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Sandro Spinsanti
MORTE
in Dizionario Enciclopedico di Teologia Morale
Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1990
pp. 625-634
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1. Significato e limiti di una riflessione morale sulla morte ― L’uomo che si è messo alla sequela di Cristo non può non domandarsi quale sia l’atteggiamento cristiano di fronte alla morte. Egli trova comportamenti divergenti nella cultura contemporanea: dalla centralità della morte delle concezioni filosofiche che definiscono l’uomo come «essere per la morte», alla pratica eliminazione del problema nell’«american way of dying». Il cristiano, come uomo del suo tempo, non può sottrarsi alle influenze culturali; ma tende a modellare tutto il suo comportamento, anche quello di fronte alla morte, secondo il Vangelo di salvezza che lo ha «svegliato dai morti per essere illuminato da Cristo» (cf Ef 5,14).
La risposta all’interrogativo sul l’atteggiamento da prendere davanti alla morte dipende in definitiva dal significato che la morte assume all’interno del rapporto tra Dio e l’uomo. Che cosa significa la morte per me come uomo davanti a Dio? Che cosa dice e che cosa opera Dio
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attraverso la morte? La risposta ultima possiamo trovarla in Cristo, perché «non solo noi non conosciamo Dio che per mezzo di Gesù Cri sto, ma noi non conosciamo noi stessi che per mezzo di Gesù Cristo. Noi non conosciamo la vita, la morte, se non per Gesù Cristo. Fuori di Gesù Cristo noi non sappiamo che cos’è la nostra vita, né la nostra morte, né Dio, né noi stessi» (Pascal). Sono tracciati così i limiti della nostra riflessione. Non vogliamo fare né una filosofia, né una teologia, né una sociologia della morte, anche se è necessario tener conto di questi apporti di pensiero e di ricerca come sfondo di ogni interrogativo etico. Ci interroghiamo semplicemente sull’atteggiamento di fronte alla morte che al cristiano è permesso e comandato dalla Parola che Dio ci ha detto attraverso la storia della salvezza che culmina nel Cristo.
2. La morte nel pensiero con temporaneo ― L’umanesimo del nostro tempo ha fatto del tema della morte il punto centrale della sua riflessione sull’uomo. La sua grande impresa può essere definita sinteticamente come umanizzazione e personalizzazione della morte. Protagonista è stato soprattutto il pensiero esistenzialista che si rifà a M. Heidegger. Sviluppando l’indicazione di Jaspers che vede nella morte una «situazione-limite» (cioè una «situazione decisiva, che è collegata con la natura umana in quanto tale ed è inevitabilmente data con l’essere finito»), Heidegger ci invita a superare l’atteggiamento dell’uomo banale che, per mascherare la sua angoscia, spinge la morte al termine del corso temporale della vita, facendone un fenomeno biologico di decesso. La morte dell’uomo non è un semplice fatto biologico che ha luogo nell’ordine delle cose naturali (se la morte non è che il semplice decesso dell’essere vivente, perché angosciarsene? L’unico atteggiamento dovrebbe essere quello suggerito da Epicuro: «Quando ci siamo noi, la morte non c’è; e quando c’è la morte, non ci siamo noi». Nello stesso senso ci orienta il positivismo di Wittgenstein: «La morte non è un evento della vita: non si vive la morte»). La morte dell’uomo ha, invece, un rapporto specifico con l’esistenza umana. Non esiste la morte, ma esiste l’uomo come «essere per la morte» 1.
La morte non è dunque la semplice cessazione del nostro essere: il morire è una modalità dell’esistere, presente in ogni attimo della vita quale sua possibilità limite. La morte intesa nel senso esistenziale esige di essere inclusa nel vivere, come presenza rivelativa del significato più profondo dell’esistenza. Assorbita nella vita, la morte getta una, luce di unicità e irrepetibilità sulla vita presente. Accettare il proprio «essere per la morte» vuol dire entrare nell’esistenza autentica. Quando l’uomo ha davanti agli occhi la morte come la possibilità più intima della sua esistenza, decide di una situazione e dà all’attimo presente il carattere di pienezza assoluta. La umanizzazione della morte, recuperata nell’esistenza dell’uomo, rende la sua vita assolutamente personale ed unica. La visione esistenzialista della morte completa così l’immanenza dell’uomo 2.
La riduzione della morte a un evento specificatamente umano attuata dal pensiero esistenzialista ha agito da fermento per la riflessione di alcuni teologi. È sorta così una «nuova» teologia della morte, ad opera di K. Rahner, L. Boros, R. Troisfontaines, R.W. Gleason ed altri 3. Naturalmente non è questione di accettare l’immanentismo della prospettiva esistenzialista. Ma la considerazione dell’uomo come «essere per la morte» ha indubbiamente fecondato il pensiero di questi teologi, inducendoli a considerare la morte come «adempimento»: nel momento della morte l’uomo dà il volto definitivo alla sua esistenza. La morte dà accesso alla personalizzazione definitiva e porta all'adempimento della personalità umana nei suoi atti essenziali del conoscere e del volere 4. Nell’istante della morte la capacità dell’uomo di emettere un atto personale di libertà che esprima la totalità di se stesso consente di dare la determinazione definitiva, all’esistenza autentica, come apertura agli altri e a Dio. È l’ipotesi della cosiddetta «opzione finale», da cui dipenderebbe la sorte eterna dell'uomo. Queste speculazioni, partendo dalla morte, ci richiamano in definitiva alla serietà della vita. La morte
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corona le scelte dell’esistenza. Non si tratta di prendere un atteggiamento particolare di fronte alla morte, ma di fronte alla vita.
3. La storicizzazione dell’escatologia ― Le realtà finali dell’uomo si sono imposte al pensiero contemporaneo anche da un altro punto di vista, e cioè dall’interesse per l’escatologia. L’escatologia è il «maestrale» della teologia del nostro tempo. «È di là che arrivano quegli uragani che minacciano e feconda no tutta la terra della nostra teologia» 5.
Il termine «escatologia» designa ciò che la teologia, fin dal medioevo, chiamava «dottrina delle cose ultime» (de rebus novissimis). Le «cose ultime» erano viste nella prospettiva di un dopo-vita, di un aldilà-del-mondo, e costituivano in definitiva un tema marginale del pensiero teologico. La loro importanza dipendeva dal valore ascetico dell’argomento, e perciò l’attenzione dei teologi era attratta piuttosto dalle verità riguardanti il giudizio particolare e il purgatorio. «Il fatto di rinviare gli eventi ultimi all’“ultimo giorno” li privava del loro significato di orientamento, di incoraggiamento e di istanza critica nei confronti dei giorni che si vivono qui sulla terra, prima della fine, nella "storia. Perciò queste dottrine sulle cose ultime costituivano gli sterili capitoli finali della dogmatica cristiana; erano come un’appendice disorganica divenuta apocrifa e irrilevante. Non avevano nessun rapporto con le dottrine della croce e della resurrezione, della glorificazione e della signoria di Cristo e non ne costituivano una necessaria conseguenza: v’era fra loro lo stesso divario che esiste fra le prediche del giorno dei morti e quelle di Pasqua» 6.
Il grande recupero dell’ultima stagione teologica, culminata nell’attuale «teologia della speranza», è proprio quello della dimensione escatologica del cristianesimo. Esso è escatologia dal principio alla fine, e non soltanto in appendice: è speranza, è orientamento e movimento in avanti e perciò è anche rivoluzionamento e trasformazione del presente. Escatologia significa sperimentare il proprio tempo come storia davanti a Dio. Essa allora ha a che fare non soltanto con le «cose ultime» che stanno al di là della vita terrena dell’uomo, ma molto più con le cose «prime», cioè col modo in cui Dio si comporta con gli uomini, come loro si manifesta. Anche questa corrente di pensiero, pur senza chiudere l’uomo nell’orizzonte finito dell’escatologia secolarizzata di tipo marxista, sollecita l’uomo a non evadere dal tempo presente. Le credenze cristiane relative all’escatologia non alienano l’uomo dal mondo e dalla storia, facendolo calamitare dall’aldilà; non si riducono a una fuga in avanti che giochi poi, in so stanza, un ruolo conservatore nei confronti dello stato attuale delle cose. L’atteggiamento da prendere di fronte alle «cose ultime» si tra duce in un modo di assumere la storia.
4. Sociologia del comportamento di fronte alla morte ― Letteratura, filosofia e teologia non hanno mai cessato di parlare della morte 7, fino al punto di meritare l’accusa di eccessiva loquacità, e talvolta anche di «tanatolatria». Non altrettanto invece si può dire delle varie scienze dell’uomo: storia, psicologia, antropologia culturale, sociologia. Esse si trovano alleate in una specie di congiura del silenzio nei confronti della morte, corrispondente a quel la stabilitasi nei costumi delle società occidentali nel corso del nostro secolo.
Solo da pochi anni si può notare un’inversione di tendenza: il tabù relativo al discorso sulla morte è stato infranto. Comincia una bibliografia scientifica sulla morte, che ci permette di far luce sul silenzio dei costumi e di renderci conto degli atteggiamenti assunti di fronte alla morte dell’uomo contemporaneo 8.
Il fenomeno unanimemente rilevato da una quantità di studi sociologici è quello della scomparsa della morte dall’orizzonte dell’uomo moderno. All’uomo è stata tolta la sua morte, ai sopravvissuti la facoltà di esprimere il loro lutto. Le interdizioni e i tabù che avvolgono ora la morte nelle società tecnologicamente avanzate sono analoghi solo a quelli che in passato accompagnavano la sessualità. Il morente stesso, anzitutto, è privato della sua morte. Prima
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che iniziasse il rivolgimento di costume a cui stiamo assistendo, l’uomo era il protagonista della propria morte. La «bella morte» era un suo diritto-dovere, tanto che, se egli stesso non si accorgeva dell’approssimarsi dell’ora fatale, spettava ad altri avvertirlo (il «nuncius mortis» delle «artes moriendi» tardo-medievali). Si nasceva e si moriva in pubblico; quello stile di morte assomigliava a una specie di cerimonia rituale, in cui il primo ruolo spettava al morente stesso. Oggi la morte viene a chiudere una vita nella clandestinità. L’uso nuovo esige che il malato ignori la sua morte. Compito di coloro che attorniano il morente, dal medico ai familiari, è di nascondere al malato il suo stato. Ciò è sentito come una specie di regola morale da coloro che si occupano del malato; la loro ambizione è che la morte sia sopraggiunta «senza che egli si sia sentito morire» (come non ricordare lo struggente racconto della fine di Gérard Philipe fatto dalla moglie Anne; «Le temps d’un soupir»?). A questo fine il malato deve essere trattato come un minorenne, che il coniuge o i parenti prendono a carico, separandolo dal resto del mondo. Il morente perde così irrimediabilmente il suo ruolo di protagonista.
In armonia con questa atmosfera di clandestinità che avvolge il trapasso è lo «stile di morte» richiesto dall’uomo tecnologico 9. La nota dominante è la discrezione, che appare come la forma moderna di dignità: la morte non deve mettere in imbarazzo coloro che sopravvivono! L’ideale è di scomparire in un «pianissimo», quasi sulla punta dei piedi... La «dolce morte dell’uomo-massa», come è stata chiamata. Il costume moderno, mentre chiede ai morenti di non turbare i viventi con la loro morte (e perciò ne toglie loro la coscienza), rifiuta ai viventi di apparire commossi dalla morte degli altri, non permette loro di piangere i defunti. Alla necessità millenaria del lutto, più o meno spontanea o imposta secondo le epoche, è succeduta oggi la sua interdizione 10. La società esige dai parenti del morto un controllo di sé che corrisponde alla decenza o dignità che chiede ai moribondi e rigetta gli afflitti impenitenti dalla parte degli asociali. Al limite estremo del travestimento della morte troviamo l’invenzione di nuovi riti funebri negli Stati Uniti 11.
L’evacuazione della morte fuori della vita quotidiana sembra essere una caratteristica strutturale della civiltà contemporanea. Il fatto che la morte sia cancellata dai discorsi e dai mezzi familiari di comunicazione appartiene al modello delle società industriali, così come la priorità del benessere e del consumo. Riscontriamo perciò il fenomeno nella vasta zona che corrisponde al Nord dell’Europa e dell’America, mentre si rilevano resistenze là dove sussistono forme arcaiche di mentalità, o forti tradizioni religiose, e ancora tra le masse popolari dei paesi tecnicizzati. Ma se il rifiuto della morte appartiene al modello della civiltà industriale, è destinato a espandersi allo stesso ritmo di questa. Queste rilevazioni sociologiche si sintonizzano con le precedenti acquisizioni. Abbiamo visto, infatti, che nella misura in cui si considera seriamente la morte, ci si sente chiamati ad assumere responsabilmente la vita: la morte nella prospettiva individuale porta a decidersi per l’esistenza autentica; le «cose ultime», nella prospettiva sociale, inducono all’impegno storico. Inversamente, la depauperazione massificatrice del senso della vita dell’uomo, porta con spietata conseguenzialità a privarlo anche della sua morte.
5. Il senso della morte per l’uomo in dialogo con Dio ― Dobbiamo tener presente il posto che la morte occupa nella comprensione che l’uomo contemporaneo ha di se stesso, come pure gli atteggiamenti concreti ― di angoscia, di sublimazione, di desacralizzazione ― che egli prende di fronte ad essa. Ma se la morte ci interessa in quanto uomini coinvolti in un’esperienza religiosa che vuol essere risposta a una Parola detta da Dio agli uomini nella storia, è a quegli eventi salvifici che ci rivolgeremo per capire come la morte può costituire un elemento strutturale del dialogo con Dio. Ogni discorso cristiano sull'uomo, sia sulla vita che sulla morte, è intimamente legato alla storia della salvezza che culmina nel Cristo. Compito
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della riflessione credente non è quello di ricercare le «cause» della morte: né, evidentemente, quelle biologiche, né quelle filosofiche. La Parola di Dio attestata nella Scrittura non è infatti una risposta al problema filosofico del «perché» della morte. Essa ci illumina sul significato della morte all’interno del dialogo di salvezza tra Dio e l’uomo.
La priorità spetta al dialogo con Dio, che l’uomo è chiamato a intrattenere qualunque sia la situazione esistenziale in cui si trova. La Bibbia non è libro che offra la risposta rassicurante all’uomo angosciato in cerca di una soluzione all’enigma del morire umano. Tutto ciò che vi è detto sulla morte e l’aldilà appare piuttosto in funzione del rapporto di alleanza, che permane e si approfondisce con il progressivo realizzarsi della storia della salvezza. L’uomo in alleanza con Dio attraversa situazioni diverse e si pone problemi nuovi; varieranno in conseguenza le rappresentazioni della morte, le concezioni antropologiche, l’interesse esistenziale per il problema stesso. Gli sforzi dell’uomo di interrogarsi e di rispondere sulla morte e tutto ciò che l’accompagna e la segue sono funzionali al suo rapporto con Dio nel dialogo della salvezza. Domande e risposte possono e debbono variare proprio perché l’essenziale possa continuare ad essere vissuto e annunciato: che Dio è diventato il Dio dell’uomo, affinché l’uomo possa essere l’uomo di Dio. Non è possibile ricostruire qui tutta l’evoluzione del discorso sulla vita e la morte fatto dall’uomo biblico davanti al suo Dio. Terremo presenti solo gli atteggiamenti più rilevanti e più significativi per l’uomo che, oggi come ieri, è impegnato nel dialogo della salvezza.
6. La vita e la morte per il credente dell’antica alleanza ― Nell'ambito dell'AT la morte e l'atteggiamento dell'uomo di fronte ad essa appaiono sotto luci diverse, a seconda dell'orizzonte antropologico in cui la morte è situata 12.
Per molti secoli lo sguardo di Israele si è rivolto alle sole possibilità umane durante questa vita, senza provare interesse per ciò che spetta all'uomo dell'aldilà. Anche un'esistenza puramente terrena o stata vista come un’autentica possibilità religiosa. In quest’orizzonte intraterreno sono possibili atteggiamenti diversi. Troviamo, sottolineata con enfasi, la serenità dei giusti che muoiono, colmi di giorni in mezzo alla loro numerosa posterità, accettando senza una parola di rivolta di essere «riuniti ai loro padri». La morte è vista in questi casi come un evento «naturale», che non turba il dialogo con Dio e non getta ombre sulla convinzione che il Dio dell’alleanza è un «Dio vivente». Proprio l’alleanza stabilita con «Abramo e la sua discendenza» (Gn 12,1ss) garantisce la fedeltà di Dio verso il popolo, nonostante il carattere effimero dei singoli membri del popolo. Abramo si preoccupa della sua morte finché non ha discendenza (cf Gn 15,2-6); ma, ottenuta la certezza di durare nella sua posterità, muore «in buona vecchiaia, attempato e sazio di giorni» (Gn 25,8). La morte dell’uomo inserito nell’alleanza con Dio avviene senza strepito e lamenti (cf Gn 49,33); è la cosa più semplice e naturale dell’universo: «Noi dobbiamo morire e siamo come acqua versata in terra, che non si può più raccogliere» (2Sm 14,14).
Questo è l’atteggiamento che troviamo anche nell’antica sapienza popolare d’Israele, che si è data una voce nelle raccolte di proverbi 13. La «vita» assicurata all’uomo saggio, che segue la legge di Dio, consiste in lunghezza di giorni, ricchezza, onore, pace, fortuna, non in qual cosa di altro, nell’aldilà. Tuttavia non si tratta di crasso materialismo, bensì di una prospettiva religiosa, perché la vita è legata all’alleanza con Dio: «Vedi, io pongo oggi da vanti a te la vita e il bene, la morte e il male... Io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione; scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza» (Dt 30,15.19; cf Dt 28,16- 68). La morte che viene qui considerata non è tanto la morte vera, biologica, quanto l’esistenza lontana da Dio, minacciata per chi è infedele al patto. Questa minaccia incomincia con miserie e sconvolgimenti sofferti durante l’esistenza e tocca il culmine con l’annientamento fisico (morte precoce dell’empio). Tali concetti sapienziali di vita e di morte
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sono molto vicini a quelli che troviamo nel racconto genesiaco del paradiso.
Ma come può resistere la fiduciosa autodedizione dell’uomo a Dio quando egli si ferma a considerare la morte nella sua cruda realtà di evento che viene a troncare la dolcezza della vita? Come reagire di fronte al fatto che, sia per lo «stolto» che per il «saggio» cioè per il peccatore e per il pio, la morte si spalanca davanti inesorabile? Per Qohelet, giunto a tale meditazione, l’atteggiamento da prendere sembra sia solo l’odio alla vita e la disperazione. Così però sarebbe preclusa ogni possibilità di vedere nella vita il luogo del dialogo con il Dio vivente che offre la salvezza. La sua risposta esistenziale sarà piuttosto quella di concentrarsi sull’ora presente, accettando la felicità del singolo momento come un dono che viene dalla mano di Dio: «Ho concluso che non c’è nulla di meglio per essi (gli uomini), che godere e agire bene nella loro vita: ma che uno mangi, beva e goda del suo lavoro è un dono di Dio» (Ec 3, 12-13). Non si tratta di edonismo epicureo, ma di un atteggiamento religioso: è il «timore di Dio» che induce l’uomo a sottomettersi a ciò che il momento gli offre da parte di Dio.
Tali riflessioni sulla morte come situazione limite che illumina il sen so della vita e l’atteggiamento esistenziale che ne viene dedotto richiamano da vicino il pensiero filosofico contemporaneo. La coscienza moderna è radicalmente intramondana, e ciò rende impossibile ogni riferimento all’aldilà. È perciò pieno di significato l’incontro dell’uomo moderno con la fede biblica vetero-testamentaria, che è stata vissuta ed espressa in un orizzonte terreno. N. Lohfink ha ricavato dall’accosta mento delle stimolanti suggestioni ermeneutiche e pastorali: «Se consideriamo l’AT dobbiamo riconoscere che è veramente possibile credere, sperare e amare senza avere dinanzi allo sguardo l’aldilà. Infatti noi siamo dell’opinione che Abramo e gli altri giusti dell’AT si trovavano veramente nella fede, ma sappiamo anche che il vedere nell’aldilà, oltre la morte, era loro precluso. Fede, speranza e carità possono quindi essere possibili nella loro sostanza, anche quando si filosofeggia come fa il libro dei Proverbi o l’Ecclesiaste. Certo, oggi non è più possibile che la Chiesa universale, nella sua funzione di insegnamento magisteriale, accetti una filosofia che comporti: il rifiuto teorico della dottrina del, libro della Sapienza (cioè della sopravvivenza e della rimunerazione: nell’aldilà). Tuttavia all’interno della Chiesa possono esserci singoli uomini, o forse anche gruppi o gene razioni, che si sentono più vicini, per ciò che effettivamente determina la loro coscienza, all’Ecclesiaste che non alla Sapienza. Allora bisogna ricordare che non si è i primi ad aver percorso un simile cammino e bisogna sapere dove si trovano nella Bibbia i modelli di un tal genere di fede» 14.
Il credente dell’antica alleanza non conosce solo l’orizzonte intramondano. Si trovano nella Bibbia altre risposte sul significato della morte nel dialogo dell’uomo con Dio, che tengono presente un’apertura sull’aldilà del mondo e della storia. La morte viene così affrontata in chiave escatologica, volgendosi cioè all’atto futuro di Dio che costituirà il compimento finale delle sue promesse 15. La speranza di un trionfo definitivo di Dio sulla morte nasce dall’escatologia profetica. I profeti riportano alla «fine dei tempi» il compimento della promessa fatta ai padri e rinnovata nell’alleanza sinaitica. Per sostenere la speranza del popolo nell’ora della prova, descrivono in anticipo l’avvenire verso il quale è in cammino. L’Israele infedele, distrutto nella sua potenza terrena e calpestato dai nemici, si sente ridotto a una valle piena di ossi. Ma la potenza dello Spirito di Dio può far rivivere quelle ossa, può vincere la morte rimettendo in piedi una grande armata (Ez 37,1-14); Le promesse escatologiche, al di là del la restaurazione temporale d’Israele, fanno balenare la prospettiva di un universo trasfigurato, una creazione nuova descritta con immagini miti che del paradiso primitivo (cf Is 65,17-25). Al tempo della persecuzione di Antioco Epifane, le immagini apocalittiche elaborate dall’escatologia profetica servono a risolvere il problema della sorte dei giusti. I Giudei fedeli, morti a causa del loro
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amore alla Legge, saranno risuscitati da Dio per prender parte alla gioia escatologica: «molti di quelli che dormono nella polvere della terra si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna» (Dn 12,2). Così la risurrezione dei morti supera la portata di una semplice metafora per designare l’entrata in quell’universo trasfigurato descritto dall’escatologia dei profeti tardivi, dove non ci sarà più la morte. La «vita» promessa all’uomo trascende le condizioni attuali della vita terrestre. La stessa apertura sull’aldilà della morte spiega l’atteggiamento presente nel libro della Sapienza. La morte è solo apparentemente la fine: «Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio e nessun tormento le può toccare» (Sp 3,1). Solo per l’empio la morte è là fine di tutto; per l’uomo che ha fede essa è la porta che si apre sulla vera realtà 16. La prospettiva dell’aldilà e il bagno dell’escatologia giudaica nella mentalità greca sortiscono, in fondo, l’identico effetto delle altre concezioni elaborate in un orizzonte intramondano: esortano il credente a rimanere nell’alleanza con Dio, a percorrere la via della sapienza, della giustizia e della pietà. L’immortalità che aspetta colui che ha tenuto fermo mette in grado di assumere la vita con responsabilità, rimanendo fedeli al Dio fedele, anche se ciò richiedesse di affrontare la morte.
7. «Battezzati nella morte di Cristo» ― Il grande messaggio della Buona Notizia circa Gesù ha per oggetto anche la morte. Alla luce dell’Evangelo la morte è diventata un atto della grazia di Dio che salva; «la grazia è stata rivelata solo ora con l’apparizione del salvatore nostro Cristo Gesù, che ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’immortalità per mezzo del Vangelo» (2Tm 1,10). L’affermazione che la morte di Cristo costituisce l’ora suprema della salvezza è parte essenziale dell’annuncio missionario («Vi ho trasmesso anzitutto quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture»: 1Co 15,3). Ma già all’interno del NT stesso troviamo tentativi differenti di comprendere il significato salvifico di quella morte 17.
Anche la teologia della redenzione è caratterizzata da una pluralità di approcci: ha utilizzato concetti giuridici (pena, espiazione, soddisfazione, sostituzione) e rituali (sacrificio, vittima). Cadute oggi le categorie giuridiche e rituali, c’è chi tenta di accostarsi al senso di quella morte mediante categorie politiche 18. Il punto di partenza per capire il significato della morte di Gesù rimane quello della contingenza storica: fu una morte inflitta, risultato di una lunga opposizione con i poteri religiosi e civili. A questo livello si tratta della morte di un profeta libero, il cui linguaggio disturba. Ma è anche una morte assunta in modo tale da cambiarne il significato. È morte del Messia, che ha deciso di farsi «servitore» e non «capo» (cf il racconto delle tentazioni), che realizza l’atto di fede perfetto, appoggiandosi incondizionatamente sul Padre 19, che con la disponibilità a dare la vita porta al culmine il dono di sé per amore (cf Gv 15,13; lGv 3, 16). Questa valorizzazione del «morire per» non significa una falsa eroizzazione della morte. Morire rimane primariamente un patire, non un agire. Ma Dio ha dato al Cristo la possibilità di accettare e di vivere la sua morte, rovesciandone il significato. Gesù è «ucciso»: la sua morte è conseguenza dell’odio, frutto del peccato, segno della lontananza dell’uomo da Dio. Ma nessun atto di potenza può invertire il movimento che va dall’odio alla morte; può riuscirci solo l’atteggiamento che ro vescia il senso della morte: l'accettarla per libertà e amore.
Come per il Cristo la morte illumina la vita e prende senso da essa, così per il cristiano l’annuncio evangelico della morte salvifica di Cristo è un invito a convertirsi, invertendo la rotta della sua vita. Quando il Cristo afferra l’uomo attraverso il Vangelo, allora l’uomo muore alla vita legata al peccato, alla disobbedienza a Dio, all’odio per l’altro uomo: «Voi siete morti, e la vostra vita è ormai nascosta col Cristo in Dio» (Col 3,3). Il rito del battesimo simbolizza efficacemente sul piano sensibile l’evento esistenziale del morire e risorgere col Cristo: «Noi che siamo morti al peccato, come potremo ancora vivere nel peccato? O non sapete che quanti siamo stati
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battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova» (Rm 6,2-4).
Il messaggio cristiano, pur affermando fortemente la vittoria della vita, non fornisce informazioni sull’aldilà del decesso. Anzi, è stato notato che in Paolo stesso si trovano due rappresentazioni dell’«essere con Cristo» dopo la morte: una, più tributaria della corrente apocalittica giudaica, parla dell’«essere con Cristo» come partecipazione ai beni del regno inaugurato con l’avvento glorioso del Signore (cf 1Ts e 1Co 15); un’altra, ispirata all’ellenismo, trasporta nel tempo che segue immediatamente la morte le aspirazioni che tendono verso la fine dei tempi e fa desiderare la morte per andare presso Cristo (cf 2Co 5,8; Fil 1,23) 20. Quello che importa è che la nostra unione a Cristo è già la risurrezione che ci pone al di là della morte. La «vita eterna» non è da cercare in un futuro lontano, ma è già qui, allorché ci si appoggia alla fedeltà di Dio e al futuro di Cristo. L’eternità comincia qui, con una vita nuova che è da Dio e che Dio porterà a compimento. Esistenzialmente l’accento va sul «già», piuttosto che sul «non ancora». La speranza dei cristiani è un elemento della fede e si fonda nel coraggio della fede che accetta l’eterno anche quando le è contro tutto ciò che è finito. Chi ha questo coraggio, sperimenta già qui e ora l’eterno: «Chi crede ha la vita eterna» (Gv 6,47); «Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte» (1Gv 3,14).
8. Valore pedagogico della celebrazione liturgica della morte ― A partire dalla Riforma protestante i riti e le preghiere connesse con la morte dei fedeli hanno offerto occasione alla polemica confessionale tra cristiani. Le Chiese della Riforma, infatti, hanno avanzato riserve più o meno radicali nei confronti della preghiera per i morti, fino ad arrivare alle punte estreme del rifiuto di ogni gesto di culto negli usi calvinisti 21. Non essendo conforme al Vangelo pregare per i morti, i viventi in lutto dovevano solo pregare per se stessi. Queste posizioni sono facilmente comprensibili come reazione contro la dottrina del Purgatorio e il culto dei santi, considerati dai Riformatori come abusi intollerabili. Attualmente le posizioni, sono più addolcite. Ci si rende conto che la preghiera per i morti dipende dalla rappresentazione che ci si fa della morte e di ciò che la segue. Ora nella Bibbia stessa, come abbiamo visto, ci sono diversi modi di considerare la morte, non riducibili ad unità. Nella cristianità perciò ci saranno sempre di quelli che rimettono i loro cari a Dio, abbandonandosi alla sua volontà, e di quelli che pregano per i loro morti con la fiducia di poter influenzare la decisione divina sulla salvezza eterna.
Il nuovo rituale romano dei funerali 22, pur conservando tutta la sua importanza alla preghiera per il defunto, ha ecumenicamente integrato l’eredità liturgica della Riforma che invita a considerare la celebrazione liturgica della morte come rivolta ai viventi. I riti religiosi che avvolgono la morte dei cristiani possono infatti esercitare sui vivi un influsso decisivo a diversi livelli.
Anzitutto dal punto di vista psicologico 23. La cerimonia funebre di tipo ecclesiastico ha un grande valore catartico, in quanto la «morte rituale» aiuta ad assumere la morte reale e perciò sostiene il «lavoro del lutto», come l’ha chiamato Freud. In questo, la psicologia dinamica ci aiuta a renderci conto in termini scientifici di quel valore di «consolazione» (nel NT «paraclesi») che è una delle funzioni permanenti del ministero della Parola di Dio (cf 1Ts 4,18: «Consolatevi a vicenda con queste parole»).
La Parola di Dio letta e meditata durante il rito funebre 24 ha inoltre un insostituibile valore catechetico. Il credente, condotto a considerare il mistero pasquale di Cristo come origine della visione cristiana della morte, è invitato ad aprirsi alla speranza e a lasciarsi invadere dallo Spirito d’amore che ha risuscitato Gesù dai morti, in modo che la sua vita sia già fin d’ora «vita eterna».
La celebrazione cristiana della
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morte può avere infine un autentico valore missionario. Paolo raccomandava ai Tessalonicesi di non abbandonarsi ad esasperate espressioni di lutto «come gli altri, che non hanno speranza» (1Ts 4,13). La speranza dovrebbe trapelare dalla comunità cristiana riunita per salutare con l’ultimo addio uno dei suoi membri, prima che il corpo di questi sia portato alla sepoltura (è, nella nuova liturgia, il rito della «valedictio»). Già al profeta Ezechiele fu chiesto che il suo lutto personale fungesse da simbolo per il popolo allontanatosi dalla via dell’alleanza (cf Ez 24,15-24); come non potrebbe un comportamento deviante dalla norma sociale nella celebrazione della morte svolgere il ruolo di segno e permettere ai cristiani di «rendere ragione della speranza che è in loro» (cf 1Pt 3,15)?
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BIBLIOGRAFIA
Teologia biblica:
Cullmann O., Immortalità dell’anima o risurrezione dei morti?, trad. it., Brescia 1968 (questa operetta ha suscitato una vivace polemica. Sottolinea la differenza tra la visione ebraica e quella greca della morte, fino a dichiararle inconciliabili).
Grelot P., De la mort à la vie éternelle, Parigi 1971 (vi sono raccolti diversi saggi sulla morte, l’attesa giudaica e la resurrezione).
Martin-Achard R., De la mort à la resurrection d’après ll'Ancien Testament, Neuchâtel-Parigi 1956.
Teologia sistematica:
Bordoni M., Dimensioni antropologiche della morte, Roma 1969 (discute la nuova teologia della morte tenendo presente l’antropologia tomista).
Gaborian F., Interview sur la mort avec K. Rahner, Parigi 1967 (analisi critica dell’opera di Rahner).
Oraison M., La mort... et puis après?, Parigi 1967 (approccio complessivo e per molti aspetti originale).
Rahner K., Sulla teologia della morte, vers. it., Brescia 1965 (la «nuova» teologia della morte, influenzata dalle prospettive esistenzialistiche).
Pastorale:
AA. VV., Il mistero della morte e la sua celebrazione, trad. it., Alba 1958 (resoconto di un incontro del Centre de Pastorale Liturgique tenuto nel 1949. Alcuni contributi resistono al tempo).
La Maison Dieu, 101 (1970): Le Nouveau Rituel des funérailles. — I defunti. Commento esegetico e pastorale del lezionario liturgico (La Parola per l'Assemblea festiva, n. 77), Brescia 1971.
NOTE
1 «La morte, come fine dell’Esserci, è la possibilità dell’Esserci più propria, incondizionata, certa e come tale indeterminata e insuperabile. La morte, come fine dell’Esserci, è nell’essere di questo ente, in quanto esso è-per-la-fine»: M. Heidegger, Sein und Zeit, par 52.
2 Per una valutazione complessiva del pensiero esistenzialista sulla morte, cf R. Schaerer, Le philosophe moderne en face de la mort, in AA. VV., L'homme face à la mort, Parigi 1952, 125-154.
3 K. Rahner, Zur Theologie des Todes, Friburgo im Br. 1958; L. Boros, Mysterium mortis, Friburgo im Br. 1962; R.W. Gleason, The World to come, New York 1958; R. Troisfontaines, Non morrò..., trad. it., Roma 1963. Per una presentazione del pen- siero di questi autori, cf M. Bordoni, Dimensioni antropologiche della morte, Roma 1969, al c. 2°: «Verso una nuova riflessione teologica sulla morte», 49-84.
4 «La morte non può essere soltanto un incidente che viene accettato passivamente (sebbene sia anche questo), un evento biologico di fronte al quale l’uomo come persona si trova inerme ed estraneo, ma è pure da intendere come atto dell’uomo dall’interno... La fine dell’uomo come persona spirituale è attivo compimento dall’interno, totale prendersi-in-possesso della persona, è un aver-realizzato-se-stessi e pienezza della realtà personale attuata liberamente»: K. Rahner, o. c., trad. it., 29-30.
5 H.U. Von Balthasar, Eschatologi,in Fragen der Theologie heute, Einsiedeln 1960.
6 J. Moltmann, Teologia della speranza, trad. it., Brescia 1970, 9.
7 Cf E. Morin, L’Homme et la mort devant l’histoire, Parigi 1951.
8 Seguiamo la diligente rassegna di Ph. Ariès, La mort inversée. Le changement des attitudes devant la mort dans les sociétés occidentales, in La Maison-Dieu, 101 (1970), 57-89.
9 Tale «stile di morte» è ben rilevato dalla ricerca di B.G. Glaser e A.L. Strauss, Awareness of dying, Chicago 1965. Hanno studiato come l’équipe medica comunicava col malato condannato secondo i gradi di conoscenza che questi aveva della sua sorte: dalla conoscenza completa e condivisa (caso eccezionale) alla dissimulazione totale, passando per diversi livelli di complicità.
10 Il cambiamento nell’atteggiamento moderno rispetto al lutto è stato studiato dal sociologo inglese G. Gorer, Death, grief and mourning, New York 1965.
11 Cf J. Mitford, The American way of death, New York 1963.
12 Per l’antropologia biblica e la sua evoluzione, cf F.P. Fiorenza - J.B. Metz, L’uomo come unità di corpo e di anima, in Mysterium salutis, trad it., Brescia 1970, v. 4°, 243-307.
13 L’atteggiamento di fronte alla morte nei libri sapienziali dell’AT è stato studiato da N. Lohfink, Attualità dell’A.T., trad. it., Brescia 1968, 201-244.
14 N. Lohfink, o. c., 241s.
15 Per la risposta escatologica al problema della morte, cf P. Grelot, De la mort à la vie éternelle, Parigi 1971, specialmente 69-79; 122-128; 181-186; 187-199.
16 P. Grelot, o. c., 78, afferma vigorosamente che i testi della Sapienza non devono essere interpretati in chiave greca dell‘immortalità e della morte come liberazione dell’anima spirituale. La grecità ha messo a disposizione solo i termini e le categorie, ma il pensiero è quello dell’escatologia giudaica. L’influenza dell’ambiente alessandrino si fa notare solo mediante un silenzio tattico sulla «risurrezione della carne», poco comprensibile in ambiente greco.
17 A. Paul, Pluralité des interpretations théologiques de la mort du Christ dans le Nouveau Testament, in Lumière et Vie, 20 (1971), 18-33.
18 G. Crespy, Recherche sur la signification politique de la mort du Christ in Lumière et Vie, 20 (1971), 89-109.
19 «Gesù ha combattuto l’agone della fede non solo a guisa di tipo o modello, ma quale archetipo, e quindi ha reso possibile non solo la fede del NT, ma anche ogni fede dell’antica alleanza; ne è il fondatore e l’ha portata alla sua pienezza»: H.U. Von Balthasar, Fides Christi in Sponsa Verbi, trad. it., Brescia 1969, 52.
20 J. Dupont, Syn Christô, l'union avec le Christ suivant St. Paul, Bruges 1952.
21 Ampia documentazione in J.D. Benoit, Prier pour les morts ou pour les vivants. Valeurs complementaires de l’eucologie catholique et de l’eucologie réformée in La Maison Dieu, 101 (1970), 39-50.
22 Ordo Exsequiarum, Typis Polyglottis Vaticanis, 1969. Tutto il numero di La Maison Dieu citato nella nota precedente contiene articoli di commento dell’importante riforma.
23 J.Y. Hameline, Quelques incidences psychologiques de la scène rituelle des funérailles in La Maison Dieu, 101 (1970), 90-96.
24 Amplissima la scelta delle letture bibliche proposte. Il volume: I defunti. Commento esegetico e pastorale del legionario liturgico, Brescia 1971, offre validi contributi che ricoprono tutta la tematica dottrinale della morte cristiana.