Cosa è possibile oggi

Sandro Spinsanti

COSA È POSSIBILE OGGI

in Il testamento biologico

Atti degli incontri con la cittadinanza promossi dall'ADVAR

Fondazione Amici dell'Associazione Advar

Treviso, 2008

pp. 87-97

87

Si può proporre un percorso per esplorare il grande tema con il quale ci confrontiamo partendo dalle parole. Ne abbiamo sentito risuonare almeno tre, di grande importanza: Testamento biologico, Direttive anticipate, Dichiarazioni previe di trattamento. La mia proposta è di prendere le mosse, piuttosto, da una domanda: "Che cosa ci sta veramente a cuore ? Qual è l’obiettivo che vogliamo raggiungere e come possiamo ottenere ciò che vogliamo?"

La prima risposta, facile e intuitiva, potrebbe suonare: "Ci sta a cuore morire bene ed evitare una brutta morte". Questa, dunque, è la summa delle nostre preoccupazioni, la meta a cui tendiamo. Ma ci viene il sospetto che le cose non stiano proprio così come ce le raccontiamo. Qualche anno fa c’è stato un celebre psicologo, Paul Watzlawick, che ha scritto un libro di grande successo intorno al problema della felicità. Anche quel libro proponeva all’inizio un sospetto: "Se si domanda in giro alle persone che cosa vogliano, tutti rispondono che vogliono

88

essere felici". Infatti, se si va a vedere nelle biblioteche e nelle librerie, si trovano montagne di istruzioni per essere felici. Ma è meglio ― affermava Watzlawick ― non fidarsi di quello che le persone dicono, ma guardare piuttosto a quello che fanno. Se noi ci guardiamo intorno, ci accorgiamo che la maggior parte delle persone fa di tutto per essere infelice. Allora, Watzlawick ha rovesciato la proposta, scrivendo un libro di grandissimo successo: Istruzioni per rendersi infelici.

Seguendo il suo suggerimento, cerchiamo di applicare questo rovesciamento anche alla nostra questione. Ma veramente vogliamo morire bene? Oppure, in realtà quello che vogliamo è morire male? E se vogliamo morire male, quali sono le istruzioni per ottenere ciò che vogliamo? Mi sono divertito, in quanto direttore della rivista Janus, a chiedere a medici che lavorano nel campo delle cure palliative di scrivermi un articolo, sulla base della loro esperienza: "Come si fa a morire male?". Ho raccolto da parte di professionisti sanitari che hanno visto morire male tante persone degli articoli molto istruttivi. Per esempio, ecco la risposta del dott. Franco Toscani. “Morire male è facilissimo. Non richiede nemmeno un po' di pratica: basta lasciar fare agli altri. Soprattutto se avete una famiglia in conflitto, che approfitterà dei vostri bisogni per far esplodere dissensi e contrapposizioni; nipoti che litigano su chi dovrebbe essere il leader e l'erede; compagna contro moglie; marito e amante; nonni e figli; qualsiasi combinazione possibile. Ma se volete essere certi di morire male, un minimo di applicazione aiuta. Per esempio: tenete un attivo atteggiamento passivo” (Janus n. 22, estate 2006). E così via: sono pagine intense, molto illuminanti.

Un altro grande esperto, il dottor Gianbattista Cossolini, che dirige l'hospice di Bergamo, ha scritto anche lui "Istruzioni per morire male" (Janus n. 20, inverno 2005), raccontando, tra l'altro, questo piccolo episodio: “Ricordo un professore di liceo, con crisi di dispnea sempre più grave. Lo avevo curato seguendo le indicazioni, che mi aveva dato perla sua uscita dalla vita, che comprendevano la sedazione terminale in caso di mancata risposta alle terapie. Aveva condiviso la sua determinazione con i famigliari, da cui si stava congedando serenamente e con il medico di medicina generale. Ma sperava di poter attendere l’arrivo del fratello missionario per chiederne la benedizione. Quando questi arrivò, vietò ogni predisposizione precedentemente data dal malato in nome di una mistica della sofferenza, superata anche per indicazione del magistero cattolico. In questo modo riuscì a garantire

89

una morte angosciante al fratello e a colpevolizzare chi, come me, non era riuscito a mantenere fede alle promesse fatte nel prendersi cura”.

"Istruzioni per morire male": basta guardarsi attorno e chiedere ai professionisti sanitari, e se ne trovano in quantità. Quello che mi sembra molto convincente, nei consigli per morire male, è che la ricetta di più garantito successo è lasciar fare agli altri. Se, invece, non vogliamo morire male, bisognerà decidersi a prendere in mano la situazione. E questo è il primo, fondamentale consiglio. Però c'è una condizione preliminare: avere l'informazione, sapere quello che ci sta succedendo. Quale rapporto c'è tra il sapere, quindi l'essere informati, il consenso informato e le volontà previe? Il Comitato nazionale per la bioetica, nel 2003, in un documento sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento, fa questa affermazione: "Il consenso informato, che si traduce in una più ampia partecipazione dei cittadini alle decisioni che li riguardano ― essere partecipi, esserci dentro alle decisioni ― si applica a tutto il processo di cura, ma è particolarmente richiesta questa partecipazione quando il soggetto potrebbe essere privato delle facoltà cognitive e della stessa coscienza, trovandosi così a dipendere interamente dalla volontà degli altri”. Se, dunque, per qualsiasi decisione medica, è importante conoscere, se vogliamo partecipare alle scelte, è soprattutto importante quando sono altri che decidono.

Riguardo a questo assunto di base, che sta al fondamento di quanto propone questo autorevole documento, dobbiamo tener presenti due cose. Primo: l’orientamento è recente. Secondo: è profondamente innovativo. Se noi accettiamo questa impostazione, secondo cui per avere una buona morte, come per avere un buon trattamento medico, è essenziale avere le informazioni ed è importante partecipare alle scelte, ebbene è opportuno essere consapevoli che fino a pochissimo tempo fa ― voglio dire dieci-quindici anni, per essere molto generosi ― questo orientamento era completamente fuori dal nostro orizzonte. La seconda affermazione riguarda la portata di questo cambiamento: è molto innovativo, nel senso che sconvolge completamente i rapporti con i medici, con i famigliari, con le strutture.

Fino a non molto tempo fa ― in concreto, fino alla metà degli anni Novanta ― esisteva una buona medicina che poteva non prevedere l’informazione. Anche senza informare il malato si prendevano le decisioni a suo beneficio. L'etica medica che reggeva tutto il sistema dei rapporti tra sanitari e cittadini, di fronte a questi due interrogativi: 1) l'informazione

90

è necessaria per fare buona medicina? Rispondeva: no; si può fare buona medicina senza informare il paziente. 2) Se decidiamo di dare informazioni, chi dobbiamo informare? Riguardo a questo secondo interrogativo, la risposta era: si può informare tutti, tranne il paziente. L’informazione era riferita alla benevolenza del medico. Non era un diritto del paziente. Il medico poteva, bontà sua, informare se voleva. Insomma, nei confronti della buona pratica medica, l'informazione era un optional.

Questo valeva, in particolare, rispetto a quell’ambito della pratica medica che ha a che fare con le cattive notizie. L'informazione difficile da dare era quella che ci porta a dire: "Le cose vanno male, la prognosi è infausta". Non si tratta di dare le buone notizie: queste tutti le sanno dare. Come dice Woody Alien in un suo film: "La parola più bella del mondo non è 'ti amo', ma 'è benigno'". Dire: "È benigno" non comporta alcuna difficoltà; ma quando si tratta di dire: "È maligno. Le prospettive sono infauste", l’etica medica che era in vigore fino a poco tempo fa attribuiva al medico la facoltà di decidere lui se informare o non informare.

Un'illustrazione delle regole che sovraintendevano alla pratica della medicina è offerta da una scena di un film celebre, della metà degli anni Cinquanta: La gatta sul tetto che scotta. Riguarda un signore di sessantacinque anni, che, accompagnato dal suo medico, è andato in ospedale per stabilire la natura dei suoi malesseri. Il suo ritorno è stato anticipato dalla notizia fausta: non ha niente! Ma il medico va dal figlio e gli comunica che il padre ha un cancro e non c’è più niente da fare. Alla domanda del figlio se al padre hanno comunicato la diagnosi, il medico risponde: "Gli ho mentito: etica professionale".

Queste regole sono state in vigore, per quanto riguarda i medici italiani, fino alla revisione del Codice deontologico, datata 1995. Fino a pochissimo tempo fa, dunque, il Codice deontologico attribuiva al medico assoluta discrezionalità circa il dare o non dare l’informazione; in ogni caso l’interlocutore non era il malato, ma, eventualmente, il famigliare. Il comportamento del dottore nel film La gatta sul tetto che scotta era valido anche da questa parte dell’Atlantico, perché perfettamente in linea con le regole deontologiche. Almeno finché non sono cambiate, una quindicina di anni fa.

Ci domandiamo: perché sono state cambiate le regole deontologiche? Perché parliamo ora di consenso informato? Mi piacerebbe poter dire:

91

perché abbiamo fatto nostra la domanda che il film mette in bocca al figlio: "È giusto illuderlo così?". Vorrei poter dire: abbiamo riflettuto a lungo e abbiamo deciso che non è giusto. E aggiungo: siamo arrivati alla conclusione che si muore peggio se altri gestiscono le informazioni, escludendone il malato. Ma le cose non sono andate così. Mi sembra di poter dire, purtroppo, che il consenso informato, ovvero l’informazione al paziente, dagli anni Novanta in poi, nel nostro Paese, si è diffuso soprattutto per ragioni di difesa dei medici. Predomina l’impressione che la pratica del consenso informato sia una forma molto diffusa di medicina difensiva. Si potrebbe dire: "Paziente informato, medico salvato". Il consenso informato, in altri termini, non è pensato in funzione di una medicina buona, ma di una medicina sicura.

Il passaggio dall'etica medica, quella che rappresentava il medico ("Ho mentito perché questa è l'etica professionale, lo devo fare il bene del paziente e io so qual è il bene del paziente"), alla bioetica, che presuppone che ci siano delle decisioni condivise, richiede che, prima di tutto, per poter decidere insieme al medico ci sia un'informazione previa. Questo è lo scenario della bioetica, che riconosce al malato il diritto all'informazione, per essere messo in grado di poter decidere. Ciò che caratterizza l’insieme di regole che chiamiamo "bioetica" è chi decide, dato che anche coloro che ci amano possono decidere con punti di vista diversi da noi. Tutto questo, se è vero in generale per la medicina, è pertinente al massimo grado per le decisioni di 'fine vita'. In questo tipo di decisioni le differenze individuali sono drammatiche. In altre parole, le possibilità ― per usare il termine introdotto dal bioeticista americano Tristam Engehardt ― di avere a che fare con degli "stranieri morali", sono non solo frequenti, ma quotidiane. Molto spesso gli stranieri morali possono essere anche quelli che vivono sotto il nostro stesso tetto e talvolta anche quelli che dormono nello stesso letto.

Le scelte più sintoniche con i valori personali sono diverse dall’uno all’altro. Vorrei illustrare questo assunto con due esempi estremi.

Mi appoggio alla rivista Janus, che ha una rubrica intitolata "Pazienti particolari". In questa rubrica vengono presentati dei profili di persone note, che hanno fatto scelte in sintonia con i propri valori personali. Uno di questi ritratti è stato dedicato a Susan Sontag, la celebre scrittrice americana (Cfr. Janus n. 21, primavera 2006). Arrivata a settant'anni, la Sontag si scopre un cancro, va a Seattle, fa un trapianto di midollo che non funziona ed è disperatamente alla ricerca di poter trovare un

92

rimedio. Un medico le dice: "Sì, ci sarebbe una terapia sperimentale, ma è molto rischiosa, perché può dare una qualità della vita pessima". Susan Sontag risponde che a lei della qualità della vita non importa niente: "Se c'è ancora una minima possibilità, io voglio rischiare". Il medico le propone le cure palliative, ma a lei non interessano. Vuole tentare, se c’è ancora una minima possibilità di rimanere attaccata alla vita. Come mi raccontava un medico di un paziente affetto da SLA, che sapeva che sarebbe arrivata la paralisi respiratoria e gli diceva: "Dottore, mi raccomando: quando arriva la paralisi, anche se c'è un minuto di vita in più, lei me lo deve assicurare". Quindi: tracheotomia, ventilazione meccanica: tutto, anche per un solo minuto di vita in più! È la scelta che ha fatto, morendo peraltro molto male, Susan Sontag. Ma è stata la 'sua' scelta.

In un numero successivo della rivista Janus, è stato presentato Tiziano Terzani. Molti lo conoscono, sappiamo che ha fatto una scelta radicalmente diversa. Anche lui si è fatto curare il suo cancro; ha fatto radioterapia, chemioterapia, chirurgia, tutto ciò che la migliore medicina poteva offrirgli. Poi ha fatto un giro per il mondo, ha capito delle cose importanti; si è reso conto che la malattia da cui doveva guarire non era il cancro, ma l'illusione dell'immortalità. Dopo alcuni anni ha una recidiva e gli dicono: "Caro Terzani, un altro giro di giostra: affronti la malattia con un’altra battaglia terapeutica". Come sappiamo, Terzani risponde di no; nel tempo che gli resta farà le cure palliative, andrà nella sua casa di Orsigna e lì, con il figlio, farà un bilancio della sua vita: "Parliamo, parliamo, parliamo". Ed è morto così. Susan Sontag, Tiziano Terzani: chi ha ragione? Quale delle scelte così opposte è giusta, quale sbagliata? È una domanda insensata, se tutt’e due hanno scelto in armonia con la propria vita e con i propri valori. Non c’è un modo giusto di morire: c’è il modo personale di morire, di strutturare delle scelte. Per qualcuno ciò significherà rimanere aggrappato alla vita come una cozza allo scoglio, fino all’ultimo momento, tanto che la morte dovrà strapparlo a forza. Qualcun altro lascia la vita prima, con dolcezza fa altre scelte, dà altre priorità.

Ecco, la bioetica in questo contesto di diversità, in cui non ci sono due persone uguali, che fanno le stesse scelte, ci apre una prospettiva appassionante. La possiamo chiamare la promessa di una "tailored ethics", ovvero di un’"etica sartoriale". Mutuo l’espressione dalla "tailored therapy” (terapia sartoriale) molto in voga tra gli oncologi. Ha a che fare con un salto di qualità epocale che sta facendo la medicina.

93

Attraverso il genoma delle persone la farmagenomica cerca di trovare il farmaco giusto per quella singola persona, il farmaco mirato sulla sua specificità genetica, quella che rende ogni individuo diverso da un altro. Il modello dal quale ci si differenzia è quello che potremmo chiamare medicina da Grandi magazzini. È diverso il vestito che esce dal grande magazzino da quello che viene confezionato dal sarto su misura. Per i farmaci di nuova generazione, che nascono dalla rivoluzione della farmagenomica, questa è la speranza di domani. Per l’etica, invece, deve essere la realtà di oggi. Nel senso che quello che noi vogliamo è un’etica sartoriale, cioè che mi sia tagliata addosso su misura, non acquistata nei magazzini che offrono modelli standardizzati (per i quali intendo la legge, che naturalmente deve essere uguale per tutti, ma anche le agenzie religiose, se pretendono di confezionare abiti tutti uguali per i propri credenti). L’etica sartoriale è quella che mi viene cucita addosso, a taglia unica, su misura.

Questa immagine dell’etica sartoriale la possiamo accostare a una metafora che troviamo in un celebre dramma di Bernanos: I dialoghi delle carmelitane. La vicenda è ambientata al tempo della Rivoluzione francese. Protagonista è una giovane nobile, Blanche de la Force, che per paura del mondo si rifugia in un convento di carmelitane. Nel convento domina una madre superiora, una grande figura, una donna austera, di principi solidi; in quanto religiosa, è vissuta sempre in attesa della morte, perché per lei la morte non è la fine di tutto, ma l’inizio della vita eterna. Blanche ha una sorpresa: quando questa superiora arriva alla fine della sua vita, muore malissimo; si aggrappa alla vita disperatamente, perde la fede, non vuol morire. Una consorella, commentando quella morte con Blanche dice: "Si direbbe che al momento di dargliela, il buon Dio si è sbagliato di morte, come in guardaroba vi si dà un vestito per un altro. Sì, quella doveva essere la morte di un’altra, una morte non sulla misura della nostra priora, una morte troppo piccola per lei, e lei non riusciva a infilarne neanche le maniche". Con questa efficace immagine della morte sartoriale ― la mia morte personalissima, quella che è tagliata su misura per me ― ci inoltriamo nel più ampio territorio dell'etica sartoriale". Nel dramma di Bernanos c’è poi uno sviluppo inaspettato, perché Blanche farà una grande scelta: lei che era riuscita a salvarsi dalla morte sulla ghigliottina, a cui erano state condannate le sue consorelle, si offre volontariamente al patibolo, come ultima (è il titolo del romanzo che ha ispirato Bernanos: L’ultima al patibolo).

94

Secondo Bernanos, non moriamo solo per noi stessi e non viviamo per noi stessi, ma per gli altri. Per il nostro discorso, lasciando gli aspetti mistico-spirituale, ci concentriamo sulla domanda: "Cosa fare per poter morire della nostra morte? Quella su misura per noi?". Ancora una citazione, da Rilke nel Libro d’ore: "Signore, dà a ciascuno la sua morte,/la morte che da quella vita viene,/in cui ebbe amore, anima, angoscia,/perché noi siamo solo guscio e foglia;/la grande morte che ciascuno ha in sé/è il frutto intorno a cui tutto si volge".

Cosa fare perché ciascuno possa avere la 'sua' morte, quella che ciascuno ha in sé, quella che nasce dalla propria vita? La prima cosa è cominciare con il piede giusto. E il piede giusto è ascoltare. Il Comitato nazionale per la bioetica, come abbiamo registrato, afferma che le Direttive anticipate sono legate al consenso informato. Bisogna informare il paziente, aspettare di avere il suo consenso in tutto il processo della vita fino alla morte. Prima dell’azione c’è l’informazione. Ma dobbiamo retrocedere ancora: il primo passo non è l’informazione, è l’ascolto. Perché chi informa deve prima sapere che cosa vuole la persona in trattamento, se vuole essere informato o non vuol sapere, se vuole partecipare o non vuole partecipare, se vuole andare incontro alla morte con gli occhi chiusi o con gli occhi aperti. Sono alternative radicalmente diverse. Quindi, il primo passo per poter assicurare a ciascuno la 'sua' morte, la morte giusta, la morte sartoriale, non è l’informazione, ma l’ascolto.

Ho trovato con grande piacere che, mentre nel Codice deontologico dei medici, in tutte le diverse versioni che si possono succedere nel tempo, non si parla mai, tra i doveri del medico, di ascoltare ― benevolmente, posso ipotizzare che il motivo è che i medici l’ascolto lo danno per scontato... ―, nel Codice deontologico degli infermieri c’è scritto che l’infermiere "ascolta, informa, coinvolge la persona, valuta con la stessa i bisogni assistenziali, anche al fine di esplicitarne il livello di assistenza e consentire all’assistito di esprimere le proprie scelte". In queste indicazioni ravvisiamo un grande rovesciamento di prospettiva. Il consenso informato non ci risolve il problema di riuscire a fare le scelte su misura, perché il primo passo è capire che cosa vogliano le persone. Se non c’è questo primo passo, il processo non giunge a buon termine.

L’ascolto di cui parliamo non è soltanto un'esortazione filantropica alla benevolenza, del tipo: "Dottori, infermiere, ma ascoltate un po’ il

95

paziente!". Stiamo invece parlando di un ascolto che deve diventare metodo, deve tradursi in procedure applicate non sporadicamente, ma sistematicamente; non dai professionisti sanitari ben disposti, ma da tutti. E perché sia una pratica sistematica bisogna che l’ascolto sia instaurato sin dall’inizio: non può venire all’ultimo momento, nella fase terminale della vita, quasi che sia un raccogliere "le ultime volontà". Deve accompagnare tutto il processo di cura.

Voglio citare brevemente due esempi, che mi sembrano molto convincenti. Uno è la ricerca sistematica delle preferenze del paziente, così come viene praticata all’istituto dei tumori a Milano. Ai pazienti erogano un questionario che è chiamato "End of life preferences interwiew", un’intervista sulle preferenze riguardo alla fine della vita.

È molto importante sottolineare che non viene data un’informazione a chi non vuole. Per cui nel questionario ci sono delle domande chiave. La prima è questa: "Avremmo bisogno di conoscere le sue preferenze. Desidera parlarne in questo momento?". Perché, se il paziente non desidera parlarne, o non in quel momento, non si può andare avanti. Non si buttano sul paziente le informazioni, quasi che il sanitario voglia scaricarsi la responsabilità delle scelte. La seconda domanda chiave: "Qualora le sue condizioni dovessero peggiorare tanto da far prevedere una breve aspettativa di vita, lei vorrebbe saperlo?". Non tutti vogliono saperlo. Un paziente, al quale un medico cercava di fare questo avviamento a una scelta in là nel tempo, ma prevedibile, perché la malattia era cronica e andava verso la fine, l’ha interrotto dicendogli: "Dottore, soprattutto non mi racconti la fine". Non voleva sapere come la malattia sarebbe proceduta e le scelte che sarebbe stato necessario fare (nel caso specifico, si trattava di decidere se fare o no la tracheotomia e procedere alla ventilazione meccanica). In questo modo lasciava ad altri la cura di prendere le decisioni su di sé. È un’opzione che bisogna lasciare alle persone. Terza e ultima domanda chiave: "Desidera parlare in questo momento di che cosa potrebbe essere importante per lei alla fine della vita?". Queste sono domande che poi avviano tutta una serie di informazioni raccolte sistematicamente, a disposizione non soltanto del medico che è lì quel giorno in servizio, ma di tutta l’équipe, perché queste informazioni sono patrimonio di tutti coloro che seguono il malato. Non è pensabile, se vogliamo assicurare alle decisioni che incombono sulla nostra vita la misura dell’"etica sartoriale" che questo dipenda da chi è in servizio quel giorno.

96

Un secondo esempio si può trovare nel libretto che raccoglie gli atti del Convegno annuale promosso dal Comitato di bioetica di Bergamo: Decidere in medicina. Un articolo riferisce l’esperienza, che sta facendo in un ospedale di Roma, il San Camillo, la dottoressa Dagmar Rinnenburger con i pazienti con insufficienza respiratoria. Per la loro patologia quei pazienti si troveranno inevitabilmente davanti alla scelta: tracheotomia, non tracheotomia, ventilazione meccanica, non ventilazione meccanica. Le preferenze tra i pazienti sono le più varie: alcuni vorrebbero essere intubati, altri no. Il questionario e l’indagine sistematica servono per rilevare le differenze, affinché le scelte finali non dipendano dalle preferenze dei sanitari, ma da quelle delle persone malate.

La proiezione delle proprie preferenze ("Io non vorrei sopravvivere così"...) non può essere un criterio di decisione clinica eticamente accettabile.

Vorrei condividere con voi l’osservazione finale di Dagmar Rinnenburger: "Il questionario, visto come modello sistematico di interrogazione, di raccolta delle preferenze, non è il surrogato di Direttive anticipate, che sono, comunque, difficili, complesse, soprattutto in continuo cambiamento, con il migliorare e il peggiorare della malattia, f questo che fa tutta la fondamentale differenza con un atto scritto una volta e depositato da un notaio. Questo è un processo di raccolta sistematica che accompagna l'evoluzione della malattia. Può essere, però, uno strumento di comunicazione utile nel difficile percorso della malattia cronica e, soprattutto, aiuta a condividere e a non imporre e subire decisioni terapeutiche". Ciò vuol dire, allora, in buona sostanza, che queste decisioni di fine-vita, se sono buone decisioni, sono prese insieme, medico e paziente. "Pattinando insieme sul ghiaccio", era il sottotitolo del convegno di Bergamo: un’immagine che rappresenta molto bene la precarietà, ma anche, la bellezza di una decisione condivisa: come una danza fatta insieme. Una 'bella' morte è una creazione estetica, oltre che etica.

Concludendo, vorrei rimandarvi alla copertina del libro da cui ho tratto queste considerazioni, perché ritengo che la grafica che l'ha creata ha avuto un momento di genialità. Ci sono nove figure, con nove ombre e soltanto in un caso la figura e l'ombra coincidono. Noi, l'Advar e tutti coloro che lavorano nell'ambito delle cure palliative, osiamo dire "We have a dream", abbiamo un sogno: che nelle decisioni di fine-vita ciascuno di noi possa proiettare la sua ombra, non avere un'ombra uguale

97

per tutti, decisa per legge, decisa dall'alto in basso; che le ombre, tutte diverse, riflettano le vite, che sono tutte diverse.