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Sandro Spinsanti
A PROPOSITO DI EUTANASIA
in Salute e territorio
anno XVI, n. 92, settembre ottobre 1994, pp. 2-3
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È prevedibile che nel prossimo futuro le nostre società dovranno confrontarsi con il tema della regolazione giuridica dell’eutanasia. Alcuni tentativi pionieristici — come le leggi varate dall'Olanda e dall’Australia — sono stati accompagnati da un dibattito vasto e appassionato, come ci si può aspettare quando si tocca un punto su cui il consenso è rimasto inalterato per secoli. Una opposizione decisa, venuta a rafforzare quella prevedibile della morale religiosa, è stata espressa dal mondo medico. Il coinvolgimento dei medici, infatti, nel porre fine alla vita di un uomo, anche su sua stessa richiesta, infrange un postulato fondamentale dell’etica ippocratica. Nel Giuramento d’Ippocrate, infatti, che risale al V secolo a.c., il medico si impegna: «Giammai, mosso dalle premurose insistenze di alcuno, propinerò medicamenti letali». Abbandonare questo caposaldo dell’etica medica, che ha tenuto per più di due millenni, è vissuto come un evento pericoloso, e causa del suo potenziale di destabilizzazione rispetto all’intera struttura del rapporto medico-paziente.
Una novità inquietante giunge ora dallo stato americano dell’Oregon, che ha votato per referendum una legge innovativa in tema di eutanasia: la «misura n. 16». Il testo di questa legge sembra scritto tenendo presenti le obiezioni dei medici. Il processo dell’eutanasia è organizzato, infatti, in modo tale che si possa svolgere senza il loro coinvolgimento diretto. Quando il medico riceve una richiesta di morte da un «candidato», è tenuto a consultare un collega; stabilito che la malattia è inguaribile e il dolore in nessun altro modo controllabile, questi prescriverà la giusta dose di medicinali che assicurano la morte. Ma non la somministrerà al paziente, che dovrà mettere fine attivamente alla propria vita.
L’escamotage sembra ineccepibile : le possibili obiezioni di giuristi e filosofi sono smontate preventivamente. Questa legge ci appare come il prodotto perfetto della bioetica americana. Da una ventina d’anni negli Stati Uniti le regole che tradizionalmente hanno regolato i rapporti tra sanitari e pazienti sono entrate in un processo di revisione totale. Il rispetto delle decisioni autonome del paziente è diventato l’imperativo prioritario rispetto all'obbligo del medico di fare ciò che, secondo scienza e coscienza, ritiene benefico e salutare per lui. Il principio dell’autodeterminazione ha assunto il primo posto rispetto a quello di «beneficità» (beneficence, in inglese) come criterio per valutare la qualità etica di un atto medico.
Il cambiamento promosso dal movimento della bioetica ha radici profonde nella società americana. L’antecedente più celebre è stato trovato in una sentenza del 1914, emanata dal giudice Benjamin Cardozo. Chiamato a giudicare un ortopedico che aveva operato un paziente senza avvertirlo dei rischi che correva di perdere l’uso del piede, aveva condannato il medico, sulla base del principio: «Ogni essere umano adulto e capace di intendere e di volere ha il diritto di decidere cosa viene fatto al suo corpo». La stessa sentenza formula il diritto all’autodeterminazione rispetto alle scelte mediche come «diritto di essere lasciato solo».
Nella ambivalenza della formula troviamo rispecchiata la duplice anima di una bioetica tutta modulata sul rispetto delle decisioni autonome. È certamente un valore difendere lo spazio privato della propria vita e non essere costretto a subire le decisioni di altri che scelgano per noi come e quanto vivere. Anche coloro che sono motivati dall’intenzione di fare il nostro bene — e, fino a prova contraria, vogliamo pensare che tale sia il medico intenzionato a prolungare con ogni mezzo la vita del paziente — non possono decidere al posto nostro. Abbiamo il diritto di essere lasciati soli non solo da coloro che vorrebbero nuocerci, ma anche da quelli che, con la loro benevolenza, potrebbero prevaricare la nostra volontà.
Ma la figura del malato che, disperando di guarire, chiede la morte, mette in luce anche un altro lato della solitudine. Il medico che rispetta il suo desiderio e gli fornisce i mezzi per
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mettere fine alla vita lo lascerà solo in un modo che è intollerabile al senso morale, formato ai valori della solidarietà. Forse, proprio in quel momento di estrema angoscia — vorremmo opporre — il malato ha diritto di non essere lasciato solo!
Mentre esaminiamo criticamente la legge sull’eutanasia dell’Oregon, riconoscendo in essa uno dei frutti più emblematici della bioetica di impianto americano, non possiamo evitare di chiederci in quale considerazione tenere i prodotti di tale movimento. Non solo rispetto all’eutanasia o all’aiuto da offrire al paziente che chiede di morire, ma, più in generale, riguardo ai tanti problemi che suscita la pratica quotidiana della medicina. Qualcuno vorrebbe, semplicemente, rinviare al mittente la bioetica che viene dall’America. Ma questa sarebbe un’operazione miope. Almeno così ritiene il Comitato nazionale italiano per la bioetica, il quale ha recepito in uno dei suoi documenti di maggior impegno («Informazione e consenso all’atto medico», 20 giugno 1992) il pilastro centrale della bioetica fondata sul rispetto dell’autonomia: l’«informed consent». Ma, invece di respingerla in blocco, dovremo sottometterla a un’azione di discernimento, vagliando le sue proposte e accogliendo solo quelle compatibili con il tipo di società che vogliamo promuovere. E, soprattutto, non limitarci a un’opera di importazione: in continuità con la nostra tradizione, dobbiamo essere in grado di produrre la nostra bioetica, vale a dire le nuove regole di comportamento che iscrivano i valori di sempre in una pratica della medicina indubbiamente innovativa rispetto al passato.