- Direttive anticipate
- Morte cerebrale, donazione e prelievo di organi
- Morte
- Accanimento terapeutico
- Umanizzare la malattia e la morte
- Una morte si misura
- Eutanasia?
- Il pensiero e la prassi dell'eutanasia nell'etica cattolica
- L'eutanasia e i problemi etici del morire
- Scelte di fine vita: l'orizzonte etico
- A proposito di eutanasia
- Umanizzare la morte per prevenire l'eutanasia
- Decisioni di fine vita
- Una medicina per chi muore
- Pluralismo di opzioni etiche
- Medicina ed etica di fine vita
- Eppure è viva
- Atteggiamenti etici di fronte alla morte
- Come parlare ai bambini della morte e del lutto
- Cosa è possibile oggi
- Dopo l'ultimo respiro
- Accompagnare la morte
- La buona morte
- Sguardi sulla morte
- Vivere l'ultimo istante
- Gli aspetti etici della comunicazione con il paziente terminale
- L'autodeterminazione e la vita spirituale alla fine della vita
- Tante cure per chi nasce...ma quante per chi muore?
- Pensieri del tempo breve
- Informazione, comunicazione, consenso
- Ai confini tra la vita e la morte
- Morire da cristiani
- Scelte etiche ed eutanasia
Sandro Spinsanti
SCELTE DI FINE VITA: L'ORIZZONTE ETICO
in Problemi di fine vita ed eutanasia
Atti del Convegno di Perugia
Perugia, 8 - 9 aprile 2005
pp. 95-106
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Molti muoiono troppo tardi,
alcuni troppo presto.
Ancora suona strano il precetto:
"Muori a tempo opportuno".
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra
Con intuizione visionaria, Nietzsche ha espresso nell’aforisma che abbiamo posto in epigrafe un problema che sarebbe diventato attuale un secolo dopo rispetto all’esperienza culturale di cui era figlio. A cavallo tra il XIX e il XX secolo la medicina continuava a essere saldamente ancorata al modello etico che si riferiva a Ippocrate, secondo il quale “la cosa giusta” per il paziente veniva decisa dal medico. Quanti e quali interventi terapeutici fossero opportuni era competenza esclusiva di chi curava il malato. Questi non aveva voce in capitolo, ma era esclusivamente il beneficiario di ciò che veniva intrapreso per il suo bene. E prolungare la vita, strappandone anche un minimo brandello all’azione distruttiva della morte, era considerato indiscutibilmente un bene.
Gli strumenti concettuali per affrontare i problemi etici delle scelte di fine vita non mancavano alla cultura greca. Basti pensare alla distinzione tra due tipi di tempo: il krónos, ovvero il tempo come quantità misurabile, e il kairós, vaie a dire il momento propizio. La differenza tra questi due generi di tempo può essere visualizzata immaginando la rappresentazione di kairós che troviamo in alcuni bassorilievi greci. È raffigurato come un giovane in corsa, con mote alate ai piedi; ha un ciuffo sulla fronte e niente capelli sulla nuca. Si lascia così intendere che lo si può afferrare solo nel momento in cui sfila davanti: appena passato, è definitivamente perduto. Anche per la morte c’è un tempo giusto che non è il krónos, bensì il kairós, equivalente al “momento opportuno” di Nietzsche.
Fno a un'epoca recente non abbiamo avuto bisogno di far ricorso a questo strumentario concettuale, per la buona ragione che la medicina non era in grado di prolungare la vita. Almeno nella misura che costituisce un incubo per molti nostri contemporanei. Dalla preoccupazione che l’arte medica non facesse abbastanza per allontanare la minaccia della morte, che rende
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precaria ogni vita, siamo passati all’eccesso opposto: al timore che faccia troppo, estendendo cronologicamente la vita oltre il kairós in cui la morte, pur restando un insulto alla persona, non è un’indegna umiliazione della sua umanità, Oggi la medicina, prolungando la vita, può creare dei “mostri”.
Un'opera letteraria, concepita quando ancora l'arte medica non era in grado si produrre esistenze che si discostano drammaticamente dagli standard della normalità, ci permette di visualizzare questa paura. Si tratta del racconto Il mostro, dello scrittore americano Stephen Crane (il racconto è stato pubblicato nel 1899; tr. it. a cura di G. Mariani, Marsilio, Venezia 1997). Protagonista è il servitore nero di un medico. Quando la casa di questi va a fuoco, il servo si lancia tra le fiamme per salvare il bambino, rimasto intrappolato. Ci riesce, ma rimane a sua volta vittima di un’esplosione avvenuta nel laboratorio del medico: un acido gli cade sulla faccia e gliela distrugge. Il medico, per riconoscenza, si prende cura di lui; ma tutta la comunità, sia quella bianca che quella dei neri, si chiude per paura del “mostro”.
Di fronte ai benpensanti, rappresentati in particolare dal giudice, il medico difende il proprio operato: non avrebbe certo potuto uccidere quel povero essere umano, dal volto devastato (e scivolato poi nella pazzia). Ma le sue argomentazioni, per quanto ineccepibili, non cambiano la realtà: con le migliori intenzioni, mantiene in vita una mostruosità che non è collocabile né tra gli uomini, né tra gli animali. Quello che ha prodotto è “un vizio della virtù”, sentenzia il giudice. Crane non poteva immaginare quanto quei ripensamenti sarebbero suonati attuali un secolo dopo, quando la medicina sarebbe stata in grado di produrre routinariamente essere umani con le caratteristiche sociali del “mostro”. Non solo per la comunità, ma per le persone stesse che rischiano di essere oggetto di questi ambigui benefici della medicina, l’eventualità di essere risucchiate nelle categorie dei “mostri”, né morti né vivi, è uno degli incubi dominanti.
È questa la nicchia culturale in cui va collocata la richiesta di direttive anticipate o analoghe disposizioni relative alle decisioni di fine vita. Ci siamo resi conto che le preferenze delle persone divergono. Per qualcuno ― molti? pochi? È quanto mai necessario promuovere ricerche empiriche per acquisire conoscenze relative al profilo di questa domanda sociale ― è preferibile la rinuncia a trattamenti di sostegno vitale, in nome della coerenza con il modello di qualità della vita a cui hanno cercato di orientarsi nella propria esistenza. E preferiscono mantenere il controllo su queste decisioni, piuttosto che affidarle alla coscienza professionale dei sanitari o alla cura amorosa dei propri familiari.
Che relazione possiamo stabilire tra tali preferenze e le azioni (o “inazioni”) mediche? Nel modello etico tradizionale le preferenze dei pazienti non erano considerate un vincolo che il medico fosse tenuto a rispettare:
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il medico prendeva le decisioni “per il bene” dei pazienti, come un buon padre o una buona madre decide per il figlio, quale interprete autorizzato del suo migliore interesse (il detto inglese: Doctor knows best si applicava non solo alle conoscenze diagnostiche e terapeutiche, ma anche a quelle eliche, che sostanziano le decisioni sulla quantità e qualità dei trattamenti sul finire della vita). Il timore che rende molti sanitari esitanti di fronte alla prospettiva di modificare il modello di rapporto è quello che le preferenze dei pazienti da insignificanti diventino determinanti per l’azione. Il medico si troverebbe così costretto ad abdicare al ruolo che lo voleva unico responsabile delle decisioni cliniche, per diventare il puro esecutore di ciò che il paziente ha deciso.
Un indicatore della resistenza dei medici a far proprio questo punto di vista si trova nella più recente redazione del Codice deontologico dei medici italiani (1998). Rispetto al problema dell’accondiscendenza del medico alle volontà precedentemente espresse dal malato, il quale si trovi attualmente in condizione di incapacità di esprimere la propria volontà in caso di grave pericolo di vita, il Codice esprime l’imbarazzo attraverso una doppia negazione:
«Il medico non può non tenere conto di quanto precedentemente manifestato dal malato» (art. 34).
Si evitano così le due posizioni estreme del paternalismo duro (è il medico che decide, in base alla sua “scienza e coscienza”) e dell'autonomismo radicale (è il malato che decide, mentre al medico non rimane che dar seguito alle direttive che nascono dalla volontà del malato). Il comportamento medico delimitato dalla doppia negazione appare come un compromesso tra i due modelli; tuttavia non si può dire che l’indicazione di comportamento che ne emerge sia chiara.
Più costruttivo appare il Codice deontologico degli infermieri, là dove indica le procedure ideali che scandiscono il rapporto fra il professionista dell’assistenza e il paziente:
L'infermiere ascolta, informa, coinvolge la persona e valuta con la stessa i bisogni assistenziali, anche al fine di esplicitare il livello di assistenza garantito e consentire all’assistito di esprimere le proprie scelte (art. 4.2).
Nel caso di conflitti determinati da profonde diversità etiche, l'infermiere si impegna a trovare la soluzione attraverso il dialogo. In presenza di volontà profondamente in contrasto con i principi etici della professione e con la coscienza personale, si avvale del diritto all’obiezione di coscienza (art. 2.5).
Nella proposta del codice infermieristico tra le preferenze e l’azione si collocano i valori. Le divergenze riguardo ai valori ― che possono diventare dei veri e propri conflitti ― si risolvono idealmente con il dialogo,
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che comincia con l’ascolto dell’altro. Il dialogo, quindi, come alternativa alla prevaricazione (che può esprimersi nelle due direzioni: del sanitario sul paziente, ma anche da parte del paziente sul sanitario).
A favore delle “direttive anticipate” si è espressa, senza ambiguità, la Convenzione europea di bioetica (1997), che l'Italia ha ratificato con legge dello Stato:
Art. 9
I desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente, che al momento dell'intervento non è in grado di esprimere la sua volontà, saranno tenuti in considerazione.
Un’autorevole spinta in questa direzione costituisce il documento del Comitato nazionale per la bioetica: Dichiarazioni anticipate di trattamento (15 dicembre 2003). In generale, gli ambiti nei quali le indicazioni previe del paziente devono essere tenute in considerazione sono così elencati:
― indicazioni sull’assistenza religiosa, sull'intenzione di donare o no gli organi per trapianti, sull’utilizzo del cadavere o parti di esso per scopi di ricerca o didattica;
― indicazioni circa le modalità di umanizzazione della morte (cure palliative, richiesta di essere curato in casa o in ospedale ecc.);
― indicazioni che riflettano le preferenze del soggetto in relazione al ventaglio delle possibilità diagnostico-terapeutiche che si possono prospettare lungo il decorso della malattia;
― indicazioni finalizzate a implementare le cure palliative;
― indicazioni finalizzate a richiedere la non attivazione di qualsiasi forma di accanimento terapeutico, cioè di trattamenti di sostegno vitale che appaiono sproporzionati o ingiustificati;
― indicazioni finalizzate a richiedere il non inizio o la sospensione di trattamenti terapeutici di sostegno vitale, che però non realizzino nella fattispecie indiscutibili ipotesi di accanimento:
― indicazioni finalizzate a richiedere la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale.
Gli orientamenti del Cnb sono sostenuti dal principio secondo cui al consenso o dissenso espresso dal paziente non in stretta attualità rispetto al momento decisionale va attribuito lo stesso rispetto che è dovuto alla manifestazione di volontà espressa in attualità rispetto all’atto medico. Alle dichiarazioni anticipate il Comitato attribuisce un carattere vincolante, e non meramente orientativo: «Se il medico, in scienza e coscienza, si formasse il solido convincimento che i desideri del malato fossero non solo legittimi, ma ancora attuali, onorarli da parte sua diventerebbe non solo un compimento dell’alleanza terapeutica che egli ha stipulato
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col suo paziente, ma un suo preciso dovere deontologico».
L'orientamento del Cnb inclina tuttavia a privilegiare l'aspetto giuridico, più che quello etico, delle dichiarazioni anticipate. Richiede, perciò, che siano redatte in forma scritta e non orale; che siano compilate con l'assistenza di un medico, che può controfirmarle; che siano redatte in forma non generica, in modo tale da non lasciare equivoci sul loro contenuto e da chiarire quanto più possibile le situazioni cliniche in relazione alle quali esse debbano poi essere prese in considerazione. Il Cnb auspica, infine, «un intervento legislativo ampio e esauriente, che risolva molte questioni tuttora aperte per quel che concerne la responsabilità medico-legale e insieme che offra un sostegno giuridico alla pratica delle dichiarazioni anticipate, regolandone le procedure di attuazione».
Il punto critico per il discorso sulle direttive anticipate è costituito dal passaggio dal livello culturale-etico e deontologico a quello formalmente giuridico. In altre parole: il rispetto delle volontà formulate in precedenza. in previsione di una situazione in cui il soggetto non sia più in grado di esprimerle, deve essere solo un dovere morale per il medico o deve costituire un obbligo prescritto per legge, così che la sua violazione comporti una sanzione penale? La questione ha un risvolto concreto per i medici, i quali temono di venire denunciati per atti che la legge non consente, qualora omettano interventi clinici per rispettare volontà precedentemente espresse dal malato.
Questo è il contesto in cui si colloca il disegno di legge d’iniziativa dei senatori Ripamonti e Del Pennino, presentato in Senato il 23 maggio 2003; Disposizioni in materia di consenso informato e di dichiarazioni di volontà anticipate (in Parlamento giace da tempo una proposta di legge analoga, presentata nel 1999 da Chiaramonte e Griffagnini). L’intento della legge è di esentare il medico da ogni responsabilità conseguente al rispetto della volontà del paziente, quale deve risultare da un atto scritto di data certa e con sottoscrizione autenticata. Lo stesso obiettivo può essere raggiunto indicando “una persona di fiducia”, la quale, qualora sopravvenga uno stato di incapacità naturale valutato irreversibile, è autorizzata a prestare o negare il proprio consenso ai trattamenti sanitari. Qualora la proposta trovasse il consenso dei parlamentari, la “Carta di autodeterminazione” si collocherebbe non più sul piano dell’etica, ma su quello della legge.
La proposta della “Carta di autodeterminazione”
Fin dal primo diffondersi del movimento della bioetica in Italia ha avuto luogo una polarizzazione su due fronti: da una parte le istituzioni a orientamento cattolico, dall'altra quelle ispirate alla difesa di un approccio laico. In particolare, aH’annuncio della costituzione del primo Comitato nazionale per la bioetica alcuni studiosi e cittadini, ritenendo
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che fosse troppo sbilanciato in senso confessionale., diedero vita alla Consulta di bioetica (Milano 1989), quale controparte laica. La Consulta si presenta come “un'associazione di cittadini che si propone di diffondere un atteggiamento aperto e libero da pregiudiziali dogmatiche nella ricerca di soluzioni ai problemi morali posti dallo sviluppo della medicina e delle scienze biologiche".
Per rispettare le diverse concezioni di valore presenti nella società la Consulta ha privilegiato, fin dall'inizio, un punto di vista sulla vita che alla sacralità contrappone la qualità. La prima prospettiva porta conseguenzialmente a una difesa a oltranza di qualsiasi espressione di vita umana, sottraendo le decisioni sulla fine della vita all’individuo; chi promuove, invece, la qualità della vita tende a privilegiare l'autonomia individuale e a rivendicare il diritto della persona sui trattamenti medici, compresi quelli che assicurano la sopravvivenza. In concreto, per tutelare i soggetti che, per lo stato avanzato della malattia vedessero compromesse le capacità di esprimere la propria volontà, la Consulta si è fatta promotrice della “Carta di autodeterminazione” (o Biocard).
Si tratta di un documento a cui va riconosciuto fondamentalmente un valore morale. Non ha invece un valore giuridico obbligante: per questo può essere fuorviante chiamare queste disposizioni “testamento biologico” ― come viene correntemente tradotta l’espressione inglese living ivill ― in quanto non produce dei fatti giuridici, come un vero e proprio testamento. Chi dà disposizioni di questo genere intende vincolare i medici e i propri familiari al rispetto della misura dei trattamenti che ritiene compatibile con la propria concezione morale.
La dizione “testamento biologico” va presa con circospezione, tenendo presente che tanto il sostantivo quanto l’oggettivo che lo qualifica sono da intendere in senso lato. Mentre un testamento vero e proprio, infatti, produce gli effetti dopo la morte, il documento di cui si parla dovrebbe entrare in funzione prima, per poter influire sulla morte stessa; “biologico”, poi, vuol indicare una concezione della vita in cui gli aspetti spirituali hanno una priorità di valore rispetto a quelli somatici: praticamente, dunque, il contrario di quanto il termine biologico lascia intendere. La Caritas svizzera — che ha espresso un esplicito sostegno per queste direttive ― ha optato per chiamarle “disposizioni del paziente”: un’espressione molto blanda, che rinuncia al pathos evocato da quelle affini. La Consulta di bioetica preferisce parlare di “Carta di autodeterminazione” o Biocard. Riportiamo, a titolo esemplare, il modello diffuso dalla Consulta (lo si trova su Internet, all'indirizzo www.consultadibioetica.org. )
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CONSULTA DI BIOETICA Via Cosimo del Fante, 13 20122 MILANO Tel. e Fax 02 58 300 423
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BIOCARD CARTA DI AUTODETERMINAZIONE N°…. Sig. nato/a a il residente in via tel
|
DICHIARAZIONE
Alla mia famiglia, ai medici curanti e a tutti coloro che saranno coinvolti nella mia assistenza. Io sottoscritto/a, essendo attualmente in pieno possesso delle mie facoltà mentali, dispongo quanto segue in merito alle decisioni da assumere qualora mi ammalassi:
1 |
Voglio essere informato sul mio stato di salute, anche se fossi affetto da malattia grave e inguaribile
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Sì No |
2 |
Voglio essere informato sui vantaggi e sui rischi degli esami diagnostici e delle terapie
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Sì No |
3 |
Autorizzo i curanti ad informare, anche senza il mio consenso, le seguenti persone
|
Sì No |
Chi ha scelto «No» riguardo alla disposizione 1 può terminare qui la compilazione apponendo una firma.
Firma
Data
Chi invece ha scelto «Sì» riguardo alla disposizione 1 è opportuno che prosegua la lettura in modo da formulare altre disposizioni di carattere generale e particolare.
Sono consapevole che potrebbe accadermi in futuro di perdere la capacità di decidere o di comunicare le mie decisioni, ma, poiché voglio esercitare comunque il mio diritto di scelta, formulo qui di seguito alcune disposizioni che desidero vengano rispettate. Resta inteso che queste disposizioni perdono il loro valore qualora, in piena coscienza, io decida di annullarle o di sostituirle con altre.
DISPOSIZIONI GENERALI
So che si definiscono oggi «provvedimenti di sostegno vitale» le misure urgenti senza le quali il processo della malattia porta in tempi brevi alla morte. Esse comprendono la rianimazione cardiopolmonare in caso di arresto cardiaco, la ventilazione assistita, la dialisi (rene artificiale), la chirurgia d’urgenza, le trasfusioni di sangue, le terapie antibiotiche e l’alimentazione artificiale. Sono consapevole che, qualora venissero iniziati e proseguiti su di me tutti i possibili interventi capaci di sostenere la mia vita, potrebbe accadere che il risultato sia solo il prolungamento del mio morire o il mio mantenimento in uno stato di incoscienza o di demenza. Formulo perciò le seguenti scelte riguardo ai provvedimenti di sostegno vitale.
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SIANO NON SIANO |
iniziati e continuati se il loro risultato fosse il prolungamento del mio minore
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SIANO NON SIANO |
iniziati e continuati se il loro risultato fosse il mio mantenimento in uno stato di incoscienza permanente e privo di possibilità di recupero
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6 |
SIANO NON SIANO |
iniziati e continuati se il loro risultato fosse il mio mantenimento in uno stato di demenza avanzata non suscettibile di recupero
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Chi ha scelto «SIANO iniziati» in tutte queste tre ipotesi, può concludere qui la compilazione apponendo una firma.
Firma
Data
Chi ha scelto «NON siano iniziati» in almeno una di queste tre situazioni. è opportuno che continui la compilazione delle seguenti Disposizioni Particolari, che ribadiscono in modo esplicito la rinuncia o la richiesta di alcuni interventi a proposito dei quali è più facile che nascano controversie.
DISPOSIZIONI PARTICOLARI
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Dispongo che siano intrapresi tutti i provvedimenti volti ad alleviare le mie sofferenze (come uso di farmaci oppiacei) anche se essi rischiassero di anticipare la fine della mia vita
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Sì No |
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Dispongo che in caso di arresto cardiorespiratorio, nelle situazioni descritte sopra ai punti 4. 5 e 6 sia praticata su di me la rianimazione cardiopolmonare se ritenuta possibile dai curanti
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Sì No |
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Dispongo che, nelle situazioni descritte sopra ai punti 4, 5 e 6 qualora io non sia in grado di alimentarmi in modo naturale, sia proseguita la somministrazione artificiale di acqua e sostanze nutrienti se ritenuta dai curanti
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Sì No |
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Altre disposizioni personali |
Sì No
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Firma
Data
Le disposizioni seguenti possono essere sottoscritte indipendentemente dalle precedenti, anche se non si è eseguito alcuna scelta.
DISPOSIZIONI RIGUARDANTI L’ASSISTENZA RELIGIOSA
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Desidero l’assistenza religiosa di confessione
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Sì No |
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Desidero un funerale |
religioso laico
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DISPOSIZIONI DOPO LA MORTE
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Dispongo di donare i miei organi a scopo di trapianto |
Sì No |
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Dispongo di donare il mio corpo a scopi scientifici o didattici |
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Dispongo che il mio corpo sia |
inumato cremato |
Firma
Data
NOMINA DEL FIDUCIARIO
Consapevole del fatto che le disposizioni suddette riguardano situazioni complesse, imprevedibili, dove non sempre è agevole per i curanti esprimere una chiara valutazione del rapporto tra sofferenza e benefici di ogni singolo atto medico, nomino mio rappresentante fiduciario:
il/la Sig/ra
nato/a
residente a cap
via tel
che si impegna a garantire lo scrupoloso rispetto delle mie volontà espresse nella presente Carta e a sostituirsi a me per tutte le decisioni non contemplate sopra, qualora io perdessi la capacità di decidere o di comunicare le mie decisioni. Nel caso che il mio rappresentante fiduciario sia nell’impossibilità di esercitare la sua funzione, delego a sostituirlo in tale compito:
il/la Sig/ra
nato/a
residente a cap
via tel
Questo atto avviene il in presenza
il/la Sig/ra
nato/a
residente a cap
via tel
che attesta la veridicità della presente dichiarazione e testimonia che i Sigg.ri sopra indicati hanno accettato la delega.
Firma del sottoscrittore
Firma del primo fiduciario
Firma del secondo fiduciario
Firma del testimone
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Al di là delle differenti accentuazioni, tutti i documenti di questo genere tendono a mettere dei limiti: colui che sottoscrive dichiara di rinunciare all’ambiguo “beneficio” di pratiche mediche che possono prolungare la vita biologica anche in presenza di danni cerebrali profondi e irreversibili, che rendono impossibile la vita cosciente, o in condizioni di degrado fisico che fanno ritenere soggettivamente la vita come una condanna peggiore della morte.
In filigrana vediamo il profilo dell’angoscia relativa alla morte propria del nostro tempo. In epoca romantica la paura irrazionale si sedimentava attorno alla morte apparente. Truci storie di persone sepolte vive, destinate a un tragico risveglio nella tomba, toglievano il sonno a molti. C'era anche chi si premuniva da questa eventualità chiedendo un supplemento di morte (magari con il classico spillone che trapassasse il cuore). Il nostro immaginario di abitanti della città tecnologica è sconvolto da altri fantasmi. Noi siamo angosciati dalla prospettiva di finire attaccati a macchine che ci impediscano di morire. Abbiamo paura non del medico distratto, che per errore ci dichiari morti mentre siamo ancora vivi, ma di quello che si accanisca a tenerci in vita, quando questa è una pura sopravvivenza biologica, sprovvista di caratteristiche umane. Il timore dell’accanimento terapeutico ― un tipico mito del nostro tempo, nutrito dai racconti dell’agonia interminabile di alcuni moribondi illustri, come Tito, il generalissimo Franco e l’imperatore Hirohito: il non invidiabile privilegio dei potenti di oggi sembra essere quello di attirare su di sé una medicina che si accanisce a non lasciar morire ― sta alla base del diffondersi del testamento biologico.
Può sorprendere sapere che anche istituzioni di matrice cattolica, come la Caritas svizzera, si facciano paladine di documenti rivolti ad assicurare un controllo previo sulle modalità di trattamenti medici da ricevere sul finire della vita. I credenti che promuovono questa pratica inclinano a considerarla come un elemento di una “diakonia” più complessa e articolata che persegue la Chiesa quando si occupa dei sofferenti nella società. Questo compito ecclesiale oggi comporta, con riferimento a coloro che affrontano la fase terminale della vita, la difesa prioritaria della dignità, in vita e in morte. Nel contesto della nostra cultura tecnologica non ci si può limitare a proclamare e tutelare il valore della vita: bisogna difenderne anche la dignità, offesa da certe modalità del morire medicalizzato.
Tuttavia nella nostra società non c’è consenso riguardo all'opportunità di diffondere il ricorso a questo tipo di documenti. Le riserve vengono da più parti. Coloro a cui sta a cuore che anche nella fase terminale non si abdichi al criterio etico della “sacralità della vita”, criticano il riferimento al criterio della “dignità”. Temono che, adottandolo in modo esclusivo, ci si esponga a decisioni arbitrarie di ogni genere, compreso il ricorso
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all'eutanasia per liberare certi poveri esseri dal peso di una “indegna” degradazione.
Chi è mosso da preoccupazioni giuridiche rimprovera ai “testamenti biologici” di creare confusione rispetto alle responsabilità legali del medico. Questi è tenuto a rendere conto del suo operato, se non corrisponde ai criteri previsti dalla legge. Se sottopone un paziente a un trattamento insensato, può essere chiamato a risponderne davanti a un tribunale. Ma ciò non si applica solo nel caso di una persona che abbia espresso la sua volontà mediante una disposizione previa, bensì per ogni paziente. Se poi si volesse attribuire a questo tipo di documenti un valore legale, non si farebbe che attribuire allo Stato il compito di risolvere problemi che l’individuo non sa risolvere.
I medici sono, in genere, fortemente critici nei confronti del ricorso alle disposizioni anticipate. Le vedono come un atto burocratico, che tende a espropriarli del compito di capire la singola situazione, creando la categoria generica del “malato terminale”, nei confronti della quale tenere un comportamento standardizzato. Non mancheranno di ricordare l’uno o l’altro episodio di malati che, salvati dal coma mediante l’impiego di quanto oggi la tecnologia rianimati va mette a disposizione, hanno ringraziato il medico e benedetto la circostanza che questi non sia venuto a conoscenza che il paziente aveva fatto un testamento biologico, oppure non ne abbia tenuto conto... In ogni caso per i medici il diffondersi di queste disposizioni suona come sfiducia nei loro confronti: come se ormai fosse tramontato il tempo in cui ci si poteva affidare alle loro decisioni.
I sanitari, tuttavia, non hanno fiducia nelle capacità del corpo professionale di prendere le migliori decisioni in caso di pazienti privi della competenza decisionale. È quanto emerge da una ampia inchiesta svolta tra medici e infermieri degli Ospedali Riuniti di Bergamo (cfr. Un tempo, un luogo per morire, ed. Zadigroma, 2003, pp. 73-102). Alla domanda: “Se una patologia le impedisce di esprimere la sua volontà, che cosa o chi meglio potrebbe garantire il rispetto dei suoi desideri in merito alle cure?”, solo il 4,9% dei sanitari ha dichiarato che medici e infermieri saprebbero agire nel loro interesse, mentre il 50,5% si affida piuttosto a una dichiarazione autografa in cui sia esplicitato che i trattamenti che desidera ricevere e quelli che preferisce siano omessi.
Una visione totalmente negativa del ruolo svolto dalle direttive anticipate non è giustificata. Ma questo strumento di atti dispositivi per essere utile deve restare entro il rapporto medico-paziente, non sostituirsi a esso. Non è finalizzato a far fare economia di dialogo, ma piuttosto a portare il medico più vicino alla prospettiva soggettiva del malato, mettendosi in ascolto dei suoi valori.
Il cammino verso la ristrutturazione dei rapporti tra sanitari e persone assistite sul versante della vita che finisce è indubbiamente lungo.
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Abbiamo ragione di temere le scorciatoie costituite da norme che non nascono da una rielaborazione culturale. Sembra destinata al fallimento anche la semplice imposizione di modelli estranei alla nostra tradizione (in questo ambito la contrapposizione tra cultura latina e cultura anglosassone non è pura retorica!). Il cammino più sicuro è quello lungo, che passa attraverso la ricerca empirica, la formazione del personale sanitario e l’educazione dei cittadini. Nella cultura civica, che la scuola è tenuta a trasmettere ai giovani di oggi, bisognerà prevedere un capitolo in aggiunta alle conoscenze relative alla struttura dello Stato e al funzionamento delle istituzioni: l’insieme dei diritti e dei doveri nei rapporti con i professionisti sanitari. Solo questa cultura partecipativa diffusa permetterà a ogni cittadino di diventare un soggetto responsabile nelle decisioni che riguardano la vita, dalla nascita alla morte.