. 62.

5 S.B. Nuland, I figli di Ippocrate, Mondadori, Milano 1992, p. 410.

6 ‹Se la cura è di genere femminile», Assisi, Cittadella, 31 maggio - 2 giugno 2002. 6° incontro per operatori della salute. Informazioni: Istituto Giano  tel. 06 77 250 540.

7 G. Badolato (a cura di), Le donne nelle professioni d'aiuto, Borla, Roma 1993.