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Patrick Verspieren
Eutanasia?
Dall’accanimento terapeutico all’accompagnamento dei morenti
Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1985
pp. 5-9
PRESENTAZIONE
Tira aria di eutanasia dalle nostre parti. Da noi come altrove: al congresso di Nizza del settembre 1984 erano presenti ben 22 associazioni di tutto il mondo che auspicano un riconoscimento al «diritto di morire». È un vento di pazzia? O è una battaglia civile, intesa non ad abbattere un baluardo dell’umanesimo, bensì a difendere un diritto della persona contro la barbarie rampante che si diffonde col nome di «accanimento terapeutico»? La confusione ― a cominciare da quella semantica — è sovrana. Uno dei meriti non minori del libro di Patrick Verspieren è di distinguere i problemi che si addossano all’eutanasia, usata come parola-attaccapanni. L’influenza dello studioso, già direttore del Centre Laennec a Parigi, è riconoscibile anche nel documento sottoscritto dai vescovi francesi del marzo 1976, Problemi etici posti oggi dalla morte e dal morire 1.
In quel contesto venivano accuratamente distinti almeno sei ambiti diversi: l’« addolcimento» degli ultimi momenti della vita del malato (secondo il significato etimologico della parola); la lotta contro il dolore, che può comportare il ricorso ad analgesici che fanno perdere la coscienza al malato; il prolungamento della vita ad ogni costo, correlato con il problema dell’astensione terapeutica (è «lasciar morire», espressione
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preferibile a quella corrente di «eutanasia passiva»); la soppressione dei «tarati» per ragioni eugeniche, come è stata praticata durante il Terzo Reich; la constatazione della morte, malgrado le apparenze della vita; e infine mettere deliberatamente fine alla vita di una persona su richiesta esplicita o presunta di quest'ultima. Il dibattito acquisterebbe il pregio della chiarezza se si riservasse il termine eutanasia solo a quest’ultimo caso, utilizzando per le altre situazioni designazioni specifiche.
Un altro apporto di Verspieren al dibattito sull’eutanasia è quello di offrire valide indicazioni positive per soluzioni che non consistano in rammendi superficiali, ma risolvano i problemi alla radice. Non nega il diffondersi di modelli disumani del morire, che aggiungono al dolore necessario della morte umiliazioni e sofferenze gratuite per colui che muore e per i suoi familiari. La morte elusa e negata tende a imporsi come la nostra risposta all’angoscia di «thanatos». Premesse le analisi culturali e filosofiche del fenomeno, terminate le indignazioni e le esortazioni, bisognerà pur giungere a tentare una risposta concreta al morire disumano che è il nostro. La soluzione Verspieren la indica nella risposta operativa ai due principali bisogni del morente: tenere sotto controllo il dolore e poter comunicare con coloro che sono disposti ad accompagnare chi muore fino all’ultima soglia.
Sono l’una e l’altra due risposte possibili, qui e ora. La medicina è in grado di fornire una terapia del dolore efficace: basta solo che se la proponga come uno dei compiti che le competono, più importante ancora che prolungare la vita ad ogni costo. L’ideale filantropico di chi si dedica alle professioni sanitarie, d’altro canto, non è atrofizzato a tal punto che «prendersi cura» di chi sta morendo non possa essere riportato prepotentemente in primo piano. L’inversione di tendenza può essere operata, e subito; la morte può essere ancora un momento di sintesi creativa della vita e di densa presenza degli esseri umani l’uno all’altro.
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Testimonianze in tal senso non mancano. Valga per tutte il racconto della morte di Jane, avvenuta in un hospice inglese, che ci giunge direttamente dalla voce dei suoi genitori 2. Anche la tragedia indicibile di una morte prematura può diventare un’occasione di crescita umana, tanto per chi muore quanto per chi resta: purché si smetta di giocare goffamente a nascondino con la morte e la si accetti come la prova suprema che domanda, per essere superata, un’alleanza generale tra il morente, i familiari e i sanitari, e una mobilitazione di tutte le forze della scienza medica, delle scienze umane e dello spirito. A queste condizioni, pur soggiacendo alla morte, l’uomo può trascenderla. Oggi come ieri.
Una volta che i problemi umani connessi col morire in epoca di medicina tecnologica siano riconosciuti e ricevano una risposta efficace, sarà ancora necessario modificare l’aspetto legislativo attuale? Bisognerà riconoscere dei casi in cui la morte dovrà essere conquistata in forza di un diritto sancito, magari avvalorato da un «testamento biologico?». Cercare rifugio nella legge di fronte alle situazioni intricate è un riflesso condizionato ben collaudato. La legge svolge di fatto una tutela dei diritti, necessaria soprattutto quando la società conosce rapidi processi di transizione e il consenso filosofico ed etico sui valori fondamentali si frastaglia in un pluralismo non riconducibile ad unità. Ma la legge produce anche, come sottoprodotto, il legalismo. E questo soffoca la coscienza, invece di orientarla, crea degli alibi comodi e scoraggia la ricerca di risposte creative ai problemi. La fedeltà alla legge potrebbe troppo facilmente sostituirsi alla fedeltà all’uomo: situazione grave, soprattutto quando questi è un uomo che sta morendo.
La menzione del legalismo evoca i rappresentanti tipici di quell’atteggiamento spirituale che erano i
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dottori della legge e i farisei al tempo di Gesù. «Maestro, che cosa devo fare per avere parte alla vita eterna?», gli domanda uno di questi (Lc 10,25); e quando gli viene risposto di amare Dio e il prossimo, incalza: «E chi è il mio prossimo?». Rimanendo nella logica legalistica, a questo punto bisognerebbe introdurre una serie di distinzioni, norme e precetti, per lasciar decidere alla legge chi è mio prossimo e chi non lo è: basterebbe allora osservare la lettera della legge per essere «a posto con la coscienza». È noto il rovesciamento di prospettiva che opera Gesù, raccontando la parabola del buon samaritano: scavalcando la preoccupazione religiosa del dottore della legge di guadagnarsi la vita eterna con la propria giustizia, mette al centro i bisogni di un uomo, e invita a modellare il proprio comportamento su questi bisogni. Osando rinarrare la parabola, con la condizione dei morenti nella nostra società davanti agli occhi, potremmo forse immaginarla così.
Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico... dalla culla alla tomba... Era già giunto all’ultima tappa prima della fine del viaggio. Giaceva in ospedale, con un cuore definitivamente scassato, o un cancro metastatizzato o i reni bloccati: in una parola, era un «malato terminale». Passò vicino a lui un medico: vide il «bel caso», da cui si poteva imparare molto, un contributo notevole al progresso della scienza. Mise a punto un accurato programma di ricerca e non trascurò nessun dettaglio della malattia, come risulta dall'articolo pubblicato nella rivista scientifica della sua specialità. E passò oltre, tranquillo in coscienza.
In seguito gli si accostò il cappellano d’ospedale. Gli fece un bel discorsetto sulla volontà di Dio, la rassegnazione e l’espiazione dei peccati; ascoltò la sua confessione e gli portò la comunione, in attesa di somministrargli l’ultimo sacramento, «l’estremo», quando non avrebbe avuto più coscienza. E passò oltre, tranquillo in coscienza.
Il malato fu preso in cura da un’equipe medica
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efficientissima: fecero di tutto — col bisturi, le irradiazioni, i farmaci ―, riuscendo a farlo vivere («vivere»?) un paio di mesi oltre la media statistica di quei casi. È vero, non parlarono mai al malato della prognosi e delle strategie terapeutiche a cui lo sottoponevano, ma fecero veramente «tutto il possibile»: lo dissero anche ai parenti, quando li incrociarono fuggevolmente in corridoio, dopo che il malato era diventato improvvisamente un morto, senza essere mai stato riconosciuto come morente. E passarono oltre, tranquilli in coscienza.
C’era nel reparto un’infermiera. Somministrava le medicine giuste al momento giusto, misurava la temperatura all’ora prescritta, portava il pranzo e aiutava il malato ad alimentarsi. Insomma faceva né più né meno che il suo dovere. Ma riteneva suo dovere anche non sfuggire gli sguardi carichi di domande del malato, ascoltarlo, permettergli di esprimere la sua angoscia, cercare di alleviargli i malesseri grandi e piccoli. Gli dava più di semplici cure: si prendeva cura di lui. Gli dava il suo tempo e perdeva tempo anche ad ascoltare i familiari. Quando l’agonia si concluse, era lei che stava là a umettargli le labbra, ad asciugargli il sudore, a tenergli la mano.
Chi di loro, secondo te, si è comportato come prossimo per quell’uomo che era caduto nell’anticamera della morte?
«Quello che ha avuto compassione di lui».
«Va’ e fatti anche tu suo prossimo».
Note
1 Pubblicato in Italia col titolo Umanizzare la malattia e la morte, Edizioni Paoline, Roma 19822.
2 Victor e Rosemary Zorza, Un modo di morire, Edizioni Paoline, Roma 19832.