I compagni scomodi dell’uomo-massa

Sandro Spinsanti

I COMPAGNI SCOMODI DELL'UOMO-MASSA

Riflessioni sui santi e sui morti

Edizioni Paoline, Alba 1976

pp. 103

INDICE

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  5    Un "tempo forte" del popolo cristiano

  5    Commemorazione dei defunti e dei santi: antecedenti storici

  9    Verso un futuro di qualità

15    1. Parlare della morte: c’è discorso e discorso

15       La morte libresca

19       Le scienze dell’uomo scoprono un tabù

23       Il cristiano parla della morte da "mistico"?

30       Incontro ai nuovi interrogativi con fiducia

35    2. Morire, coniugato al presente

35       Quando ai morti ci pensava la chiesa

39       I cimiteri: sentimento e retorica

42       Dalla "buona morte" alla "bella morte"

47       Morire all’americana

51    3. Una speranza per uomini senza aldilà

51      Cedenti: ma per questa terra

57      Morire da patriarchi

63      Senza primogenitura, ma non senza benedizione

68    4. Il sacramento del tener la mano

68     Dobbiamo smettere di occuparci della morte

73     I colloqui delle tre del mattino

77     Le fasi del morire

81     Dalla presenza la parola nuova

85    5. Risurrezione dei morti e critica del potere

85      L’impatto politico di una credenza

91      Dalla parte dei morti più morti degli altri

97      Come pregano quelli che hanno una speranza

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UN "TEMPO FORTE" DEL POPOLO CRISTIANO

Commemorazione dei defunti e dei santi: antecedenti storici

Tra i "tempi forti" di vita spirituale che scandiscono l’anno liturgico, uno spicca per il suo carattere popolare. Interpella la base più larga della comunità cristiana, compresi coloro per i quali la pasqua è un momento spirituale troppo aristocratico e nel natale vedono solo delle sentimentali tradizioni folkloristiche. Anche i più refrattari alle emozioni religiose raramente si sottraggono alla suggestione che circonda la duplice commemorazione di tutti i santi e di tutti i defunti, rispettivamente il primo e il secondo giorno di novembre. Questo è il "tempo forte" spontaneo del popolo cristiano.

La duplice commemorazione conserva una presa popolare anche là dove l’appartenenza alla comunità cristiana è venuta meno: è un fatto incontestabile. La sociologia e la psicologia potranno studiarlo con i questionari, le inchieste e le statistiche; ci diranno le ragioni storiche e culturali di questo costume; non

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mancheranno di darci i loro pronostici sugli sviluppi di tendenza nella società futura: tutto ciò ha una sua validità e un suo interesse. Ma per la chiesa, comunità che vive dello Spirito di Cristo e ne annuncia il messaggio al mondo, questo "tempo forte" spontaneo ha una singolare importanza missionaria. I paladini della secolarizzazione arriccino pure il naso di fronte a queste manifestazioni di dubbia religiosità: la chiesa non può disattendere l’opportunità che le viene offerta, se la sua causa è realmente quella dell’uomo in carne ed ossa, piuttosto che quella di una fede ideale. Oltretutto queste manifestazioni di religiosità popolare non sono di per sé estranee allo spirito cristiano; esse sono cresciute in casa nella chiesa.

Le due commemorazioni liturgiche sono sorte in epoche diverse e sono state accostate solo occasionalmente. Ma ambedue traggono origine dalle usanze funerarie dei primi cristiani. Queste si sono modellate sui costumi del mondo greco-romano, in cui il cristianesimo si è trapiantato dopo il suo esodo dalla Palestina. Come i pagani, i discepoli di Cristo usavano portare fiori e profumi sulle tombe dei loro morti, situate al di fuori della città, e si radunavano per il pasto funebre attorno al seggio dello scomparso, lasciato simbolicamente vuoto. I cristiani introdussero due sole innovazioni, apparentemente di poco conto: invece di cremare i cadaveri, preferivano inumarli; e al posto di

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celebrare la ricorrenza della nascita del defunto festeggiavano ogni anno il giorno della sua morte.

Queste modifiche marginali esprimevano in realtà una trasformazione radicale nel modo di concepire la vita e la morte. I cristiani preferivano deporre nella terra i loro morti così come il corpo senza vita del loro Signore era stato deposto nel sepolcro per uscirne colmo di vita nuova: esprimevano così la loro speranza nella risurrezione. Anche la seconda innovazione — festeggiare come natale del defunto il giorno della sua morte — presupponeva una fede audace da parte dei discepoli della nuova religione. Nel mondo romano l’anniversario di natale più solennizzato era il giorno dell’accesso al trono dell’imperatore. Per i cristiani ogni credente, patrizio o plebeo che fosse stato nella sua vita, diventava imperatore il giorno della sua morte: era questo il suo natale, lo spartiacque tra una vita di obbedienza di discepoli e una partecipazione alla regalità di Cristo, nascosta per ora, ma destinata alla piena manifestazione al suo ritorno glorioso ("parusia").

Oltre alle celebrazioni individuali, ogni famiglia cristiana ricordava in un giorno particolare il natale di tutti i suoi parenti defunti. A Roma nei primi secoli dell’èra cristiana questo ricordo collettivo si celebrava il 22 febbraio. Agli inizi del secolo XI a Cluny, il celebre

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monastero benedettino della Borgogna, l’abate Odilone istituì una festa di "commemorazio-ne" di tutti i fedeli defunti il 2 novembre. L’usanza e la data si affermarono per tutta la chie-sa.

Fin dalla più alta antichità cristiana tra i defunti ricordati si attribuì una considerazio-ne speciale ad alcuni che si erano distinti nella sequela di Cristo. In primo luogo venivano i "testimoni" per eccellenza, cioè i martiri. La comunità cristiana come tale rendeva a coloro che avevano versato il sangue per Cristo gli onori con cui ogni famiglia circonda i propri defunti. Nel giorno del natale del martire tutta la comunità locale si radunava presso la tomba del testimone della fede per «celebrare nella gioia e nell’allegrezza l’anniversario del suo martirio», come scrivevano i cristiani di Smirne a proposito del loro vescovo Policarpo.

Ciò avveniva durante i secoli della persecuzione. In seguito il ricordo della comunità andò ad altri testimoni eminenti della fede: monaci e asceti del deserto, vergini, vescovi e pastori insigni. Anche di loro si celebrò il natale, con una liturgia sempre meno legata ai costumi funebri del mondo romano. La festa di un santo era motivo di riflessione per la comunità; sia le pagine bibliche che venivano lette nella liturgia della parola sia le antifone composte appositamente tratteggiavano alcuni aspetti della santità cristiana proposti all’imitazione

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dei fedeli. Una festa abbracciava tutti i santi in un’unica celebrazione. Questa "memoria" si celebrava a Roma fin dal v secolo nella prima domenica dopo Pentecoste. In seguito papa Gregorio la trasportò al 1° novembre, che è rimasto a tutt’oggi la data della celebrazione della festa di tutti i santi per l’intera chiesa cattolica.

Verso un futuro di qualità

Questa è la cronaca, tutto sommato piuttosto spoglia di elementi sensazionali, dell’introduzione della duplice commemorazione di tutti i santi e di tutti i defunti all’inizio di novembre. Ma quando abbiamo raccontato il passato non abbiamo ancora reso interamente giustizia al senso di ciò che la chiesa celebra. Le sue feste liturgiche sono per l’uomo d’oggi, che nel groviglio di cammini che gli offre il presente, cerca una strada che parli di un futuro degno. La chiesa presenta il Vangelo al mondo come una forza per la gestazione dell’avvenire.

All’umanità di oggi non sembra promesso un futuro. Il formicaio umano che brulica sotto il cielo ha sposato il disordine. La degradazione dei rapporti umani ha infettato anche la natura. L’equilibrio con la "madre terra", violata da figli irresponsabili, è rotto.

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Sempre più numerosi i profeti di sventura parlano del "malpasso" in cui si è venuta a trovare l’umanità.

L'homo sapiens dà prova di aver fallito il test d’intelligenza. Per questo le soluzioni globali di modello totalitario seducono sempre più gli sfiduciati. L’autorità suprema a cui si affida può essere il capo carismatico o anche la scienza. È ben nota la soluzione di tipo cinese. Ma ne esiste anche una di tipo "americano", che domanda credito in nome della scienza. Se ne sono fatti profeti gli psicologi comportamentisti. Nella loro concezione l’uomo è ridotto a una macchina che funziona con l’energia del bisogno. Il comportamento umano è quantificato e ridotto a singole unità "stimolo-risposta"; tra lo stimolo e la risposta, un vuoto organismo. Gli psicologi dicono di averlo imparato studiando il comportamento dei ratti in laboratorio. Perché non mettere ordine nel mondo considerando l’uomo niente più che "un grande ratto bianco"? Ovvero ― arrivava a concedere lo zoologo D. Morris in un libro destinato al successo — come uno scimmione; l’uomo, la "scimmia nuda", una tra le trecento varietà di scimmie, che si distingue dalle altre per l’unità caratteristica di non essere pelosa...

La manipolazione dell’uomo sembra essere l’ultima risorsa per uscire dall’impasse e ottenere una società che funzioni. Per questo le

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opere narrative che fanno puntate utopistiche nel mondo del futuro sono così inquietanti. Che si tratti de Il migliore dei mondi di A. Huxley o di Walden due di B.F. Skinner, sentiamo il fantasma della manipolazione totale, resa ormai possibile dalla tecnica e auspicata dalla psicologia, aleggiare sul nostro futuro.

La speranza cristiana si ribella a questa prospettiva. Essa annuncia un Dio che non potrebbe entrare in alleanza con un uomo completamente vuoto di mistero. Un uomo-robot, un uomo sprovvisto di nostalgia, sarebbe perso per il dialogo con Dio; ma sarebbe perso anche per qualsiasi progetto di civiltà che non volesse assomigliare all’organizzazione funzionale del termitaio.

In un periodo di crisi di civiltà gli interrogativi sulla vita e sulla morte vanno di pari passo. «La morte è la fidanzata della vita», dice un candido proverbio malese. Il destino riservato ai morti è un indice se l’umanità conservi o no una speranza per i vivi. L’attenzione che i credenti rivolgono ai santi parla della pienezza di cui vorrebbero piena la vita. Le due commemorazioni gemelle di tutti i santi e di tutti i defunti, accostate accidentalmente nel corso dell’evoluzione della liturgia cattolica, vengono ad essere le due persiane di una finestra aperta sul futuro.

Per chi progetta per l’umanità un futuro di

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massa, i santi e i morti sono compagni scomodi. L’uomo che si ostina a riservare loro un posto significativo nel suo progetto culturale non è ancora disponibile per l'unidimensionalità. Chi piange, contesta l’appiattimento antropologico; chi conserva la speranza della risurrezione, si ribella alle sofferenze prive di senso; chi continua a cercare negli uomini che passano sulla terra modelli di vita piena dello Spirito di Cristo, alimenta un’utopia che non si rassegna a un modello totalitario di umanità e proclama la sua speranza di fronte al vuoto della morte.

Le due celebrazioni che aprono il mese di novembre ci appaiono profondamente imbricate; l’una ha bisogno dell’altra per sviluppare la pienezza del suo significato. La chiesa, proponendo il culto dei santi accanto a quello dei morti, fa capire che non vuol lasciarsi imprigionare nel ruolo di vestale della memoria degli antenati. Non è una comunità nostalgicamente ripiegata sul passato, bensì proiettata verso l’avvenire; il suo interesse va alla vita, per promuovere la qualità della vita. Perciò osa proporre, in contrasto con i modelli di comportamento imposti dalla società unidimensionale, i discepoli di Cristo la cui vita ha il rilievo della pienezza.

Questo lo sfondo, in tutte le sue dimensioni, di cui hanno bisogno le considerazioni seguenti. Esse si concentreranno sul culto dei morti

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e sulle sue implicazioni per la comunità che annuncia il vangelo. Questa scelta è suggerita dal fatto che è proprio la pietà verso i morti che dà il tono al "tempo forte" del popolo cristiano nel mese di novembre. Focalizzando la nostra attenzione sui defunti, eviteremo di considerare ingenuamente in parallelo i santi e i morti, come se si trattasse di due categorie di persone distinte. Sono solo le due forme complementari in cui portiamo con noi il nostro passato nel cammino verso un futuro di qualità.

Camminare con questi compagni può essere scomodo; ma non per i credenti che fanno la strada insieme a Gesù, il crocifisso e il Santo.

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PARLARE DELLA MORTE:

C’È DISCORSO E DISCORSO

La morte libresca

I discorsi sulla morte nascono male: pregiudizialmente grava su di essi il sospetto di morbosità o d’impostura. Un uomo equilibrato, in buoni rapporti con la vita, amerebbe forse occuparsi di cose lugubri? E inoltre: chi può parlare della morte con cognizione di causa? Chi l’ha conosciuta non può più parlarne.

Nei confronti della morte siamo come i vulcanologi rispetto all’oggetto del loro studio. I vulcanologi non possono calarsi nelle fauci del vulcano per esaminarlo da vicino, né riescono a piegarlo alle leggi della sperimentazione scientifica. Perciò sono obbligati a ricorrere a mezzi indiretti: misurare a distanza la temperatura del cratere, studiare le pietre scagliate lontano dal mostro sbuffante, analizzare la lava e i detriti quando si sono raffreddati. Non meno inaccessibile è la morte. Il linguaggio corrente

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sottolinea: si dice di qualcuno che è "sfuggito" alla morte, che l’ha "sfiorata", che l’ha "vista da vicino", «nessuno ne è mai tornato», osserva la saggezza popolare. Quel che si afferma sulla realtà della morte ha un carattere emozionale che irrita chi ama le idee "chiare e distinte". Per i figli della mentalità scientifica qualsiasi discorso sulla morte sarà insanabilmente viziato, perché incapace di rispondere a una verifica sperimentale.

Malgrado le difficoltà insormontabili connesse col parlare della morte, i discorsi su di essa proliferano. Da sempre i filosofi hanno fatto della morte uno dei temi privilegiati della loro riflessione sull’uomo. Questa tendenza ha celebrato i suoi fasti con la contemporanea filosofia esistenzialista. L’influenza più profonda l’ha esercitata Martin Heidegger. Sviluppando la prospettiva di K. Jaspers, che vede nella morte una "situazione-limite" (cioè, con le sue parole, una «situazione decisiva, che è collegata con la natura umana in quanto tale ed è inevitabilmente data con l’essere finito»), il filosofo ci invita a superare l’atteggiamento dell'uomo banale che, per mascherare la propria angoscia, spinge la morte al termine del corso temporale della vita, riducendola a un puro fenomeno biologico di decesso. La morte dell’uomo non è un semplice fatto fisiologico, situato senza problema e senza mistero nell’ordine delle cose naturali. Essa ha, piuttosto,

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un rapporto specifico con l’esistenza umana. La morte dell’uomo non è riducibile a un fatto oggettivo e localizzabile; ciò che esiste è invece l’uomo come "essere-per-la-morte".

Per i filosofi esistenzialisti la morte non è dunque la semplice cessazione del nostro essere: il morire è una modalità dell’esistere, presente in ogni attimo della vita quale sua possibilità limite. Il loro ragionamento va esattamente in senso contrario a quello degli antichi epicurei i quali, per sottrarsi al pensiero angoscioso della morte, suggerivano di considerarla come semplice decesso dell’essere vivente. «Quando ci siamo noi, la morte non c’è; e quando c’è la morte, non ci siamo noi», insegnava Epicuro. La morte intesa in senso esistenziale esige di essere inclusa nel vivere, come presenza che rivela il significato più profondo dell’esistenza.

Coloro che fossero intimiditi dagli austeri ragionamenti filosofici, pensino al film di Bergman, Il settimo sigillo: la presenza del glabro personaggio incappucciato che gioca a scacchi col cavaliere crociato e, visibile o invisibile, l’accompagna ad ogni passo, dando alla vita quotidiana profondità, urgenza e drammaticità, è la traduzione figurativa del pensiero dei filosofi esistenzialisti.

Assorbita nel nostro esistere umano, la morte getta una luce di unicità e irrepetibilità sulla vita presente. Accettare il proprio "essere-per-la-morte"

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vuol dire entrare nell’esistenza autentica. Quando l’uomo ha davanti agli occhi la morte come la possibilità più reale e il tessuto stesso di cui è fatta la sua esistenza, dà all’attimo presente il carattere di pienezza assoluta. La morte, recuperata da quella specie di limbo ai confini della vita in cui inconsciamente la spingiamo per difendercene, viene riconosciuta presente in ogni istante della vita dell’uomo. Questa coscienza è sgradevole ma tonificante; toglie all’esistenza il suo artificiale sapore mellifluo ma le conferisce in compenso un carattere del tutto personale. Accettando che la mia vita sia impastata di morte, ritrovo ciò che la mia esistenza ha di unico.

Il modo in cui il pensiero filosofico moderno considera la morte sarebbe forse una variante della vecchia predica sull’inevitabilità della morte, il memento mori degli autori spirituali? Nessuno è tanto ingenuo da confondere i due tipi di discorso. Il ricordo continuo della morte aveva uno scopo ascetico: era destinato. a staccare l’uomo dal glutine della vita presente per indirizzarlo alle cose eterne; la visione esistenzialista della morte mura invece l’uomo nella più completa immanenza, togliendo alla morte qualsiasi pretesto per inquietare l’uomo in senso trascendente.

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Le scienze dell’uomo scoprono un tabù

Filosofi e letterati, poeti e predicatori hanno sempre fatto della morte e del morire uno dei loro temi preferiti. Appare scontato che continuino a parlarne, pur variando le loro problematiche. Oggi però si nota un fatto nuovo. Anche le cosiddette scienze dell’uomo ― sociologia, psicologia, antropologia culturale — cominciano a mostrare interesse alla morte e al morire. Il loro approccio è evidentemente diverso. Anche queste scienze sono tenute a distanza dalla morte, abisso di lava incandescente. Non possono studiare la morte in sé, ma solo i suoi riflessi: i costumi funebri, gli atteggiamenti sociali, il comportamento delle persone che si avvicinano al trapasso e la reazione dell’ambiente.

Il principale spettroscopio che queste scienze hanno a disposizione è l’osservazione del linguaggio: quando e come si parla della morte. Proprio a questo proposito una delle osservazioni più sorprendenti è stata quella della cura che tutti mettono nell’evitare di parlare della morte. Gli studiosi hanno dovuto cominciare col costatare che, al di fuori dell'orticello filosofico-letterario-spirituale, intorno alla morte aleggiava un silenzio imbarazzato.

Gli storici del costume non hanno mancato di rilevare il carattere relativamente recente di questo fatto, i cui inizi possono essere fatti

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risalire alle prime decadi del nostro secolo. Intorno a quest’epoca è avvenuto un rivoluzionamento nel costume sociale: la morte, questa compagna familiare delle generazioni passate, è scomparsa dal linguaggio, il suo nome è diventato interdetto. Al posto delle parole e dei segni che i nostri antenati avevano moltiplicato per ricordare la morte, è dilagata un’angoscia diffusa e anonima. «La morte è diventata un tabù, una cosa innominabile, e, come una volta il sesso, non bisogna nominarla in pubblico. Nel xx secolo la morte ha rimpiazzato il sesso come principale interdizione. Una volta si diceva ai bambini che nascevano in un cavolo, ma essi assistevano alla grande scena degli addii, nella camera e al capezzale del morente. Oggi i bambini sono iniziati, fin dalla più giovane età, alla fisiologia dell’amore e della nascita, ma quando non vedono più il nonno e domandano il perché, in Francia si risponde loro che è partito per un viaggio in terra lontana e in Inghilterra che riposa in un bel giardino in cui spunta il caprifoglio. Non sono più i bambini che nascono nei cavoli, ma i morti che scompaiono tra i fiori» 1.

Le pubblicazioni che da alcuni anni sociologi e psicologi hanno cominciato a dedicare ai comportamenti di fronte alla morte invalsi

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nella nostra società hanno dovuto preliminarmente infrangere un tabù. Era inevitabile che gli studiosi s’interrogassero sul perché di questo tabù, sul ruolo che gioca nella nostra cultura, sui motivi delle trasformazioni avvenute e di quelle in atto. In questo tipo di interrogativi si riconosce ciò che differenzia il discorso sulla morte fatto dagli studiosi del comportamento umano dal discorso filosofico-letterario. Mentre quest’ultimo — la "morte libresca", come è stato chiamato — considera l'"uomo" e la "natura umana" in generale, le scienze dell’uomo sottolineano la storicità, e quindi la mutevolezza, dei comportamenti; non mirano a una conoscenza universale, ma alla comprensione di quel che avviene qui e ora (ivi compresi i fatti del passato che spiegano il presente).

Uno dei pionieri in questo genere di studi, il sociologo Roger Caillois, ha così teorizzato il tipo di interesse che porta lo studioso dell’uomo e del suo comportamento a considerare la morte: «Una civilizzazione non è definita solamente dal quadro generale delle conoscenze teoriche e pratiche, dal codice morale e dalla giurisprudenza in vigore, dal grado di perfezione delle belle arti, delle arti minori e delle arti della vita — buone maniere, cucina, igiene —, infine dal numero, diversità e potenza delle industrie e delle tecniche. Essa dipende anche dalla maniera in cui gli uomini si rappresentano

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la morte e ciò che viene dopo, dalle ragioni che si danno per affrontarla, dalle consolazioni in uso per pacificare il dolore dei parenti del defunto, dalla sorte prevista per costui nell’aldilà» 2.

La definizione non deve trarre in inganno. Se gli studiosi dell’uomo mettono a confronto le diverse soluzioni, a livello di comportamento come nel campo dei miti e delle ideologie, date dalle differenti culture ai problemi posti dal morire umano, non è solo per accrescere il loro bagaglio di conoscenze sull’uomo. La finalità è sempre, più o meno direttamente, di ordine pratico. Si tratta di curare i disagi che derivano da comportamenti non funzionali o non più in armonia con le trasformazioni culturali sopravvenute. L’interesse che ha indotto questi studiosi a occuparsi della morte nella nostra civilizzazione era di tipo umanitario: contribuire a superare uno stato di malessere, tanto più penoso in quanto sottaciuto. L’eliminazione della morte dalla nostra esperienza quotidiana e il velo di silenzio con cui la nascondiamo sono come una benda su una piaga purulenta: non la si può guarire se prima non si ha il coraggio di strappar via l’ingenuo rimedio. Questo è il tipo di discorsi sulla morte da cui vogliamo lasciarci provocare.

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Il cristiano parla della morte da "mistico"?

Abbiamo così individuato due diversi approcci della morte. Ora ci domandiamo ulteriormente: di che tipo è il discorso cristiano sulla morte? Si situa più dalla parte della problematica filosofico-letteraria, alla ricerca della natura dell’uomo e dei suoi interrogativi eterni, o dalla parte delle scienze dell’uomo, intese a mettere a fuoco i disagi contingenti legati alla storicità e alle trasformazioni culturali?

La comprensione della specificità del discorso cristiano è bloccata da alcuni pregiudizi. Il più diffuso è quello che considera l’insegnamento cristiano sulla morte come un abile armamentario simbolico e concettuale messo in atto per svuotare la morte del suo inquietante potere di distruzione. Con la prospettiva di un aldilà e la promessa di un’altra vita, il cristianesimo annullerebbe l’ansia che afferra l’uomo di fronte alla prospettiva di dover morire. A sostegno della tesi non è difficile spigolare negli scritti neotestamentari, specialmente in S. Paolo, affermazioni trionfali che cantano la vittoria sulla morte per il credente in Gesù Cristo, fino all’appassionato «desidero andarmene ed essere con Cristo» (Fil 1,23).

È innegabile: questa dimensione esiste negli scritti di fondazione del cristianesimo. Ma non è il tutto. Soprattutto non è quanto l’esperienza

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spirituale che si richiama a Gesù Cristo possiede di peculiare. Il trionfo sulla morte il cristianesimo lo condivide con ogni religione, anzi con ogni esperienza mistica, anche quelle che si esprimono più con i moduli della poesia che con quelli della religione. Tanto per fare un esempio, la pienezza di vita spirituale che il poeta Tagore lascia trasparire nelle ultime poesie della sua raccolta Gitanjali lo libera dall’angoscia della morte altrettanto efficacemente che una speranza religiosa:

«Ho ricevuto il mio congedo. Ditemi addio, fratelli miei! M’inchino a voi tutti e me ne parto.

Ecco, io rendo le chiavi della mia porta ― e rinuncio ad ogni diritto sulla mia casa. Solo vi chiedo buone parole di commiato.

Per molto tempo siamo stati vicini, ma ho ricevuto più di quanto potessi dare.

Ora è sorto il giorno, e il lume che rischiarava il mio angolo buio è spento. Risuona l’appello: io son pronto al mio viaggio» 3.

L’anima del contemplativo, il cui tessuto è fitto di rapporti umani profondi e di comunione con la natura, non teme lo strappo della morte. È cullata da una fiducia audace, che neppure il salto nel buio fa crollare.

In un’altra poesia Tagore si esprime con l’immagine tradizionale nel linguaggio religioso

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della morte: quella della morte come nuova nascita:

«Non m’accorsi del momento in cui varcai, la prima volta, la soglia di questa vita.

Qual fu la potenza che mi schiuse questo vasto mistero come sboccia un fiore a mezzanotte in una foresta!

Quando al mattino guardai la luce, subito sentii che non ero uno straniero in questo mondo, e che l’inscrutabile senza nome e forma mi aveva preso tra le braccia sotto l’aspetto di mia madre.

E così pure nella morte, lo stesso ignoto mi apparirà come noto da sempre.

E poiché amo questa vita, so che amerò anche la morte.

Il bimbo piange quando la madre lo stacca dal seno destro, ma trova subito conforto in quello sinistro» 4.

L’apostolo Paolo, da mistico e da poeta, può cantare la vittoria sulla morte con parole che si armonizzano con quelle grandi e nobili che ci è dato ascoltare dagli spiriti umani più elevati. Ma il discorso cristiano ha anche altri accenti, che dipendono dalla vicenda singolare su cui è fondato.

All’origine del cristianesimo non troviamo, infatti, un saggio che si è staccato da questo mondo, grazie all’ascetica o alla contemplazione mistica quali antidoti contro l’angoscia della morte. Il fondatore del cristianesimo è un

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uomo sul quale la morte ha celebrato uno dei suoi trionfi più macabri: dopo averlo investito col suo corteo di non-senso, paura e ripugnanza, lo ha spazzato via con violenza brutale.

Qualcuno ha opportunamente richiamato il contrasto tra la morte di Gesù e quella di Socrate 5. Mentre il filosofo pagano conclude la sua esistenza solennemente e serenamente, in un’aura di sacra celebrazione — una "bella" morte ieratica —, Gesù muore di una morte esteticamente brutta: con tremore, e lacrime, e grida disperate di abbandono. Ambedue queste morti ci sono note grazie alla descrizione che successivamente ne hanno fatto i discepoli. Platone ha voluto idealizzare la morte di Socrate, presentandola come il suo ultimo atto di insegnamento. La vita da amico della verità ― come dice la parola stessa "filosofo" — lo aveva liberato da quella paura della morte che inquieta il comune dei mortali. Egli può salutare la morte come la grande amica che viene a liberare l’anima dalla prigione del corpo. Grazie alla morte entra nell'eternità, dove non esiste più la schiavitù del mondo visibile. Il Socrate descritto da Platone muore attorniato dai suoi discepoli, come il protagonista della più memorabile lezione accademica sull’immortalità dell’anima.

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I discepoli di Gesù, raccontando la sua morte senza abbellimenti, sapevano che avrebbero esposto il loro maestro a un confronto svantaggioso. Di fatto già nell’antichità i nemici del cristianesimo hanno rilevato il contrasto stridente tra la morte di Socrate e quella di Gesù. Eppure gli evangelisti non sono ricorsi ad alcuna preterizione. Non hanno taciuto dell’angoscia, della depressione e del bisogno struggente di conforto che hanno afferrato Gesù all’approssimarsi della morte. Hanno raccontato il modo in cui hanno visto morire Gesù: non come uno che abbia trasceso la condizione umana, ma piuttosto come un uomo che vi si aggrappi tenendola a piene mani.

Non si è staccato dalla vita come un frutto maturo; ne è stato piuttosto strappato come una ginestra che si abbarbica alla roccia. La chiesa delle origini in uno dei suoi inni più antichi ha espresso in forma poetica la sua professione di fede nell’incarnazione. La vita del Figlio di Dio è descritta come un movimento che lo porta non ad evadere dal basso verso l’alto, bensì a scendere verso il gradino più basso della condizione umana:

«Pur essendo di natura divina

non considerò un tesoro geloso

la sua uguaglianza con Dio;

ma spogliò se stesso,

assumendo la condizione di servo

e divenendo simile agli uomini;

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apparso in forma umana,

umiliò se stesso

facendosi obbediente fino alla morte

e alla morte di croce» (Fil 2,6-8).

Il discorso cristiano sulla morte si stacca da tutti gli altri proprio perché prende le mosse da un fatto che è unico e irriducibile a una categoria universale: la morte storica di Gesù di Nazaret. I credenti in Gesù accettano che la loro sapienza umana sia confusa, comprese le ammirevoli espressioni di sapienza che fanno da scudo all’angoscia della morte. Cominciano il loro discorso sulla vita e sulla morte a partire dal concreto storico che scandalizza le persone religiose e disgusta gli umanisti («Predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i giudei e follia per i pagani»: 1Cor 1,23). Secondo le parole di Pascal, «non solo noi non conosciamo Dio che per mezzo di Gesù Cristo, ma noi non conosciamo noi stessi che per mezzo di Gesù Cristo. Noi non conosciamo la vita, la morte, se non per Gesù Cristo. Fuori di Gesù Cristo noi non sappiamo che cos’è la nostra vita, né la nostra morte, né Dio, né noi stessi».

Abbiamo stabilito il luogo originale da cui parte il discorso cristiano sulla morte. Vediamo ora la direzione verso cui si muove. Anche in ciò il discorso cristiano si differenzia da quello filosofico e da quello delle scienze umane.

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La riflessione credente non cerca il "perché" della morte, né si dedica prammaticamente ad alleviare i problemi che la morte suscita nell’organizzazione mutevole della vita sociale. La parola di Dio attestata nella Scrittura ci illumina sul senso della morte all’interno del dialogo di salvezza tra Dio e l’uomo. Non è volta, dunque, direttamente né a rispondere a interrogativi di ordine antropologico (chi è l’uomo, che cosa avvenga di lui dopo la morte, o domande del genere), né a risolvere i suoi problemi psicologici, come potrebbe essere la sua ansia esplicita o repressa.

La Bibbia non è un libro che offra la risposta rassicurante all’uomo in cerca di una soluzione all’enigma del morire umano. Tutto quello che vi è detto sulla morte e sull’aldilà appare piuttosto in funzione del rapporto di alleanza con Dio, rapporto che si trasforma con il progressivo realizzarsi della storia della salvezza. Gli uomini in alleanza con Dio hanno attraversato momenti storici e situazioni culturali diverse; nel corso dei secoli si sono posti problemi diversi. Di conseguenza le rappresentazioni della morte, le concezioni antropologiche, l’interesse esistenziale per il problema stesso della morte hanno subito trasformazioni, talvolta profonde.

Nella Bibbia si riflettono tutte le diverse fasi in cui si è articolato il discorso credente sulla morte: con e senza la prospettiva di un’altra

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vita, nell’orizzonte dell’immortalità dell’anima e in quello della risurrezione per il corpo, in un’escatologia comunitaria e in una individuale. Domande e risposte nel corso del tempo hanno variato, proprio perché l’essenziale nel corso del tempo potesse continuare ad essere vissuto e annunciato: che cioè Dio è diventato il Dio dell’uomo, affinché l’uomo possa essere l’uomo di Dio, nella vita e nella morte. Questo essenziale è immutabile, non invece le diverse risposte contingenti date a interrogativi di volta in volta diversi, a seconda delle mutevoli antropologie che li sollevavano.

Incontro ai nuovi interrogativi con fiducia

Le precedenti considerazioni rischiano di suonare astratte. Possiamo tuttavia verificarne subito l’importanza se le applichiamo all’ultimo importante testo che ci viene dal magistero ufficiale della chiesa. Si tratta del paragrafo che la costituzione pastorale Gaudium et Spes dedica alla morte nel capitolo che tratta della «dignità della persona umana». Il documento ripropone la dottrina cristiana sulla morte come risposta all’interrogativo angosciato dell’uomo sul proprio avvenire. Ecco in quali termini è formulato l’interrogativo stesso:

«In faccia alla morte l’enigma della condizione umana diventa sommo. L’uomo non solo si

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affligge al pensiero dell'avvicinarsi del dolore e della dissoluzione del corpo, ma anche, ed anzi più ancora, per il timore che tutto finisca per sempre. Ma l’istinto del cuore lo fa giudicare rettamente, quando aborrisce e respinge l’idea di una totale rovina e di un annientamento definitivo della sua persona. Il germe dell’eternità che porta in sé, irriducibile com’è alla sola materia, insorge contro la morte. Tutti i tentativi della tecnica, per quanto utilissimi, non riescono a calmare le ansietà dell’uomo: il prolungamento della longevità biologica non può soddisfare quel desiderio di vita ulteriore che sta dentro invincibile nel suo cuore» (GS 18).

La condizione mortale getta dunque l’uomo in un interrogativo che lo dispone a comprendere e ad accogliere il messaggio cristiano. È perciò del tutto agevole per il documento conciliare che si interroga in questi termini rispondere presentando la dottrina cristiana sulla morte, nella formulazione che ha ricevuto in secoli di riflessione teologica. Dopo aver parlato della «felicità oltre i confini della miseria terrena» riacquistataci dal Cristo con la sua morte redentrice, il documento conclude:

«La fede, offrendosi con solidi argomenti a chiunque voglia riflettere, dà una risposta alle sue ansietà circa la sorte futura; e al tempo stesso dà la possibilità di comunicare in Cristo con i propri cari già strappati dalla morte dando la speranza che essi abbiano già raggiunto la vera vita presso Dio» (ib.).

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Il modo in cui il testo procede può lasciare perplesso uno spirito critico: la risposta è pertinente alla domanda, tuttavia si rimane con l’impressione che non è stato l’interrogativo a suscitare la risposta, ma piuttosto la risposta a guidare la formulazione dell'interrogativo. Proprio perché si presuppone una corrispondenza esatta tra l’interrogativo umano e la risposta cristiana, tra gli interrogativi dell’uomo d’oggi sono stati scelti quelli che sono suscettibili di ricevere la risposta cristiana già collaudata da alcuni secoli di insegnamento. Il testo, in altri termini, definisce come uomo autentico quello che rifiuta che la morte sia la rovina totale, l’ultima parola pronunciata sul destino della persona. A quest’uomo la chiesa propone la fede e la speranza della comunità cristiana. Ma il problema che sta a monte è proprio quello della domanda: gli uomini della civilizzazione occidentale moderna si pongono effettivamente circa la morte gli interrogativi presi in considerazione da questo testo?.

Sia ben chiaro che non è illegittimo costruire la domanda a partire dalla risposta. Colui che crede alla verità della risposta deve anche pensare che la vera questione è quella che permette alla risposta di essere capita ed accolta; e se non è in questo modo che gli uomini formulano l’interrogativo, bisogna raddrizzare la loro problematica. È comprensibile e legittimo,

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perciò, che l’insegnamento della chiesa cerchi di rendere sensibili gli uomini della nostra generazione a questa paura della distruzione definitiva e al bisogno di perennità che devono ben essere presenti in essi, anche se non ne sono coscienti.

Questo modo di procedere è indubbiamente legittimo, ma non può essere l’unico. Se il discorso cristiano sulla morte procedesse esclusivamente sul binario di domande sincronizzate a risposte già date, verrebbe sottratto al flusso della storia. Dio non parla all’"uomo" universale, ma agli uomini concreti, inseriti in costellazioni culturali che modificano profondamente le questioni che si pongono e le rappresentazioni che si fanno della vita e della morte. Ciò vuol dire, in concreto, che la comunità credente rimane aperta a interrogativi anche molto divergenti da quelli cui si è già trovata una risposta. Essa non propone solo gli interrogativi che le sono familiari; recepisce anche quelli che provengono dall’esistenza quotidiana degli uomini, lasciandoseli dire dalle scienze dell’uomo.

Poiché ha fede nello Spirito di Pentecoste che la guida, la chiesa deve osare oggi di uscire dal circuito degli interrogativi appropriati e delle risposte corrispondenti. È il momento di presentarsi davanti ai tribunali, in cui sarà chiesto ragione ai cristiani della «speranza che è in loro» (cf 1Pt 3,15); di accedervi con la

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beata incoscienza dei discepoli che non si affidano alle risposte bell’e fatte, ma allo Spirito che suggerirà loro, sul momento, quello che dovranno dire (cf Mt 10,19).

Perciò, accanto alla preoccupazione pedagogica di educare gli uomini del nostro tempo a porsi gli interrogativi giusti circa la morte ― così come fa il concilio — c’è posto per l’ascolto sincero delle loro questioni spontanee. La storia dei costumi, la sociologia e la psicologia ci diranno quali sono le usanze, le rappresentazioni immaginarie e le angustie psicologiche di coloro che muoiono oggi e di coloro che li attorniano. Le prenderemo in considerazione nella convinzione credente che Dio propone la sua alleanza anche all’uomo d’oggi. La sua parola è più ricca di quanto siamo abituati a leggervi. La chiesa osa credere che è rivolta a lei la parola di Gesù sullo scriba istruito in quel che riguarda il regno dei cieli, il quale, come un avveduto padrone di casa «tira fuori dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (cf Mt 1-3,52).

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II

MORIRE, CONIUGATO AL PRESENTE

Quando ai morti ci pensava la chiesa

Abbiamo preso l’abitudine alle manifestazioni di pietà verso i defunti cui dà luogo la commemorazione del 2 novembre: la processione ai cimiteri, le corone di fiori, la decorazione delle tombe, le preghiere di suffragio. Queste scene ci sono così familiari che siamo portati a pensare che quanto si svolge sotto i nostri occhi sia l’espressione "naturale" della sensibilità umana verso i morti. Non ci mettiamo a dubitare se sia sempre avvenuto così, o se altrove nel mondo avvenga diversamente. Questa convinzione dipende da un fenomeno di miopia. Abbiamo bisogno degli occhiali della storia per avvertire le trasformazioni avvenute, e di quelli che ci fornisce l’antropologia comparata per conoscere le soluzioni diverse che altre culture danno agli stessi problemi. Ci accorgeremmo allora che la morte indossa abiti di fogge più diverse di quella in cui siamo soliti conoscerla oggi.

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Non solo ciò che accompagna la morte, ma il morire stesso si trasforma. Cambia la scena esterna, man mano che l’asettica e impersonale stanza di ospedale sostituisce la casa e il letto propri; mutano soprattutto le rappresentazioni mentali e gli stati emotivi con cui si va incontro alla morte. Il nostro morire d’oggi non assomiglia a nessun altro. La morte è cambiata, e le scienze dell’uomo ce lo documentano. Lasciamoci condurre da esse attraverso i dati ormai numerosi che dobbiamo agli studi recenti, procedendo dall’osservazione dei fenomeni più esteriori ed evidenti all’analisi delle trasformazioni più intime della mentalità.

Uno studioso francese della storia dei costumi, Philippe Ariès, ha dedicato quindici anni delle sue ricerche e riflessioni agli atteggiamenti davanti alla morte nelle nostre culture cristiane occidentali. Dobbiamo alla sua opera la coscienza che la nostra sensibilità contemporanea verso i morti e i cimiteri, quella che noi siamo portati a credere antichissima e universale, è in. realtà di origine recente; più precisamente si è formata durante l’illuminismo e si è diffusa nel secolo scorso in clima di romanticismo. Egli ritiene che il culto moderno dei morti si sia affermato grazie alla sua semplicità senza dogma né rivoluzione, senza soprannaturale e quasi senza mistero; esso aveva perciò quanto era necessario per renderlo facilmente assimilabile da una cultura avviata

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alla secolarizzazione. «Assimilato tanto dalle chiese cristiane che dai materialisti atei, il culto dei morti è diventato oggi la sola manifestazione religiosa comune agli increduli e ai credenti di tutte le confessioni. È nato nel secolo dei lumi, si è sviluppato nel mondo delle tecniche industriali, poco favorevoli all’espressione religiosa, e tuttavia è stato così ben naturalizzato che si sono dimenticate le sue origini recenti. Senza dubbio ciò è avvenuto perché corrispondeva giustamente alla situazione dell’uomo moderno e in particolare al posto occupato nella sua sensibilità dalla famiglia e dalla società nazionale» 6.

La visita al cimitero, alla tomba di famiglia, momento centrale del culto dei morti, pur così radicata nel costume moderno, non è una pratica che si riallacci ad usi antichi. Per lungo tempo il nostro occidente ha avuto altre usanze e altre concezioni della morte. Il Medioevo non ha conosciuto i cimiteri del nostro tipo. Neppure esisteva un interesse esplicito per la sorte terrena del corpo. Questo veniva, in un certo senso, abbandonato alla chiesa. L’edificio del culto con i suoi annessi veniva ad essere una specie di grembo di mater dolorosa che custodiva il sonno dei morti, nell’attesa della risurrezione. L’unica preoccupazione

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era quella di deporre i cadaveri nei pressi del santuario: ad sanctos, cioè là dove si celebrava l’ufficio divino ed erano venerate le reliquie dei santi. Naturalmente non mancavano le discriminazioni: mentre i potenti e i ricchi erano sepolti nei posti più ambiti nell’interno della chiesa, ai poveri erano destinate sistemazioni più scadenti ai limiti del recinto sacro, in fosse comuni. Ma simili differenze non ferivano allora la sensibilità quanto oggi. Ciò che si sentiva di più era invece il valore comunitario di quest’assembramento di dormienti presso le reliquie dei santi, in attesa del risveglio finale.

Con questa pratica la cristianità aveva infranto una delle interdizioni più solenni dell’antichità greco-romana: la proibizione di seppellire i morti entro il recinto della città. Anche il cristianesimo delle origini si era per lungo tempo attenuto a tale norma. Poi la devozione aveva rotto gli argini della proibizione. Gli uomini di chiesa vedevano un interesse pastorale in questa familiarità con i morti, in quanto ritenevano che inducesse i viventi a pensare alle cose dell’anima e a fare preghiere di suffragio.

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I cimiteri: sentimento e retorica

Nei primi secoli dell’epoca moderna le rappresentazioni religiose e secolari della morte cambiarono; la situazione delle sepolture rimase invece per lungo tempo invariata: si continuò a seppellire così come si era fatto nel Medioevo. I cimiteri salirono agli onori delle cronache verso la metà del secolo XVIII. Per lo spirito illuminista le sepolture nelle chiese e nel recinto circostante divennero insopportabili. La motivazione più frequente era quella profilattica. Si inventarono le storie più orripilanti su contagi, miasmi ed epidemie; l’opinione pubblica si appassionò e si lasciò trasportare. In breve, non si tollerarono più sepolture all’interno della città. Le leggi repubblicane francesi, e poi napoleoniche, che allontanavano i cimiteri dai centri abitati, apparivano come il simbolo della modernità contro l’oscurantismo medievale.

Ugo Foscolo, che pur scriveva il suo Dei sepolcri per protestare contro la "nuova legge" che «impone oggi i sepolcri fuor de’ guardi pietosi», condivideva l’esecrazione moderna per le pratiche medievali; pensava che quando i corpi erano sepolti nelle chiese «agl’incensi avvolto de’ cadaveri il lezzo i supplicanti contaminò», e che le città furono «meste d’effigiati scheletri».

Ma già nella poesia del Foscolo avvertiamo

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una trasformazione nella sensibilità. La vicinanza dei cimiteri non inquietava più; anzi, gli abitanti delle città sentivano il bisogno di avere sotto gli occhi le tombe dei grandi uomini del passato, come genii tutelari. Mentre l’Illuminismo aveva allontanato con ribrezzo le tombe dei morti dal luogo dove abitavano i vivi, ora non si concepiva più una città senza cimitero, senza cioè il santuario del culto dei morti, di recente invenzione. Si riteneva che gli uomini del passato continuassero a parlare ai vivi dalle tombe: «a egregie cose il forte animo accendono l’urne dei forti», commenta ancora il Foscolo.

Altri temi rafforzeranno la nuova religione dell’epoca romantica: il patriottismo per esempio. Ben presto si comincerà a venerare in modo speciale la tomba dei caduti per la patria. Dopo la grande guerra (1914-1918) non ci sarà cittadina senza il suo monumento ai caduti; alla fine della seconda guerra mondiale (1939-1945) basterà solo allungare la lista degli "eroi" e aggiornare le cifre dei caduti. La tomba del milite ignoto sarà promossa al rango dei luoghi più sacri della città moderna; i rappresentanti ufficiali della nazione vi celebrano i riti solenni del culto del ricordo. L’ideologia implicita è che la società è composta allo stesso tempo di morti e di vivi, e che i morti sono altrettanto significativi e necessari dei vivi.

Il culto dei morti ha trovato inoltre nella

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famiglia un’altra fonte di ispirazione. In un mondo mutevole, in una società mobile, la tomba è diventata la vera casa di famiglia. Il bisogno di riunire in un luogo, preservato e chiuso, i morti della famiglia, corrisponde a un sentimento nuovo, tipicamente moderno. Sorto nelle classi borghesi all’inizio del XIX secolo, si è esteso in seguito a tutte le classi sociali. L’affetto che lega i membri viventi della famiglia è trasferito sui morti. Cacciati ovunque, i buoni sentimenti celebrano i loro fasti intorno alle tombe. Al contrario della città, dispersiva e disumana, il cimitero è il segno della solidarietà dei viventi.

Dal profilo di sviluppo storico che abbiamo tracciato risulta che il culto delle tombe e dei cimiteri che si è sviluppato nella nostra cultura ha un’ispirazione del tutto indipendente dal cristianesimo. Il ricordo conferisce al morto una specie di immortalità che prescinde da qualsiasi fede religiosa. Dacché sono diffuse le nuove usanze funebri, proprio gli agnostici sono diventati i visitatori più assidui delle tombe dei loro parenti. Anche coloro che non vanno mai in chiesa non mancavano di recarsi al cimitero, di infiorare le tombe, di raccogliersi nella compagnia spirituale del morto. Ma il culto sociale e familiare dei morti, malgrado le sue origini illuministe e positiviste, è stato così ben assimilato dai cristiani, specialmente nei paesi cattolici, che è stato creduto un prodotto della fede e della speranza religiose.

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Dalla "buona morte" alla "bella morte"

Proprio nei paesi di tradizione cristiana è possibile osservare, da circa un terzo di secolo, un rivoluzionamento delle usanze e dei sentimenti che erano soliti accompagnare il culto dei morti e il processo del morire. Anzi, è la morte stessa che sta scomparendo dall’orizzonte dell’uomo moderno. Al morente è stata tolta la sua morte, ai sopravvissuti la facoltà di esprimere il loro cordoglio. Ciò che prima era comandato dagli usi sociali ora è sentito come indecente. Cerchiamo di vedere più da vicino quali sono quelle trasformazioni di costume alle quali, come dicevamo, gli storici ci hanno reso sensibili.

È cambiato lo scenario del trapasso. Il morente non decede più a casa, circondato dai propri cari, ma all’ospedale, e in solitudine. Prima che iniziasse il rivolgimento di costume a cui stiamo assistendo, l’uomo era il protagonista della propria morte. La "bella morte" era un suo diritto-dovere; se egli stesso non si accorgeva dell'approssimarsi dell’ora fatale, spettava ad altri avvertirlo. Morire era un’arte; i libri di spiritualità che descrivevano l'ars moriendi erano un genere letterario molto diffuso verso la fine del Medioevo. Un’arte, del resto, che si apprendeva dal vero, guardando morire, fin da piccoli, i vecchi e i meno vecchi della propria famiglia. Nessuno pensava che

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fosse indecente ammettere i bambini nella camera dei morenti; si pensava piuttosto che fosse disumano tenerli fuori.

Oggi la morte viene a chiudere una vita nella clandestinità. Il trapasso ideale è quello in cui il morente ignora la propria morte. La "bella morte" sostituisce la "buona morte". Alcuni tratti di questi due diversi modi di morire sono esattamente opposti. La "morte più bella" tende ad essere, nell’immagine sociale più accettata, la morte di cui neppure ci si accorge: una morte rapida, istantanea, non necessariamente violenta e brutale, ma in ogni caso una morte che "non si trascina". La cosa sorprendente è che questa morte improvvisa, incosciente e senza sofferenza, ha proprio le caratteristiche di quella che un tempo era ritenuta dalle persone religiose una "cattiva morte". Si pregava per essere liberati da questo genere di morte: a subitanea et improvisa morte, libera nos, Domine. È la morte che evita l’agonia, con le sue sofferenze fisiche e morali: ma priva del Viatico e dei sacramenti. I devoti chiedevano la grazia di essere preservati da questo supremo male mediante l’«esercizio della buona morte». La "buona morte" implica una coscienza lucida, una preparazione agli ultimi momenti accettati sotto la forma che Dio vorrà; è rivolta verso l’avvenire, verso un dopo-morte carico di speranza. La "bella morte" invece viene improvvisa, proprio come

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il ladro di notte da cui mette in guardia il Vangelo; non dice riferimento a nessun futuro, ma solo a un presente di dolore da cui libera. A coloro che attorniano il morente si chiede l’abilità di sapergli nascondere il suo stato. La loro massima ambizione è quella di riuscire ad ottenere che la morte sopraggiunga «senza che egli si sia sentito morire». A volte le motivazioni di coloro che scelgono il partito del silenzio possono essere nobili e rispettabili; resta il fatto che il morente è defraudato della propria morte.

L’espropriazione della morte è radicalizzata dalle terapie della medicina moderna; il morire è prevalentemente un problema tecnico connesso con l’arresto delle cure. La medicina ha oggi gli strumenti per prolungare quasi indefinitamente la sopravvivenza delle funzioni vitali dell’organismo, anche dopo che la coscienza si è spenta irreversibilmente. I casi estremi sono quei corpi, trapassati da aghi e da tubi, che non finiscono mai di morire. Ma anche quando l’accanimento terapeutico non produce queste mostruosità, sempre più la fine della vita dipende discrezionalmente dai medici (vale a dire, concretamente, dall’attrezzatura dell’ospedale e dalle possibilità finanziarie del paziente). Sulla decisione dell’équipe ospedaliera pesano quattro ordini di considerazione: il rispetto della vita, che spinge il medico a prolungarla il più possibile; il senso

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umanitario, che agisce in senso contrario per abbreviare le sofferenze; la considerazione dell’utilità sociale dell’individuo (giovane o vecchio, celebre o sconosciuto: che cosa non ha fatto una caterva di medici per prolungare l’agonia del generalissimo Franco!); l’interesse specifico del caso. Il momento della morte è un’incognita che dipende dalla combinazione di questi fattori. Mors certa, hora incerta, dicevano gli antichi. La morte è rimasta certa ma l’ora è di meno in meno incerta: l’ora è prescritta. Ma sfugge al morente. Essa resta in mano all’équipe curante: alle sue capacità tecniche e alle sue prognosi cliniche. E se il personale ospedaliero sa bene l’ora della morte, non la dice: hora certa, sed tacita.

In armonia con quest’atmosfera di clandestinità che avvolge il trapasso è lo stile di morte che si domanda all’uomo tecnologico. Allo stoico era richiesta la dignità, al cristiano la santità; dall’uomo moderno ci si aspetta la discrezione. La morte accettabile è quella che non mette in imbarazzo quelli che sopravvivono. L’ideale è di scomparire in "pianissimo", in punta di piedi.

Il costume moderno, mentre chiede ai morenti di non turbare i vivi con la loro morte, proibisce ai sopravvissuti di mostrare la loro commozione. Piangere i morti confina con l’indecenza. In tutte le epoche si è sentito il lutto come una necessità psicologica e sociale. Le

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espressioni variavano, secondo i tempi e le culture, in una gamma che va dai banchetti funebri orgiastici alle manifestazioni più teatrali di cordoglio delle lamentatrici ingaggiate per piangere al posto dei parenti del morto. Ora la società esige da questi ultimi un autocontrollo corrispettivo alla discrezione che chiede ai morenti; una pena troppo visibile non ispira pietà, bensì ripugnanza: ha qualcosa di morboso. Non si piange più in pubblico. Il dolore e le lacrime, le cui manifestazioni erano considerate come legittime, anzi necessarie ai sopravvissuti, sono oggetto di un’altra convenzione sociale: oggi si nasconde ciò che una volta bisognava mostrare, o addirittura esibire, come una prova d’amore. Gli afflitti impenitenti sono respinti tra gli asociali.

Lasciato solo col suo dolore, colui che ha sofferto il dramma della perdita di un essere caro spesso non ha più neppure il conforto di visitarne la tomba. Il costume preme perché le tracce del morto siano fatte sparire in maniera radicale. L’incenerazione diventa la soluzione ottimale. Anche la chiesa cattolica ha tolto le sanzioni canoniche con cui per lungo tempo aveva dissuaso i suoi fedeli dalla cremazione, dal momento che questa non ha più il senso anticristiano che le si conferiva in passato. Evidentemente la luce verde per la cremazione minaccia il culto dei cimiteri e il pellegrinaggio alle tombe.

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Alcuni osservatori sociali si preoccupano dei danni psicologici che questa nuova prassi sta causando. La soppressione radicale di tutto ciò che richiama la morte sembra avere effetti traumatizzanti. Sono scomparse le prescrizioni sociali che imponevano condotte rituali e uno statuto speciale durante il lutto, sia alla famiglia che alla società nei suoi rapporti con la famiglia. Così il travaglio del lutto risulta bloccato e l’individuo è privato dell’aiuto della società proprio quando ne avrebbe più bisogno. Il prezzo pagato in solitudine, disperazione e comportamenti patologici è molto elevato. Abbrutirsi di lavoro, fingere di vivere in compagnia del defunto, come se continuasse ad essere presente, lasciarsi deperire: sono altrettante manifestazioni che turbano la vita di coloro il cui lutto è stato represso.

Morire all’americana

L’evacuazione della morte dalla vita quotidiana sembra faccia parte strutturalmente della civiltà occidentale contemporanea. È possibile stabilire con sufficiente sicurezza che l’atteggiamento moderno di fronte alla morte — cioè la sua interdizione al fine di conservare il volto inalterato della felicità — è nato negli Stati Uniti d’America verso l’inizio del nostro secolo. Di qui si è diffuso successivamente nell’Europa

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nord-occidentale; in Inghilterra e nei paesi scandinavi ha prodotto le manifestazioni più radicali. Ma il nuovo atteggiamento fa parte del modello globale delle società industriali, così come la priorità del benessere e del consumo : esso non è ignoto perciò in tutti i paesi toccati dall’industrializzazione, comprese le nazioni latine. È vero che la situazione attuale è lungi dall’essere omogenea, anche nell’area americana ed europea in questione. Anzitutto si rilevano resistenze là dove sussistono forme arcaiche di mentalità o forti tradizioni religiose; negli stessi paesi tecnicizzati le masse popolari tendono a prolungare i modelli tradizionali di comportamento. In secondo luogo va notato che forme di resistenza si annunciano proprio nel paese donde ha preso origine il processo di trasformazione del volto della morte, vale a dire gli Stati Uniti d’America.

I nuovi costumi funerari americani — the American way of death, come sono stati chiamati — sono ormai noti a un vasto pubblico. Il romanziere inglese Evelyn Waugh ne ha fatto un’indovinatissima satira ne Il caro estinto, da cui è stato tratto un film scintillante d’humour nero.

Sociologi e psicologi, sulla scia dell’opera da pionieri svolta da J. Mitford e H. Feifel, hanno analizzato il fenomeno in tutti i suoi aspetti.

costumi funerari che si vanno diffondendo appaiono come un compromesso tra il tabù e

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il bisogno psicologico di celebrare il lutto. Mentre l’atteggiamento nei confronti del morente e dei superstiti continua a modellarsi sul cliché dell’interdizione sociale a parlare della morte, verso il morto invece ci si comporta in maniera sorprendentemente aperta e sontuosa. Il rovesciamento comincia con la toilette funebre. Il cadavere viene affidato ad abili massaggiatori, che gli restituiscono le apparenze della vita; viene poi esposto nel salone di un funeral home, centri adibiti appunto alle onoranze funebri, in cui il morto riceve un’ultima visita di parenti e amici, in mezzo a fiori e musica. In questo estremo addio si fa sfoggio di abilità scenica; non è raro che il manager sia presentato dietro il tavolo d’ufficio in cui ha svolto la sua attività, come se ricevesse ancora una volta i suoi collaboratori. Il morto è onorato, ma rifiutandogli il suo statuto di morto. Grazie al maquillage e alla messa in scena, la morte è mimetizzata, assume l’aspetto del sonno. La sepoltura avviene in cimiteri più raffinati di un giardino all’inglese. In questi cimiteri i romantici del secolo scorso vedrebbero la realizzazione di quel luogo idillico dove i viventi possono intrattenersi, in amorosi pensieri e in edificanti riflessioni, con lo spirito dei "cari estinti".

Questo rifiuto di un’evacuazione radicale della morte fa riflettere. La nuova prassi è qualcosa di più che un’ulteriore stramberia da mettere

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sul conto dell'American way of lifeContiene una protesta nei confronti di una pura eliminazione, senza riti e senza solennità, dei rifiuti umani prodotti dalla morte. I nuovi riti possono essere un prodotto artificiale; esprimono nondimeno una nostalgia dell’umanità. Tuttavia il modello di società futura verso il quale ci stiamo incamminando continua ad apparirci ostinatamente refrattario a una presenza della morte. La tabuizzazione avviata ha l’aria di non lasciarsi arrestare. Se il rifiuto della morte appartiene al modello della civilizzazione industriale, è destinato ad espandersi allo stesso ritmo di questa. Questa crescente diffusione provoca la comunità cristiana a una seria riflessione.

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III

UNA SPERANZA PER UOMINI SENZA ALDILÀ

Credenti: ma per questa terra

Abbiamo visto in una rapida rassegna quanto sia mutato l’aspetto della morte nell’ambito dei paesi occidentali a predominanza tecnologica. Anche se ci siamo lasciati guidare dai risultati delle scienze dell’uomo, avevamo un interesse diverso da quello dello storico dei costumi che registra le trasformazioni o dell’operatore sociale che vuol guarire la comunità civile dai suoi malesseri. Il mutato atteggiamento nei confronti della morte è indice di una crisi di civiltà; per la comunità dei discepoli di Cristo ciò comporta un "tempo forte": tempo di ripensare il messaggio di cui è portatrice, tempo di annunciarlo con nuovo slancio: questo è l’orizzonte ultimo del nostro interesse. Il legame che si è stabilito tra un certo culto dei morti e la speranza cristiana ci è apparso come storicamente condizionato. Non è sempre stato così, e non è detto perciò che dovrà sempre essere così. La cosa più

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necessaria è ora che i discepoli di Gesù siano convinti che nella cantina cristiana c’è abbastanza vino nuovo per riempire gli otri nuovi.

I cambiamenti nei costumi funerari non sono fatti accidentali; dipendono piuttosto dalle trasformazioni dell’antropologia. Il modo come si tratta il corpo dopo il decesso riflette la concezione dell’uomo propria di ogni epoca. Oggi la credenza di un aldilà riservato all’anima immortale batte in ritirata. Forse è per questo motivo che di fronte ai nuovi riti funebri americani abbiamo l’impressione come di una mascherata: sappiamo che dietro non c’è alcuna fede né nell’immortalità dell’anima, né nella risurrezione dei corpi. I sondaggi di sociologia religiosa rivelano che da una ventina di anni il numero di gente che dice di credere a una vita dopo la morte decresce costantemente e tende a stabilirsi intorno alla metà della popolazione adulta. Un dato che fa ancor più riflettere è che tra coloro stessi che dichiarano di credere in Dio solo un numero ristretto afferma di credere in una vita nell’aldilà; la differenza tra i credenti che sperano un’altra vita e quelli che si riferiscono solo a quella presente è notevole; questi ultimi raggiungono in alcune inchieste la percentuale del 40%. Gli intervistatori hanno calcolato che in media un cristiano su tre si afferma cristiano per questa vita, senza opinione precisa sulla realtà d’una vita personale dopo la morte.

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Tra credenti e non credenti si nota una sorprendente convergenza di espressioni quando si viene a parlare della morte e dell’altra vita. A tale conclusione si giunge analizzando i risultati di un reportage televisivo che alcuni anni fa permise a più di 60 personalità eminenti, ben conosciute in Francia e in Belgio, di esprimersi a proposito della morte. Nel linguaggio, nei sentimenti e negli atteggiamenti personali di non credenti e di credenti di diverse religioni si notano analogie inattese. Il noto psicologo della religione A. Godin, esaminando questi dati 7, ha concluso:

1. Né la frequenza del pensiero della morte, né lo stato d’animo nel quale vi si pensa (serenità, angoscia, rivolta) comportano differenze sensibili nel gruppo religioso paragonato globalmente al gruppo non religioso. Tutt’al più si nota una leggera tendenza a parlare della morte tra i credenti in termini di paura o di angoscia, tra gli increduli in termini di accettazione serena.

2. Che la morte faccia parte della vita, addirittura che dia il pieno valore a una vita, che debba essere accettata, anzi integrata lungo tutta un’esistenza, è un tema onnipresente nel

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campione di coloro che hanno risposto all’inchiesta.

3. La rivolta davanti alla morte degli altri, senza essere ignorata dai non credenti, è più facilmente manifestata da diversi credenti di questo campione, e sovente è espressa in termini più vivi. Si combina, presso questi ultimi, col ricordo del Cristo che attraversa la morte (scandalo della croce); questo ricordo è sentito più come uno stimolo alla ribellione che come un invito alla rassegnazione.

4. La credenza in una "sopravvivenza" individuale, in quanto svolge la funzione di proteggere il narcisismo e di aiutarlo a schivare la morte proiettando illusoriamente l’ "ego" nell’aldilà, è rigettata dalla totalità dei non credenti. Essa è anche fortemente criticata, talvolta rigettata, eventualmente protetta da ogni tentativo di descrizione, da un buon numero di credenti. Questi, soprattutto se sono teologi, evocano una differenza radicale tra una "sopravvivenza" di prolungamento (rianimazione nell’aldilà), che potrebbe essere un mezzo per evitare la durezza psicologica della condizione mortale, e la "risurrezione", del tutto diversa, sperata in Gesù Cristo.

5. L’idea che la credenza nell’aldilà modificherebbe il modo di vivere al presente (per es. mediante il timore del giudizio o del castigo)

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è praticamente assente da tutto il discorso dei credenti. Per contro, la partecipazione alla vita eterna già ora presente con una funzione stimolatrice per la nostra azione volta a modificare il mondo, è un tema introdotto spontaneamente da diversi credenti di tutte le confessioni. Questo pensiero sembra giocare psicologicamente un ruolo simile a quello delle forme di "immortalità" (opere, figli, ricordo, presenze diverse) riconosciute come importanti da molti non credenti.

6. La quasi totalità di credenti e non credenti si incontrano in una vigorosa critica di ciò che ci sarebbe di illusorio nella speranza di un’altra vita come "assicurazione sulla morte", cioè nel credere in un prolungamento della vita umana come funzione consolatrice. È certo che il segmento di popolazione interrogata costituisce socialmente un’élite. È tuttavia significativo che in questo gruppo l’idea di una sopravvivenza nell’aldilà (o nella storia come prolungamento di se stesso) non interviene affatto a facilitare psicologicamente l’accettazione dell’essere-per-la-morte. All’origine di certe reazioni, socialmente catalogate come rigetto di credenze cristiane, potrebbe esserci appunto il rigetto dell’idea della sopravvivenza, considerata come sospetta.

I risultati di un simile sondaggio non possono essere generalizzati. In altri strati sociali

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gli atteggiamenti di fronte alla morte sono indubbiamente diversi. Tuttavia è innegabile che alle trasformazioni a livello di costume, che abbiamo visto precedentemente, corrisponde nell’universo delle rappresentazioni un cambiamento che coinvolge anche i credenti. Questi si sentono a disagio in quelle espressioni della fede cristiana che prolungano le attese banali degli uomini, inclini a rifiutare psicologicamente la loro finitudine mortale.

La maggior parte delle religioni dispone di efficaci risorse per blandire il bisogno narcisistico di prolungare la vita, dando scacco alla morte. Anche il cristianesimo ne ha. Ma sempre più numerosi credenti pensano oggi che nella promessa di risurrezione che hanno ricevuto con la fede in Cristo è contenuto qualcosa di diverso che una semplice illusione securizzante. Per accogliere quella promessa non si sentono obbligati ad abbandonare la terra abitata dall’uomo contemporaneo, il quale è sempre più riservato e diffidente di fronte agli interrogativi sull’aldilà.

La promessa della risurrezione per questi cristiani è più una parola che riempie di senso questa vita che l’apertura di una prospettiva su un’esistenza futura di cui si possa parlare nei termini di un’esperienza presente. Essi sottoscriverebbero l’affermazione attribuita al Curato d’Ars: «Se non c’è niente nell’aldilà, sarei

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ben gabbato; ma non rimpiangerei di aver creduto all’amore».

Per questi credenti, di cui comprendiamo e rispettiamo la delicata situazione spirituale, può essere importante sapere che altri prima di loro hanno creduto alle promesse di Dio prescindendo da un prolungamento nell’altra vita. Per molti secoli, infatti, lo sguardo d’Israele si è rivolto alle sole possibilità umane durante questa vita, senza provare interesse per ciò che aspetta l’uomo nell’aldilà. Anche una esistenza chiusa entro l’orizzonte terreno è stata vista come un’autentica possibilità religiosa.

Morire da patriarchi

Nella Bibbia si riflettono credenze e atteggiamenti di fronte alla morte molto diversi da quelli che ci sono familiari oggi. Troviamo, sottolineata con enfasi, la serenità dei giusti che muoiono, colmi di giorni in mezzo alla loro numerosa posterità, accettando senza una parola di rivolta di essere «riuniti ai loro padri», di essere cioè ingoiati da quella notte che ha già accolto coloro che li hanno preceduti sulla terra. La morte è vista in questi casi come un evento "naturale", che non turba il dialogo con Dio e non getta ombre sulla convinzione che il Dio dell’alleanza è un "Dio vivente".

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Da dove trae la sua serenità la morte di questi uomini, che pur non manifestano alcuna speranza in un’altra vita? Anche oggi capita qualche volta di assistere a un trapasso pieno di pace, ma solo in quei rari casi in cui il termine della vita coincide col suo compimento. Succede così quando la morte non sopravviene troppo presto o troppo tardi, come avviene nel più dei casi, ma proprio al momento giusto, quando la causa per cui si è vissuti è stata raggiunta. La morte dei membri del popolo d’Israele trae la sua serenità da un altro motivo, squisitamente religioso. È ispirata dalla fede che l’alleanza stabilita «con Abramo e la sua discendenza» (Gn 12,1ss) garantisce la fedeltà di Dio verso il popolo nel suo insieme, malgrado il carattere effimero dei singoli membri della comunità. Per questo vediamo Abramo preoccuparsi della sua morte finché non ha discendenza (cf Gn 15,2-6); ma, ottenuta la certezza di posterità, lo vediamo morire «in buona vecchiaia, attempato e sazio di giorni» (Gn 25,8).

La morte dell’uomo inserito organicamente nel popolo in alleanza con Dio avviene senza strepito e lamenti, benché sia considerata come l’avvenimento definitivo e irreversibile dell’esistenza individuale. «Noi moriamo e siamo come acqua versata in terra che non si può più raccogliere, e Dio non riconduce un’anima»; con questo argomento la donna accorta

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che perora la revoca del bando per Assalonne strappa al re David il suo consenso al ritorno, prima che la morte renda i giochi umani irrevocabili (2Sam 14,14).

La società in cui vissero i patriarchi e i re d’Israele era di tipo arcaico. Oggi essa sopravvive ampiamente nel mondo — in Africa per esempio — ma è quanto mai lontana dai modelli culturali che ha creato la società industriale e produttivista che è la nostra. Nell’una prevale lo spirito comunitario, nell’altra quello individualistico; la prima socializza la morte, la seconda la privatizza. Mentre quest’ultima vive la morte come una rottura drammatica, la cultura di tipo arcaico la sente come continuità e dialogo, grazie al perseverare della comunità.

Il popolo d’Israele passò per vari stadi di civilizzazione. In un’epoca più vicina a noi le classi più colte subirono l’influenza delle culture più raffinate fiorite attorno al Mediterraneo, in particolare quelle che irradiavano dalla Grecia. Le rappresentazioni della morte non potevano non cambiare. Ma anche questa nuova fase culturale fu integrata nella fede, nell’alleanza con Dio. La Bibbia lo documenta mediante i libri che riflettono l’antica sapienza d’Israele, in particolare le raccolte dei Proverbi.

All’uomo saggio che segue la legge di Dio, è promessa la "vita". Non si tratta però della "vita eterna" nella rappresentazione che possiamo

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farcene noi oggi: la "vita" promessa al giusto consiste in lunghezza di giorni, discendenza, ricchezza, onore, pace, fortuna, non in qualcosa riservato all’aldilà. Non affrettiamoci a condannare questo pensiero come crasso materialismo. Malgrado che questi uomini siano chiusi all’aldilà, il loro universo continua ad essere religioso, perché concepiscono la vita legata a Dio mediante l’alleanza.

«Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male... Io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione; scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza» (Dt 30,15.19).

La morte di cui è questione in questo formulario d’alleanza non è tanto la morte biologica, quanto l’esistenza lontano da Dio, una esistenza in cui è infranto il patto che la univa a Dio. Questa è la minaccia che il credente dell’antica alleanza teme sopra ogni altra cosa. Il triste evento si manifesta nelle miserie e negli sconvolgimenti che turbano l’esistenza e tocca il culmine con l’annientamento fisico (in particolare, con la morte precoce dell’empio). Ma la benedizione e la maledizione sono per questa vita; l’altra non è presa in considerazione. È qui sulla terra che, uniti a Dio, ci si espande nella vita, o, separati da Dio, ci si rattrappisce nella morte.

Tuttavia i contatti con una cultura che non

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pensava più l’uomo in termini comunitari-collettivistici non potevano mancare di produrre frutti di interrogativi nuovi e inquietanti. L’emergere del concetto di persona e dell’idea di un destino individuale scuoteva le pacifiche rappresentazioni della morte dell’uomo patriarcale. Come può resistere la fiduciosa speranza in Dio quando l’uomo si mette a considerare la morte nella sua cruda realtà di evento che viene a troncare la dolcezza della vita? Come reagire di fronte alla costatazione che, per lo "stolto" come per il "saggio", cioè tanto per il peccatore quanto per il pio, la stessa morte si spalanca davanti inesorabile?

Sappiamo che qualche saggio in Israele ha spinto la sua meditazione fino a queste terre desolate del dubbio. La Bibbia ce la presenta con il carattere autorevole che attribuisce alla parola di Dio.

Uno di questi autori è Qohélet, «figlio di David, re di Gerusalemme», come lo introduce solennemente l’iscrizione del libro dell’Ecclesiaste che gli è attribuito. Qohélet considera la condizione umana, prigioniera tra il nascere e il morire, con lucido scetticismo:

«Un infinito vuoto —; dice Qohélet — un infinito niente.

Tutto è vuoto e niente.

Tanto soffrire d’uomo sotto il sole

che cosa vale?

Venire andare di generazioni

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e la terra che dura» (Ec 1,2-4; nella trad. di Guido Ceronetti).

Dopo questa costatazione l’unico atteggiamento ragionevole sembra essere solo l’odio per la vita. Eppure la fede, che vede nell’esistenza il luogo del dialogo col Dio vivente che offre la salvezza, gli impedisce di lasciar cadere ogni speranza. E sarà ancora una speranza per questa vita, anche se vista con occhi disincantati. La risposta esistenziale di Qohélet sarà di concentrarsi sull’ora presente, accettando la felicità del singolo momento come un dono che viene dalla mano di Dio. Gli uomini vedono solo l’assurdo della vita che finisce. Anche i credenti in Dio non sembrano avere più lumi degli altri di fronte alla morte. Ma, malgrado la sfida che viene loro dalla condizione di esseri destinati alla morte, è possibile incontrare Dio, e proprio in questa vita, non in un’altra:

«So che hanno un unico bene:

il piacere, procurarsi felicità da vivi.

E ogni uomo che mangi e beva

e in tutta la sua pena abbia un barlume di bene,

anche questo è di Dio» (Ec 3,12-13).

Queste parole così terrestri nel libro sacro per eccellenza ci sorprendono. Al nostro orecchio suonano come professione di edonismo. È arduo per noi riconoscere un atteggiamento religioso dove l’uomo non si polarizza su un’altra vita. Ciò che ispira Qohélet è invece proprio

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il "timore di Dio’’ che induce l’uomo senza aldilà a sottomettersi a ciò che il momento gli offre da parte di Dio. La nostra sorpresa si muta allora in stupore. La Bibbia ci attesta che gli uomini che hanno creduto nell’alleanza hanno posto interrogativi che penseremmo fosse illegittimo porre da parte di persone religiose; e hanno ottenuto risposta sulla loro stessa lunghezza d’onda.

Senza primogenitura, ma non senza benedizione

Nella sua funzione pedagogica la chiesa deve sempre, come fa appunto nella Gaudium et Spes, richiamare l’uomo moderno all’orizzonte di interrogativi legati alla sopravvivenza e all’aldilà. Sappiamo la risposta che la dottrina cristiana trae dalla Scrittura per coloro che domandano un domani oltre i giorni terreni: essa annuncia una promessa di vita eterna. Ma esistono anche quelli che, come Esaù, hanno perduto il diritto alla primogenitura e quindi a una prospettiva di avvenire al di là della vita presente. «Padre, non hai serbato per me alcuna benedizione?», gridava lo spodestato Esaù a Isacco (cf Gn 27,36). A questa invocazione il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe risponderebbe con una larghezza che

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sconcerta i dottori in teologia che conoscono solo una risposta. La fede biblica è più articolata dei sistemi teologici. Sì, anche per il secondogenito che non eredita il diritto di sperare a un domani c’è una benedizione, una benedizione in questa vita.

L’affermazione è audace e sentiamo il bisogno di corroborarla con l’autorevolezza di un teologo. L’esegeta N. Lohfink, dopo aver accostato la mentalità immanentista dell’uomo moderno alle espressioni di speranza intramondana dei credenti dell’epoca veterotestamentaria, invita a considerare la rilevanza per il nostro tempo della parola di Dio al popolo d’Israele:

«Se consideriamo l’Antico Testamento dobbiamo riconoscere che è veramente possibile credere, sperare e amare senza avere dinanzi allo sguardo l’aldilà. Infatti noi siamo dell’opinione che Abramo e gli altri giusti dell’Antico Testamento si trovavano veramente nella fede, ma sappiamo anche che il vedere nell’aldilà, oltre la morte, era loro precluso. Fede, speranza e carità possano quindi essere possibili nella loro sostanza, anche quando si filosofeggia come fa il libro dei Proverbi o l’Ecclesiaste. Certo, oggi non è più possibile che la chiesa universale, nella sua funzione di insegnamento magisteriale, accetti una filosofia che comporti il rifiuto teorico della dottrina del libro della Sapienza (cioè della sopravvivenza e della rimunerazione nell’aldilà). Tuttavia all’interno della chiesa possono esserci singoli uomini, o forse anche gruppi e generazioni, che si sentono più

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vicini, per ciò che effettivamente determina la loro coscienza, all’Ecclesiaste che non alla Sapienza. Allora bisogna ricordare che non si è i primi ad aver percorso un simile cammino e bisogna sapere dove si trovano nella Bibbia i modelli di un tal genere di fede» 8.

La Bibbia ci insegna a non disprezzare nessuna forma di speranza, anche quelle così terrestri che ci sembrano indegne della Speranza. Chi è stato vicino fino all’ultimo a morenti avrà imparato quanto è tenace l’attaccamento alla vita. Anche i più disposti ad accettare l’inevitabile e i più realistici tra i morenti lasciano aperta qualche porta: per una cura straordinaria, per la scoperta di una nuova medicina, per un successo dell’ultimo momento. La speranza sfida i calcoli di probabilità. Che probabilità avevano di sopravvivere i bambini dei campi di concentramento di Terezin, creati per portare a compimento i piani di sterminio nazisti? Di 15.000 bambini sotto i quindici anni raccolti nelle baracche L 318 e L 417 solo un centinaio si salvò la vita. Ciò non impedì a uno di loro di scrivere questa poesia di speranza:

«Il sole ha fatto un velo d’oro

così bello che il mio corpo duole.

Sopra, i cieli gridano blu.

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Convinto, ho sorriso di qualche errore.

Il mondo è in fiore e sembra sorridere.

Ho voglia di volare, ma dove? alto come?

Se sul filo spinato le rose possono fiorire,

perché non lo potrei anch’io?

Non voglio morire!».

La voce di questo bambino anonimo parla per tutti coloro che non riescono a concepire la morte come un passaggio a una vita più felice, per quanto infernali siano le condizioni in cui si trovano a vivere.

La mancanza di una prospettiva sull’aldilà può produrre uno sfrenato edonismo; oppure quelle patetiche forme di speranza in una risurrezione tecnologica, come le pratiche d’ibernazione, con la consegna di essere "scongelati" quando la medicina sarà in grado di prolungare ulteriormente la vita. Ma non sono questi gli unici esiti. La chiusura su un’altra vita può anche rinviare alla presente con senso di urgenza rafforzata, per riconoscere nella sua densità una benedizione di Dio.

Quando il profeta Isaia si recò dal re Ezechia, gravemente ammalato, per annunciargli da parte del Signore: «Da’ disposizioni alla tua casa, perché morirai e non vivrai», il pio re pianse tutta la sua disperazione:

«Negli inferi andrò anzi tempo...

Non vedrò più il Signore nella terra dei vivi

non vedrò più alcun uomo tra gli abitanti del mondo».

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Nell’immaginazione mitica dell’ebreo il cammino verso la dimora dei morti è lo spogliamento da ogni bene, ivi compreso quello di lodare il Signore. Ma gli eventi invertono il loro corso. Alla notizia del risanamento e di una dilazione concessa dal Signore, il re può pregare:

«Tu hai salvato la mia anima

dalla fossa della distruzione...

Gli inferi non ti rendono lode

la morte non ti glorifica;

coloro che scendono nella fossa

non proclamano la tua fedeltà.

I vivi ti rendono lode

come io oggi» (Is 38,17-19).

I vivi, coloro che non vogliono morire, coloro che non sanno vedere una luce al di là della tomba, non sono esclusi dall’alleanza. Anche il loro fragile oggi pesa quanto l’eternità.

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IV

IL SACRAMENTO DEL TENER LA MANO

Dobbiamo smettere di occuparci della morte?

La nostra è una cultura stanca, che rende difficile il morire. Morire per l’uomo non è mai facile, perché il suo perire non è la semplice scombinazione di una macchina organica, bensì uno strapparsi al tessuto di cultura che la coscienza si è costruita attorno. Tuttavia abbiamo l’impressione che in altre culture diverse dalla nostra morire sia più facile. Nel corso dei secoli l’Occidente ha accentuato sempre più la soggettivazione della morte, e questo la rende più traumatica.

Il "primitivo" muore meglio: ha una morte più dolce, anche se dolorosa, anche se violenta. La sua morte è fiduciosa, perché conforme all’ideale della vita comunitaria; passa attraverso la morte come attraverso un rito, l’ultimo di una serie di riti che struttura la sua esistenza in seno alla comunità. Il "civilizzato" muore meno bene. Si è dotato di un "io"

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indipendente da quello sociale, ma per questo più vulnerabile; ha conquistato un’interiorità soggettiva, che la morte minaccia di distruggere. L’"io" è stato promosso, ma per venire più brutalmente mortificato alla fine. Simone De Beauvoir concludeva lo struggente racconto della morte della madre — intitolato con tragico umorismo: Una morte dolcissima — osservando che non si muore di aver vissuto: si muore sempre di qualche cosa; la morte è una violenza indebita.

Si muore umanamente quando è sorta una domanda sul valore dell’esistenza. Le risposte variano in ogni civilizzazione. Là dove l’inviolabilità individuale della persona è stata assunta come bene supremo, la morte è il male più radicale. Niente può compensare la perdita del proprio "io". Lo sanno bene le religioni, che pur promettono un’altra vita e indicano nella morte l’accesso alla vera vita: la difficoltà maggiore resta quella di far accettare l’espropriazione dell’esistenza presente. Senza un training ascetico e una lunga pratica di rinuncia non si riesce ad assumere personalmente la parabola del granello di frumento che si perde come singolo per conoscere l’esistenza nella forma di spiga.

Le vittorie sulla morte sono possibili solo nell’ordine culturale e simbolico. Di qui il dramma del morire in una civilizzazione che ha infranto i miti e tende ad essere esclusivamente

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tecnico-positivistica. Entrati nell'impasse, incapaci di trovare una soluzione al problema, si è tentati di ricorrere alla soluzione radicale: quella di negare il problema stesso. Smettiamo — dicono i positivisti — di occuparci di cose metafisiche, usando parole di cui non possiamo verificare la portata. Così i problemi del senso della vita e della morte, dell’anima e della vita eterna verranno dissolti prima ancora di essere posti. «La morte non è un evento della vita: non si vive la morte», scolpirà il filosofo Wittgenstein nel suo programma neopositivista 9. Se gli interrogativi sulla morte non sono altro che una specie di cancro del linguaggio, non resta che asportarli chirurgicamente, nella speranza che l’intero organismo del linguaggio non sia nel frattempo entrato in metastasi.

Questa critica radicale elimina i problemi che sorgono dalla morte, negando la loro legittimità. A critiche di questo genere di solito si risponde con la stessa moneta, rifiutando di porsi sul loro terreno. In tal modo tuttavia l’apporto che ci viene da questa contestazione. Essa ci sensibilizza al fatto che noi non usiamo il verbo "morire" come qualsiasi altro verbo. Possiamo certo coniugarlo al futuro, come altri verbi; ma quando diciamo «io morirò»

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noi non estrapoliamo dal nostro vissuto, come quando diciamo «io mangerò» o «io attenderò»; noi conosciamo personalmente la nutrizione e l’attesa, ma la sola esperienza umana della morte è la morte dell’altro.

Sia che si possieda o no una speranza oltre la morte, ogni discorso che ingloba l’"io" e la "morte" è un salto al di là del mondo della nostra esperienza. Possiamo dire: «quando sarò morto non ci sarà più niente», oppure: «quando morirò sarò ammesso alla compagnia di Dio»; nell’uno come nell’altro caso sentiamo che coniugando il verbo morire alla prima persona del futuro noi siamo strappati a ciò che possiamo verificare e ci riferiamo implicitamente a qualche altra cosa. Dove possiamo trovare una base solida, che garantisca il nostro discorso dall’arbitrarietà? L’ancoraggio non può essere altro che il mondo delle relazioni tra esseri umani. Negare o affermare un futuro per il nostro "io" oltre la morte si riduce, in pratica, a proiettare nell’ignoto il vuoto o il pieno delle nostre esperienze relazionali attuali, quelle che noi esprimiamo mediante le categorie di "amore", "fedeltà", "alleanza".

Lo sviluppo culturale di cui siamo figli ha prodotto il nostro "io", incapace di concepire la propria autodistruzione. Nello stesso tempo ha riversato su tutte le nozioni mitiche e culturali con cui parlavamo della nostra sopravvivenza

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la doccia fredda dello scetticismo. Abbiamo visto come funziona psicologicamente e linguisticamente il meccanismo che fabbrica l’eternità e siamo diventati diffidenti. Non è onesto ignorare le difficoltà che sorgono per tutti, credenti compresi. Ma rinunciare a bussare alla porta della morte, denunciando l’interrogazione stessa come falso problema, è prendere il partito della fuga; e ciò non è degno dell’uomo. Questa scelta, ad ogni modo, non renderebbe il morire più facile.

Non si tratta di trovare una rappresentazione aggiornata dell’aldilà, che sia assimilabile dall’uomo moderno. Nessuna teoria può consolare colui che sente l’impossibilità di far rifiorire le parole a cui è stata tagliata la radice. È molto più urgente trovare il modo di essere vicino ai morenti del nostro tempo con autenticità: senza discorsi mistificatori, ma anche senza chiudere gli occhi sull’accresciuta sofferenza che comporta il morire in una società in cui la morte è tabuizzata e il morente lasciato solo con la sua angoscia. Non ci si domanda di aprire un nuovo laboratorio di parole, ma di interrogare la nostra umanità per scoprire quale presenza richieda la situazione più critica che vive l’uomo.

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I colloqui delle tre del mattino

Sempre più spesso oggi al capezzale del morente troviamo, oltre il sacerdote, anche psicologi e psicoterapeuti. A questi confessori in camice bianco si richiede di sostenere il malato nella fase terminale della sua malattia, quando alle sofferenze fisiche si uniscono quelle psicologiche connesse con il separarsi dalla vita. L’intenzione che ispira questo intervento è umanitaria: si pensa di poter così oleare quelle porte che gli antichi immaginavano di bronzo, perché non cigolino aprendosi sul nulla.

Non c’è unanimità tra gli psicologi sulle modalità e i contenuti della comunicazione con le persone all’ultimo stadio della loro malattia e sulle fonti di sicurezza più importanti per la persona che attraversa la situazione più tragica e irreversibile della sua esistenza. Ma la cosa essenziale appare la comunicazione in sé e per sé. Lo sforzo per mantenere aperta la comunicazione è la risposta umana alla morte. Si sceglie di accompagnare il morente, respingendo il più lontano possibile il momento in cui rimarrà inevitabilmente solo per subire l’ultima espropriazione, quella del suo stesso "io".

Il bisogno fondamentale di chi va incontro alla privazione di tutto è quello di condividere. Il morente ha bisogno di parlare della propria morte. Malgrado gli sforzi del personale curante, e dei suoi stessi familiari, di tenergli

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nascosta la verità, la maggior parte dei malati gravi sa che sta per morire. Il morente lo intuisce dalla mutata attenzione, dal modo nuovo e diverso con cui la gente lo avvicina, dalle voci abbassate o dalla cura che mette il personale ospedaliero nell’evitarlo, dal volto in lacrime di un parente o dal sorriso forzato di un familiare che si sforza di nascondere i suoi sentimenti. Le modificazioni dell’affettività provenienti dall’ambiente globale e l’ansia trasmessa in modo non verbale comunicano l’informazione in modo altrettanto efficace di quanto potrebbero fare le parole. Proprio quando avrebbe più bisogno di incontrare un essere umano aperto per parlare delle sue angosce, il morente si sente respinto nel limbo dell’incomunicabilità. Si trova in pratica solo con se stesso a far fronte alle proprie paure. La mancanza di ogni comunicazione acuisce l’insicurezza; l’isolamento è popolato dai fantasmi dell’immaginazione, che possono essere più penosi della morte fisica.

Questa tribolazione intima raramente emerge con chiarezza. Ciò è dovuto al fatto che il malato finge di non sapere, quando il medico o i congiunti, bloccati dalla loro propria ansia di fronte alla morte, sono incapaci di parlargli. Spesso costoro diranno che il malato non vuol sapere la verità, che non la chiede e crede tutto; e si sentiranno sollevati per non dover affrontare la questione. In realtà è la loro personale

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paura di guardare in faccia la morte che ha indotto il malato a scegliere il partito del silenzio. La situazione infatti si sblocca subito quando il morente incontra qualcuno disposto a parlare della morte, che sia il cappellano, o un’infermiera sensibile, o anche la donna delle pulizie che rifà la camera; qualcuno, in ogni caso, che sia attento ai bisogni più profondi del malato.

La scelta del momento e del tempo è di grande importanza. Il malato grave, per di più stravolto dalle sofferenze fisiche e dalle cure, non può essere sempre disposto ad affrontare l’argomento scottante. Né può esservi indotto da un procedimento manipolatorio, anche se animato dalle migliori intenzioni. Chi vuol aiutare il malato dovrà restare disponibile al suo desiderio di parlare; e questo può sorgere nelle ore più imprevedibili del giorno e della notte. Lo diceva un malato grave a una psicologa che lo intervistava appunto sulla morte: «Sono rimasto sconcertato quando ho chiesto di vedere un cappellano di notte e non c’era nessun cappellano per la notte. È incredibile per me, veramente incredibile. Perché, quando un uomo ha bisogno del cappellano? Soltanto di notte, credetemi! Quello è il momento in cui ci si sente più giù e si deve lottare con se stessi. È il momento in cui si ha bisogno del cappellano. Direi per lo più fra la mezzanotte e le prime ore del mattino. Se si potesse fare

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un grafico, avrebbe probabilmente la punta massima alle tre circa. E dovrebbe essere proprio così. Suoni, viene l’infermiera: "Vorrei avere un cappellano" e in cinque minuti il cappellano compare e tu puoi... parlare davvero» 10.

A chi accetta di stare accanto a chi muore ― lo faccia per un motivo di pastorale o di compartecipazione umana alla più grande sofferenza di un altro uomo — non si domanda di prestare al malato la propria speranza o di somministrargli una consolazione artificiale. L’imperativo fondamentale è quello di tenere aperte le vie di comunicazione personale, perché il morente vi faccia passare le proprie parole o i propri silenzi, la propria speranza o le proprie paure, secondo come ne sente il bisogno. Il processo di distacco dalla vita è infatti articolato in diverse fasi, a cui corrispondono bisogni diversi.

La psicologa a cui facevamo cenno poco fa, Elisabeth Kübler-Ross, ha fatto delle terapie di sostegno ai morenti la causa della propria vita. La sua lunga esperienza in questo campo le ha permesso di schematizzare il processo in cinque fasi. Non devono essere intese come un itinerario obbligatorio e a senso unico. Non tutti i morenti attraversano tutte le fasi; alcuni

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si fissano in una fase, altri possono regredire a una fase anteriore. La descrizione dei diversi stadi offre tuttavia un buon sussidio per capire il vissuto psicologico del morire.

Le fasi del morire

La prima reazione, quando viene percepita la probabilità di una morte prossima, è quella del rifiuto. Istintivamente di fronte alla malattia mortale si erige la difesa dell’incredulità: «No, non è possibile. Non io. Non ancora». Le difese sono necessarie, perché l’annuncio della morte è una ferita brutale inferta a quel narcisismo psicologico che ci fa credere immortali: tutti gli altri muoiono, non noi; e anche quando ci avviene di parlare della nostra morte, in realtà non ci crediamo, perché non abbiamo le categorie per rappresentarcela. Il rifiuto è una difesa attuata con un mezzo grossolano; per lo più esso cede il posto a difese meno radicali. Dopo un certo tempo si smette di correre da un medico all’altro, nella speranza che la diagnosi sia sbagliata, o si cessa di illudersi che sia avvenuto uno scambio di reperti in laboratorio; il realismo prende il sopravvento e induce a proseguire la battaglia per la vita con mezzi meno rudimentali. Non è escluso però che alcuni, non riconoscendosi

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la forza di guardare in faccia la morte, tengano in piedi il rifiuto fino alla fine.

Il più sovente alla prima fase fa seguito una seconda, quella della rivolta: «Perché io?». I sentimenti che l’accompagnano sono quelli della collera, dell’invidia e del risentimento verso tutti quelli che restano. La rivolta proietta i sentimenti rabbiosi in tutte le direzioni: da Dio, alla famiglia, al personale curante. Gli esiti di questa esplosione rischiano di essere tragici. Coloro sui quali si riversa la ribellione del malato possono risentirsene personalmente. Il malato difficile sarà allora evitato: i familiari diraderanno le visite, le infermiere lo tratteranno con distacco professionale. Il morente in rivolta rifiuta gli altri e provoca a sua volta rifiuto; viene a trovarsi in una situazione fasciata di disperazione. Potrà uscire da questo stato solo se coloro che sono vittime dei suoi scopi di aggressività si rendono conto che il vero bersaglio non sono loro. Essi hanno l’unico torto di rappresentare la salute e la vita, i beni che il morente sta per perdere per sempre. Un malato rispettato e compreso, cui si dedichi attenzione e tempo, di cui si tolleri la collera razionale e irrazionale, supererà lo stadio della rivolta.

Allora entrerà probabilmente nella fase del patteggiamento. Questo è una specie di compromesso mediante il quale il malato che si sa condannato cerca di strappare una dilazione.

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L’accordo che possa differire l’inevitabile evento chiama in causa colui che agli occhi del malato rappresenta l’onnipotenza: il medico o Dio, e talvolta tutti e due. Pazienti difficili diventano improvvisamente sottomessi («mi si accordi un anno o due ancora... seguirò alla lettera tutte le prescrizioni»); persone religiosamente indifferenti od ostili riscoprono in sé un senso elementare del sacro e abbondano in voti e devozioni (ma alternando talvolta la comunione eucaristica, le reliquie e le pratiche contro il malocchio...).

Quando il malato incurabile non può più negare la sua malattia e ha sperimentato l’inanità della rivolta e del patteggiamento, si abbandonerà verosimilmente alla depressione. Con questo stato d’animo il morente si orienta al distacco e si prepara ad esso. La sua depressione assomiglia a un mesto ritiro dei remi in barca. Nelle culture orientali antiche colui che si sentiva morire si voltava verso il muro (così fece anche il re Ezechia, all’annuncio fattogli da Isaia); oggi le espressioni esterne sono cambiate. Sempre però il morente tradisce la fase culminante della sua depressione mediante il disinteresse alle cure che gli si fanno e alle persone che lo circondano. La presenza del visitatore che cerca di distrarlo dai pensieri tetri lo infastidisce. La depressione sembra essergli necessaria per entrare nell’ultimo stadio del morire, quello dell’accettazione. A

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questo punto le emozioni si rarefanno e il morente fluttua in una specie di vuoto di sentimenti. È come se il dolore se ne sia andato, la lotta sia finita e sia venuto il tempo per «il riposo finale prima del lungo viaggio», come diceva un malato alla dottoressa Kübler-Ross.

Nella fase finale i morenti sembrano scivolare in uno stato che non conosce più né la paura, né la disperazione, in cui il bisogno di cibo diventa minimo e la coscienza dell’ambiente circostante svanisce nell’oscurità. Il morente entra in uno stato che assomiglia a quello della prima infanzia, a cui l’avvicina anche il bisogno gradatamente crescente di aumentare le ore di sonno. Un progressivo distacco sostituisce la comunicazione bilaterale. In questa fase suprema la presenza al morente può assumere l’essenzialità ieratica dell’unico gesto possibile: il tener in silenzio la mano di colui che stacca gli ormeggi e si abbandona alla deriva. In quel momento i due destini, di colui che muore e di colui che resta, necessariamente si separano.

«I morti sono la preda dei vivi», diceva Sartre. Oltre al significato specifico che il filosofo gli attribuiva, la frase ha una validità di ordine esperienziale: i vivi hanno un potere sui morti, e non possono rinunciarvi. L’uso più nobile che possono fare di questo potere è quello di accompagnare il morente il più lontano

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e il più a lungo possibile. Il viatico per il viaggio è il gesto con cui il sopravvissuto esprime la sua presenza, ormai non più reciproca, al morente. Perché quel tener la mano ha valore di sacramento. Significa e opera efficacemente una vittoria sulla morte. «Noi moriamo soli e, nel migliore dei casi, malgrado gli altri, a dispetto degli sforzi di coloro che ci amano. Ma nessuna risurrezione si opera se non con gli altri. Dalla qualità della presenza degli altri a noi, e di noi agli altri, dipende la qualità della nostra risurrezione» 11. Questo è il nuovo messaggio culturale che il nostro tempo sviluppa da una riflessione rinnovata sulla morte; esso non si libra nell’etereo delle speculazioni, ma si àncora a una prassi, quella della ricerca di una presenza vera al morente.

Dalla presenza la parola nuova

Due approcci del tutto differenti, uno filosofico-linguistico e uno psicologico-pratico, ci hanno condotto alla stessa conclusione: l’unico ponte che, nella situazione della nostra cultura, possiamo gettare al di là della morte, è quello costituito da esperienze e concetti relazionali. La presenza a un’altra persona, che

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una relazione di amore ha reso per noi significativa, diventa l’esperienza che ci permette di parlare della morte e ci prepara all’accettazione della morte personale. La presenza compartecipante è l’ultima parola muta che possiamo dire all'approssimarsi della frontiera; la presenza dell’altro è l’unica consolazione efficace su cui facciamo a nostra volta affidamento, per quando sarà giunta la nostra ora di prendere congedo dal mondo.

Queste osservazioni hanno una ripercussione diretta sull’annuncio cristiano. Il discorso sui "novissimi", cioè le realtà ultime dell’uomo, è in crisi. Abbiamo già indicato la parte che ha avuto la critica psicologica, che ha corroso il fascino esercitato da certe credenze nell’aldilà mettendone a nudo la radice narcisistica, cioè l’istintivo bisogno di prolungarsi in vita. L’analisi critica di queste credenze, denunciate come semplici illusioni proiettive, ha finito per distaccare da esse un numero crescente di nostri contemporanei.

Sul piano teologico e pastorale si è risposto alla situazione con scelte contrastanti. Alcuni hanno continuato a riproporre le "consolazioni religiose" contenute in passi biblici alla lettera; altri hanno imboccato il cammino di una potatura del discorso escatologico, chiudendosi in un austero silenzio su tutto ciò che riguarda il mistero inconoscibile che segue la morte; altri ancora hanno scelto la reinterpretazione

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simbolica delle promesse escatologiche, viste in continuità con le lotte terrene per un mondo migliore. Ognuna di queste strade ha la sua validità e i suoi limiti. Ma nessuna può sostituire quella regale, tracciata da Paolo stesso, del rapporto personale col Cristo risorto. Ogni credente, che si sa amato dal Cristo, si sente autorizzato a far sua la speranza dell’Apostolo:

«Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, i pericoli, la spada?... In tutto questo noi siamo supervittoriosi, per mezzo di colui che ci ha amati. Sono sicuro, del resto, che né la morte, né la vita, né gli angeli, né i principati, né il presente, né l’avvenire, né altezza, né profondità, né qualsiasi altra creatura ci potrà separare dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,35-38).

La risurrezione che ci pone al di là della morte è lo sviluppo della nostra unione al Cristo, quella che nasce con la fede e si celebra con i sacramenti. La "vita eterna" non è da cercare in un futuro lontano, ma è già qui, allorché ci si appoggia alla fedeltà di Dio e al futuro di cui il Padre ha già dotato Gesù. L’eternità comincia oggi, con una vita nuova che è da Dio e che Dio porterà a compimento. Esistenzialmente l’accento cade sul "già", piuttosto che sul "non ancora". La speranza dei cristiani è un elemento della fede; si fonda sul

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coraggio della fede, che accetta l’eterno anche quando le è contro tutto ciò che è finito. Chi ha questo coraggio, sperimenta già qui e ora l’eterno: «Chi crede ha la vita eterna» (Gv 6,47); «Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte» (1Gv 3,14).

Il nostro morire oggi è reso più difficile, oltre che dalle trasformazioni strutturali dovute alla nostra civilizzazione, anche dalle incrinature nell’antropologia tradizionale. La prima risposta è di ordine pratico: una calda presenza comunicante a chi sta morendo. Ma non possiamo dispensarci dal cercare un’altra antropologia, creandola con i dati che ci fornisce la nostra esperienza. Il primo mattone è già là, ed è costituito dall’amore umano. L’amore umano che è sacramento dell’amore di Dio.

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V

RISURREZIONE DEI MORTI E CRITICA DEL POTERE

L’impatto politico di una credenza

Gli spiriti più lucidi del nostro tempo si interrogano sull’avvenire del nostro "azzurro pianeta". Lo vedono ridotto ben presto a un brulicante formicaio, spolpato delle sue risorse, dall’allegra civiltà dei consumi, inquinato irreparabilmente dai rifiuti industriali. L’allarme non viene solo dalle cassandre di turno; gli scienziati più empiristi aggrottano le sopracciglia pensando al futuro dei vivi sulla terra. Ebbene, in questa situazione la chiesa proclama un avvenire per i morti. Che significato ha continuare a credere e ad annunciare la risurrezione dei morti nel presente concreto del mondo? È un patetico anacronismo? È un alibi irresponsabile? O è una provocazione? Andando fino in fondo alla questione arriveremo a cogliere la rilevanza politica della speranza cristiana della risurrezione dei morti.

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La nostra società, abbiamo visto, è abilmente riuscita ad evacuare la presenza inquietante della morte; non solo, ma anche a obliterare le questioni concernenti la vita e la morte, considerandole inutili e prive di senso. La morte come punto fermo e non come punto interrogativo, la morte come panne non più riparabile di una macchina organica senza spessore di mistero, è meno neutra di quanto si pensi. È importante capire infatti che l’operazione culturale che ha dato alla morte questo volto, non è sprovvista di significato politico. Che tutto sia finito con la morte e che quindi questa vita, così com’è da sempre, sia il tutto, è certamente il pilastro più solido di tutte le ideologie di dominio. «La morte è necessariamente una contro-rivoluzione», stava scritto nel maggio del 1968 su un muro di Parigi. La dolce morte dell’uomo massa che s’impone come necessità inevitabile senza un grido di protesta, fa il gioco di chi comanda.

In senso contrario notiamo uno stretto legame tra il superamento della paura ansiosa della morte e la liberazione dai gioghi oppressivi. Tutti i movimenti di liberazione cominciano con un paio di uomini che perdono la paura e agiscono diversamente da come si aspetterebbero coloro che li minacciano. Chi non ha più paura può certamente essere ancora ammazzato; ma non può più essere ulteriormente signoreggiato con facilità.

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La speranza giudaico-cristiana di una risurrezione dai morti ha avuto fin dall’inizio un impatto politico rivoluzionario. È stata un mezzo per alimentare la resistenza contro l’oppressore. La Bibbia lo documenta con chiarezza. Troviamo le prime testimonianze della fede in una vittoria escatologica sulla morte nel messaggio dei profeti. Essi aprirono al dialogo dell’uomo con Dio altre prospettive oltre a quelle della vita presente, indirizzando la speranza a una conclusione in un aldilà del mondo e della storia. Al dramma che si svolge nella storia aggiunsero un epilogo oltre la storia, in cui tutte le promesse sarebbero state infallibilmente mantenute: gli ultimi tempi. Per contenere questa meraviglia sarebbero stati necessari «cieli nuovi e terra nuova».

Il popolo di Dio aveva più di un motivo per dubitare dell’esito dell’alleanza col Signore: eserciti nemici scorrazzavano per la terra promessa; le istituzioni sacre si corrompevano; l’ingiustizia creava padroni e schiavi all’interno della comunità israelitica. Questo impero della "morte" mostrava che l’alleanza aveva fatto piovere sul contraente umano le "maledizioni" che durante la stipulazione venivano invocate sul contraente che avesse infranto il patto. L’Israele infedele, distrutto nella sua potenza terrena e calpestato dai nemici, si sentiva ridotto a una valle piena di ossa.

In questo contesto risuona la predicazione

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dei profeti. Essa si muove in una duplice direzione. Da una parte accusa il popolo delle sue colpe, lo invita a pentirsi, a disporsi a un’altra alleanza, un nuovo patto scritto nei cuori (cf Ger 31,31-34). Dall’altra canta la potenza di Dio, che può trionfare di tutte le dominazioni, riassunte sotto il nome generico di "morte". Lo Spirito di Dio può rianimare l’ossario cui è ridotto Israele, può vincere la morte rimettendo in piedi una grande armata:

«Così dice il Signore Dio: Spirito, vieni dai quattro venti e soffia su questi morti, perché rivivano.

Ed io profetai come mi aveva comandato, e lo spirito entrò in essi, e ritornarono in vita e si alzarono in piedi; erano un esercito grande, grande assai» (Ez 37,9s).

Le promesse escatologiche fanno balenare, al di là della restaurazione temporale d’Israele, la prospettiva di un universo trasfigurato. Per descrivere la creazione nuova i profeti non hanno altre risorse che il ricorso alle immagini antiche del paradiso primitivo (cf Is 65,17-25). Mediante le immagini bucoliche del lupo e dell’agnello che pascolano insieme in un mondo dove non si conoscerà più il velo del lutto, agisce una forza spirituale-politica. La fiducia nel patto induce il popolo di Dio a rifiutare gli accomodamenti con i vincitori di oggi. Chi attribuisce al Signore del patto

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la capacità di un ultimo intervento non è disponibile ai patteggiamenti con i signori della storia.

Il filone delle promesse escatologiche continua per tutto il tempo della produzione degli scritti biblici, fino all’ultimo libro del Nuovo Testamento, l’Apocalisse. Anch’esso parlava del futuro ultimo per sostenere la resistenza spirituale dei credenti nelle contingenze storiche. Era rivolto alla comunità dei credenti in Cristo che doveva subire persecuzioni nell’ambiente ostile che la circondava. La visione della Gerusalemme celeste, dove la morte sarà vinta definitivamente, era destinata ad animare, a continuare l’opposizione contro chi ostacolava la nuova fede per la sua carica sovversiva (fossero i Giudei, timorosi per l’ordine religioso, o i Romani, preoccupati per l’ordine sociale-politico).

«Ecco la tenda di Dio con gli uomini; egli abiterà con loro, ed essi saranno suo popolo ed Egli sarà Dio-con-loro; asciugherà ogni lacrima dai loro occhi, e la morte non ci sarà più, né lutto, né grido, né pena esisterà più, perché le cose di prima sono scomparse» (Ap 21,30).

Tutte queste promesse hanno una portata comunitaria: sono rivolte al popolo dell’alleanza, rispettivamente l’antica o la nuova. Ma nella Bibbia non è assente neppure la dimensione individuale della promessa. Al tempo della

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persecuzione di Antioco Epifane le immagini apocalittiche elaborate dall’escatologia profetica servirono a risolvere il problema della sorte dei giusti. I Giudei fedeli, morti a causa del loro amore per la Legge, saranno risuscitati da Dio per prender parte alla gioia escatologica: «Molti di quelli che dormono nella polvere della terra si risveglieranno: gli uni alla vita eterna, gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna» (Dn 12,2).

Non solo il popolo come tale, ma anche i singoli sono dunque depositari della promessa. Questa è una forza che li aiuta a resistere alle seduzioni con cui l’empio tiranno cerca di guadagnarli al suo potere totalitario. La promessa di una "vita" che trascende le frontiere della vita terrena li rende capaci di affrontare anche la morte per rimanere fedeli alla propria religione e alla coscienza. La morte è solo apparentemente la fine: «Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio e nessun tormento le può toccare» (Sap 3,1). Solo per l’empio la morte è la fine di tutto; per l’uomo fedele essa è la porta che si apre sulla vera realtà. L’immortalità che spetta a colui che è stato saldo mette in grado di assumere anche i propri rischi nella vita. Chi è disposto a rimanere fedele al Dio fedele, anche a prezzo della vita, non è recuperabile da parte del potere per un progetto totalitario.

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Dalla parte dei morti più morti degli altri

Per la comunità dei discepoli di Gesù niente aveva scosso l’ordine ingiusto che regna nel mondo quanto la vita e la morte del loro Maestro. Per questo annunciavano l'assolutamente nuovo, di cui si sentivano partecipi: «La grazia è stata rivelata solo ora con l’apparizione del salvatore nostro Gesù Cristo, che ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’immortalità per mezzo del Vangelo» (2Tm 1,10). La morte di Gesù era stata una morte inflitta, risultato di un lungo gioco di opposizione ai poteri religiosi e civili condotto in nome della signoria assoluta di Dio. Per i gestori del potere si era trattato di ammazzare un profeta libero, il cui linguaggio era elemento di disturbo e di disordine. Ma per i credenti in lui quella morte era stata l’inversione definitiva del movimento che va dall’odio alla morte, e dalla morte a un odio ancora più grande. Con quella morte era sbocciata, per opera di Dio, una contagiosa libertà sovversiva. Di questa i primi cristiani si dichiaravano portatori quando annunciavano che «il Signore è veramente risorto» (Lc 24,34).

Questa parola, legata all’avvenimento pasquale, promette un avvenire destinato a tutti, vivi e morti. È una parola rorida di tenerezza per l’esistenza dei padri, che hanno portato pesi

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anche per i figli; prende a cuore le sofferenze passate, che reputa degne di essere riscattate dall’oblio. Ma è allo stesso tempo una parola forte gettata sul piatto più scarso della bilancia in nome della giustizia. Perché non tutti i morti sono uguali: ci sono morti più morti degli altri. Sono quelli la cui morte appare senza senso. Nei conflitti di classe e nelle lotte per il potere sono sempre i vincitori che stabiliscono il senso. La fede nella risurrezione dei morti è una protesta contro il senso stabilito dai vincitori. Con la morte il potere dei potenti e l’oppressione degli oppressori sembrano definitivamente confermati. L’appello alla risurrezione dei morti apre un’altra istanza. Per equiparare le sorti sarà necessario un intervento della giustizia di Dio nel giudizio universale.

Il richiamo al giudizio universale è essenziale per esplicitare il valore politico della fede nella risurrezione dei morti. La speranza rivela tutta la sua forza sovversiva nella situazione presente in quanto fa appello alla potenza di Dio che detronizza la morte nella sua funzione di padrona dell’ordine presente. La nostra nostalgia della giustizia sembra perdersi nella sabbia al momento della morte. L’appello al giudizio di Dio proclama invece che c’è qualcosa che è più forte della morte. Non è vero che la morte fa tutti uguali: è la giustizia di Dio che fa tutti uguali! La giustizia di Dio si fa garante che con la morte la signoria dei signori

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e la servitù degli schiavi non sono cose definitive; anzi, i giochi saranno rifatti.

Un poeta ha detto a modo suo l’urto della risurrezione contro la situazione presente:

«Ciò potrebbe andar bene ad alcuni signori...

ma sopravviene una risurrezione

che agisce diversamente da come pensavamo;

sopravviene una risurrezione

che è il levarsi di Dio contro i signori

e contro il Signore dei signori: la morte» 12.

La comunità cristiana è portatrice dunque della speranza di una giustizia per tutti, vivi e morti, compresi i vinti della storia. Per costoro il giudizio di Dio sarà un rovesciamento a loro favore, che comincerà col contestare le categorie stabilite dai vincitori. Perché così ha agito il Padre con il vinto Gesù, al quale ha dato «il nome che è al di sopra di ogni altro nome» (Fil 2,9).

I simboli apocalittici della fede cristiana hanno sempre avuto in sé una portata politica. Nei casi migliori l’hanno espressa, soprattutto quando sono stati usati da grandi artisti che erano anche sinceri credenti. Così è avvenuto per l'Inferno di Dante e per il Giudizio universale di Michelangelo. Nei casi più tristi della storia della chiesa l’annuncio del giudizio di Dio è servito a rafforzare i potenti; questo si è verificato

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quando il giudizio è stato presentato in modo intimidatorio ai deboli e ai piccoli per mantenerli nella soggezione, e annunciato solo a fior di labbra a coloro che li schiacciavano.

Oggi siamo in grado di considerare con serenità il senso della credenza cristiana in un Dio giudice. Non è necessariamente uno strumento intimidatorio in mano ai potenti e agli uomini di chiesa loro alleati. Lo recepiamo piuttosto in senso liberante, come l’annuncio che la giustizia di Dio trascende la morte. La speranza della vita eterna ci appare legata alla questione della salvezza degli altri che sono morti, soprattutto di quelli travolti dall’ingiustizia umana, per i quali si invoca l’intervento della giustizia di Dio. La speranza della risurrezione non svolge così la funzione di consolazione alienante, che distrae dalle battaglie terrene per la giustizia; piuttosto è legata ad esse; ne costituisce l’ispirazione e il prolungamento, pur con l’ovvia differenza che esiste tra il piano dell’utopia e quello della prassi politica. Siccome l’uguaglianza di cui parla il cristianesimo non è già fatta, ma è da fare, essa non addormenta la responsabilità storica. Piuttosto, è anche invito inquietante a domandarci da che parte siamo schierati e in che senso operiamo. Se il giudizio avviene, secondo l’immagine tradizionale, lasciandosi pesare sulla bilancia, sappiamo che sui due piatti sta

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inciso: «Beati voi, poveri», e «Guai a voi, ricchi» (cf Lc 6,20-26).

L’analisi delle rappresentazioni mentali della morte e di ciò che la segue ci portava precedentemente a concludere che solo il legame amoroso con l’"altro", con il quale nel corso della vita stabiliamo un rapporto intimo di reciprocità, permette di dare un senso alla risurrezione. Ora possiamo andare più lontano nella stessa direzione: l’"altro" a cui ci leghiamo e che ci permette di risorgere è "il povero" in senso biblico, colui che ha fame e sete di giustizia. Anche questo legame di solidarietà tra gli emarginati e gli sfruttati che hanno l’audacia di sperare in un mondo giusto, di prepararlo e magari di morire per esso, è sacramento di quella "vita eterna" che è già ora e che non finisce («Chi crede in me, anche se è morto, vivrà; e chi vive e crede in me non morrà in eterno»: Gv 11,25s).

Anche se è morto, vivrà: non è un gratuito paradosso; è una speranza tanto forte che si crede in diritto di sfidare le evidenze. La fede cristiana, che su questa speranza è fondata, sa riconoscerla anche quando non veste abiti religiosi, La ritroviamo, per esempio, in forma letteraria, in un romanzo che canta, come una specie di poema epico, le lotte tra oscuri comuneros, cioè appartenenti a una comunità contadina delle Ande, e i latifondisti alleati al potente monopolio di una Corporation statunitense.

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I poveri difendono la loro terra e la loro cultura; hanno il diritto dalla loro parte, ma non hanno la forza. Per questo finiranno annientati. I soldati, che sono lo strumento della prepotenza, faranno fuoco sui contadini che dimostrano pacificamente. Fortunato, un animatore della protesta, è falciato dalla prima raffica mentre sta dicendo: «Ci trattano come bestie. Non vogliono nemmeno parlare con noi. Se ci lamentiamo, non ci vedono; se protestiamo...». Lo sparo lo coglie all’improvviso. «Una fiacchezza universale sgominò la rabbia. Fortunato sentì che il cielo si andava sfondando. Per proteggersi dalle nubi, alzò le braccia. La terra si spalancò. Cercò di afferrarsi all’erba, sull’orlo della vertiginosa oscurità, ma le sue dita non ubbidirono e Fortunato rotolò, rimbalzando, fino al centro della terra.

«Qualche settimana dopo, nelle loro tombe tranquille, placati i singhiozzi, avvezzi all’umida oscurità, Don Alfonso Rivera gli raccontò il resto. Perché li aveva seppelliti così vicini che Fortunato udì i sospiri di don Alfonso e riuscì ad aprire un forellino nel fango con un rametto. "Don Alfonso, Don Alfonso", chiamò.

Il Personero, che si credeva condannato al buio eterno, singhiozzò. Pianse per una settimana, poi si calmò e, più sereno, lo informò che lui, Fortunato, era crollato al primo sparo, di schianto, sul suo stesso sangue» 13. Le ultime pagine del romanzo terminano così, pianamente, con le chiacchiere dei morti sotto terra, tra di loro e con i nuovi venuti. Si scambiano informazioni di vita quotidiana, con la partecipazione

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intensa alla vita di tutti che distingue la comunità contadina. Una finale in tono rassegnato? Al contrario: l’autore ha dato alla conclusione del suo racconto le ali di un canto corale di speranza; ne ha fatto una proclamazione di fede che il senso degli avvenimenti non è quello che trionfa sopra la terra con il mitico Recinto della Corporation che continua a snodarsi per rubare le terre ai contadini, ma è sepolto sotto terra, come il seme, aspettando la risurrezione.

Come pregano quelli che hanno una speranza

Lasciamo alla letteratura i suoi mezzi espressivi per proclamare la speranza. La comunità cristiana ha i propri. Tra questi primeggia la celebrazione liturgica dei funerali. La recente riforma del rito delle esequie — promulgata in Italia nel settembre 1974 — ci offre l’occasione di fare alcune considerazioni sul valore pedagogico e missionario dei riti cristiani di sepoltura. La riforma è stata voluta dal Concilio Vaticano II, il quale aveva domandato che il rito delle esequie esprimesse più apertamente «il carattere pasquale della morte cristiana» (SC 81). La decisione era dettata dalla fiducia che la celebrazione della morte può ridiventare un luogo privilegiato in cui è annunciata la "buona notizia" di cui la chiesa è portatrice.

Per valutare lo spirito che anima la nuova liturgia cattolica dei funerali è opportuno sapere

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che tra i cristiani stessi non è esistita sempre unanimità circa il significato dei riti tradizionali nella cristianità. Le polemiche hanno infierito particolarmente a partire dalla riforma protestante. Le chiese nate dalla riforma hanno avanzato riserve più o meno radicali nei confronti della preghiera per i morti; in quelle di tradizione calvinista si è arrivati al rifiuto di ogni gesto di culto. Queste posizioni si spiegano come reazione contro la dottrina del purgatorio, la pratica delle indulgenze e il culto dei santi, considerati dai riformatori come abusi intollerabili rispetto al puro Vangelo. Non ritenendo dunque conforme al Vangelo pregare per i morti, i riformatori ammettevano solo una preghiera per i viventi in lutto.

Attualmente le preghiere per i morti non animano più la discussione tra le confessioni cristiane. Ci si è resi conto che la preghiera per i morti ha senso o no a seconda della rappresentazione che ci si fa della morte e dell’aldilà. Anche riferirsi unicamente alla Sacra Scrittura non risolve il problema, perché la Bibbia stessa lascia convivere rappresentazioni di tipo diverso.

È legittimo perciò che nella cristianità ci siano tanto credenti che preferiscono rimettere a Dio i loro cari, abbandonandosi alla sua volontà, quanto altri che pregano per i loro morti, nella fiducia di poter influenzare la decisione divina circa la salvezza eterna. Le due differenti

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prassi, dipendenti da due diverse antropologie, riscuoteranno il favore dei cristiani più secondo le stratificazioni culturali che non in conseguenza della loro appartenenza confessionale; perciò potranno legittimamente sussistere all’interno di una stessa confessione.

Una delle novità più notevoli del rituale delle esequie recentemente introdotto è proprio l’esplicita preghiera per i familiari in lutto.

Il rituale romano, pur conservando tutta l’importanza tradizionalmente attribuita alla preghiera d’intercessione per l’anima del defunto, ha integrato ecumenicamente l’eredità liturgica del protestantesimo, secondo cui la celebrazione liturgica della morte è principalmente rivolta ai viventi in lutto. L’istruzione che accompagna il rituale specifica che il rito intende assicurare un duplice vantaggio: «aiuto spirituale per i defunti, consolazione e speranza per quanti ne piangono la scomparsa».

Il luogo liturgico più indicato per questa preghiera è l’antico rito della "valedictio", restaurato col nome di "ultima raccomandazione" o "commiato". Esso, come specifica l’istruzione ufficiale, non va inteso come una purificazione del defunto, bensì come «ultimo saluto rivolto dalla comunità cristiana a un suo membro, prima che il corpo sia portato alla sepoltura». Questo commiato sottolinea che, malgrado la separazione dolorosa, i cristiani, in quanto membri di Cristo e una sola cosa con

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lui, non possono essere separati neppure dalla morte. Il rito aiuta così ad assumere la morte reale, senza distruggere i legami affettivi che legavano al morto. Esso è prezioso psicologicamente, perché offre un sostegno nel travaglio del lutto. Nessuno psicanalista potrebbe far di meglio. Riconoscere questo valore alla parola di Dio non significa comprometterne la trascendenza. Vuol dire solo che la "consolazione" (nel greco del N. T. "paraclesi", che ci ricorda il nome attribuito allo Spirito in quanto consolatore per eccellenza: il Paraclito), di cui è ricca la parola di Dio, raggiunge l’uomo nella sua struttura psicologica concreta. Paolo invitava già i primi cristiani a ricorrere a questo conforto: «Consolatevi a vicenda con queste parole» (1Ts 4,18).

Il nuovo rituale attribuisce un posto privilegiato ai salmi. Li propone a ogni momento del rito: nelle preghiere a casa del defunto, durante la processione alla chiesa, nella celebrazione esequiale stessa e presso il sepolcro. Nessuna preghiera appare più adatta di questa, che è stata la preghiera del popolo di Dio dell’antica alleanza e la preghiera quotidiana di Gesù stesso, per esprimere il dolore e dar voce alla speranza della chiesa.

La comunità cristiana radunata per l’estremo commiato a uno dei suoi membri viene a trovarsi in una situazione missionaria. Il rituale ne è cosciente; lo dimostra nell’avvertimento

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che rivolge ai sacerdoti a dimostrare un particolare interessamento «per coloro che in occasione dei funerali assistono alla celebrazione liturgica delle esequie o ascoltano la proclamazione del Vangelo, siano essi acattolici o anche cattolici che mai o quasi mai partecipano all’Eucaristia, o dànno l’impressione di aver perduto la fede: i sacerdoti sono ministri del Vangelo di Cristo, e lo sono per tutti». Paolo raccomandava ai Tessalonicesi di non abbandonarsi ad esasperate espressioni di lutto «come gli altri, che non hanno speranza» (1Ts 4,13). Questo confronto tra la comunità che è portatrice della speranza per tutti gli uomini e "gli altri" è costitutivo della situazione missionaria. Ma situazione missionaria non vuol dire occasione per il proselitismo. La speranza dei cristiani non ha la loquacità aggressiva di chi maschera dietro il verbalismo il proprio vuoto di sicurezza. Essa si appoggia proprio a quei legami che si sono intrecciati durante la vita terrena, nell’amore e nella lotta per la giustizia, per aprire ai dolenti un futuro. E li rimanda agli amori e alle lotte che sono la sostanza della nostra vita nella storia, perché li assumano con lo Spirito che è l’eredità vivente del Cristo.

La comunità che porta queste speranze parla un linguaggio sobrio e discreto. Lo troviamo per intero nella seguente preghiera per il rito del commiato, dove i defunti non appaiono più

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come le presenze scomode da cui bisogna liberarsi, ma piuttosto come i compagni di una cordata lunga quanto la storia:

«Il nostro "addio"

anche se non nasconde la tristezza del distacco,

si conforta tuttavia nella dolcezza della speranza.

Di nuovo, infatti, potremo godere

della presenza del fratello nostro

e della sua amicizia

e, per il dono della misericordia del Padre,

questa nostra assemblea,

che ora con tristezza in questa chiesa terrestre sciogliamo,

lieti un giorno nel Regno di Dio ricomporremo.

Consoliamoci, dunque, vicendevolmente nella fede del Cristo».

[quarta di copertina]

I TEMPI FORTI

Gli spiriti più lucidi del nostro tempo si interrogano sull’avvenire del nostro pianeta. L’esplosione demografica, il saccheggio delle risorse naturali, l’inquinamento dell’ambiente rendono sempre più problematico il futuro dei vivi sulla terra.

Eppure la chiesa non cessa di proclamare un avvenire per i morti. Che senso ha continuare a credere e ad annunciare la risurrezione dei morti nel presente concreto del mondo? È un patetico anacronismo? È un alibi irresponsabile? O è una provocazione?

Il momento opportuno per sollevare questi interrogativi è offerto dalla duplice commemorazione dei santi e dei defunti con cui si apre il mese di novembre. È un «tempo forte» spontaneo del popolo cristiano. Un’occasione perché la pietà verso i defunti diventi attenzione alla presenza scomoda dei santi e dei morti in seno alla comunità dei vivi che non lascia cadere la speranza di un futuro di qualità.

NOTE

1 Ph. ArièsEssais sur l'histoire de la mort en Occident du moyen Age à nos jours, Parigi 1975, p. 186s.

2 R. Caillois, Quatre essais de sociologie contemporaine, Parigi 1951, p. 11.

3 R. Tagore, Le opere, tr. it., Milano 1966, p. 49.

4 Ib.

5 Cf O. Cullmann, Immortalità dell’anima o risurrezione dei morti?, tr. it., Brescia 1967, p. 19ss.

6 Ph. ArièsEssais sur l’histoire de la morte en Occident du moyen Age à nos jours, Parigi 1975, p. 155s.

7 Cf A. GodinComment parle-t-on de la morte? in Mort et présence. Études de psychologie, Cahiers de Lumen Vitae, Bruxelles 1971, pp. 39-62.

8 N. Lohfink, Attualità dell’Antico Testamento, tr. it., Brescia 1968, p. 241s.

9 L. WittgensteinTractatus logico-philosophicus, tr. it., Torino 1974, p. 80.

10 E. Kübler-Ross, La morte e il morire, tr. it., Assisi 1976, p. 121s.

11 A. Godin, «La mort a-t-elle .changé?» in Mort et présence. Ètudes de psychologie, Bruxelles 1971, p. 250.

12 K. Marti, Leichenreden, Neuwied 1969, p. 620.

13 M. Scorza, Rulli di tamburo per Rancas, tr. it., Milano 1972, p. 232.

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