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Maria Varano
COME PARLARE AI BAMBINI DELLA MORTE E DEL LUTTO
Claudiana, Torino 2012
pp. 5-8
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PREFAZIONE
E se ad avere problemi con la morte non fossero i bambini, ma gli adulti? È un sospetto che grava come un’ipoteca su ogni nostra preoccupazione pedagogica. Ci chiediamo come comportarci con i bambini per aiutarli ad affrontare un lutto: quando a morire è un familiare o un animale da compagnia; nei casi estremi, quando la morte incombe sul bambino stesso. Preoccupazione giusta. Salvo che riposa su un presupposto tacito: che il nostro modo di confrontarci con la morte ― di noi adulti, figli a nostra volta della nostra cultura ― sia corretto. E che quindi sia appropriato metterci di impegno ad assimilare il comportamento dei bambini, affinché diventi come il nostro. E se fosse più saggio, invece, prendere sul serio la resistenza dei bambini a essere “educati” a vedere la morte come la vediamo noi? Perché potremmo aver preso una strada sbagliata e sarebbe magari auspicabile assumerne consapevolezza e cambiare rotta.
Il soggetto di cui stiamo parlando ― noi ― comprende gli adulti in genere; in particolare i figli della cultura occidentale moderna. Storici e antropologi culturali ci hanno offerto con una dovizia di studi gli strumenti per capire di quale manipolazione culturale sia frutto il nostro modo di rapportarci alla morte e al morire. Basterebbe ricordare i modelli che, secondo Philippe Ariès, si sono succeduti in Occidente fino ai nostri giorni: morte addomesticata, morte di sé, morte romantica, morte rovesciata... fino alla morte negata e alla soppressione del lutto nella nostra società. Se il percorso secolare tracciato da Ariès ci sembra troppo lungo e impegnativo, lasciamoci guidare da Chiara Frugoni nell’esplorazione di un cambiamento avvenuto nel corso di una generazione o poco più. Nel suo libro Da stelle a stelle. Memorie di un paese contadino 1 ha ricostruito la vita di Solto,
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un paesino sul Lago d’Iseo, servendosi della memoria dei sopravissuti alla trasformazione avvenuta alla metà del Novecento. Raccontano che, tradizionalmente, la morte era una presenza quotidiana: moriva circa un terzo dei figli; anche gli adulti sopravvivevano fino a quaranta-quarantacinque anni, salvo qualche raro vecchio che resisteva fino agli ottanta. Per i bambini «andare a vedere il morticino» era un gioco divertente. Quando passava il corteo funebre, venivano convocati alla finestra, perché «passava un angioletto»... Sembrano passati secoli, e non soltanto poco più di cinquant'anni. La morte è diventata rara ― fortunatamente ― e segreta. Il primo aspetto ci rallegra, mentre il secondo ci crea non pochi problemi. Sia agli adulti sia ai bambini.
Il malessere di una morte nascosta ha cominciato a essere più evidente nella pratica medica. Anche questa si era adeguata al progressivo nascondimento della morte. Neppure i medici, che pure hanno una familiarità professionale con essa, ne parlavano più. Se la morte minacciava la vita di qualcuno, erano anche disposti a mentirgli, per non traumatizzarlo con la prospettiva della fine (salvo a informare, alle spalle del malato, i parenti...). Ecco: anche gli adulti venivano trattati come bambini ! Lentamente, le regole etiche che strutturano il rapporto tra sanitari e cittadini si stanno riscrivendo. Oggi sottrarre le informazioni a un malato che voglia conoscere ciò che lo aspetta è considerato cattiva medicina. Anche se il nascondimento fosse inteso “a fin di bene”. E non solo gli adulti hanno diritto all'informazione necessaria per dare il consenso al trattamento: anche i minori devono essere trattati con rispetto; quindi senza menzogne. Anche con un minore il rapporto corretto può essere solo quello di una “alleanza terapeutica”, tenendo ovviamente presente che l’autonomia in senso psicologico e morale è una realtà che si costruisce con il progredire dello sviluppo cognitivo e della maturità. Opportunamente, il documento del Comitato nazionale per la Bioetica: Informazione e consenso all’atto medico sottolinea che «il consenso è in qualche modo concepibile tra i 7 e 10-12 anni, ma sempre non del tutto autonomo e da considerare con quello dei genitori. Solo entrando nell’età adolescenziale si può pensare che il consenso diventi progressivamente autonomo». Quindi oggi l’obbligo morale della verità vale anche per i bambini e i minori in genere, considerando che la minore età giuridica non è sinonimo di minorità morale. Anzi...
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A futura memoria di quando gli adulti ― genitori e professionisti sanitari ― ritenevano che fosse più pietoso coprire gli eventi tragici della vita con una coltre di silenzio, rileggiamo una poesia di Wolfdietrich Schnurre, dal titolo Camera singola:
«Che cosa hai?»
«Qualcosa di latino. E tu?»
«Non ho più l’appendicite»
«Io ce l’ho ancora»
«Che cosa fai qui?»
«Io muoio»
«Quando?»
«Presto»
«Accidenti. E fino ad allora?»
«Sono contento di vivere ancora»
«Ce l’hai da molto tempo?»
«Abbastanza»
«Fa male?»
«È sopportabile»
«Come fai a saperlo?»
«Te ne accorgi»
«Nessuno te l’ha detto?»
«No; sono troppo vigliacchi»
«Fanno scena?»
«Si fanno in quattro»
«Sono radiosi?»
«Tutti. Dalle infermiere al professore»
«Hai ragione: questo è sospetto»
«Fa proprio vomitare»
«E i tuoi genitori?»
«Mio padre si limita a mandar giù in silenzio» «E tua madre?»
«Non può farlo»
«Strano»
«Aspetta un bambino»
«Sta male?»
«Non è mai stata così bene»
«E allora perché non viene?»
«È troppo sensibile»
«Hai qualcosa contro i fratelli?»
«Al contrario: li ho sempre desiderati»
«E allora? Non sono venuti?»
«No: non li hanno voluti»
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Nell’avventurarci nella terra incognita di una rapporto con i bambini che non censuri gli eventi tragici, e in particolare la morte, abbiamo come prezioso compagno di viaggio il libro di Maria Varano. Anche se il vissuto personale di gravi lutti e il profilo professionale di psicologa potrebbero farla sentire autorizzata a impartire insegnamenti, rifugge deliberatamente dal confezionare un libro di consigli. Non offre ricette: anche perché è consapevole che la risposta alle domande che nascono dai supremi dolori non può venire da sistemi di pensiero solidificati e chiusi, fossero pure di alta filosofia o di solida teologia. La risposta creativa è impastata di vita. E non solo della propria vita, ma anche di quella degli altri. E il collante è il racconto. Attraverso la narrazione ― da sollecitare, da accogliere con attenzione e rispetto ― prende forma l’autorealizzazione di ciascuno, che è diversa da quella di chiunque altro.
Se di una pedagogia della morte si tratta, è figlia di quella «pedagogia del coraggio» che già Maria Varano ha proposto insieme a Cristiana Voglino e Giovanna Comi. Donne coraggiose, il cui coraggio comincia con la rinuncia a pretese didattiche a favore dell’ascolto. Ascoltare i bambini, appunto, che hanno molte cose sagge da ricordarci, riguardo ai limiti e alla morte, che noi adulti facciamo di tutto per dimenticare.
Note
1 Laterza, Roma-Bari 2003.