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Sandro Spinsanti
GLI ASPETTI ETICI DELLA COMUNICAZIONE CON IL PAZIENTE TERMINALE
anno VII, n. 7/8, luglio-agosto 1989, pp. 9-10
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Quando ci avviciniamo all’area del malato che va verso la morte, la comunicazione si interseca con il problema della verità. Questo emergere così forte della comunicazione dimostra che qualcosa non va. Una delle regole fondamentali è che parliamo della comunicazione, paradossalmente, proprio quando non comunichiamo, quando il dialogo è inceppato ed i rapporti relazionali malati. Quanto più una relazione è spontanea e sana tanto più l’aspetto relazionale recede sullo sfondo. Viceversa le relazioni malate sono caratterizzate da una lotta costante per definire la natura della relazione stessa, mentre l’aspetto di contenuto diventa sempre meno importante. Detto in maniera più semplice: le coppie sane fanno l’amore, le coppie malate parlano della loro relazione.
La dimostrazione del fatto che la coppia medico-paziente, quando si avvicina la morte, entra in crisi, è fornita dall’evidenza dello stretto rapporto che lega la medicina delle fasi terminali al problema della comunicazione. Questa crisi non dipende solamente dalla buona o cattiva volontà del medico e non è giusto dire: i cattivi medici non comunicano. C’è qualcosa di strutturale più a monte che dipende dal fatto che la medicina è tutta proiettata verso la guarigione, inadatta ad accompagnare il malato verso la morte. Il Sistema Sanitario Nazionale non si occupa dei malati oncologici, né tanto meno dei morenti: non viene insomma prevista la morte del paziente.
La morte quindi è presente soltanto in obliquo e non per omissione o dimenticanza, ma perché è qualcosa di profondamente incommensurabile, incompatibile con una medicina che si identifica totalmente con la finalità guaritiva.
Nella realtà la preoccupazione per il malato è lasciata all'animo ed al senso deontologico del medico, ma il malato che muore rappresenta la disfunzione di un sistema orientato in tutt’altra direzione. Il fatto che ci occupiamo del malato in fin di vita con una medicina pensata e strutturata con altre finalità è la prima fondamentale causa del malessere e dei nodi nel processo di comunicazione. Non si può fare una buona medicina palliativa della morte, eppure la comunicazione non è qualcosa di facoltativo, ma di obbligatorio, nel senso che ci è impossibile fare a meno di comunicare. Voglio qui ricordare un assioma fondamentale: non si può non comunicare perché, essendo la comunicazione un comportamento, non esiste il contrario di un comportamento. Non si può avere una interazione da cui non emerga un messaggio: sia che io agisca, oppure che ometta di farlo, sia che parli o che stia zitto, tutto ha valore di messaggio. La comunicazione cioè non avviene solamente quando è intenzionale ed attuale, ma anche quando è una omissione di intervento.
Il problema si trasforma quindi in prassi: comunico con il malato che non può guarire. Il comportamento di rifiuto o meno indica solo indirettamente che la morte è vicina, mentre in concrete annuncia l’approssimarsi della morte sociale. È questo un elemento molto importante perché, grazie agli sviluppi della medicina, siamo stati costretti ad occuparci molto del segmento finale della morte, in altri termini: quando si finisce di morire? In particolare tutte le problematiche connesse con il trapianto degli organi hanno indirizzato l’analisi su quale sia il momento ultimo in cui si ferma la vita. Molto meno pero ci siamo preoccupati di quando si comincia a morire, questione assai importante sia per l’etica che per la medicina pratica. Si comincia a morire quando si smette di comunicare con il paziente, processo molto spesso indipendente dal reale decorso della malattia. Ci sono delle popolazioni africane che ritengono che una persona sia morta quando nella tribù non si parla più di lei. Un malato quindi comincia a morire quando non gli si parla più, quando non appare più come soggetto, quando lo si guarda ormai con uno sguardo che dice: “Tu sei inutile, sei perduto”.
Ecco, questa dimensione sociale è di fondamentale importanza nei problemi della comunicazione.
La morte è sempre più spesso processo che trova il suo momento di inizio quando l’ambiente adotta un comportamento non più comunicativo, ma la comunicazione che porta al paziente il messaggio della sua morte sociale prescinde dal problema del dire o non dire la verità.
La comunicazione si divide in verbale e non verbale, ma in termini di grammatica della comunicazione si articola in analogica e numerica. I termini, apparentemente difficili, sono in realtà molto esplicativi. Con il sistema analogico
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comunichiamo attraverso un’immagine o un disegno, mentre con quello numerico ci serviamo dei nomi delle cose. La comunicazione numerica è molto importante nella trasmissione della cultura. Quando leggiamo un libro scritto cento anni fa, pur non avendo nessun contatto con lo scrittore, possiamo conoscere le sue idee.
Per quanto riguarda invece la modalità fondamentale e più primitiva, nell’evoluzione prevale la comunicazione analogica che si serve del corpo e delle sue posizioni, di gesti, espressioni del viso, impressioni della voce, sequenze del ritmo, cadenze delle parole stesse. Tanto più regrediamo, tanto più la comunicazione si serve del canale analogico. È facile dichiarare qualche cosa verbalmente, anche il falso, ma è molto difficile sostenere una bugia nel mondo dell’analogico. Ebbene il malato che va verso la morte è una persona che in forza di questa regressione vive fondamentalmente nel regno dell’analogico; questa è una ragione per cui non gli si possono dire delle bugie e si tratta anche di un motivo per privilegiare quelle forme di comunicazione analogica che non sono verbali.
Diventa allora irrilevante il dire o il non dire la verità, mentre il comunicare conserva sempre il suo carattere di grande importanza.
Qualche volta si fa una caricatura di questa forma di medicina palliativa e la si chiama la “medicina del tenere la mano”, ma non è così. Di fronte ad un paziente che regredisce fino al punto in cui le funzioni superiori si spengono l’unica forma di comunicazione possibile resta quella analogica, cioè il tenergli la mano, una carezza, accudirlo, farsi sentire presenti.
La questione della verità, nel senso di venire a conoscenza di una diagnosi corretta, diventa allora irrilevante ed un medico che dice le bugie ma mantiene con il paziente un rapporto interpersonale appare migliore di uno che invece dice la verità ma non ha alcun contatto. La verità in queste situazioni non è qualcosa che si dice, ma qualcosa che si sa ed è inserita all’interno della comunicazione. Altrimenti saremmo di fronte ad una verità numerica, quella del sapere che non è la verità esistenziale di cui abbiamo bisogno nella fase terminale della vita, quando non sappiamo se siamo più o meno uomini. In questi momenti siamo uomini in quella maniera fondamentale che ci rende, nostro malgrado, tanto vicini agli animali.