Una nuova concezione dell’assistenza spirituale

Sandro Spinsanti

UNA NUOVA CONCEZIONE DELL'ASSISTENZA SPIRITUALE

 

in Salute e territorio

n. 37, luglio-agosto 1984, pp. 12-13

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Ancora prima che si affermasse il deprecato sviluppo verso le specializzazioni mediche, responsabile della frammentazione a cui è sottoposto l’uomo malato, un’altra scissione era già avvenuta. Parallelamente al processo che portava l’assistenza sanitaria dall’ambito religioso dell’attività caritativa verso quello degli obblighi e delle responsabilità civili, la dimensione religiosa veniva esclusa dal trattamento. Senza che fosse negata per principio — salvo nei casi di flagrante anticlericalismo — l’assistenza fornita dal ministro della religione veniva scorporata dal complesso di servizi che va sotto il nome di «sanità».

Assistenza sanitaria e servizio pastorale corrono paralleli, senza agganci o interferenze reciproche. Cappellano da una parte, medici e personale infermieristico dall’altra, svolgono, per lo più ignorandosi rispettivamente, un’attività in cui senso e finalità non sembrano riconducibili a nessun comun denominatore. Già la loro stessa figura professionale appare sintonizzata su obiettivi divergenti: i sanitari mirano a restituire la salute, o quanto meno a prolungare il più possibile la vita; i ministri della religione sono per lo più chiamati quando «non c’è più niente da fare» ed è giunto il momento di pensare alla salvezza dell’anima. Può avvenire anche che la differenziazione si approfondisca ulteriormente, fino a sfiorare la concezione caricaturale dell’antagonismo tra i due tipi di presenza e di servizio all’uomo malato: come se il personale sanitario si mobilitasse per restituire il malato alla vita, mentre l’intento del cappellano sarebbe quello di boicottare quest’opera a vantaggio dell’«altra vita». In questo caso può darsi che la presenza del ministro della religione sia più o meno apertamente osteggiata, oppure tollerata con sufficienza, salvo l’impegno per neutralizzare gli effetti demoralizzanti del passaggio della tonaca tra i letti della corsia...

L’assistenza spirituale dei malati non è in crisi solo per questa mancata saldatura con la struttura funzionale dell’ospedale. C’è anche un motivo intrinseco alla pastorale stessa, che potremmo ricondurre all’incertezza che coglie i pastori sul che cosa dire e che cosa fare. I modelli di prassi pastorale del passato si rivelano sempre più rapidamente inadeguati. All’inflazione di parole devozionali rivolte al cristiano malato è succeduto un silenzio imbarazzante: non il silenzio denso di presenza, nel comune ascolto del messaggio esistenziale e soprannaturale insito nel grumo del dolore umano, bensì l'ammutolimento di chi sente che le parole perdono il loro significato e scorrono via su una superficie impermeabile. Il modello presupposto da un certo pietismo cristiano — secondo cui il credente malato deve rassegnarsi alla volontà di Dio, anzi

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addirittura amare la sofferenza e utilizzarla spiritualmente in un intervento di partecipazione mistica ai dolori stessi di Cristo — sembra non avere più corso. Sono gli stessi cristiani più consapevoli che lo rifiutano. Lo ha detto pubblicamente una malata allo stesso pontefice Giovanni Paolo II in occasione del suo pellegrinaggio a Lourdes: «Noi persone malate, più che essere aiutate dalle parole cristiane, vi troviamo spesso ragioni di inasprirci, di rivoltarci. Noi ripetiamo volentieri con Giobbe: cessa di tormentarmi, di schiacciarmi con i tuoi discorsi». La riduzione semplicistica del messaggio cristiano sulla sofferenza alla «cristiana rassegnazione» è stata eliminata dal bagaglio dei luoghi comuni dei predicatori; ma, contemporaneamente, coloro il cui compito è di annunciare il Vangelo vengono a trovarsi a corto di parole.

Anche i riti sacramentali si rarefanno. Una vera e propria crisi di identità ha investito il sacramento tradizionalmente associato alla fine della vita con il nome di «estrema unzione». Il concilio Vaticano II lo ha rivalutato teologicamente, correlandolo con l’aiuto fisico-spirituale che il credente riceve nella situazione di grave malattia. Malgrado alcuni sporadici tentativi di rinnovare la fisionomia liturgica di questo sacramento (per esempio amministrandolo comunitariamente), la più profonda comprensione spirituale di quel gesto sacramentale è lungi dall’essersi tradotta in atto. L’unzione degli infermi continua, per lo più, ad essere sentita come l’atto che consacra il morire. Nella nostra cultura, in cui la morte è diventata il principale tabù, si tende perciò a procrastinare il più possibile il rito. Con conseguente disaffezione da parte dei sacerdoti, che da annunciatori del Vangelo si trovano così degradati al compito routinario di «untori di cadaveri»... la conseguenza è sotto gli occhi di tutti: il malato, specialmente nella fase terminale della malattia, è sempre più solo. Anche i pastori, presi nel vortice della crisi del loro ruolo tradizionale, in assenza di modelli alternativi tendono a ritirarsi. Gli osservatori della realtà religiosa hanno gettato un grido di allarme e in alcune diocesi, come Torino, ci si è disposti seriamente a invertire la rotta del movimento di diserzione degli ospedali da parte dei pastori.

Nel vasto programma dell’umanizzazione della medicina può trovare un posto significativo anche chi si occupa professionalmente dell’assistenza spirituale al malato. Qual’è l’ambito delle sue competenze? Questa definizione di ruolo è il compito attualmente più delicato.

Sarebbe un’infausta divisione di compiti, se il personale sanitario si assumesse esclusivamente le funzioni tecniche, lasciando la dimensione umana dell’azione sanitaria in mano allo «specialista dell’umano»! Avremmo così medici e infermieri sempre più aridi, e malati sempre più insoddisfatti della qualità e delle cure che ricevono. La tentazione della delega al cappellano si fa più forte quando i sanitari si trovano di fronte a situazioni che richiedono simpatia, tatto, gradualità e disponibilità di tempo, come la comunicazione di una prognosi infausta o le decisioni circa la qualità e quantità dei trattamenti a cui sottomettere il malato in fase terminale. Se l’assistente spirituale accettasse di farsi carico in esclusiva di tutta questa dimensione umana del trattamento medico, diventerebbe complice di un ulteriore impoverimento della medicina.

Il compito dell’assistente spirituale, d’altro canto, non può limitarsi neppure alla sola dimensione soprannaturale, prescindendo dal radicamento della fede nel tessuto emotivo e relazionale della persona. Vorrebbe dire perpetuare la dicotomia tra corpo e spirito, che è corresponsabile della disumanizzazione della medicina. Lo spirito, inoltre, è una categoria più ampia di quella che si riferisce formalmente alla religione organizzata; anche un non credente può avere, di fronte alle supreme provocazioni della malattia e della morte, problemi spirituali che possono essere affrontati senza manipolazioni e violenze ideologiche da parte dell’assistente spirituale. Valga come riferimento esemplificativo la testimonianza offerta da Rosemary e Victor Zorza a proposito dell’ultimo periodo della vita della loro figlia Jane, riportata nel libro Un modo di morire. Gli ultimi giorni di vita Jane li ha trascorsi in «hospice» (istituzioni che cominciano a diffondersi nel mondo anglosassone per il trattamento della fase terminale della malattia), di ispirazione religiosa. Alla domanda del formulario di ingresso circa la religione, Jane risponde: «nessuna». Eppure ciò non impedisce che il trattamento che riceve nell’hospice sia integrale, riguardi la risposta onesta alle supreme questioni esistenziali non meno che il lenimento dei dolori, e che la morte di Jane si risolva, per lei come per i suoi genitori, in un avvenimento «spirituale».

Come assicurare una formazione adeguata agli assistenti spirituali dei malati? Questa dovrebbe comprendere, oltre a conoscenze fondamentali di ordine bio-medico e, ovviamente, teologico-pastorale, anche un sostanziale approfondimento delle scienze umane (sociologia, psicologia, antropologia culturale, diritto sanitario ecc.) e un «training» nella comunicazione interpersonale. Una posizione pilota in questo ambito formativo l’ha assunta la Germania, in particolare l’istituto per la pastorale clinica di Heidelberg. Ci sono ormai diocesi in Germania che rendono obbligatorio uno «stage» presso l’istituto non solo per i futuri cappellani ospedalieri, ma anche per tutti i candidati a un ufficio pastorale. Anche in Italia qualcosa si sta muovendo. La fondazione internazionale Fatebenefratelli sta organizzando un corso biennale per assistenti spirituali sanitari, che avrà la sua sede presso l’ospedale dell’isola Tiberina, a Roma. È una rondine, e speriamo che faccia primavera!