- Direttive anticipate
- Morte cerebrale, donazione e prelievo di organi
- Morte
- Accanimento terapeutico
- Umanizzare la malattia e la morte
- Una morte si misura
- Eutanasia?
- Il pensiero e la prassi dell'eutanasia nell'etica cattolica
- L'eutanasia e i problemi etici del morire
- Scelte di fine vita: l'orizzonte etico
- A proposito di eutanasia
- Umanizzare la morte per prevenire l'eutanasia
- Decisioni di fine vita
- Una medicina per chi muore
- Pluralismo di opzioni etiche
- Medicina ed etica di fine vita
- Eppure è viva
- Atteggiamenti etici di fronte alla morte
- Come parlare ai bambini della morte e del lutto
- Cosa è possibile oggi
- Dopo l'ultimo respiro
- Accompagnare la morte
- La buona morte
- Sguardi sulla morte
- Vivere l'ultimo istante
- Gli aspetti etici della comunicazione con il paziente terminale
- L'autodeterminazione e la vita spirituale alla fine della vita
- Tante cure per chi nasce...ma quante per chi muore?
- Pensieri del tempo breve
- Informazione, comunicazione, consenso
- Ai confini tra la vita e la morte
- Morire da cristiani
- Scelte etiche ed eutanasia
Sandro Spinsanti
ACCOMPAGNARE LA MORTE
in La buona morte
a cura di Laura Novati
Morcelliana, Brescia 2009
pp. 75-94
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Con l'espressione ars moriendi si fa riferimento a un particolare genere trattatistico, affermatosi nel periodo a cerniera tra il Medioevo e il Rinascimento. Ne rimangono circa 300, duecento conservati in forma manoscritta e un centinaio in incunaboli. Si tratta di scritti di struttura e contenuto analogo, di natura didattico-devozionale, destinati sia al popolo sia ai lettori più colti i.
Alcuni sono semplicemente una raccolta di preghiere e di meditazioni sulla morte, altri, oltre a una miscellanea di pensieri sulla morte di autori cristiani, contengono avvertimenti ai moribondi sulle tentazioni
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cui sono esposti, abbozzi di risposte ai dubbi da cui il moribondo può essere assalito, nonché consigli alle persone che assistono il moribondo e preghiere che devono recitare.
Le tentazioni contro le virtù (la fede, la speranza, la pazienza, il distacco dai beni...) possono infatti aggredire sino alla fine; se vengono vittoriosamente superate, l'anima del moribondo viene consegnata agli angeli. Alcune artes moriendi, infine, contengono brani biblici accompagnati da brevi considerazioni sulla morte e immagini che illustrano i testi riportati.
Per il tema che qui interessa, l'ars moriendi in tutte le sue declinazioni considerava comunque la morte come un processo, per affrontare il quale l'uomo ha bisogno di aiuto: come deve essere aiutato a entrare nella vita, alla nascita, così deve essere assistito per uscirne. Questo aiuto non spetta alla medicina, in quanto il morire non può essere considerato solo un processo fisico-corporale: il morente ha infatti bisogno specialmente di un accompagnamento umano e spirituale che, in una prospettiva religiosa, lo aiuti a prepararsi al giudizio divino imminente. L'eutanasia ― nella sua accezione originaria di aiuto per una "buona morte" ― emerge come un compito non medico, bensì filosofico-religioso.
Tanto più che, nell'ultima fase della vita, la morte dovrebbe occupare in maniera crescente la coscienza. Già San Gregorio Magno aveva parlato della prolixitas mortis: la morte che si dilunga coincide
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con l'esperienza del limite e della finitezza e quindi l'ars moriendi ci mostra, considerata in questa prospettiva, il suo vero volto: non è altro che l'altra faccia dell'ars vivendi.
In altre parole, non ci si può appropriare del significato della morte sul punto di morire, se la morte è stata assente dal pensiero di tutta una vita. L'ars moriendi va dunque intesa soprattutto come un apprendistato permanente, grazie al quale la persona previene di essere collocata forzatamente di fronte alla morte come a una realtà estranea.
Su questa linea si pone peraltro anche l'umanesimo cristiano del Rinascimento, come testimonia l'opera di Erasmo da Rotterdam, La preparazione alla morte, del 1533, anche se la philosophia christiana si riallaccia esplicitamente alla tradizione classica: ripropone il "memento mori" non per svuotare di significato e di qualità l'esperienza terrena, ma per darle più valore, inquadrandola entro un orizzonte di finitezza, che in termini teologici è l'esistere come esseri creati.
1. Forme di ars moriendi contemporanee
La nostra epoca vede un fiorire di iniziative che, frettolosamente, sono state considerate come un revival della trattatistica relativa all'ars moriendi, in quanto accomunate dalla volontà di riportare la morte al centro dell'attenzione, ad opera di "esperti del morire". È indicativa la parabola di Elisabeth
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Kübler-Ross ii, che da psichiatra attenta alla psicodinamica del morire ― con le sue classiche "fasi del morire" ― si è progressivamente collocata in un ambito più esplicitamente spirituale, con l'intento di favorire una riappropriazione sapienziale della morte che integri anche le tradizioni spirituali dell'oriente. Periodicamente emergono figure carismatiche, che si conquistano laicamente la qualifica di esperti dell'accompagnamento dei morenti e attirano consensi alla causa dell'umanizzazione (o riumanizzazione) del morire. Citiamo solamente il forte ruolo giocato da Marie de Hennezel iii, soprattutto in Francia, grazie anche all'appoggio autorevole
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concesso le dal presidente François Mitterand. Questi ha espresso pubblicamente la consapevolezza della malattia mortale che l'aveva colpito e ha validato l'approccio di Marie de Hennezel, che ha spinto la sua competenza di psicologa nell'accompagnamento dei morenti fino a promuovere l'aptonomia, ossia la scienza del contatto affettivo che si stabilisce attraverso l'incontro tattile.
«Come morire?», si chiede François Mitterand introducendo il libro di Marie de Hennezel, La morte amica. «Se c'è una risposta, sono poche le testimonianze capaci di ispirarla con la forza di questa». L'insegnamento principale che il presidente francese ne trae è che «la morte può far sì che un essere diventi ciò che era chiamato a divenire; può essere, nella piena accezione del termine, un compimento».
Possiamo includere nel filone dei "Death Studies" anche la pubblicazione di numerose testimonianze, a metà strada tra la denuncia e la proposta, in particolare provenienti dall'ambito del volontariato nelle cure palliative che sollecitano la domanda: equivale tutto ciò all'elaborazione di una ars moriendi per i nostri giorni? Decisamente no.
La condizione che esista un'arte del morire e che questa si possa imparare non è condivisa. Soprattutto è entrato in crisi l'umanesimo come convinzione ingenua di poter parlare dell"'uomo" al singolare, senza passare per le innumerevoli declinazioni dell'umano seguite dalle diverse culture. Ancor più incide il pluralismo dei modelli etici: prevale
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fisionomia di una società composta di "stranieri morali", ai quali non può essere applicato un identico modello di "morte ideale".
Harold Brodkey iv, lo scrittore americano che ha avuto il coraggio di redigere un resoconto dettagliato del suo ultimo soggiorno in ospedale, conclusosi con la morte, traccia una linea minima. Ritiene che si debba quanto meno «morire da persone educate». Riconosce che il suo è un «ottimismo senza speranza»: non solo cioè senza la speranza religiosa di un'altra vita, ma anche senza la speranza secolare che consiste nel guardare al futuro («È il fondamento dell'America, questo guardare al futuro. Noi ― creeremo ― una nazione, e avremo giardini, piscine e chirurgia plastica. Il sogno americano è quello di ricostruire dopo l'alluvione, trovandosi in condizioni migliori di prima, di superare questa o quella sfida, fino alla morte, morte inclusa. Beh, come si fa a essere ottimisti per il momento? Senza speranza?»).
L'arte del morire viene ridotta a una specie di galateo, ovvero alla recita fino alla fine della parte del vivo, così come coloro che circondano il paziente si aspettano da lui:
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I miei amici e conoscenti che erano morti di AIDS, verso la fine, quasi tutti, avevano un'aria di nervosa finzione, come attori guardinghi. Forse era sempre stato chiaro, ma adesso mi era chiarissimo, che si recita una parte nel restar vivi e che il posto in cui si recita questa parte è vuoto, privo di pavimento, e di una definizione percepibile. Si recita questa parte con un brio alla rovescia, cercando di nascondere (senza riuscirei) la propria condizione di non residenti.
Le voci dei nostri contemporanei ci rendono consapevoli di quanto sia cambiato l'atteggiamento nei confronti della morte. Tuttavia riusciamo a individuare una costante, costituita dalla tipologia sommaria di due gruppi di persone: coloro che escludono la morte dal proprio campo di consapevolezza e coloro che la morte preferiscono guardarla in faccia e, nei limiti del possibile, controllarla. Per riferirei a formulazioni classiche dei due modelli, possiamo descrivere il primo tipo con le parole di Pascal:
Distrazione. Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l'ignoranza, hanno risolto, per vivere felici, di non pensarci [...].
Nonostante tutte queste miserie, l'uomo vuoi essere felice, e vuole soltanto essere felice, e non può non volere essere tale. Ma come fare? Per riuscirci, dovrebbe rendersi immortale; siccome non lo può, ha risolto di astenersi dal pensare alla morte.
Michel de Montaigne dà voce all'opzione opposta: tenere lo sguardo fisso sulla morte:
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Per cominciare a toglierle il suo maggior vantaggio su di noi, mettiamoci su di una strada assolutamente contraria a quella comune. Togliendole il suo aspetto di fatto straordinario, pratichiamolo, rendiamolo concreto, cerchiamo di non aver niente così spesso in testa come la morte. Ad ogni istante rappresentiamola alla nostra immaginazione, e in tutti i suoi aspetti.
Non si tratta di una meditazione religiosa, ma civile. Le considerazioni di Montaigne ― contenute nel cap. XX dei Saggi: «Filosofare è imparare a morire» ― nascono dalla convinzione che «la meditazione della morte è meditazione della libertà» e che «chi ha imparato a morire ha disimparato a servire: il saper morire ci affranca da ogni soggezione e costrizione».
Che cosa riusciamo a traghettare nel XXI secolo della saggezza tradizionale? Reagendo alla sensazione frustrante di non disporre di modelli di valore universale e obbligante da riproporre, concentriamoci almeno su alcuni tratti.
2. La "buona morte"
La legittimità di dare alla propria morte una fisionomia personale è uno degli elementi costitutivi della morte umana dei nostri giorni. Come è unica ogni persona, così può e deve essere unica ogni morte, in quanto ricerca di un punto d'incontro personale tra ciò che la natura ci costringe a subire
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(la morte è pathos) e ciò che, a partire dai valori che strutturano la nostra vita, possiamo e vogliamo fare (la morte può essere anche figlia di Eros). Per dirlo con le parole di un poeta, Rainer Maria Rilke nel Libro d'ore ha così espresso la sua speranza sotto forma di preghiera:
Signore, dà a ciascuno la sua morte,
la morte che da quella vita viene,
in cui ebbe amore, anima, angoscia.
Perché noi siamo solo guscio e foglia.
La grande morte che ciascuno ha in sé
è il frutto intorno a cui tutto si volge v.
Un secondo tratto della "buona morte" odierna è quello di poterla affrontare grazie a un rapporto particolare con medici, infermieri e altri sanitari: un rapporto che, in analogia con la categoria biblica dell'alleanza, possiamo chiamare "alleanza terapeutica". Anche questo aspetto lo vogliamo esprimere con le parole di un poeta: John Donne, poeta inglese del XVII secolo. Nel suo Inno a Dio vi, morire significa, nel suo orizzonte di fede, diventare musica di Dio; meditare sulla morte equivale ad accordare lo strumento («e ciò che allora dovrò fare penso prima dell'ora»):
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Mentre i miei medici, per loro amore
sono diventati cosmografi ed io
loro mappa, stesa su questo letto
perché da loro sia mostrato come
io scopra qui il mio passaggio a Sud-Ovest
per fretum febris, per
questi stretti morire
io giubilo, che in tali stretti vedo
il mio Occidente.
La via della "buona morte" è per il poeta un viaggio avventuroso, come la travagliata ricerca del passaggio a Sud-Ovest per raggiungere l'Oriente viaggiando verso l'Occidente, che tanto affaticò i navigatori fino a Magellano. L'immagine di un varco da scoprire tra i ghiacciai della Terra del Fuoco si attaglia perfettamente alla ricerca di una buona morte.
Alcuni secoli sono passati da allora. Tutte le coordinate sono cambiate: le rappresentazioni che ci facciamo della morte e dell'aldilà, i modi di organizzare l'intervento medico per affrontare la malattia, le risposte sociali alle minacce che incombono sulla vita. Ma la ricerca del "passaggio a Sud-Ovest" è rimasta pur tuttavia un valore prioritario nella vita degli uomini più consapevoli. Questa navigazione perigliosa non la possiamo affrontare senza il prezioso aiuto di quei "cosmografi" che hanno fatto della medicina una professione, certo, ma una professione che nasce dall'amore e non si può esercitare senza amore.
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Oggi, tuttavia, sia il ruolo dei medici, sia il comportamento che ci si aspetta da persone che sono destinate ad attuare il "passaggio" nell'epoca della medicina e della tecnologia biomedica sono diversi rispetto al passato. Emergono qui all'orizzonte quelle particolari disposizioni che hanno preso il nome di "direttive anticipate".
3. Decidere per quando non saremo in grado di decidere
Molti muoiono troppo tardi, alcuni troppo presto.
Ancora suona strano il precetto: «Muori a tempo opportuno».
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra
Con intuizione visionaria, Nietzsche ha espresso in questo aforisma un problema che sarebbe diventato attuale un secolo più tardi, rispetto all'esperienza culturale dell'epoca di cui era figlio, nella quale la medicina continuava a essere saldamente ancorata al modello etico che si riferiva a Ippocrate, secondo il quale "la cosa giusta" per il paziente veniva decisa dal medico.
Quanti e quali interventi terapeutici fossero opportuni era infatti competenza esclusiva di chi curava il malato. Questi non aveva voce in capitolo, ma era esclusivamente il beneficiario di ciò che veniva intrapreso per il suo bene. E prolungare la vita, strappandone anche un minimo brandello all'azione distruttiva della morte, era considerato indiscutibilmente un bene.
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Eppure gli strumenti concettuali per affrontare i problemi etici delle scelte di fine vita non mancavano alla stessa cultura greca di cui Ippocrate era figlio. Basti pensare alla distinzione tra due tipi di tempo: il krónos, ovvero il tempo come quantità misurabile, e il kairós, vale a dire il momento propizio. La differenza tra questi due generi di tempo può essere visualizzata attraverso la rappresentazione di kairós che troviamo in alcuni bassorilievi greci: esso è raffigurato come un giovane in corsa, con ruote alate ai piedi; ha un ciuffo sulla fronte e niente capelli sulla nuca. Si lascia così intendere che lo si può afferrare solo nel momento in cui ci sfila davanti: appena passato, è definitivamente perduto. Anche per la morte c'è un tempo giusto che non è il krónos, bensì il kairós, equivalente al "momento opportuno" di Nietzsche.
D'altra parte non si può dimenticare che sino ad epoca recente non abbiamo avuto bisogno di far ricorso a questo strumentario concettuale, per la semplice ragione che la medicina non era in grado di prolungare la vita, almeno nella misura che costituisce un incubo per molti nostri contemporanei.
Dalla preoccupazione che l'arte medica non facesse abbastanza per allontanare la minaccia della morte, che rende precaria ogni vita (rispettando il giuramento di Ippocrate) siamo infatti passati all'eccesso opposto: al timore che faccia troppo, estendendo cronologicamente la vita oltre il kairós in cui la morte, pur restando un insulto alla persona,
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non è un'indegna umiliazione della sua umanità. Oggi sappiamo infatti che la medicina, prolungando la vita, può creare dei mostri.
Un'opera letteraria, concepita quando ancora l'arte medica non era in grado di produrre esistenze che si discostano drammaticamente dagli standard della normalità, ci permette di' visualizzare questa paura. Si tratta del racconto Il mostro vii, dello scrittore americano Stephen Crane, pubblicato nel 1899. Protagonista è il servitore nero di un medico che, quando la casa di questi va a fuoco, si lancia tra le fiamme per salvare il figlioletto del padrone, rimasto intrappolato. Ci riesce, ma per un'esplosione causata dall'incendio nel laboratorio del medico, un acido gli distrugge il volto. Il medico, per riconoscenza, si prende cura di lui, ma tutta la comunità, sia quella bianca sia quella dei neri, lo rifiuta e non ne sopporta la vista.
Di fronte ai benpensanti, rappresentati in particolare dalla figura del giudice, il medico difende il proprio operato: non avrebbe certo potuto uccidere quel povero essere umano dal volto devastato (e scivolato poi nella pazzia). Ma le sue argomentazioni, per quanto ineccepibili, non cambiano la realtà: con le migliori intenzioni, egli mantiene in vita una mostruosità che non è collocabile né tra gli uomini, né tra gli animali.
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Quello che ha prodotto è "un vizio della virtù", sentenzia il giudice. Crane non poteva immaginare quanto quei pensieri sarebbero suonati attuali un secolo dopo, quando la medicina sarebbe stata in grado di produrre routinariamente esseri umani con le caratteristiche sociali del mostro. Mostri non solo per la comunità, ma per le persone stesse che rischiano di essere oggetto di questi ambigui benefici della medicina: l'eventualità di essere risucchiate nella categoria dei mostri, né morti né vivi, è uno degli incubi oggi dominanti. È questa la nicchia culturale in cui va collocata la richiesta di direttive anticipate o di analoghe disposizioni relative alle decisioni di fine vita. Ci siamo però resi conto che le preferenze delle persone divergono. Per qualcuno (molti? Pochi? È quanto mai necessario promuovere ricerche empiriche per acquisire conoscenze relative al profilo di questa domanda sociale) è preferibile la rinuncia a trattamenti di sostegno vitale, in nome della coerenza con il modello di qualità della vita a cui ha cercato di orientarsi nella propria esistenza. E preferisce mantenere il controllo su queste decisioni, piuttosto che affidarle alla coscienza professionale dei sanitari o alla cura amorosa dei propri familiari.
Che relazione possiamo stabilire tra tali preferenze e le azioni (o inazioni) mediche? Nel modello etico tradizionale, le preferenze dei pazienti non erano considerate un vincolo che il medico fosse tenuto a rispettare: il medico prendeva le decisioni
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per il bene dei pazienti, come un buon padre o una buona madre decide per il figlio, quale interprete autorizzato del suo migliore interesse (il detto inglese Doctor knows best si applicava non solo alle conoscenze diagnostiche e terapeutiche, ma anche a quelle etiche che so stanziano le decisioni sulla qualità e quantità dei trattamenti sul finire della vita).
Il timore che rende molti sanitari esitanti di fronte alla prospettiva di modificare il modello di rapporto è quello che le preferenze dei pazienti da insignificanti diventino determinanti per l'azione. Il medico si troverebbe così costretto ad abdicare al ruolo che lo voleva unico responsabile delle decisioni cliniche, per diventare il puro esecutore di ciò che il paziente ha deciso.
Un indicatore della resistenza dei medici a fare proprio questo punto di vista si trova nella più recente redazione del Codice deontologico dei medici italiani (1998). Rispetto al problema della accondiscendenza del medico alle volontà precedentemente espresse dal malato, il quale si trovi attualmente in condizione di incapacità di esprimere la propria volontà in caso di grave pericolo di vita, il Codice esprime l'imbarazzo attraverso una doppia negazione:
Il medico non può non tenere conto di quanto precedentemente manifestato dal malato (art. 34).
Si evitano così le due posizioni estreme del paternalismo duro (è il medico che decide, in base alla
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sua scienza e coscienza) e dell'autonomismo radicale (è il malato che decide, mentre al medico non rimane che dar seguito alle direttive che nascono dalle volontà del malato). Il comportamento medico delimitato dalla doppia negazione appare come un compromesso tra i due modelli. Tuttavia non si può dire che l'indicazione di comportamento che ne emerge sia chiara.
Soltanto nella più recente redazione del Codice deontologico (dicembre 2006) i medici italiani hanno raggiunto una espressione chiara e univoca del dovere del medico di rispettare le volontà previe del paziente: «Il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà, deve tenere conto nelle proprie scelte di quanto precedentemente manifestato dallo stesso in modo certo e documentato» (art. 38).
Più costruttivo appare il Codice deontologico degli infermieri, là dove indica le procedure ideali che scandiscono il rapporto fra il professionista dell'assistenza e il paziente:
L'infermiere ascolta, informa, coinvolge la persona e valuta con la stessa i bisogni assistenziali, anche al fine di esplicitare il livello di assistenza garantito e consentire all'assistito di esprimere le proprie scelte (art. 4.2).
Nel caso di conflitti determinati da profonde diversità etiche, l'infermiere si impegna a trovare la soluzione attraverso il dialogo. In presenza di volontà
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profondamente in contrasto con i principi etici della professione e con la coscienza personale, si avvale del diritto all'obiezione di coscienza (art. 2.5).
Nella proposta del codice infermieristico tra le preferenze e l'azione si collocano i valori. Le divergenze riguardo ai valori, che possono diventare dei veri e propri conflitti, si risolvono idealmente con il dialogo, che comincia con l'ascolto dell'altro. Il dialogo, quindi, come alternativa alla prevaricazione (che può esprimersi nelle due direzioni: del sanitario sul paziente, ma anche da parte del paziente sul sanitario).
A favore delle direttive anticipate si è espressa, senza ambiguità, la Convenzione europea di bioetica (1997), che l'Italia ha ratificato con legge dello Stato:
I desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente, che al momento dell'intervento non è in grado di esprimere la sua volontà, saranno tenuti in considerazione. (art. 9)
Le riserve a un documento che esplicita la volontà della persona per il momento in cui non potrà più decidere in modo attivo e consapevole vengono da più parti. Coloro a cui sta a cuore che anche nella fase terminale non si abdichi al criterio etico della "sacralità della vita", criticano il riferimento al criterio della "dignità". Temono che, adottandolo in modo esclusivo, ci si esponga a decisioni arbitrarie
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di ogni genere, compreso il ricorso all'eutanasia per liberare certi poveri esseri dal peso di una "indegna" degradazione.
Chi è mosso da preoccupazioni giuridiche rimprovera ai "testamenti biologici" di creare confusione rispetto alle responsabilità legali del medico. Questi è tenuto a rendere conto del suo operato, se non corrisponde ai criteri previsti dalla legge. Se sottopone un paziente a un trattamento insensato, può essere chiamato a risponderne davanti a un tribunale. Ma ciò non si applica solo nel caso di una persona che abbia espresso la sua volontà mediante una disposizione previa, bensì per ogni paziente. Se poi si volesse attribuire a questo tipo di documenti un valore legale, non si farebbe che attribuire allo Stato il compito di risolvere problemi che l'individuo non sa risolvere.
I medici sono, in genere, fortemente critici nei confronti del ricorso alle disposizioni anticipate. Le vedono come un atto burocratico, che tende a espropriarli del compito di capire la singola situazione, creando la categoria generica del "malato terminale", nei confronti della quale tenere un comportamento standardizzato. Non mancheranno di ricordare l'uno o l'altro episodio di malati che, salvati dal coma mediante l'impiego di quanto oggi la tecnologia rianimativi mette a disposizione, hanno ringraziato il medico e benedetto la circostanza che questi non sia venuto a conoscenza che il paziente aveva fatto un testamento biologico, oppure non ne abbia
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tenuto conto... In ogni caso per i medici il diffondersi di queste disposizioni suona come sfiducia nei loro confronti: come se ormai fosse tramontato il tempo in cui ci si poteva affidare alle loro decisioni.
Forse una visione così negativa del ruolo svolto dalle direttive anticipate non è giustificata. Ma questo strumento di atti dispositivi per essere utile deve restare entro il rapporto medico-paziente, non sostituirsi a esso. Non è finalizzato a far fare economia di dialogo, ma piuttosto a portare il medico più vicino alla prospettiva soggettiva del malato, mettendosi in ascolto dei suoi valori.
Il cammino verso la ristrutturazione dei rapporti tra sanitari e persone assistite sul versante della vita che finisce è indubbiamente lungo. Abbiamo ragione di temere le scorciatoie costituite da norme che non nascono da una rielaborazione culturale. Sembra destinata al fallimento anche la semplice imposizione di modelli estranei alla nostra tradizione (in questo ambito la contrapposizione tra cultura latina e cultura anglosassone non è pura retorica!). Il cammino più sicuro è quello lungo, che passa attraverso la ricerca empirica, la formazione del personale sanitario e l'educazione dei cittadini. Nella cultura civica, che la scuola è tenuta a trasmettere ai giovani di oggi, bisognerà prevedere un capitolo in aggiunta alle conoscenze relative alla struttura dello Stato e al funzionamento delle istituzioni: l'insieme dei diritti e dei doveri nei rapporti con i professionisti sanitari. Solo questa cultura partecipativa diffusa
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permetterà a ogni cittadino di diventare un soggetto responsabile nelle decisioni che riguardano la vita, dalla nascita alla morte. Se l'accompagnamento dei morenti può diventare l'''opera di misericordia" dei nostri tempi, l'orientamento a prendere con consapevolezza e responsabilità le decisioni che riguardano la fine della vita viii si delinea invece come un elemento integrante della cittadinanza moderna, valida sia per i credenti che per persone che non hanno la fede religiosa nel loro orizzonte.
i Su questa letteratura devozionale si veda l'opera classica di A. Tenenti, Il senso della morte e l'amore della vita nel Rinascimento, Einaudi, Torino 1957. Famosa anche la predica di fra Girolamo Savonarola, tenuta nel giorno dei Santi del 1496, Predica dell'arte del ben morire e assai diffuse anche la Dottrina del ben morire di Pietro da Lucca, stampata a Venezia nel 1515, e la Dottrina del ben morire di Pietro Barozzi, stampata a Venezia nel 1531. Il genere in realtà prosegue, soprattutto in concomitanza con l'attività dei gesuiti di "preparazione alla morte" condotta sia con trattati (R. Bellarmino, De arte bene moriendi, 1620) sia con esercizi spirituali, frequentati ad esempio con assiduità da Gian Lorenzo Bernini. Si veda in proposito I. Lanvin, Bernini e il Salvatore. La "buona morte" nella Roma del Seicento, Donzelli, Roma 1998 (n.d.r.).
ii Elisabeth Kübler Ross (Zurigo 1926 - Scottsdale 2004) è stata un medico, psichiatra e docente di medicina comportamentale svizzera. Viene considerata la fondatrice della psicotanatologia, ed uno dei più noti esponenti dei cosiddetti "Death Studies". Dopo gli studi in Svizzera, nel 1958 si è trasferita negli USA dove ha lavorato per molti anni in un ospedale di New York. Dalle sue esperienze con i malati terminali ha tratto il libro La morte e il morire pubblicato nel 1969, che ha fatto di lei una vera autorità sull'argomento. Celebre la sua definizione dei cinque stadi di reazione alla prognosi mortale (o modello a cinque fasi): diniego, rabbia, negoziazione, depressione, accettazione, messo a punto nel 1970. Chiave del suo lavoro è la ricerca del modo corretto di affrontare la sofferenza psichica, oltre che quella fisica. Opere tradotte: La morte e il morire, Cittadella, Assisi 1984; AlDS: l'ultima sfida, Raffaello Cortina, Milano 1989.
iii Marie de Hennezel, psicologa e psicoanalista, lavora nelle unità di cure palliative presso l'Ospedale della Città universitaria di Parigi. Pratica con i suoi pazienti una disciplina ancora poco nota, l'aptonomia, basata su un approccio tattile affettivo. Presiede inoltre l'associazione Bernard Dutant-Sida et Resourcement e dirige seminari sul suo metodo di accompagnamento alla morte. Fra le opere tradotte: La morte amica, prefazione di François Mitterrand, Rizzoli, Milano 1998; Il passaggio luminoso: l'arte del bel morire, Rizzoli, Milano 1998.
iv Harold Brodkey (1930-1996) scrittore e giornalista, nel 1993 annunciò pubblicamente di aver contratto l'AIDS di cui morì tre anni più tardi, lasciando Wild Darkness, il documento della sua lotta contro la malattia. Al momento della morte viveva a New York con la moglie, la scrittrice Ellen Brodkey (nata Schwamm).
v R.M. Rilke, Il libro d'ore, a cura di Cesare Angelini, Morcelliana, Brescia 1950, p. 92.
vi In J. Donne, Poesie amorose Poesie teologiche, a cura di Cristina Campo, Einaudi, Torino 1989, p. 91.
vii S. Crane, Il mostro, Marsilio, Venezia 1997.
viii Il dibattito, le controversie e gli interventi più o meno giustificati dell'esecutivo provocati dall'estenuante finis vitae di Eluana Englaro (Lecco, 25 novembre 1970 - Udine, 9 febbraio 2009) hanno messo bene in evidenza la necessità etica e giuridica, oltre che medica, di una più adeguata definizione di morte ― in quanto fine della vita ― che non è più sufficiente riportare al solo concetto, anche qui da rivedere nell'oggi e non solo in connessione con la mors mea vita tua consentita ai trapianti. In proposito, appaiono illuminanti le considerazioni di Paolo Becchi, Morte cerebrale e trapianto di organi, Morcelliana, Brescia 2008.
Altro tema che merita una diversa considerazione è la priorità o meno da assegnare alla volontà del soggetto rispetto a una sovradeterminazione che lascia varco a molti dubbi, sia in ambito giuridico-statuale sia in quello di pronunciamenti di autorità religiose. Una dimostrazione ulteriore, se mai ce ne fosse bisogno, che l'avanzare della tecnologia (derivata dalla ricerca scientifica) pone in modo sempre più rapido e assillante l'adeguamento delle scelte e delle responsabilità etiche e professionali, individuali e collettive. Sembra però che non si dovrebbe negare di principio la volontà del soggetto, quando essa sia esplicitata e che il compito di chi assiste sia anzitutto, come ha ben dimostrato Spinsanti, "accompagnare", non dilatare all'infinito il morire (n.d.r.).