![Book Cover: Scelte etiche ed eutanasia](https://sandrospinsanti.eu/wp-content/uploads/2019/09/07-c-scelte-e-etiche-e-eutanasia-Custom.jpg)
- Direttive anticipate
- Morte cerebrale, donazione e prelievo di organi
- Morte
- Accanimento terapeutico
- Umanizzare la malattia e la morte
- Una morte si misura
- Eutanasia?
- Il pensiero e la prassi dell'eutanasia nell'etica cattolica
- L'eutanasia e i problemi etici del morire
- Scelte di fine vita: l'orizzonte etico
- A proposito di eutanasia
- Umanizzare la morte per prevenire l'eutanasia
- Decisioni di fine vita
- Una medicina per chi muore
- Pluralismo di opzioni etiche
- Medicina ed etica di fine vita
- Eppure è viva
- Atteggiamenti etici di fronte alla morte
- Come parlare ai bambini della morte e del lutto
- Cosa è possibile oggi
- Dopo l'ultimo respiro
- Accompagnare la morte
- La buona morte
- Sguardi sulla morte
- Vivere l'ultimo istante
- Gli aspetti etici della comunicazione con il paziente terminale
- L'autodeterminazione e la vita spirituale alla fine della vita
- Tante cure per chi nasce...ma quante per chi muore?
- Pensieri del tempo breve
- Informazione, comunicazione, consenso
- Ai confini tra la vita e la morte
- Morire da cristiani
- Scelte etiche ed eutanasia
Sandro Spinsanti - Francesca Petrelli
SCELTE ETICHE ED EUTANASIA
Figlie di San Paolo, Milano 2003
pp. 175
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Al lettore 7
Introduzione 9
Capitolo I
DECISIONI AL LETTO DEL MORENTE 17
La morte medicalizzata 17
Alcune situazioni cliniche: morire senza dolore 23
«Dottore, basta! 30
Trattare o lasciar fare la natura? 38
Né vivo, né morto (dramma in molti atti, senza fine prevedibile...) 46
«Fatemi morire!» 53
Capitolo II
SEGUENDO LA LEGGE COME GUIDA 65
Le norme della deontologia medica 65
L’ambito del diritto, tra regole deontologiche e principi etici 69
Il suicidio medicalmente assistito nello Stato americano dell’Oregon 79
Il pionieristico caso dell’Olanda 84
Il living will e le direttive anticipate nel mondo anglosassone 94
Il dibattito giuridico e le proposte legislative in Italia 101
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Capitolo III
LE ARGOMENTAZIONI FILOSOFICHE 108
Modelli etici di riferimento 108
La prospettiva deontologista 110
L’impianto teleologico: utilitarismo e liberalismo 113
Deontologismo e teleologismo a confronto sulle scelte mediche
di fine vita 120
Il “personalismo” d’oltreoceano 129
Una griglia per l’analisi etica dei casi clinici 132
Capitolo IV
VALORI SPIRITUALI E SCELTE MORALI 140
La vita, il sacro, il limite 140
Vita spirituale e autodeterminazione 148
Persona e comunità 159
Una ars moriendi per il XXI secolo? 165
Conclusioni
MEMENTO VIVERE 173
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Il lettore sa che il libro che ha preso in mano ha per oggetto un tema ingrato: le decisioni dalle quali dipende la fine della vita. Obbedendo a una convenzione diffusa, l’editoria evita di menzionare la morte e il morire, per lo meno nei titoli dei libri; ma, per quanto accennata con discrezione, è la morte quale risultato di ciò che si fa o si omette di fare, il tema immenso sul quale vogliamo condurre, insieme al lettore, una pacata riflessione.
Il punto di partenza delle nostre considerazioni sarà costituito da una rassegna articolata di situazioni cliniche, nelle quali l’intervento medico contribuisce al processo di morte. I due capitoli successivi considerano i comportamenti rispettivamente dall'angolatura delle norme, sia deontologiche sia del diritto, e dal punto di vista morale. L’osservanza delle norme rende i comportamenti legali, mentre le ragioni morali li rendono legittimi. «A che cosa sono tenuto?»: è l’interrogativo cui cerca risposta il sanitario che non vuol incorrere nel rigore delle leggi o nelle sanzioni professionali. «Con che argomenti posso giustificare le mie scelte?», è invece l’orizzonte in cui si colloca l’interrogarsi propriamente etico. Un ultimo capitolo considererà le scelte di fine vita in quella prospettiva di valori che reggono la vita spirituale delle persone.
Il libro è scritto a quattro mani. Pur nascendo da una riflessione congiunta, il primo e il quarto capitolo
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sono stati redatti da Sandro Spinsanti, il secondo e il terzo da Francesca Petrelli. Le ovvie diversità sono compensate da un progetto unitario: ripensare i problemi che ci sta ponendo la pratica della medicina contemporanea, nel contesto delle medical humanities.
Non si tratta di togliere potere alla medicina; né vogliamo sottoporla a un magistero etico che la guidi dall’esterno, quasi non avesse in sé le potenzialità di trovare una strada che non calpesti i valori in cui crediamo. Sottostante al libro c’è invece una grande fiducia nella capacità dei medici ― in particolare verso coloro che si dedicano alle cure palliative ― di dare un volto diverso al morire. Da loro ci aspettiamo una medicina potente, anche se consapevole del limite; più ricca di farmaci efficaci, ma anche più ricca di pensiero; più attenta a quanto sappiamo dell’uomo ― dell’uomo destinato alla morte ― non solo dalle scienze naturali, ma anche dalle scienze dell’uomo e dalla tradizione umanistica.
Sandro Spinsanti
Francesca Petrelli
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«Chiedo scusa alle grandi domande
per le piccole risposte»
Wislawa Szymborska
Ci sono molti modi per uscire dalla vita. Nessuno è piacevole, ma alcuni sono più spiacevoli di altri. Talvolta la fine del viaggio ci è imposta dall’esterno, da eventi che non riusciamo in alcun modo a controllare: lo potrebbero testimoniare le vittime di catastrofi naturali, di disastri aerei, di attentati terroristici, di azioni belliche. All’estremo opposto collochiamo le morti che dipendono totalmente dalla volontà del soggetto. Le forme possono variare. Parlando di morte autoinflitta, l’associazione più spontanea è quella con il suicidio che nasce dalla chiusura di qualsiasi orizzonte di speranza. Ma esistono numerose varianti di scelte di immolarsi per protesta: da Jan Palach, bruciatosi sulla piazza di San Venceslao di Praga per dimostrare contro l’occupazione russa, fino ai tristemente attuali kamikaze palestinesi, per i quali il suicidio ha il sapore della vendetta e nasce dall’odio politico.
In alcuni casi l’uscita volontaria dalla vita non ha nessuna connotazione drammatica, ma è considerata un punto di arrivo naturale come il destino di un frutto, che si stacca dall’albero quando è giunto a maturazione. Esistono culture che abbinano la capacità di morire a un atto della volontà, coronamento di un’evoluzione spirituale.
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Una versione, condita di ironia, della possibilità di morire per decisione volontaria è fornita dal film Piccolo grande uomo (del regista Arthur Penn, 1970). Il saggio capo indiano, vecchissimo e cieco, si fa condurre dal suo figlioccio sulla cima di una montagna, dichiarandosi pronto a morire; ma dopo due giorni di concentrazione meditativa si accorge di essere ancora in vita. Ridiscende allora alla sua tenda e si fa preparare da mangiare: il «buon giorno per morire» verrà un’altra volta...!
Anche al di fuori delle tradizioni sapienziali che valorizzano il dominio della volontà sul corpo, qualche traccia della trascendenza dello spirito sulla materia si può riscontrare nelle esistenze più secolari e immanenti. Il maggior numero di decessi dopo la data fatidica del Capodanno 2000 ― considerato simbolicamente il volger del millennio ― indica che per molti quella data era tanto significativa da monopolizzare energie interiori per arrivarvi. Statisticamente significative sono anche le morti più frequenti dopo certe solennità o avvenimenti a cui si annette un grande valore (un matrimonio, la prima comunione di un nipotino, il conseguimento di una laurea...).
Abbiamo pochi dati attendibili sulla correlazione tra il tempo di sopravvivenza di malati, giunti alla fase terminale della malattia, e certi eventi identificati come una meta da raggiungere. Non sono state fatte ricerche esaurienti. Elementi parziali e aneddotici in nostro possesso, tuttavia, sono sufficienti a giustificare il sospetto che la resa alla morte dipenda dalla volontà ― quanto meno da una parte della volontà che trascende la consapevolezza ― più di quanto siamo inclini a concederle. Facendo un po’ di violenza a categorie mentali che solitamente teniamo distinte, parliamo di morte volontaria in tutta una serie di situazioni che vanno dal suicidio deliberato alla morte legata all’autorealizzazione spirituale. Per dire, però, che non è questo l’argomento del libro.
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Neppure prenderemo in considerazione i casi nei quali la fine del viaggio è decisa da qualcun altro che non sia il vivente che sta per lasciare la vita. Anche qui il ventaglio di situazioni e di motivazioni è molto ampio. Talvolta la morte è inflitta dallo Stato, sotto forma di pena capitale. Nonostante la crescita costante del numero delle nazioni che aboliscono la condanna a morte dal repertorio delle pene che lo Stato si sente legittimato a infliggere, ancora numerosi Paesi vi fanno ricorso. Vi sono casi in cui mettere fine alla vita di qualcuno che soffre in modo indicibile, senza che si possa far niente per togliere la sofferenza, può sembrare un gesto non solo ragionevole, ma anche pieno di misericordia. Si racconta ― senza l’esistenza di prove storiche inoppugnabili ― di crocerossine che percorrevano i campi di battaglia cosparsi di feriti della prima guerra mondiale, dotate del “pugnale della misericordia”, per mettere fine ai tormenti di quei feriti per i quali la medicina non poteva far niente.
Scelte di questo genere sono fatte ― in casi estremi ― anche su quei campi di battaglia quotidiani che sono gli ospedali. Medici competenti e impegnati per la difesa della vita hanno confessato che, di fronte a strazi indicibili e irriducibili, accelerare la fine del paziente è sembrata loro la scelta meno disumana. Sono testimonianze dirette, che si possono trovare nei libri autobiografici di Léon Schwartzenberg 1 o di Erwin Nuland 2, per limitarci a due medici che non possono assolutamente essere ricondotti alla categoria equivoca dei vari “Dottor Morte”, ovvero dei fanatici protagonisti della morte per compassione. Anche alcuni familiari si sono trovati a uccidere il proprio caro per pietà: le cronache giudiziarie sono ricche di dettagli a questo proposito.
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La decisione di infliggere la morte per compassione è stata rivendicata anche dalla società. Il caso più noto, per il truce alone che l’accompagna, è quello del regime nazista di procurare una “morte dolce” alle vite giudicate “non degne di essere vissute”. «Esistono uomini per cui la morte è per loro stessi un sollievo, mentre per la società e lo Stato costituisce la liberazione da un peso». Con queste parole uno scritto ideologico, apparso già nel 1922, giustificava le azioni che sarebbero state intraprese dal regime nazista alla fine degli anni ’30 3. Migliaia di malati mentali, di persone affette da tare genetiche e di neonati con gravi handicap sono cadute vittime del programma rivolto a sopprimere i cosiddetti “pesi morti” della nazione, nonché a eliminare quelli che erano considerati delle vergogne, misurati con i criteri della “razza pura”.
“Eutanasia”: l’etichetta per designare quel programma sarà già venuta in mente al lettore. Anche per i casi di morte procurata per motivi compassionevoli siamo soliti ricorrere alla stessa parola, benché le motivazioni non potrebbero essere più distanti (la ricerca di un vantaggio per la società, liberandola dai “pesi morti” in un caso, una disperata compassione nell’altro). Abbiamo menzionato alcune situazioni in cui la morte viene inflitta ― come pena, come gesto pietoso o come scelta sociale ― per delimitare ulteriormente l’ambito di questo libro.
Così come abbiamo escluso il suicidio e le altre forme di morte autoprocurata, allo stesso modo prescindiamo dalle situazioni in cui la morte è inflitta per decisione altrui. Dedicheremo la nostra attenzione alla morte che avviene in ambito medico, in quanto risultato di decisioni cliniche. Le principali questioni ruotano intorno ai seguenti interrogativi:
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― Chi deve decidere? Quali sono i compiti rispettivi dei professionisti sanitari, della persona stessa che deve affrontare la morte e dei suoi familiari? In che considerazione va tenuta la volontà della persona di ricevere trattamenti futili, che non modificano la sua aspettativa di vita, o ― al contrario ― di rinunciare a trattamenti efficaci, in grado di salvargli la vita? Come regolarsi quando la persona che sta morendo non è più in grado di far conoscere la sua volontà, ma ha espresso in precedenza le sue preferenze?
― Su che cosa fondare un giudizio etico? Ci sono criteri per distinguere le decisioni buone (accettabili moralmente) da quelle inaccettabili (e quindi cattive)? In base a quali sistemi etici possiamo articolare dei giudizi morali? Esiste la possibilità di intendersi e di dialogare tra persone che hanno orientamenti etici diversi?
― Quali norme devono guidare i comportamenti? Oltre alle norme etiche, quale ruolo giocano le norme deontologiche stabilite dai professionisti sanitari? E opportuno che le decisioni cliniche di fine vita siano regolate per legge? In tal caso, sulla base delle esperienze maturate dai Paesi che hanno introdotto queste norme giuridiche, quali si dimostrano più efficaci?
― Oltre l’etica, quale guida può offrire la spiritualità? Il diritto a mettere dei limiti ai trattamenti e a conservare una qualche forma di controllo sulla fine della vita (autodeterminazione) è compatibile con il valore sacro attribuito alla vita? Gli insegnamenti delle tradizioni religiose ― quella cristiana in particolare ― possono ancora guidare i credenti contemporanei nelle scelte di fine vita? Quale funzione può svolgere la religione nella sua dimensione comunitaria?
Dopo tutta questa serie incalzante di interrogativi, è possibile che anche il lettore abbia la sua domanda da porre: «Ma occuparci di tutti questi problemi non equivale, in pratica, a parlare dell’eutanasia?». È vero: queste sono le tipiche questioni che vengono dibattute
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oggi sotto l’etichetta di eutanasia. Ma utilizzare una sola parola per abbracciare situazioni così diverse è fonte di ambiguità. Già in un documento del 1976, Problemi etici della morte e del morire, i vescovi francesi richiamavano l’attenzione sull’ambiguità della parola e sulla necessità di tenere separati i diversi problemi per i quali si ricorre al termine eutanasia. Per la precisione, il documento indica almeno sei ambiti diversi ai quali si fa riferimento parlando di eutanasia: l’«addolcimento» degli ultimi momenti della vita del malato; la lotta contro il dolore, che può comportare il ricorso ad analgesici che abbreviano la vita; la rinuncia a prolungare la vita con misure che possono essere definite accanimento terapeutico; la soppressione dei “tarati” per ragioni eugeniche; la constatazione della morte secondo criteri clinici, nonostante il perdurare di apparenze di vita; la decisione di porre termine deliberatamente alla vita di una persona, su sua richiesta. Secondo il suggerimento dei vescovi francesi, il dibattito acquisterebbe il pregio della chiarezza se non si parlasse indiscriminatamente di eutanasia per tutte queste diverse situazioni. La denotazione della parola è troppo ampia. Rischiamo di illuderci di parlare della stessa cosa, mentre ci stiamo riferendo a situazioni del tutto diverse.
Un secondo motivo per evitare la parola eutanasia è la sua connotazione. Il significato connotativo delle parole, secondo la linguistica, è riferibile all’alone che le accompagna, in quanto legate a esperienze che hanno conferito loro un valore particolare. Non c’è dubbio che la connotazione di eutanasia è delle più spregevoli, per l’uso che ne è stato fatto sotto il nazismo. Ricorrere a questa parola suscita emozioni forti. Qualificare come eutanasia un comportamento può costituire una condanna a priori, senza che si possa arrivare a un confronto ragionato, quale l’etica richiede.
Ciò avviene implicitamente, anche quando l’esperienza nazista non è espressamente evocata; ma soprattutto
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una connotazione fortemente negativa ha luogo quando lo spettro del programma nazionalsocialista viene reso presente. Un episodio può aiutarci a capire quanto sia inopportuno questo modo di argomentare retorico. Quando in Olanda il Parlamento votò la prima legge sperimentale che depenalizzava, a certe condizioni, l’aiuto medico a mettere fine alla vita, un prelato cattolico, che solitamente è identificato come molto vicino alle posizioni dottrinali del Vaticano, bollò la legge come programma di eutanasia nazista. Ci fu una protesta ufficiale del governo olandese in Vaticano, che costrinse quest’ultimo a dissociarsi da un’opinione personale del prelato.
Seguendo l’indicazione del documento dei vescovi francesi, non lasceremo che la parola eutanasia ― troppo carica di emozioni, troppo poco differenziata nei contenuti ― guidi le nostre riflessioni. Partiremo piuttosto dalle situazioni più tipiche in cui si concretizzano le decisioni cliniche di fine vita per applicare a esse il nostro discernimento etico e spirituale. L’obiettivo è una riflessione etica che non si riduca a principi astratti, tanto chiari in sé quanto di poca utilità come guida nelle decisioni. Questo almeno nelle intenzioni. Quanto alla scelta di concentrare la nostra attenzione sulle scelte cliniche ― intendendo “clinica”, in senso fondamentalmente etimologico, come ciò che avviene intorno alla cline, cioè al letto del malato ― siamo consapevoli che è una distinzione artificiale rispetto alle due altre figure che abbiamo sintetizzato nella morte voluta (come il suicidio) o nella morte procurata (per punizione o per un moto di pietà). Le sovrapposizioni con l’uno e l’altro aspetto sono inevitabili. Tuttavia, consideriamo un contributo utile a elevare la qualità della riflessione etica lo sforzo per distinguere concetti e situazioni, anche se la vita si premura di unire ― e di complicare ― ciò che il pensiero divide.
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Capitolo I
DECISIONI AL LETTO DEL MORENTE
La morte medicalizzata
Attorno al letto di chi muore troviamo dei medici e troviamo dei familiari. Oggi come ieri. Almeno nei casi che possiamo considerare normali, o meno infelici di altri, laddove non morire in un letto è sinonimo di morte violenta e non avere attorno nessuno significa abbandono. Tuttavia la somiglianza dello scenario è più apparente che reale. I compiti dei protagonisti del processo del morire sono cambiati nel giro di poche generazioni. Possiamo dar corpo all’idea di cambiamento confrontando due scenari di morte. Il primo è letterario ― è tratto dal romanzo I Buddenbrook di Thomas Mann, ambientato verso la fine del XIX secolo ―ma non per questo carente di realismo (Thomas Mann era solito premettere una documentazione accurata, in particolare in ambito medico, alle sue creazioni letterarie).
In una scena culminante del romanzo, l’anziana madre del console Thomas Buddenbrook giace sul letto di morte. L’agonia si protrae dolorosamente. La morente, in grandi difficoltà respiratorie, chiede ai due medici che l’assistono un calmante per dormire. Supplica: «... Qualcosa per dormire... Dottori per pietà! Qualcosa per dormire!». Ma i medici sanno che l’azione di un sedativo abbrevierebbe la vita. Per cui
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respingono la richiesta, rifacendosi a dei vaghi motivi etici che non sanno articolare, ma che nondimeno sentono come vincolanti. «Ma i medici», annota lo scrittore, «conoscevano il loro dovere. Bisognava in ogni caso conservare ai parenti il più a lungo possibile quella vita, mentre un calmante avrebbe subito provocato la resa dello spirito senza più opposizione. I medici non sono al mondo per facilitare la morte, ma per conservare la vita a qualunque prezzo. In favore di ciò spingono anche certi principi religiosi e morali, dei quali avevano sentito parlare all’università, anche se in quel momento non se li ricordavano bene...».
In questa ricostruzione ideale la morte avviene a casa, nel proprio letto. Almeno per le classi borghesi e le persone abbienti. Morire in ospedale era una vergogna, sinonimo di abbandono o di estrema povertà. Già da questo punto di vista dobbiamo registrare un cambiamento vistoso: dopo un secolo, il luogo previsto per la morte non è più il proprio letto, ma quello di una struttura sanitaria, ospedale, RSA o hospice che sia. I medici erano presenti ― la ricca famiglia dei Buddenbrook, mercanti di Lubecca, se ne poteva permettere più di uno ― ma avevano ben poco da fare. Assistevano al “naturale” processo dell’agonia, senza interferire con esso. Non si ritenevano autorizzati moralmente neppure a dare un sollievo, ardentemente richiesto dalla morente, che avrebbe potuto interferire con il corso degli eventi e abbreviare la vita. La decisione, in ogni caso, spettava ai medici; la volontà del malato non veniva neppure presa in considerazione. Forse questa fine non poteva essere qualificata come “buona morte”, ma si riteneva giusto assistere in questo modo i morenti.
Alla scena del romanzo contrapponiamo ora il racconto, fatto da un medico, di un’altra vita che si conclude con la morte. I fatti si svolgono ai nostri giorni,
più di un secolo dopo l’episodio immaginato da Thomas Mann. Un medico racconta:
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Il signor M., di 70 anni, era ricoverato nel nostro ospedale (una clinica specializzata in pneumologia). Da una broncoscopia risultò un tumore polmonare in stato avanzato, che aveva già raggiunto i due bronchi e la trachea. La forte dispnea aveva reso necessario l’immediato ricorso a una laserterapia, con un leggero e provvisorio miglioramento della dispnea. Quattro giorni dopo il ricovero, il signor M. stava peggio e la sua morte era imminente. La famiglia era stata informata della prognosi infausta. Resomi conto della situazione critica, feci chiamare subito la famiglia. Questa era composta dalla moglie, due figli verso la quarantina, con rispettive mogli, e una figlia di circa 30 anni.
Il figlio più grande mi parlò per primo e volle sapere come si fosse arrivati allo stato attuale. Gli spiegai che, come già sapeva, il padre soffriva di un tumore maligno progressivo. Ciò fu fortemente contestato dal figlio: affermò che nessuno glielo aveva detto. Mi informai presso l’infermiera, la quale mi disse di essere stata presente ai colloqui con cui erano stati informati i due figli.
Cercai di spiegare la situazione ancora una volta al figlio; gli dissi che il padre soffriva di un tumore progressivo dei bronchi e che le nostre possibilità terapeutiche erano giunte al termine. La morte sarebbe probabilmente sopravvenuta entro poche ore. Il figlio rimase interdetto. Disse più volte che questo non poteva essere: la settimana prima il padre stava seduto in giardino; poteva ben essere un tumore maligno, ma una morte così rapida non era possibile. Mi supplicò di fare tutto il possibile per suo padre: la medicina è oggi così progredita che deve essere in grado di fare ancora qualcosa; avremmo potuto applicare ancora la laserterapia, ricorrere alla respirazione artificiale o alla macchina cuore-polmoni: per suo padre
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doveva essere tentato tutto il possibile. Anche l'altro figlio era d’accordo con il fratello: si doveva tentare ogni trattamento, anche il più aggressivo. Un colloquio con il primario, che discusse di nuovo la situazione con i due figli del paziente, non li soddisfece.
Nell’équipe medica discutemmo se non era ancora possibile un intervento con il laser. Ci appariva rischioso e, anche se fosse riuscito, avrebbe assicurato al paziente solo una breve sopravvivenza molto dolorosa, in estrema dispnea e senza la possibilità di essere dimesso dall’ospedale. La nostra conclusione era che i pesi sarebbero stati maggiori dei benefici. Tutti noi medici eravamo d’accordo che non avremmo dato il consenso per un tale trattamento, nel caso in cui si fosse trattato di nostro padre.
Nel frattempo il signor M. era entrato in coma. Discutemmo la situazione ancora una volta al letto del malato, dicendo in parole semplici a tutta la famiglia ciò che prima avevamo deliberato tra di noi. Il primario ripetè ancora che l’intervento comportava un altissimo rischio e che egli perciò lo sconsigliava. Chiese poi all’infermiera, che era presente, quale fosse la sua opinione. Questa disse spontaneamente che lei avrebbe lasciato la decisione alla famiglia.
Il primario tracciò ancora una volta i due scenari: da una parte il paziente in uno stato di assopimento, verosimilmente senza dolori, vicino alla morte che incombeva, circondato dalla sua famiglia (diventata nel frattempo ancora più numerosa); dall’altra, un intervento medico aggressivo, che potrebbe portare alla morte sul tavolo della broncoscopia, molto probabilmente senza alcuna possibilità di tornare ancora una volta a casa sua. La sua opinione era che il “non fare ” era la migliore via da seguire; ma in ogni caso era pronto a eseguire l’intervento, se la famiglia proprio lo voleva.
La famiglia si consultò per circa mezz’oretta; dopo di che, ci comunicò che non voleva nessun altro intervento.
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La moglie e la figlia ci fecero capire chiaramente che erano d’accordo con noi, mentre per i figli fu più difficile accettare il “non volere fare qualcosa”. Il sig. M. morì un ’ora più tardi. La famiglia ci ringraziò; lasciò l’ospedale in grande cordoglio, ma senza collera.
Non possiamo raffigurarci come scenario di questo trapasso nient’altro che l’ospedale. Morire in ospedale non è più l’eccezione, ma la regola. La morte è stata medicalizzata. Diventando un atto di competenza medica, la morte è stata resa più difficile. In un duplice senso, che conferisce alla difficoltà di morire un’ambivalenza: è un fatto positivo o negativo, può rivolgersi pro o contro l’uomo. In quanto impresa terapeutica, la medicina è stata tradizionalmente concepita come l’arte di guadagnare terreno sulla morte. Ciò che in passato era per lo più un obiettivo velleitario, oggi si è tradotto in realtà: il progresso biomedico ha fatto retrocedere in maniera spettacolare i confini della morte. La fine della vita interviene quando la medicina mette termine alla battaglia contro le forze di morte. Ma questo confine si può spostare sempre un po’ più in là: si può fare ancora qualcosa con il bisturi, con le apparecchiature che sostengono le funzioni vitali, con i farmaci. E i familiari ― come vediamo nella storia del Sig. M. ― se lo aspettano. Il pensiero di non aver fatto tutto il possibile per tenere in vita una persona è intollerabile.
Ma in un numero crescente di casi la difficoltà di morire diventa una specie di maledizione. L’impresa medica può interporsi tra l’individuo e la sua morte, facendola quasi considerare una conquista da strappare a forza; la capacità della medicina di prolungare la vita, da benefica, cambia segno e diventa malefica. E quella situazione alla quale viene riservato, sbrigativamente, il termine spregiativo di “accanimento terapeutico”;
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lo si attribuisce ai medici, accusandoli di insensibilità ad altre dimensioni che non siano quelle biologiche. Nella storia clinica che abbiamo ascoltato ― che vuol avere il valore di storia esemplare ― sono invece i medici che cercano di sensibilizzare i familiari al problema degli eccessi, del superamento dei limiti ragionevoli, della qualità degli ultimi momenti di vita. Un altro elemento importante dello scenario è costituito dal processo di negoziazione che appare necessario per arrivare a una decisione condivisa e accettabile. La professione medica non è più portatrice, insieme al sapere terapeutico, di un’etica da gestire in proprio. I medici devono confrontarsi con altri punti di vista, con valori diversi; non è detto che la soluzione felice di un caso si possa applicare automaticamente a tutti gli altri.
Oltre allo scenario fisico in cui avviene la morte e al ruolo che sono chiamati a svolgere i diversi protagonisti, c’è un altro elemento da considerare per comprendere la difficoltà delle scelte che devono essere prese al capezzale del morente: la morte ha cambiato significato. I comportamenti sono anche prescritti e hanno un grado di libertà molto minore di quanto ci piace immaginare. L’ordine sociale, che non può sussistere senza una certa uniformità, è garantito mediante una sottile, spesso informale, regolazione dei comportamenti. Tra quelli devianti, alcuni vengono tollerati, altri puniti. Anche in assenza di un’autorità ufficiale che sancisca a quali regole ci si debba attenere, tutti sappiamo che ci sono alcune cose che “non si fanno” e altre invece che sono approvate.
Anche il modo di morire è determinato dalla cultura in cui viviamo: c’è un morire ammesso, corretto, decente, e uno che cade sotto il biasimo sociale. Inconsciamente ci sforziamo di morire come ci si attende da noi, anche se questa morte in sordina è sempre più angosciosa, sempre meno degna dell’uomo.
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In altre culture si muore ― e naturalmente si vive ― diversamente. Anche nella nostra stessa cultura occidentale i significati attribuiti alla morte e i modelli di morte considerati coerenti con essi sono cambiati nel tempo. La saggistica dedicata ad analizzare la morte dal punto di vista delle scienze umane ― storia, antropologia culturale, sociologia, filosofia ― dilaga ormai. Si è costituito un settore di studi specialistico: la tanatologia. Non costituirà l’oggetto delle nostre riflessioni, ma non possiamo, tuttavia, non tenerlo presente sullo sfondo. La pluralità dei modi di vivere la morte fa parte necessariamente della nostra società, che è multietnica, ma anche pluralista dal punto di vista etico.
Per quanto medicalizzata, la morte non può essere ridotta a una sola dimensione. Sullo scenario delle decisioni supreme, i diversi modi di dare significato alla vita e alla morte spesso si scontrano. Ma possono anche dialogare e trovare soluzioni non conflittuali. Un prerequisito per questa via costruttiva è capire il profilo clinico e umano delle diverse situazioni.
Alcune situazioni cliniche:
morire senza dolore
Il sig. B. è un anziano signore di 70 anni. Laureato in lettere, ha svolto attività di insegnamento. Attualmente in pensione, è ancora impegnato in politica. E cattolico. Affetto da tumore del pancreas, viene preso in carico dall’équipe di cure palliative. Le manifestazioni cliniche della patologia sono blande; è ancora in buone condizioni psico-fisiche. È consapevole della sua malattia e della prognosi infausta; ha tuttavia l’aspettativa di riuscire comunque ad avere una buona vita sociale, di poter decidere quali persone lo avrebbero accudito, sia familiari che medici, contrattando volta per
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volta i trattamenti e le terapie. I sanitari coinvolti nelle cure sono il medico di famiglia e l’équipe di cure palliative (infermiere, medico, psicologo). Tra i familiari, le persone di riferimento sono la cognata e i suoi due figli maschi adulti. La moglie ha avuto gravi difficoltà psicologiche ed è in posizione marginale nella famiglia.
Il malato, trattato a domicilio per tutta la durata della sua malattia, a un certo punto esprime la sua ferma volontà di essere sedato quando la situazione della sua malattia fosse arrivata al termine o quando non sarebbe più stato possibile controllarla in altro modo. Alla richiesta della sedazione erano presentì l’infermiere e i familiari; questi, concordemente, si dissociano dalla richiesta, per paura di accelerare la morte del proprio caro.
Con l’aggravarsi dello stato fisico, nel giro di pochi giorni sopravvengono sintomi psichici, con agitazione psicomotoria. L’infermiere, chiamato dal figlio a domicilio, trova il paziente in grave stato confusionale e con notevoli difficoltà respiratorie. Dopo essersi consultato telefonicamente con il medico, l’infermiere pratica la sedazione. Il decesso avviene nel giro di poche ore, presenti tutti i familiari.
Il caso che prendiamo come punto di partenza per descrivere una delle situazioni tipiche che si presentano sullo scenario della morte è tratto dalla ricca collezione di casi clinici raccolti dal Comitato etico della Fondazione Floriani (Milano), una struttura impegnata a fornire cure palliative a domicilio (si può consultare la raccolta dei casi tramite Internet, nel sito della Fondazione: www.fondazionefloriani.it).
Senza entrare nei dettagli tecnici della sedazione, per la nostra riflessione è sufficiente collocarla nel contesto di interventi di cui la medicina dei nostri giorni dispone per tenere sotto controllo il dolore fisico e le sofferenze legate al trapasso. Il dolore che accompagna
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i processi degenerativi, in particolare nelle malattie oncologiche, non esaurisce le sofferenze: affanno e difficoltà respiratorie, talvolta ― come nel caso del sig. B. ― un’agitazione incontenibile accompagnano l’agonia. E un dovere della medicina assicurare il trattamento del dolore? Con quali mezzi? Fino a che punto può spingersi? I familiari che circondano il sig. B. sono contrari alla sedazione profonda, ottenuta farmacologicamente, che toglie al malato la consapevolezza, perché temono che questo intervento abbrevi la vita: quand’anche ciò fosse vero, possiamo considerarlo un intervento appropriato di fronte ad agonie particolarmente angosciose?
Una solida base di partenza per le nostre riflessioni è costituita dalla constatazione che la medicina è in grado oggi di controllare il dolore nella quasi totalità dei casi e che a questa capacità viene attribuito dalla nostra cultura un valore molto positivo. Abbiamo conoscenze solide relative alla fisiologia del dolore. E, soprattutto, disponiamo di un arsenale vastissimo di metodologie di intervento: non invasive e invasive, neurochirurgiche e psicologiche, oltre a tutta la gamma di terapie farmacologiche e alle risorse delle medicine non convenzionali. I comportamenti volti a combattere il dolore non sono apprezzati solo dall’etica che nasce da una visione secolare del mondo. Con un ecumenismo che raramente si verifica quando la medicina sfiora questioni di valenza etica, anche le morali di matrice religiosa non hanno riserve da avanzare nei confronti delle misure antalgiche (cfr. il documento del Comitato nazionale per la bioetica: La terapia del dolore: orientamenti bioetici, 2001).
L’osservazione vale in particolare per il cristianesimo, al quale è stata talvolta indebitamente attribuita una coltivazione malsana del dolore. Il “dolorismo” può essersi appoggiato al cristianesimo, ma non ne è figlio legittimo. La posizione dottrinale cristiana si inscrive
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in un equilibrio tra il feticismo del dolore di coloro che lo considerano come valore supremo, e la fobia del dolore che porta a evitarlo come il non-valore assoluto. La teologia cristiana valorizza il dolore, attribuendogli un denso significato antropologico e salvifico; senza tuttavia farne un idolo, perché non è il dolore in sé che purifica e salva, ma solo la grazia che produce l’amore.
Il dolore accompagna, come un’ombra, le vicende patologiche del corpo. Talvolta sono gli stessi interventi terapeutici che producono dolore o disagi; ma siamo disposti a considerare queste sofferenze un pedaggio da pagare sulla via del recupero della salute. Diversa è la situazione quando si entra nell’area della fine della vita. Il dolore a questo punto può diventare il nemico assoluto. Ovvero ― ricorrendo alla contrapposizione tra figura e sfondo, attraverso la quale percepiamo la realtà ― quando la morte si fa imminente il dolore non è più sullo sfondo: è la figura che occupa tutto il campo. Un dolore acuto e invincibile monopolizza tutte le risorse ― fisiche, mentali e spirituali ― della persona. Controllare il dolore diventa la priorità assoluta.
Chi soffre troppo arriva a lasciarsi andare e ad augurarsi la morte. E un’esperienza spesso confermata dalla pratica clinica: ci sono malati che chiedono con insistenza di farli morire; ma la loro richiesta equivale a una domanda disperata di far cessare il dolore. Quando il dolore viene alleviato, la domanda di morte non è più ripetuta. Gli sforzi medici per prolungare la vita del paziente e il trattamento del dolore possono, talvolta, apparire antitetici, in quanto l’intervento antalgico può fiaccare le capacità dell’organismo di resistere all’incombere della morte. In caso di conflitto, che cosa deve prevalere?
Domande di questo genere rivolgevano i medici cattolici al Pontefice, già negli anni ’50. Sul tema della lotta al dolore Pio XII ha speso parole di grande forza morale. In un discorso del 1957 dava la priorità alla terapia
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antalgica, anche se aveva come effetto secondario di abbreviare la vita:
«Voi ci domandate se la soppressione del dolore e della coscienza mediante narcotici (allorché è richiesta da un’indicazione medica) è permessa, dalla religione e dalla morale, al medico e al paziente (anche all'approssimarsi della morte e se si prevede che l’uso dei narcotici abbrevierà la vita)? Bisognerà rispondere: se non esistono altri mezzi e se, nelle circostanze concrete, ciò non impedisce il compimento di altri doveri religiosi e morali: sì».
Con il tempo l’orientamento dottrinale non è cambiato. Il nuovo Catechismo della Chiesa cattolica, del 1992, infatti, a proposito del dolore e del suo contenimento sul finire della vita afferma:
«L’uso di analgesici per alleviare le sofferenze del moribondo, anche con il rischio di abbreviare i suoi giorni, può essere moralmente conforme alla dignità umana, se la morte non è voluta né come fine né come mezzo, ma è soltanto prevista e tollerata come inevitabile. Le cure palliative costituiscono una forma privilegiata della carità disinteressata. A questo titolo devono essere incoraggiate».
Con indicazioni così esplicite anche da parte dell’autorità dottrinale che non può essere sospettata di nessun cedimento nei confronti di una visione morale utilitarista ― anzi è identificata come la visione morale più rigorosa nel difendere la sacralità della vita, anche quando venga meno la sua qualità ― ci si potrebbe aspettare il massimo impegno da parte del mondo medico per attuare le più efficaci terapie del dolore. Purtroppo non è così, almeno in Italia. La situazione italiana è descritta, con tono di denuncia, da una lettera
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aperta inviata al ministero della Sanità e sottoscritta da diverse associazioni e società scientifiche (la lettera è stata pubblicata dalla rivista Tempo medico del 25 febbraio 1998). Il primo firmatario è l’Associazione europea per le cure palliative: la richiesta di maggior impegno parte, quindi, da chi si occupa di malati per i quali la medicina non ha più risposte curative. Ciò non vuol dire che l’arte medica non abbia più niente da fare. In particolare, può fare ciò che le concezioni mediche dell’antichità consideravano come l’opera “divina” per eccellenza: sedare il dolore. Questo è appunto uno degli obiettivi principali delle cure palliative.
Per controllare il dolore sono necessari farmaci oppioidi, in particolare la morfina. Secondo le linee guida per il trattamento efficace del dolore elaborate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, soprattutto per il dolore da cancro, la morfina e altri analgesici oppioidi sono considerati essenziali, tanto che il loro consumo annuale viene assunto come indicatore sensibile per valutare se vengono attuati programmi di controllo del dolore. Da quando l’OMS si è impegnata nella campagna di lotta al dolore evitabile ― secondo una metodologia di uso progressivo di farmaci a efficacia crescente, proposta nel 1986 ― si è registrato un progressivo aumento dell’uso della morfina nei Paesi che già avevano un alto livello di utilizzo. Fino al 1984 il consumo di morfina è stato stazionario, mentre negli anni successivi è progressivamente aumentato, fino a quadruplicare nel 1993. Ma questa tendenza si è registrata solo nei dieci Paesi che già ne facevano ampio uso. Quelli che l’utilizzavano poco, invece, hanno ulteriormente diminuito l’uso di farmaci antalgici efficaci. L’Italia è tra questi.
A nostra vergogna, dobbiamo registrare che l’Italia occupa uno degli ultimi posti nel consumo di oppiacei. La conseguenza è che migliaia di persone finiscono la vita con dolori gratuiti, che la medicina sarebbe
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in grado di evitare. La lettera al ministro della Sanità intendeva portare al centro dell’attenzione un problema reale di “malasanità”, molto più grave di quelli sui quali è solita scandalizzarsi la stampa. La denuncia contenuta nella lettera non è completa: manca la dimensione sociale dello scandalo costituito dal dolore imposto da una medicina disattenta. Questa emerge da un’altra considerazione: i pochi centri di terapia del dolore che esistono in Italia non sono distribuiti in modo uniforme. Si registra una grande rarefazione di risposte istituzionali al problema del dolore nell’Italia centrale, e ancor più nel meridione. Se possiamo ipotizzare che la malattia cada sulle persone alla cieca, dobbiamo invece riconoscere che il dolore è molto selettivo: predilige coloro che abitano nel centro-sud del Paese, e tra questi i poveri, che non possono far ricorso ai servizi offerti ― a pagamento ― dalle strutture sanitarie private.
Le denunce dell’opinione pubblica hanno sortito qualche piccolo effetto. Il parlamento italiano ha approvato di recente una legge (Norme per agevolare l’impiego di farmaci analgesici oppiacei nella terapia del dolore: Legge n. 12, 8 gennaio 2001) con l’obiettivo dichiarato di togliere alcuni ostacoli burocratici che si frapponevano all’uso di questi farmaci, in particolare nell’impiego degli stupefacenti a domicilio dei pazienti. Ha preso anche il via un progetto, promosso dal ministero della Salute, «Verso un ospedale senza dolore», al quale hanno aderito una ventina di ospedali italiani. Ma il cammino da fare è ancora molto lungo.
Dal punto di vista concettuale un apporto non trascurabile è il chiarimento relativo alla terapia del dolore: anche quando ha come effetto secondario l’abbreviazione della vita; anche quando è costretta a ricorrere alla sedazione profonda, è pienamente legittima dal punto di vista morale. Da qualche tempo è invalso l’uso, nei Paesi anglofoni, di definire le pratiche
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di sedazione con il termine slow euthanasia (eutanasia lenta). La denominazione non è corretta ― né nell’intenzione di chi la pratica, né nei suoi metodi la sedazione corrisponde all’eutanasia! ― ed è fuorviarne. Ancora una volta un uso improprio di una parola molto ambigua, come è l’eutanasia, può solo inceppare la riflessione e portare confusione nel dibattito.
«Dottore, basta!»
A.G., di professione parrucchiere, ha 66 anni. Da cinque anni e affetto da sclerosi laterale amiotrofica, una malattia neurologica che porta al decesso, in media, circa tre anni dopo la diagnosi; il decesso è causato dalla paralisi dei muscoli respiratori, preceduta da un ’insufficienza respiratoria che va lentamente aggravandosi nel corso dei mesi. La morte annunciata può essere evitata con facilità con una ventilazione invasiva attraverso una tracheotomia. La malattia ha fatto il suo decorso, evolvendo fino alla perdita completa dell’uso delle m ani e delle gambe. Dopo la diagnosi, il paziente ha eseguito con regolarità i controlli medici e le cure. È stato informato ed è pienamente consapevole della prognosi. Più volte ha ribadito che, in caso di paralisi respiratoria irreversibile, non avrebbe voluto prolungare la vita con la ventilazione artificiale. Un programma terapeutico in tal senso è stato concordato con i familiari e con l’équipe curante.
Quando la progressione della malattia arriva a compromettere la deglutizione, il sig. A.G. accetta l’intervento di gastrostomia (PEG), con l’intenzione di ridurre la sofferenza e di facilitare l’assistenza; dichiara, tuttavia, che avrebbe rifiutato l’intervento, qualora fosse servito a prolungare la sopravvivenza in condizioni di grave disabilità.
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La gastrostomia è complicata da un ’insufficienza respiratoria, che richiede la decisione del medico in condizioni di emergenza e in assenza di direttive specifiche da parte del paziente. Con questi interventi (sedazione farmacologica e insufflazione dello stomaco), l'insufficienza respiratoria è spesso reversibile; perciò il paziente viene intubato e inizia la ventilazione meccanica. A. G. recupera la coscienza e la capacità dì decidere in merito alle successive terapie.
Per sei giorni il paziente rimane nel reparto di rianimazione dove, nonostante ripetuti tentativi, non riesce a recuperare l’autonomia respiratoria. A questo punto gli viene proposto di proseguire la ventilazione meccanica attraverso una tracheotomia. Ma il paziente rifiuta la proposta, ribadendo che non vuole prolungare la sofferenza. La ventilazione meccanica è, quindi, sospesa e A.G. viene dimesso in stato di coma ipercapnico. Muore poche ore dopo, come aveva desiderato: a casa sua, assistito dalla moglie e dai due figli.
Notiamo anzitutto le differenze più vistose con il caso precedente: mentre il problema che si poneva ai clinici e ai familiari del sig. B. era quello di fare qualcosa per lui (dargli una sedazione, che però incideva negativamente sull’aspettativa di vita), nel caso del sig. A.G. è piuttosto quello di non fare quanto potrebbe tener lontana la morte. Attraverso il sostegno vitale della ventilazione meccanica, la sua vita potrebbe essere prolungata. Esiste un obbligo per il medico di fare tutto quanto è in suo potere per procrastinare la morte? È accettabile che un paziente, pienamente informato e consapevole, rinunci a un trattamento salvavita? E in che considerazione va tenuta la sua volontà, quando il “basta!” non è più in grado di dirlo attualmente, perché il male è così avanzato da togliergli la parola e la stessa consapevolezza, ma ha espresso precedentemente
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la volontà di non ricevere quei trattamenti che potrebbero prolungare la sua vita?
L’obbligo di mettere in atto ogni mezzo che il medico abbia a disposizione per impedire la morte può essere considerato sotto due aspetti, a seconda che sia la legge a richiederglielo, oppure l’etica. L’obiezione che diversi sanitari sollevano alla proposta di un’astensione nasce dall’ipotesi di trovarsi di fronte a un comportamento obbligato: «Se non intervengo, posso essere denunciato per omissione di soccorso». È vero che la dottrina giuridica in situazioni di questo genere ha fatto ricorso per lo più alla nozione di “stato di necessità”. Quando la vita del paziente è minacciata, il medico è obbligato a intervenire, qualunque sia la volontà del paziente in merito. In ambito medico-legale ci si è ispirati a lungo alla dottrina che l’illustre giurista F. Grispigni formulava in termini molto netti: «Nel caso in cui la malattia costituisca un pericolo grave e imminente alla persona, si può compiere il trattamento medico-chirurgico nonostante che manchi il consenso, ovvero nonostante che questo sia invalido, e perfino nonostante che il paziente opponga un divieto e questo, magari, cerchi di far valere ricorrendo alla resistenza» (La volontà del paziente nel trattamento medico-chirurgico, 1914). Il medico era dunque autorizzato a mettere in atto quanto lo stato dell’arte riteneva appropriato, indipendentemente dalla volontà del paziente di ricevere o rifiutare le cure.
Secondo questa impostazione giuridica, al paziente non viene riconosciuto il diritto di rifiutare i trattamenti. La necessità dell’intervento, stabilita dal medico secondo “le regole ordinarie dell’arte”, è sufficiente a giustificare l’azione medica, indipendentemente dalla volontà del paziente. Partendo dal principio morale: Nemo dominus membrorum suorum («Nessuno è padrone del proprio corpo»), la dottrina giuridica deduceva che il soggetto è semplicemente custode del suo corpo:
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se non lo fa, deve intervenire il medico, la cui opera è paragonabile a quella di Dio. Da buon padre, sa quel che è bene e lo traduce in atto. Questa è la sostanza dell’atteggiamento tradizionale denominato “paternalismo medico”. Dalla indisponibilità della vita e dell’integrità personale veniva fatta derivare la dottrina giuridica che attribuiva al medico il potere-dovere di cura senza limiti.
L’evoluzione recente della dottrina giuridica si è mossa nella direzione opposta: riconosce che, in base alla Costituzione (soprattutto l’art. 32: «Nessuno può essere obbligato a un trattamento sanitario se non per disposizione di legge»), la libertà della persona riguarda anche la gestione della salute e del proprio corpo. Ciò implica il diritto di non curarsi e anche la facoltà di lasciarsi morire, quando questa sia l’espressione di una libera, consapevole e autonoma scelta del soggetto maggiorenne interessato. Rimane ― è vero ― una parte minoritaria di giuristi che continuano a non riconoscere il diritto del paziente di rifiutare consapevolmente le cure. Ma si fa sempre più estesa la convinzione che, in base ai diritti riconosciuti dalla Costituzione, la regola generale in materia di trattamenti sanitari è quella della volontarietà e, quindi, del consenso del paziente, salvo il caso dei trattamenti sanitari resi obbligatori da un’apposita legge.
A illustrazione di questo orientamento possiamo citare la sentenza del pretore di Roma (3 aprile 1997) che ha assolto i medici imputati di omicidio colposo per aver omesso la trasfusione di sangue a un testimone di Geova che l’aveva rifiutata, anche dopo esser stato informato dei rischi per la propria vita; in presenza di un dissenso manifesto del soggetto, i medici non sono tenuti a intervenire coattivamente. L’astensione dal trattamento in questo caso non esprime un disinteresse del medico per la salute e la vita del malato, ma il rispetto per la sua persona e per la sua scala di valori.
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Circoscritti così gli obblighi che discendono dalla legge, rimane aperto il capitolo dell’etica. E un dovere morale del medico contrastare il processo che porta alla morte, qualora ne abbia la possibilità? Rievochiamo ancora una volta i medici che Thomas Mann colloca attorno al letto della moribonda madre del console Buddenbrook: ricordavano che «i medici non sono al mondo per facilitare la morte, ma per conservare la vita a qualunque prezzo». Corretto o no che fosse questo atteggiamento, di fatto non aveva una grande ricaduta sul decorso clinico delle malattie, finché la medicina era sprovvista di risorse terapeutiche importanti. Anche con il rifiuto di un calmante, l’agonia della signora Buddenbrook non aveva che una durata limitata nel tempo. Diversa è la situazione del signor A.G.: la tracheotomia e la ventilazione meccanica possono incidere sensibilmente sulla durata della vita. Quando il potere della medicina è aumentato, così che la sua interferenza con il processo fisiologico che porta alla morte ha assunto i tratti non solo di una benedizione, ma anche di un incubo, i medici hanno avvertito che non potevano più trincerarsi dietro un “non possiamo”, ispirato ai principi ideali che dovevano guidare l’opera del sanitario. Si è cominciato allora a riscrivere questo capitolo dell’etica medica.
Un primo orientamento è stato quello di considerare i mezzi a cui si fa ricorso per contrastare la morte, distinguendoli in mezzi ordinari e straordinari: quando gli sforzi hanno carattere di straordinarietà, è lecito tralasciarli, mentre è moralmente obbligatorio fare tutto quanto ha un carattere di ordinarietà. La distinzione ― proposta dal magistero di Pio XII nell’ambito della morale medica di ispirazione cattolica ― ha avuto un certo successo ed è stata ampiamente adottata anche dalla cultura laica. Negli anni Cinquanta poteva ben essere un contributo per sviluppare un pensiero etico più differenziato rispetto al “tutto o nulla”. Ma
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ben presto ci si è resi conto che nella pratica sanitaria il criterio della straordinarietà dei mezzi è di difficile utilizzazione. Per essere operativo, deve essere abbinato a qualche altro criterio; per esempio: se l’intervento terapeutico previsto prolunghi la vita o soltanto il processo del morire. E anche nel caso in cui la vita sia di fatto prolungata di qualche tempo, per valutare ciò che si ottiene non si può prescindere dalla prospettiva del paziente. Dal suo punto di vista, questi potrebbe considerare sproporzionato l’utile del prolungamento della vita: anche qualche settimana o qualche mese in più, ottenuti a prezzo di indicibili sofferenze, o di rinuncia alla propria dignità, o anche soltanto di spese rovinose per la propria famiglia, possono essere ritenute un ben misero guadagno.
La straordinarietà non è intrinseca ai mezzi stessi, ma dipende dalla valutazione soggettiva del paziente. Inoltre, un mezzo del tutto ordinario può risultare inappropriato, se si considera la situazione concreta. Gli antibiotici, ad esempio, sono una risorsa farmaceutica standard, e del tutto ordinaria, per curare una polmonite; ma non potrebbe essere considerata una procedura ordinaria somministrarli a un paziente in coma irreversibile, prossimo a morire, che abbia contratto una polmonite. Per queste imprecisioni intrinseche alla distinzione tra mezzi ordinari e straordinari, nel cantiere dell’etica ha cominciato ben presto a manifestarsi un certa insofferenza verso questa terminologia. Le è stata perciò preferita la distinzione tra mezzi proporzionati e sproporzionati.
La transizione da una terminologia all’altra è stata sottoscritta anche dalla Dichiarazione sull’eutanasia, emanata dalla Sacra Congregazione per la dottrina della fede nel maggio 1980. Domandandosi se in tutte le circostanze si deve ricorrere a ogni rimedio possibile, il documento indicava il punto di vista della morale cattolica in questi termini:
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«Finora i moralisti rispondevano che non si è mai obbligati all’uso dei mezzi “straordinari”. Oggi però tale risposta, sempre valida in linea di principio, può forse sembrare meno chiara, sia per l’imprecisione del termine che per i rapidi progressi della terapia. Perciò alcuni preferiscono parlare di mezzi “proporzionati” e “sproporzionati”. In ogni caso, si potranno valutare bene i mezzi mettendo a confronto il tipo di terapia, il grado di difficoltà e il rischio che comporta con il risultato che ci si può aspettare, tenuto conto delle condizioni dell’ammalato e delle sue forze fisiche e morali».
La distinzione tra mezzi proporzionati e sproporzionati ha il vantaggio di introdurre come criterio per le scelte dei trattamenti una valutazione soggettiva della vita e della sua qualità. Una ragionevole amministrazione della propria vita può indurre a rinunciare a un trattamento che salverebbe la vita o prolungherebbe l’esistenza, se ciò risulta dissonante rispetto al proprio progetto di vita. La valutazione costi/benefici, insomma, non va fatta solo in senso economico, ma umano, in una prospettiva più ampia, che include i valori in base ai quali l’individuo orienta la propria vita.
Ritorniamo a questo punto alla vicenda clinica del sig. A.G., dalla quale siamo partiti. La ventilazione artificiale non può essere detta un mezzo straordinario (almeno nel contesto della nostra organizzazione sanitaria; potrebbe ben esserlo, invece, in un Paese che abbia risorse scarsissime, con le quali deve assicurare il livello minimo di assistenza medica alla maggior parte della popolazione) ; eppure egli considera sproporzionato il beneficio che gli può arrecare. Preferisce rinunciare a questo trattamento e alla pura sopravvivenza vegetativa che gli assicurerebbe, perché non riesce a considerarla un prolungamento della sua vita personale. Due condizioni rendono possibile il ruolo di protagonista
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che conserva sino alla fine: conosce la sua malattia (e la sua prognosi: per quanto sgradevole sia la procedura, si proietta in avanti e può immaginare le varie tappe che la progressione inevitabile della malattia è destinata a percorrere) e dà indicazioni per l’azione del medico nel momento in cui il male troppo avanzato gli impedirà di prendere le decisioni con consapevolezza e lucidità (direttive anticipate).
Non è questa, purtroppo, la condizione più diffusa. A.G., nella sua disgrazia, può considerarsi un privilegiato rispetto alla maggior parte delle persone affette dalla stessa patologia: il medico gli ha parlato e lo ha informato; lo ha messo in grado di esprimere le sue preferenze in vista dell’aggravamento della situazione, quando bisognerà decidere quale strada prendere. Come ci descrive un medico molto informato su questa patologia 4 per lo più non avviene così: dei circa 3000 italiani colpiti dalla sclerosi laterale amiotrofica, troppi muoiono senza neppure conoscere il nome della loro malattia. Non ricevendo né cure adeguate ai loro bisogni, né tanto meno informazioni, la prevedibile paralisi respiratoria giunge per loro inattesa. Un medico rianimatore deve decidere nell’emergenza senza conoscere la volontà del paziente, così che troppo spesso vengono rianimati pazienti che avevano rifiutato la ventilazione invasiva, mentre altri che l’avrebbero voluta non riescono a sopravvivere.
La possibilità offerta ad A.G. di modulare le proprie scelte nasce, invece, da un progetto esplicito, rivolto ad aiutare i pazienti a maturare decisioni sulle misure di sostegno vitale che possono prolungare la loro vita. Ciò implica un’alta considerazione dell’autodeterminazione del paziente e la volontà di cambiare la pratica quotidiana della medicina ― anche dal punto di vista
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organizzativo ― per permettere alla sua volontà di esprimersi. In questo contesto sviluppano tutta la loro potenzialità positiva le “direttive anticipate” ― delle quali parleremo diffusamente nel capitolo seguente, dedicato alle norme elaborate per guidare il medico e i familiari a fare scelte in armonia con i valori e le preferenze del paziente che sta concludendo la sua vita.
Trattare o lasciar fare la natura ?
Si è affacciata appena alla vita. Il freddo con cui è stata accolta non le ha permesso di restare sulla terra che pochi giorni. Eppure ha lasciato una traccia importante, a cominciare dal suo nome: la bambina Doe (Baby Doe). Anche dopo vent’anni ― la vicenda che la riguarda ha avuto luogo nel 1982, negli Stati Uniti — è un punto di riferimento. Era nata con sindrome di Down (mongolismo) e con una fistola tra la trachea e l’esofago. I genitori furono informati che il difetto poteva essere corretto chirurgicamente, “con normale possibilità di successo”; se invece non si fosse fatto l’intervento sulla fistola, questa avrebbe condotto in poco tempo la bambina alla morte per inanizione o per polmonite. I genitori, che avevano già due bambini sani, decisero di non fornire alla neonata né cibo, né trattamento chirurgico; preferivano che “la natura facesse il suo carso”. La bambina morì sei giorni dopo la nascita, mentre i medici cercavano di ottenere dal tribunale un ’autorizzazione a procedere chirurgicamente. I genitori furono incriminati.
Un mese più tardi il Dipartimento per la Salute e i Servizi umani americano inviò una circolare a tutti gli ospedali che ricevevano fondi federali per ricordare che «è illegale ... non somministrare a un bambino affetto da handicap le sostanze nutritive e il trattamento medico
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e chirurgico necessario per correggere delle condizioni che minacciano la vita, se: 1) l’astensione è basata sul fatto che il bambino è handicappato; 2) l'handicap non rende il trattamento e la nutrizione controindicate dal punto di vista medico».
Queste indicazioni sono ancor oggi ricordate come «Regolamentazioni Baby Doe».
Tra le situazioni cliniche che abbiamo considerato finora, la storia di Baby Doe è quella che ci rievoca con più forza il fantasma del programma eutanasico realizzato dal regime nazista. Vittime del programma furono, oltre ai lungodegenti degli ospedali psichiatrici, molti neonati con deficit genetici. La differenza tra lasciar morire e porre fine attivamente alla vita, nonché tra una decisione presa dallo Stato oppure dai genitori, non modifica la sostanza del problema: si tratta di una selezione fatta alla nascita tra le vite “degne di essere vissute” e quelle che non corrispondono a questo criterio. Le «regolamentazioni Baby Doe», frettolosamente predisposte dal governo federale americano, sembrano nascere dal malessere che suscita il pensiero che si possa, in qualche modo, incamminarsi per la stessa strada.
Il programma eutanasico tedesco a cui sono stati sacrificati i neonati portatori di handicap, a lungo rimosso, tende a riaffiorare in superficie. Il dolore di una madre, che si è visto togliere e “pietosamente uccidere” dalle autorità sanitarie naziste il proprio bambino, la cui colpa era quella di essere nato con la sindrome di Down, riemerge dopo molti anni attraverso una storia romanzata: Il piccolo Adolf non aveva le ciglia 5. Il racconto è stato scritto da Helga Schneider, che ha raccolto le memorie della madre reale del piccolo Adolf (la mancanza di ciglia è uno dei segni che annunciano
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il mongolismo del neonato). Non meno inquietante del clima dell’epoca, con lager camuffati da cliniche e programmi di uccisione spacciati per cure specialistiche, è la rievocazione delle granitiche convinzioni ideologiche trasmesse dal regime. Partecipare alla soppressione di vite senza valore era considerato un atto che esprimeva alte virtù civiche. Nel racconto di Helga Schneider il padre del piccolo Adolf ― un fanatico nazista che aveva dato a suo figlio il nome del Fuhrer ― quando si rende conto che il bambino è affetto da handicap si dichiara orgoglioso di obbedire a un ordine che prevede l’eliminazione dell’infante: «Sono lieto di vivere in una nazione che si assume il carico morale, politico e pratico, di sollevare i propri cittadini da certi impegni gravosi che condizionerebbero negativamente il resto della loro vita».
È opportuno diventare consapevoli che le decisioni da prendere quando nasce un bambino affetto da gravi handicap non saranno mai serenamente razionali: interferiscono pesantemente le emozioni, soprattutto quelle evocate dalla possibile somiglianza di queste decisioni con quelle teorizzate o praticate dal programma eugenico nazista. Tuttavia, non possiamo lasciarci guidare unicamente dalle emozioni. Se analizziamo lo scenario che ci offre la neonatologia attuale, non possiamo ignorare i numerosi nodi conflittuali che si concentrano intorno al bambino già nato, la cui vita dipende esclusivamente dall’intervento medico. La protezione e il sostegno della vita sono sempre e assolutamente giustificati? C’è un punto in cui possono rivolgersi contro il migliore interesse di colui a cui sono rivolti, diventando disumani? Il diritto alla vita è anche obbligo alla vita, in qualsiasi condizione? Tra i principi etici e gli interessi in conflitto, è possibile trovare un orientamento di soluzione?
È necessario in primo luogo cogliere la novità di questa problematica. Fino a un passato molto recente,
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la situazione dei bambini che nascevano con gravi malformazioni si risolveva molto rapidamente con la morte. In futuro ― ci sentiamo autorizzati a credere ― i progressi della medicina potranno offrire trattamenti efficaci e risolutivi, addirittura prima che il bambino nasca, grazie a terapie intrauterine. Ma nella fase intermedia, in cui ci troviamo, la presente situazione sanitaria pone dilemmi angosciosi ai genitori, ai medici, alla società civile.
Molti neonati malformati possono, grazie a un’attenzione chirurgica o medica di routine, rimanere in vita. Sopravviveranno magari per lunghi periodi, ma gravemente handicappati nel loro potenziale di soddisfazione umana e di comunicazione. Pensiamo ai casi di malformazioni aperte della colonna vertebrale (“spina bifida”), in seguito alle quali i bambini non saranno mai in grado di camminare o di controllare la vescica e l’intestino. Oppure ai neonati che, per lesioni cerebrali da mancata ossigenazione o da emorragia, saranno completamente spastici, incapaci persino di muoversi nel letto. Oppure ai bambini affetti da grave idrocefalia, con conseguenza di ritardi mentali profondi e cecità. In certi casi è possibile essere assolutamente certi dell’esito infausto; in altri, invece, la prognosi è incerta. Inoltre coloro che soffrono di menomazioni usufruiranno dei benefici della medicina che prolungheranno loro la vita. È appurato, ad esempio, che tra i bambini Down affetti da un difetto cardiaco, i quali resistono già con gli antibiotici ad affezioni un tempo mortali, uno su tre vedrà il proprio cuore corretto da un bisturi chirurgico.
La morale pubblica ufficiale ― quella rappresentata dalle leggi, dai codici deontologici medici, dalle posizioni morali religiose ― afferma il principio della difesa della vita e inorridisce di fronte all’ipotesi di scelte come quelle che nell’antichità classica avevano adottato gli spartani, di lasciare morire i non adatti. Ma se si passa
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da ciò che si predica a ciò che si pratica, la divaricazione è notevole. È vero che sono pochi i casi in cui positivamente si decide di sopprimere un neonato o di lasciarlo morire con un procedimento di eutanasia passiva; tuttavia sempre più raramente l’assunzione del compito di far crescere un handicappato fisico o psichico profondo è considerata un valore. Socialmente prevale un atteggiamento contrassegnato dall’ipocrisia, per cui a un’affermazione formale di tutela della vita, in tutte le sue forme, non fa assolutamente riscontro un efficace sostegno alle famiglie che si trovano schiacciate dai problemi dell’assistenza, abbandonate in una società in cui dominano incontrastati i modelli competitivi che non lasciano posto a chi si trova sotto la standard, sprovviste di adeguati sussidi medico-pedagogici.
La prassi medica, abitualmente guidata dal principio di “fare il bene del paziente”, che si traduce nell’impegno a conservare la vita e a vincere le malattie, si trova confrontata con la possibilità che la sua opera non sia un “beneficio” per l’interessato. Come ai tempi di Ippocrate, anche attualmente la prima regola della condotta medica è di non procurare del male: primum non nocere; ma oggi il “fare un danno” può essere più sottile che in passato. Può addirittura passare attraverso il suo apparente contrario, cioè le tecnologie che salvano la vita.
La scelta etica non può prescindere da una riflessione antropologica: qual è il meglio, e per chi? Qual è l’interesse del bambino, della sua famiglia, della società? Il migliore interesse del bambino sembra includere, a priori, la conservazione della vita. Ma questa certezza comincia a incrinarsi se si considera anche la sua futura qualità della vita, che comprende il benessere fisico, la capacità intellettuale e l’adattamento sociale. Se si vuole prendere in considerazione questa prospettiva, non si può più procedere aprioristicamente; bisogna piuttosto considerare in modo differenziato
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le diverse categorie di deficit che si presentano alla nascita.
Due sono le principali variabili: la qualità della vita mentale associata all’handicap fisico e la speranza di vita. Completamente diverso appare, per esempio, il profilo di un caso con difetto fisico in condizioni statiche (come cecità, deformità, ecc.) associato a intelligenza normale, e quello di condizioni fisiche progressive, non trattabili, associate a grave ritardo mentale. In questo caso il vigore della lotta contro l’inevitabile morte precoce non può essere paragonabile a quello richiesto da un’affezione fisica non progressiva. E ciò senza mettere in discussione il principio del valore di ogni vita umana.
Parlando degli interessi in conflitto, bisogna tener presenti le diverse parti in causa. Quando si prende una decisione “nell’interesse del paziente” ― in questo caso di un paziente che non è in grado di parlare per sé e di esprimere le sue preferenze ― si fa sempre un’opera di interpretazione. In pratica, equivale a domandarsi: se fosse in grado di esprimersi, il bambino che si trova in quelle condizioni chiederebbe l’impiego di sistemi artificiali di prolungamento della vita? Affermando che la qualità della vita del bambino sarà tollerabile o intollerabile, noi proiettiamo di fatto la nostra esperienza. Questo processo ci può portare anche molto lontano dalla reale esperienza dell’interessato.
Rimane comunque l’angosciosa situazione di dover prendere delle decisioni che riguardano un’altra persona, quella del bambino, con il rischio che questi possa trovare la qualità della sua vita assolutamente inaccettabile. Si immagini la situazione che si crea nei casi di poliomielite acuta, quando si salvano mediante il polmone di acciaio bambini i cui muscoli respiratori sono paralizzati e che, quindi, per la loro esistenza dipenderanno perpetuamente da una macchina. Oppure l’incontinenza fecale persistente presso un’adolescente
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che fu salvata alla nascita, ma il cui sfintere anale fu perduto nell’operazione di salvataggio... «E se un giorno ci maledicesse per averlo fatto vivere?», si domanderanno angosciosamente alcuni genitori.
L’interesse della famiglia è più difficile da esprimere. Ci può essere una vera resistenza ad ammettere che l’impegno ad assistere un bambino gravemente handicappato può essere sentito come un gravissimo peso rispetto agli altri figli, alla vita coniugale, alla situazione economica della famiglia. Dimostrerebbe, comunque, ben poca empatia chi ritenesse che, dal punto di vista dei genitori, non possono esistere seri motivi per negare il trattamento; oppure chi volesse colpevolizzare le famiglie per aver, magari con lo spirito straziato, preso una tale decisione. Un vero dilemma sorge per il medico quando la famiglia, valutando che i propri interessi abbiano maggior peso degli interessi del neonato, abbia optato per il non trattamento.
Anche gli interessi della società non vanno minimizzati. È chiaro che la decisione dei medici e dei genitori sarà fortemente condizionata dalle risorse pubbliche disponibili per l’assistenza e l’educazione dei bambini handicappati. Se la società vede il proprio interesse esclusivamente nel favorire le forme di vita più adattate, secondo un giudizio di valore che privilegia l’efficienza e la produttività, l’interesse affettivo dei genitori a far vivere il proprio bambino, anche se handicappato, si scontrerà con le scelte sociali. Solo gli interessati possono valutare se hanno la possibilità di reggere il confronto con una società, o se rischiano di soccombere in un conflitto impari. Con spirito realistico va ricordato che le risorse per l’assistenza a lungo termine sono scarse in tutto il mondo. Di fronte all’alternativa se impiegare somme ingenti nell’assistenza, o impegnarsi nella prevenzione della nascita di bambini malformati, la scelta di qualsiasi politica cadrà sulla seconda ipotesi.
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Chi deve prendere la decisione se curare o lasciar morire un neonato gravemente malformato? Dal momento che il bambino non può decidere per se stesso, la decisione sulla sua vita spetta ad altri. Il medico ha più informazioni: sa, ad esempio, la qualità di vita che spetta a un bambino affetto da “spina bifida” o il decorso di una malattia a prognosi infausta. Nell’insieme i medici sono piuttosto inclini, per l'ethos professionale e per i possibili risvolti penali del non-trattamento, ad attenersi a una linea di intervento a ogni costo. Dal momento che negare il trattamento è illegale (anche dare consigli o fare raccomandazioni ai genitori perché si orientino a mettere fine alla vita del bambino può esporre il medico a un processo con imputazione di concorso in omicidio), il medico, anche se volesse porgere ascolto al desiderio dei genitori, non può rinunciare ad applicare misure eccezionali per salvare la vita del figlio neonato.
I genitori sono raramente in grado di decidere serenamente. Lo shock, insieme a sentimenti di colpa, vergogna e collera, li paralizza; tendono ad affidarsi al medico, pur sapendo che le conseguenze maggiori del trattamento o della sua omissione ricadranno su di loro. Nei Paesi anglosassoni si fa talvolta ricorso in questi casi ai comitati etici. Senza pretendere che questi costituiscano un’istanza etica superiore, alla quale medici e genitori possano, deresponsabilizzandosi, demandare le decisioni, non si può negare che tale organo possa apportare un punto di vista più imparziale e offrire un servizio a coloro cui spetta il peso della decisione.
Un altro espediente è quello di nominare un difensore che rappresenti gli interessi del bambino nelle discussioni tra genitori e medico. Anche questo sistema può essere utile, purché non comprometta il rapporto tra medico e genitori, che deve basarsi sulla riservatezza e la fiducia. Il ricorso a terzi, tuttavia, dovrebbe avere sempre il carattere di consulenza. In ultima
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istanza, la decisione deve provenire dalla diade medico-genitori, chiamata a decidere, caso per caso, che cosa si deve fare e che cosa è opportuno omettere.
Qualora la decisione di non sottoporre a trattamento un neonato malformato sembri la più appropriata, subentrano i problemi etici connessi con l’eutanasia. Anche se si valuta il non-trattamento come equivalente a un atto di eutanasia passiva e non attiva, sarà molto difficile giustificare gli sforzi fatti per mantenere in vita un neonato che si è deciso di lasciar morire; porre fine direttamente alla vita, evitando sofferenze inutili, sembrerà facilmente la soluzione più umana all’interno di una scelta che, secondo altri parametri legali ed etici, va considerata disumana: probabilmente, “la scelta migliore fra scelte peggiori”. Sapendo, tuttavia, che in questo caso agire come si ritiene corretto secondo coscienza vuol dire andare contro la legge, ed essere esposti ai suoi rigori.
Né vivo, né morto
(dramma in molti atti, senza fine prevedibile... )
Nel gennaio 1983 Nancy Cruzan, una dinamica ragazza americana di 26 anni, era alla guida della sua macchina, in una strada di campagna. Perse il controllo della vettura e andò fuori strada. Alcuni minuti dopo un automobilista di passaggio la trovò, con la faccia in una pozzanghera. Non respirava. Chiamata l’ambulanza, le furono praticate sul posto le manovre di rianimazione e poi trasportata velocemente nell’ospedale più vicino, dove ricevette le cure appropriate per i traumatizzati. Ma per la gravità del trauma e il lungo tempo in cui il cervello era rimasto privo d ’ossigeno, la prognosi era sfavorevole. Durante le prime settimane dopo l’incidente, Nancy parve migliorare.
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Era in grado di inghiottire e di nutrirsi per bocca. Ma poi qualcosa accadde nel suo cervello ― non si sa esattamente cosa ― e le sue condizioni si deteriorarono, fino a uno stato vegetativo persistente. Rimase in quello stato per quattro anni, mentre la sua famiglia oscillava tra la speranza di un miracolo e il lutto per la perdita. Lentamente si convinsero che lo stato vegetativo era diventato permanente. Nancy non avrebbe più recuperato la coscienza, e ancor meno altre capacità. I genitori alla fine decisero che la figlia, che loro conoscevano e amavano, non avrebbe voluto vivere in quel limbo. Avvalendosi della loro potestà genitoriale, chiesero alla direzione della residenza sanitaria, dove Nancy era assistita, di interrompere la nutrizione artificiale che la manteneva in vita (quanto meno il suo corpo). Ricevuto un rifiuto, ricorsero in tribunale.
L’autorità, giudiziaria di prima istanza accolse la loro richiesta, ma i medici della residenza sanitaria rifiutarono di interrompere i trattamenti di alimentazione e idratazione, richiamandosi ai doveri dell’etica medica. I genitori portarono allora la richiesta alla Corte Suprema degli Stati Uniti. La Corte rispose che gli individui hanno la libertà, protetta costituzionalmente, di accettare o rifiutare le cure mediche, compresi i trattamenti salvavita come l’idratazione artificiale e la respirazione meccanica. Ma lo Stato ha anche l’autorità di chiedere prove convincenti su come i pazienti, prima dell’incidente, hanno chiesto di essere trattati, qualora fossero caduti in stato vegetativo permanente.
Forti della decisione della Corte Suprema, i genitori di Nancy tornarono dal tribunale al quale si erano originariamente rivolti, portando testimonianze circa la volontà della figlia, dalle quali si ricavava che non avrebbe voluto essere mantenuta in uno stato di incoscienza permanente. R tribunale autorizzò i genitori a richiedere l’arresto della nutrizione artificiale. Questa volta l’istituzione sanitaria aderì alla richiesta. Dopo
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pochi giorni Nancy Cruzan morì. Erano passati quattro anni dalla prima richiesta dei genitori, più di otto dall’incidente.
Il caso di Nancy Cruzan ha avuto il merito di portare alla consapevolezza del grande pubblico un capitolo della medicina contemporanea di grande rilievo drammatico. Al capezzale delle persone in coma vegetativo permanente devono essere prese delle decisioni difficili, forse tra le più angosciose tra quelle che si possono presentare sulla linea di confine tra la vita e la morte. I protagonisti ― dramatis personae, ovvero i personaggi del dramma, per usare la terminologia teatrale, qui quanto mai appropriata ― sono il malato stesso, i suoi familiari, i sanitari. Lo stato di incoscienza esclude che il malato possa intervenire nella decisione (ma potrebbe aver espresso in precedenza ciò che auspicava venisse fatto, se gli fosse capitato di trovarsi in quelle condizioni); i familiari sono orientati a non lasciar cadere le braccia, anche se la medicina non può fare nulla per riportare il proprio caro sulla riva dei viventi a pieno titolo, ma potrebbero anche ritenere più ragionevole far cadere il sipario su un dramma che non prevede più alcun lieto fine. I medici, per converso, si sentono vincolati da un’etica che tradizionalmente individua nel prolungamento della vita ― indipendentemente dalla sua qualità ― la ragion d’essere della medicina. Quando non c’è più alcuna possibilità di intesa, tra posizioni che si fronteggiano in condizione di stallo, è possibile che sia sollecitato a intervenire anche un altro interlocutore, che di per sé non fa parte del contesto clinico: il giudice. E quanto è avvenuto con Nancy Cruzan e sta avvenendo con un caso analogo tuttora dibattuto in Italia, quello che riguarda Eluana Englaro.
Nessuno mette in dubbio la correttezza del comportamento dei medici che si impegnano allo spasimo
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per prevenire che un incidente abbia un esito fatale. Parliamo di incidenti stradali, ma possiamo includere tutte le situazioni che possono comportare un grave shock e la deprivazione di ossigeno al cervello, come overdosi di droga o di anestesia, affogamenti... Quando l’intervento medico, corredato di competenza e alta tecnologia, salva la vita e si conclude con danni che possono essere riassorbiti con il tempo, siamo pronti a celebrare un altro “miracolo” della medicina. Ma non sempre questo è l’esito. Possiamo individuare quattro esiti possibili di un trauma che colpisce il cervello: la morte (sul colpo o nelle prime ore dopo il ricovero in ospedale), lo stato vegetativo permanente, uno stato di coscienza con gravi disabilità, e un pieno ristabilimento grazie a un’appropriata riabilitazione. Subito dopo il trauma, i medici non sono in grado di fare una prognosi attendibile in quale delle quattro categorie verrà a cadere il paziente. Per questo l’équipe di cure intensive fa ciò che è in suo potere per mantenere in vita tutt’e quattro i gruppi, sperando che il paziente venga a cadere in uno degli ultimi due. Purtroppo circa il 3 per cento delle persone che subiscono traumi cranici gravi rimangono vive, ma in uno stato di completa incoscienza: è lo stato vegetativo permanente. Una condizione che rischia di essere peggiore della morte.
La tempestività dell’intervento medico è cruciale. Come ebbero a esprimersi i genitori di Nancy Cruzan: «Se l’ambulanza fosse arrivata cinque minuti prima.. .o cinque minuti dopo!». Quando si verifica lo stato di coma permanente, i medici sono riusciti a salvare il tronco cerebrale, ma non la corteccia. Permangono, quindi, le funzioni che dipendono dal tronco: le persone in coma vegetativo respirano, hanno un battito cardiaco, sudano quando fa caldo e rabbrividiscono quando fa freddo, mantengono un ciclo di sonno e di veglia, possono anche aprire gli occhi in risposta a uno stimolo doloroso o a rumori forti; ma non sono capaci di atti volontari,
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non sono consapevoli dell’ambiente che li circonda, non percepiscono dolore e piacere, non interagiscono con nessuno. I loro corpi vivono, ma la loro personalità è del tutto assente. In questo stato possono continuare a sopravvivere per anni, purché siano nutriti e idratati artificialmente e si assicuri loro le cure corporee adeguate (in modo non molto dissimile, in fondo, a quello che si fa con dei neonati). Se sono giovani e in uno stato di salute generale buono, anche per decenni.
I medici ― più precisamente i neurologi, che in questo caso sono gli specialisti competenti ― sono prudenti nel formulare la diagnosi di coma vegetativo permanente. Prima devono escludere una sindrome che all’apparenza è simile: la sindrome cosiddetta locked-in (letteralmente, la sindrome del “chiuso a chiave”), nella quale il paziente è consapevole dell’ambiente che lo circonda, ma è incapace di muovere le membra. Talvolta tutto il movimento volontario che resta è la capacità di abbassare una palpebra. Una testimonianza impressionante di questa condizione è stata lasciata da Jean Dominique Bauby. Colpito improvvisamente da un insulto ischemico al tronco cerebrale, è vissuto in questa condizione per quasi due anni, con la sola capacità di muovere l’occhio sinistro. Eppure è stato capace con questo solo movimento di dettare, lettera per lettera, un libro ― Lo scafandro e la farfalla 6 ― a una logopedista attenta e disponibile. Pur essendo “murato dentro”, era tuttavia capace di mettersi in comunicazione. Questa possibilità è, invece, esclusa nei pazienti in coma.
Tra coloro che entrano in coma in ospedale, la maggior parte recuperano la coscienza. I medici aspettano a dichiarare lo stato vegetativo persistente, finché lo stato di incoscienza ― mancanza di risposta ai comandi verbali e assenza di movimenti volontari ― si prolunghi almeno un anno. Capita molto raramente ―
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un caso su cento ― che qualcuno che sia rimasto in questo stato per più di due anni dia, poi, qualche segno di risposta. Dopo due anni i neurologi sono soliti cambiare la diagnosi e dichiarare lo stato vegetativo permanente. Questo era appunto il caso di Nancy Cruzan.
Che cosa fare con questi pazienti? La risposta alla domanda dipende da una questione previa, di natura antropologica: che cosa possiamo dire di coloro che si trovano in uno stato vegetativo permanente? Sono vivi o sono morti? Sono persone o non sono più persone? Adottando il criterio della morte stabilita con i parametri della perdita completa e irreversibile delle funzioni cerebrali (cfr. Comitato nazionale per la bioetica: Definizione e accertamento della morte nell’uomo, 1991) non li possiamo dichiarare morti. Qualche voce si è levata per proporre di spostare ancora i paletti, dichiarando la morte quando si verifichi la perdita irreversibile delle funzioni della corteccia cerebrale, anche in permanenza delle funzioni del tronco; sembra tuttavia che né la comunità scientifica, né la società siano disposte a percorrere questa strada.
La definizione di persona è più problematica. E vero che la mancanza di consapevolezza e di capacità di mettersi in relazione sembra autorizzare a negare lo statuto di persona; ma lo stato di vulnerabilità ― dipendono totalmente dalla volontà altrui di provvedere loro ciò che è necessario alla vita, come il cibo e l’acqua ― non li colloca al di fuori dei confini dell’umanità: accentua piuttosto un tratto della condizione umana. Al di là delle definizioni, avvertiamo che togliere l’alimentazione e l’assistenza di base a degli esseri che hanno bisogno solo di questo minimo per continuare a vivere ― per quanto in un limbo opaco ― significa procurare loro la morte.
L’indicazione che proviene dalla Corte Suprema degli Stati Uniti è quella di valorizzare la volontà dell’individuo,
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precedentemente espressa, di non sopravvivere in condizioni che ritiene inconciliabili con la dignità umana. Tuttavia la soluzione, in pratica, offre poco aiuto. Almeno allo stato attuale delle cose, non essendo ancora un costume sociale diffuso esprimere volontà previe in vista di simili evenienze. La maggior parte di vittime di incidenti, che finiscono in coma vegetativo permanente a seguito di traumi cranici, sono persone giovani, che non prendono in considerazione questa possibilità (diverso è il caso di chi soccombe a una lunga malattia degenerativa, come il paziente affetto da sclerosi amiotrofica laterale, che abbiamo considerato sopra). Ricavare da qualche frase detta accidentalmente una disposizione precisa di rinuncia a vivere una vita vegetativa è arduo. I genitori di Nancy Cruzan si sono sentiti autorizzati a interpretare le parole della figlia come un’indicazione a mettere fine alla sua sopravvivenza. Ma il dubbio è restato. Il padre di Nancy, dopo diversi anni, è morto suicida; ha lasciato scritto che non è passato un sol giorno che non si sia posto il dubbio se aveva fatto bene a interrompere l’alimentazione della figlia.
Nelle scelte morali individuali le persone ― le famiglie ― si differenziano profondamente. Pur amando il proprio congiunto che è venuto a trovarsi nella terra di nessuno tra la vita e la morte, alcuni considerano una scelta d’amore mollare gli ormeggi, mentre altri sentono come obbligo morale inserire ancora più strettamente la persona incapace di relazioni nel tessuto della vita quotidiana. Un’altra vicenda esemplare ci fa scoprire che questi diversi atteggiamenti possono essere assunti da uno stesso soggetto morale. È la storia di Karen Ann Quinlan, tanto nota da costituire un punto di riferimento nell’evoluzione contemporanea della bioetica. Caduta in coma vegetativo permanente, è stata la protagonista involontaria di una vicenda giudiziaria rivolta a mettere dei limiti ai trattamenti medici. I genitori chiedevano che fosse tolta dal respiratore,
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per permetterle di morire. Di fronte al rifiuto dei medici, hanno percorso diversi gradi di giudizio fino alla Corte Suprema del Newjersey, per far riconoscere il diritto di rinunciare ai trattamenti medici, in certe circostanze. La sentenza del 1976 è considerata una pietra miliare in tal senso.
Il lato legale della storia Quinlan non è, tuttavia, tutta la storia. Esiste un’altra parte, che di solito non è fatta oggetto di analisi cliniche, legali o etiche. Dopo la decisione dei coniugi Quinlan di staccare Mary Ann dal respiratore, la ragazza, contrariamente alle aspettative, continuò a respirare autonomamente. Sopravvisse una decina d’anni in coma vegetativo permanente. Durante questo tempo continuò ad avere cure infermieristiche accurate e un amoroso sostegno da parte della famiglia.
Mentre la prima storia, quella dei procedimenti legali, sottolinea i diritti individuali, la storia non raccontata dei dieci anni di assistenza ci parla del prendersi cura dei fragili, dei malati cronici, dei ritardati mentali e, nei casi estremi, delle persone in coma vegetativo permanente, quali funzioni essenziali di un’assistenza medica e infermieristica di buona qualità. Anche quando non si può guarire o produrre miglioramenti funzionali, il prendersi cura e l’avere compassione sono parte costitutiva dei fini e degli ideali tradizionali della medicina. Sarebbe auspicabile raccontare tutt’e due le versioni della storia Quinlan, imparare da tutt’e due e saperle integrare nella nostra pratica clinica.
«Fatemi morire!»
Non molto tempo fa una prestigiosa facoltà medica statunitense ha organizzato una conferenza sul tema
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della morte, durante la quale il tema più dibattuto è stato il ruolo del medico nel momento in cui la vita del paziente sta per terminare. Nella tarda mattinata del primo giorno, mentre la discussione proseguiva animata, un partecipante fece una dichiarazione sbalorditiva. Con la freddezza che avrebbe utilizzato per descrivere un caso clinico, questo stimato oncologo, che aveva trattato migliaia di pazienti neoplastici terminali, annunciò di aver rilevato il numero dei malati che gli avevano chiesto di essere aiutati a morire: «Sono 127 soggetti, di entrambi i sessi; in 25 casi ho provveduto affinché il loro desiderio venisse esaudito».
Più tardi, durante un intervallo, alcuni intervenuti apprezzarono il coraggio con cui l’oncologo aveva aiutato i pazienti e con cui aveva dichiarato pubblicamente quanto aveva fatto. Altri ne biasimarono aspramente il comportamento, convinti che avesse disonorato la categoria medica, assassinando 25 malati e ammettendolo, oltresì, spudoratamente. La mia risposta fu semplice e diretta: conosco l’oncologo in questione come una persona capace e attenta, di nobili principi morali. Se egli ha scelto questa via, il mio codice morale mi obbliga ad accettarlo. Eppure, resta un’inquietante incertezza in ordine a una troppo facile accettazione della condotta, del mio collega e persino della mia, nelle ben più rare occasioni in cui mi sono trovato ad agire esattamente come lui. L’oncologo e io, come del resto le migliaia di medici che con discrezione hanno aiutato i loro malati a morire, lo hanno fatto nell’ambito della sacralità e della peculiarità che caratterizza il rapporto medico-paziente. Lo abbiamo fatto per persone che conoscevamo bene: il loro desiderio disperato di avere il sollievo che solo la morte può dare ci è sembrato un motivo del tutto adeguato.
Ciò che mi turba, sono gli aspetti più segreti di tali decisioni. Numerosi problemi restano, di solito, indiscussi nel caso in cui solo medico e paziente sappiano di
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dover compiere quel passo ineluttabile. Alcuni medici ritengono che la propria moralità e il lungo rapporto di empatìa con il malato siano a tal senso una garanzia sufficiente contro gli errori. Personalmente non lo credo più, pur restando coinvolto dal problema dell’eutanasia. Altri ― fortunatamente molto pochi ― credono sia opportuno fornire a qualsiasi malato sofferente, anche se sconosciuto, lo strumento per morire. Questi medici (mi riferisco a personaggi quali jack Kevorkian) paiono privi della capacità clinica, e forse anche morale, di discernimento, che consente di comprendere a fondo le implicazioni di un simile gesto.
La voce che abbiamo ascoltato è quella di un medico americano, Sherwin Nuland, cultore di storia della medicina e di etica, oltre che clinico di grande reputazione. A lui dobbiamo un libro ― Come moriamo 7, tradotto anche in Italia ― che ha descritto, con linguaggio accessibile, senza compiacimenti macabri, ma anche senza edulcorare la realtà della morte così come avviene nel contesto clinico, alcuni scenari tipici del morire in braccio alla medicina. Il notevole successo di pubblico per un libro che tratta un argomento tanto inusuale indica che esiste un bisogno diffuso di conoscere i fatti clinici, aprendo il sacrario in cui sono ammessi solo i sanitari, in qualità di sacerdoti officianti.
Dalle considerazioni di Nuland evidenziamo anzitutto il problema della domanda da parte dei pazienti di porre fine alla vita: quanti sono quelli che lo fanno? Sono molti o pochi? Il medico di cui si riferisce l’inquietante testimonianza ne aveva tenuta una contabilità pignola. Non è infrequente ascoltare medici, nell’ambito dei cui servizi ospedalieri sono morti innumerevoli ammalati, assicurare che mai un morente ha chiesto loro
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di fare qualcosa per affrettare la fine. Si può immaginare che giochi un certo ruolo una variabile personale: una richiesta di quel genere non la si fa a chiunque. Esistono medici che hanno sviluppato tecniche raffinate di distanziamento dai pazienti, in particolare da quelli che si stanno avviando verso la conclusione della vita.
Il fatto di non aver mai ricevuto tali richieste potrebbe anche indicare che il medico ha evitato ogni situazione di contatto personale con il paziente.
La volontà (capacità) di ascoltare è la prima condizione; ma non è tutto. Ci vuole anche ciò che Nuland chiama “capacità di discernimento”. Bisogna anche interpretare le richieste di morte. Di recente ― per fare un esempio ― è stata riportata dai giornali la lettera scritta da nove malati di uremia cinesi, che chiedevano l’eutanasia. Al giornalista andato a interrogarli le persone firmatarie spiegarono che in realtà si battevano per guadagnare il diritto di vivere. Se si erano ridotte a lanciare quell’estremo appello, era perché non avevano più la forza di sopportare i pesanti oneri economici che comportava la loro malattia. L’uremia non ha un esito fatale e i malati possono vivere normalmente, a condizione di sottoporsi regolarmente alla dialisi. Il problema era che i malati non riuscivano a far fronte ai costi di quei trattamenti: dopo anni di malattia, rischiavano di essere indebitati, loro e la loro famiglia, in modo rovinoso. Con la richiesta di poter essere autorizzati a mettere fine alla loro vita chiedevano, in realtà, la possibilità di essere curati, non la morte.
Altre volte la richiesta di essere aiutati a morire è prodotta da dolori intollerabili, che potrebbero essere tenuti sotto controllo con un’adeguata terapia antalgica. Questo punto di vista è stato fortemente promosso in Italia dal movimento per le cure palliative, che ha denunciato le carenze nella lotta contro il dolore, specialmente nella fase terminale della vita. Gli operatori del settore sottoscrivono l’opinione di Cicely Saunders
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una delle principali promotrici degli hospice ― secondo la quale un malato morente senza dolore o altri sintomi e con una persona vicina non chiederà mai di essere ucciso. Non solo il dolore, ma anche la paura di essere abbandonato ― solo, senza alcuna assistenza, in braccio alle angosce dell’agonia ― può suscitare la domanda: «Dottore, mi faccia morire».
Discernere le vere richieste di morte da quelle di cura, di palliazione del dolore e di accompagnamento, non è ancora tutto il discernimento richiesto. Esiste una domanda che non rientra in quelle categorie e che possa essere una lucida e consapevole richiesta di porre fine alla vita? In altri termini: è possibile che ci sia una richiesta “sana” di morte? La salute in questione è ovviamente quella mentale. Tendono a rispondere negativamente coloro che qualificano ogni richiesta di eutanasia come un sintomo di depressione. L’etichetta di depresso affibbiata a ogni malato che vuol morire viene a svolgere un ruolo analogo al “Comma 22” nella vita militare.
Comma 22 è il titolo di un felice romanzo di Joseph Heller, apparso nell’originale nel 1955, che si propone di mettere in ridicolo le assurdità della guerra in generale e della vita del soldato in particolare. Il protagonista Yossarian scopre che una trappola burocratica gli impedisce di sottrarsi alle missioni di volo, nelle quali rischia ogni volta la vita. A differenza del commilitone Orr, che si butta in una missione di volo dopo l’altra, vorrebbe essere esonerato dal volo. Quando fa la richiesta al medico del campo, questi gli contrappone il Comma 22, secondo il quale «Tutti quelli che desiderano essere esonerati da volo attivo non sono veramente pazzi».
C'era soltanto un comma e quello era il Comma 22, il quale precisava che la preoccupazione per la propria salvezza di fronte a pericoli che fossero reali e immediati
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era la reazione normale di una mente razionale. Orr era pazzo e avrebbe potuto essere esonerato dal volo. Tutto quel che doveva fare era di farne domanda; e non appena ne avesse fatto domanda, non sarebbe più stato pazzo e avrebbe dovuto continuare a volare. Orr sarebbe stato pazzo se avesse compiuto altre missioni di volo e sano di mente se non lo avesse fatto, ma se fosse stato sano di mente avrebbe dovuto compiere altre missioni di volo. Se volava era pazzo e non doveva più volare; ma se non voleva volare era sano di mente e doveva volare. Yossarian fu molto impressionato per l’assoluta semplicità di questa clausola del Comma 22 e si lasciò sfuggire un fischio pieno di rispetto.
Joseph-Heller, Comma 22, Bompiani, Milano 2000 (1955).
Il Comma 22 delle cure palliative potrebbe essere formulato così: se una persona è mentalmente sana può chiedere che sia posto fine alle sue sofferenze, procurandole la morte; ma se una persona fa questa richiesta, non è mentalmente sana (è depressa!). Eppure nel mondo dei personaggi biblici ci viene proposta la figura accattivante del patriarca che, «sazio di vita e di giorni», accoglie con cuore lieto la morte. Il contesto medicalizzato è completamente diverso da queste ideali morti “naturali”; ma la sazietà di vita ― soprattutto quando il calice delle sofferenze è colmo ― può ancora essere una possibilità autenticamente umana. Ancora un discernimento, e tra i più difficili. Per questo suona opportuno l’ammonimento di Nuland che richiede una profonda conoscenza interpersonale e diffida dall'affidare il compito di esaudire la domanda di morte a dei “missionari” dell’eutanasia ― come il dott. Kevorkian negli Stati Uniti o il dott. Julius Hackethal in Germania ― che hanno dato alla morte volontaria l’impersonalità di una procedura burocratica.
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Un’altra forma di discernimento deve prendere in esame la spontaneità della domanda di morte; ovvero: viene dalla persona interessata o dalla società? La letteratura utopica si è più volte confrontata con il tema di una società ordinata, che prevede l’eutanasia come conclusione della vita degli individui. L’antecedente più autorevole è proprio L’utopia di Tommaso Moro (1516), che teorizzò per primo l’eutanasia per i malati inguaribili della sua città ideale:
«Se il male non solo è inguaribile, ma dà al paziente, di continuo, sofferenze atroci, allora sacerdoti e magistrati, visto che è inetto a qualsiasi compito, molesto agli altri e gravoso a se stesso, sopravvive insomma alla propria morte, lo esortano a non porsi in capo di prolungare ancora quella peste funesta, e giacché la sua vita non è che tormento, a non esitare a morire; anzi fiduciosamente si liberi lui stesso da quella vita amara come da prigione o supplizio, ovvero consenta di sua volontà a farsene strappare da altri, sarebbe questo un atto di saggezza, se con la morte troncherà non gli agi ma un martirio, sarebbe un atto religioso e santo, poiché in tal faccenda si piegherà ai consigli dei sacerdoti, cioè degli interpreti della volontà di Dio. Chi si lascia convincere mette fine alla vita da sé col digiuno, ovvero si fa addormentare e se ne libera senza accorgersi; ma nessuno viene levato di mezzo contro sua voglia, né allentano l’affetto nel curarlo».
In numerose altre opere della letteratura utopica gli interessi della società vengono presentati come prevalenti, così che gli individui, giunti alla fine della vita, acconsentano volentieri di anticipare la fine. Tra quelle recenti merita una segnalazione la visione di un’eutanasia dettata dalla società, e liberamente eseguita dagli individui, evocata dal romanzo Der Kastrat, dello svizzero Alfred J. Ziegler. La fantasia visionaria del romanziere
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colloca il suo personaggio, Amery, nel 2050, come funzionario del “Ministero per la sovrappopolazione e l’invecchiamento” della Germania. Immagina un mondo in cui la medicina aveva finito con l’abbracciare tutti gli ambiti della vita dell’uomo. Le note indicazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità, secondo le quali la salute equivale al pieno benessere corporeo, sociale e spirituale, erano state messe in atto in modo obbligante, fino a creare uno stato sanitario di carattere totalitario. La maggior parte della popolazione, ormai più che centenaria, era per lo più invecchiata in buona salute. Il mantenimento di tanti vecchi era possibile solo attraverso uno sforzo, teso fino allo spasimo, dell’assistenza pubblica: le casse mutue si erano moltiplicate come metastasi di un tumore e consumavano i redditi delle giovani generazioni.
Quando il Ministero tedesco decide di studiare una forma di eutanasia per coloro che, malgrado la salute-protesi, erano afflitti da depressione senile, invia Amery a cercare la chiave della politica demografica inglese, che sembra aver trovato la soluzione vincente. A Londra la scoperta più sensazionale di Amery è che Arrods si è trasformato da grande magazzino di beni di consumo in tempio della medicina totale: vi si può comprare tutto ciò che serve per l’uomo sano, come organi artificiali e pezzi di ricambio. Anche la morte. Al centro dei magazzini Arrods è collocata la “palude celtica”, un luogo in cui si può porre fine volontariamente alla vita. Nel romanzo di Ziegler il suicidio è diventato la morte naturale degli europei verso la metà del XXI secolo. Morrigain, la palude della morte, era il santo dei santi del tempio della salute:
«Stava sotto una cupola graziosa, sostenuta da otto snelle colonne, come un baldacchino sacrale. A intervalli si apriva qua e là una porta a muro e, come portati da una forza invisibile, moltitudini di uomini si affollavano
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sulla fatidica passerella dirigendosi verso Morrigain.
“Coloro che hanno lasciato la terra dei vivi”, pensò fugacemente Amery; perché, prima che potessero raggiungere l’oggetto a cui tendevano appassionatamente, scomparvero improvvisamente in una botola nella palude».
Quanta ragione hanno gli utopisti negativi nell’ipotizzare che stiamo andando verso una società che risolve il problema di una longevità eccessiva inducendo i propri cittadini all'eutanasia o al suicidio, considerato “socialmente corretto”? La prospettiva angosciante è quella di persone che abbiano interiorizzato il giudizio negativo che la società porta sulla loro vita e chiedano, perciò, ― “spontaneamente” ― di porvi fine. Qualche segnale preoccupante che ci stiamo muovendo in questa direzione può essere letto in ricerche come quella apparsa nel prestigioso New England Journal of Medicine, sotto il titolo: «Quanti sono i risparmi potenziali che deriverebbero dalla legalizzazione del suicidio medicalmente assistito?». Firmano 1'articolo un economista e un esperto di etica 8. La conclusione cui giungono è che «il risparmio che seguirebbe dalla legalizzazione del suicidio medicalmente assistito rappresenta una frazione molto piccola della spesa sanitaria»: 627 milioni di dollari, pari a 0,07 per cento della spesa totale degli Stati Uniti per la sanità. Quali conseguenze si tirerebbero se, mettiamo, da un calcolo di questo genere si arrivasse a stabilire che dare la morte a coloro che la chiedono porta a un risparmio significativo? Il cittadino con senso civico dovrebbe dedurne che, a un certo punto, è suo dovere farsi da parte. Anche se la sua richiesta fosse libera,
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non sarebbe spontanea, ma rispecchierebbe un giudizio che la società ha formulato su di lui. Per esprimerci con dure parole di Tommaso Moro, agli occhi della società sarebbe «qualcuno che è sopravvissuto alla propria morte» (intesa come morte sociale).
Rimane da considerare un’ultima situazione: quella in cui la domanda di morire non sia formulata dal malato, perché non è più in grado di esprimersi, ma il medico interpreta la sua condizione clinica come un invito oggettivo a interventi dì eutanasia (escludiamo l’esistenza di direttive previe, che diano disposizioni in tal senso per quando la persona non sarà più in grado di prendere delle decisioni). In questo caso chi affretta la morte, uccidendo il malato terminale, non vuole assassinarlo, ma aiutarlo a morire con un atto di pietà. Protagonisti di questi gesti estremi, ai quali viene data ampia risonanza dai mezzi di comunicazione, possono essere sia i sanitari ― medici o infermieri ― sia i familiari stessi del malato.
Ad esemplificazione, riportiamo da Erwin Nuland il racconto di un caso clinico in cui l’atto eutanasico, non richiesto espressamente dal paziente, viene compiuto da un medico che, con l’accordo dei familiari, interpreta la condizione del malato come una richiesta implicita:
L’uomo, che chiamerò Henry Clarke, di settant'anni, dopo aver lottato per anni contro la leucemia, era ormai in stato terminale. Aveva la milza ingrossata e ìperattiva, il che aveva compromesso il sistema immunitario: non era stato, infatti, possibile effettuare il ciclo chemioterapico pressoché sperimentale che gli era stato proposto come ultima spiaggia. Conscio dei notevoli rischi, Clarke acconsentì a sottoporsi a intervento chirurgico per la rimozione della milza, nella speranza di poter in seguito eseguire la farmacoterapia.
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Nonostante gli antibiotici e l’accuratezza dell’intervento, sviluppò un ascesso addominale, che dovette essere drenato chirurgicamente. Una settimana dopo si ripresentò lo stesso problema: Clarke fu nuovamente operato, ma l’ascesso si riformò. Quando i medici stavano per giungere alla conclusione che sarebbe stato possibile controllare l’infezione, Clarke iniziò a perdere saltuariamente conoscenza: apparve presto evidente che avrebbe potuto andare avanti per settimane in preda a dolori atroci.
La moglie e i familiari non potevano sopportare di vedere il tormento e la perdita di dignità di un uomo che aveva spesso ripetuto di voler morire tranquillamente, una volta che non ci fosse stata più speranza. Non sembrava esistere soluzione finché il cognato di Clarke, anch’egli medico, non contattò il chirurgo e non gli propose l’eutanasia attiva. Questi capì chiaramente quale fosse il suo dovere e iniettò nella sonda endovenosa del malato una dose di morfina.
Una decisione di questo genere ha alle spalle una giustificazione etica. Ma anche coloro che ritengono che atti eutanasici diretti non dovrebbero essere compiuti adducono motivazioni etiche. Dovremo considerare analiticamente i diversi costrutti teorici, le argomentazioni a cui fanno ricorso, le conclusioni cui giungono. Qui ci limitiamo a sollevare l’interrogativo che inquieta anche coloro che ritengono moralmente accettabili interventi eutanasici in casi estremi, come quello descritto. Le preoccupazioni riguardano l’eventualità che, accendendo la luce verde per alcune situazioni, ci si avvii per una china scivolosa (in inglese si parla di slippery slope), nella quale non sarà possibile fermarsi.
Già l’interpretazione di una volontà attuale e di una richiesta esplicita richiede notevoli capacità psicologiche
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e morali di discernimento. Tanto più ardua è l’interpretazione di una volontà che non ha la possibilità di esprimersi, ricavando la richiesta di morte da un vago desiderio di avere una fine pacifica. Il timore è che, se si apre una breccia nell’interdetto che vieta di procurare la morte, anche per motivi di pietà, il numero delle richieste presunte tenderà ad aumentare. L’eutanasia sarà praticata prevalentemente su malati mentali e su persone in stato di incoscienza, interpretando la loro condizione miserevole come una richiesta implicita di liberazione. Anche senza evocare il fantasma dell’eutanasia praticata sotto il regime nazista, c’è tuttavia quanto basta per inquietarsi.
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Capitolo II
«Consapevole dell'importanza e della solennità
dell'atto che compio e dell'impegno che assumo,
giuro... di non compiere mai atti idonei a provocare
deliberatamente la morte di un paziente».
Le norme della deontologia medica
Anche la versione più recente del Codice deontologico dei medici italiani, datata 1998, ribadisce la non disponibilità del medico a interventi eutanasici. Affida l’impegno a un giuramento, premesso al Codice. Giurare ― che lo si faccia chiamando a testimone Dio o la propria coscienza, non modifica sostanzialmente la natura dell’impegno ― è un vincolo stabilito unilateralmente. Mentre le regole deontologiche sono di natura loro rivolte a esplicitare i rapporti che si stringono tra coloro che erogano servizi sanitari e coloro che li ricevono, i giuramenti impegnano chi li formula, indipendentemente da ciò che possa pensare l’interlocutore. Il rifiuto dell’eutanasia è un tratto tra i più costanti di tutta l’etica medica. Fin dall’antichità, quando i medici con il giuramento di Ippocrate hanno formulato le regole che soprintendevano alla pratica della medicina, si sono impegnati a non dare la morte neppure a chi la richiedesse:
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«Giammai, mosso dalle preghiere insistenti di qualcuno, propinerò medicamenti letali, né commetterò mai cose di questo genere» 9.
Che cosa succederebbe se questo pilastro del comportamento del medico venisse a cadere? «L’ambiguità si rifletterebbe su tutta la pratica medica. Dal momento che il gesto medico può essere mortale, se giustificato da buoni sentimenti, la fiducia è intaccata. Il malato si domanderà ormai se l’iniezione che gli viene praticata è per curarlo o per ucciderlo. Si può immaginare l'angoscia che regnerà in alcuni reparti». A esprimersi in questi termini è un documento redatto da una commissione dell’episcopato francese ― Vie et mort sur commande, 1984 ― che considera le conseguenze che avrebbe nel rapporto tra medico e paziente l’accettazione, in linea di principio, di revocare l’interdetto tradizionale che proibisce al medico di rendersi disponibile a mettere fine alla vita.
La preoccupazione non è esclusiva di chi si propone di difendere una concezione sacrale della vita umana. Negli anni ’80, quando hanno cominciato a risuonare pubblicamente voci che si esprimevano a favore dell’eutanasia sotto controllo medico, si è espressa negativamente anche la Guida europea di etica e di comportamento professionale dei medici, proposta per i membri della Comunità Economica Europea (dicembre 1982). La proibizione di praticare l’eutanasia è riaffermata con l’argomento della fiducia che il malato deve poter riporre nel sanitario:
«Ricorrere a un medico vuol dire in primo luogo affidarsi a lui. Tale azione, che domina tutta l’etica medica, proibisce, di conseguenza, alcune azioni a essa contrarie.
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Così il medico non può procedere all’eutanasia. Deve sforzarsi di placare le sofferenze del malato, ma non ha il diritto provocarne deliberatamente la morte. Questa regola, conosciuta da tutti e rispettata dal corpo medico, deve essere la ragione, la giustificazione della fiducia posta in lui. Nessun malato, handicappato, infermo o senile, alla vista del medico chiamato al suo capezzale, deve avere dubbi a questo riguardo» 10.
I motivi addotti a difesa del comportamento tradizionale dei medici suonano plausibili. Ma colpisce il fatto che allo stesso argomento della fiducia del paziente nei confronti del medico facciano ricorso anche coloro che sollecitano una modifica delle norme della deontologia medica. La fiducia del malato ― sostengono ― è accresciuta se questi sa che può contare sul medico non solo per guarire, ma anche per morire. L’angoscia più profonda del morente dei nostri giorni è quella di essere abbandonato nel momento in cui, secondo la scienza medica, “non c’è più niente da fare”. In nome di un contratto morale implicito nell’alleanza terapeutica, il malato vuol poter contare sul medico fino all’ultimo; compreso l’aiuto di cui può aver bisogno per concludere i suoi giorni.
C’è il sospetto di ipocrisia ― incalzano i critici ― in certi alti proclami della medicina come servizio alla vita: prima la medicina stessa crea delle situazioni disumane, poi rifiuta di assumerne la responsabilità, trincerandosi dietro i principi deontologici! Troppo spesso i medici, richiamandosi ai “valori ippocratici”, di fatto abbandonano il malato inguaribile, ritenendo che la morte non sia di loro competenza. Come in tutte le situazioni in cui predomina l’ideologia, i sublimi ideali svolgono anche la funzione di uno schermo, dietro il quale si nasconde una realtà meschina.
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Gli attacchi alla deontologia medica tradizionale, per quanto provocatori ed eversivi, non sono necessariamente insensati. Il loro risvolto positivo sta nel richiedere che si rifletta, nei termini concreti della pratica attuale della medicina, sulla finalità della professione medica. La medicina curativa tende a non occuparsi della morte, e quindi dei morenti. Per questo può dichiararsi compattamente schierata sul fronte della vita. Ma sono proprio le condizioni del morire, create dall’ampio impiego di tecnologia medica, che obbligano i sanitari a occuparsi anche della morte dell’uomo. Sarebbe abusivo derivare da questo orientamento una legittimazione a priori di interventi rivolti ad abbreviare la vita di un paziente; ma non è neppure legittimo appellarsi ai principi ippocratici come alibi per evitare di affrontare le questioni scomode che solleva il morire del nostro tempo.
Vuol dire, dunque, che nella cittadella della medicina si sta creando una breccia, attraverso la quale entrerà l’eutanasia? La deontologia dei medici, che ha tradizionalmente eretto una barriera contro ogni azione che anticipi la morte, è giunta al punto di capitolare? Quello che è certo, è che la deontologia non adempie al suo compito se si limita a proporre le regole di comportamento professionale che erano adeguate in passato, ma non al nuovo volto che ha assunto il morire nei contesti ipermedicalizzati dei nostri giorni.
Le richieste di una revisione delle regole deontologiche nascono da un’angoscia diventata insopportabile. L’incertezza sul comportamento “corretto” da tenere con i malati, al termine della vita, è causa di turbamento per la professione medica e per la società intera. Dall’impasse i medici non possono uscire se non approfondendo il senso e la finalità della propria professione. Oggi i medici non possono limitarsi a essere “medici per la vita”; non possono lasciare il morente al decorso “naturale” del morire, perché tale decorso, sottratto alla
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naturalità, è manipolato come tutti gli altri processi vitali. Il comportamento del medico, dal momento che assume anche il morire nell’ambito della propria operatività professionale, va ripensato profondamente. La “legittimità” ― dal punto di vista del corretto comportamento professionale ― di un intervento sul processo del morire è una questione fondamentale, che deve precedere qualsiasi dibattito sulla “legalità” di interventi eutanasici.
L’ambito del diritto,
tra regole deontologiche e principi etici
Le norme di deontologia poste dagli Ordini e Collegi professionali, relative all’esercizio della professione di medici e infermieri, hanno assolto da sempre una funzione orientativa fondamentale. Tali prescrizioni hanno però subito nel tempo una modificazione radicale non solo nei contenuti, ma anche nel significato che è stato loro attribuito. Mentre in passato erano sufficienti a definire come si doveva comportare un professionista sanitario, oggi non è più così: l’accelerazione delle scoperte mediche e delle tecniche diagnostico-terapeutiche ha infatti fornito uno spettro di intervento talmente ampio da necessitare di altre forme di indicazione comportamentale. Le norme deontologiche hanno additato percorsi professionali definiti leciti e opportuni, operando nella direzione di una codificazione univoca e di una regolamentazione piuttosto rigida sul piano etico, oltre che medico-legale. Quando mancano leggi specifiche ― in particolare relativamente alla gestione clinica dei pazienti terminali, come è il caso dell’Italia ― il riferimento alla deontologia medica diventa centrale; ma, per quanto importante, la deontologia non può esaurire la richiesta di norme come guida al comportamento. Abbiamo bisogno di regole collettive, estensibili a tutti i cittadini.
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Quando è la deontologia, piuttosto che la legge, a delimitare ciò che il medico è autorizzato o non autorizzato a fare, emergono due ordini di problemi. Il primo riguarda il fatto che la norma deontologica agisce prevalentemente in via sanzionatoria, rispetto ad atti concreti già verificatisi, e non può agire, se non limitatamente, sul piano della funzione preventiva e dissuasiva di possibili violazioni.
Il secondo problema concerne l’origine delle norme deontologiche che, al contrario di quelle legislative, non scaturiscono da una posizione di «terzietà» 11 rispetto ai soggetti coinvolti e agli interessi, talora divergenti, degli operatori sanitari e dei pazienti. Le norme deontologiche sono, infatti, “di parte” (anche se ci riferiamo a una parzialità del tutto particolare, trattandosi di medici che hanno assunto l’impegno di operare nell’interesse del paziente).
Sarà inevitabile, allora, per il diritto elaborare norme aggiornate, che tuttavia non ledano il centrale valore dell’autonomia decisionale dell’individuo. Al momento questa incapacità del diritto di far fronte a situazioni limite ― quali quelle poste dalla bioetica ― viene argomentata come impossibilità per il «povero lessico della legislazione» di cogliere tutti gli aspetti di tali problematiche mediche e umane, «cristallizzandole in commi e in articoli» 12.
Indubbiamente il diritto, dovendo classificare le azioni costringendole entro definizioni univoche, mal si presta a stabilire norme applicabili alle molteplici sfumature cliniche ed esistenziali della bioetica di fine vita. Questa stessa consapevolezza non può, però, paralizzare la giurisprudenza, che è sempre più chiamata a districare la casistica bioetica, caratterizzata da situazioni di confine tra ciò che è privato e inviolabile,
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come il corpo e la coscienza, e ciò che è pubblico, come le azioni e le omissioni.
La delicatezza delle tematiche da trattare non costituisce peraltro l’unico freno per la codificazione del diritto. Esistono ulteriori motivazioni di tale silenzio. In parte esse sono di natura contingente, data la recente nascita di una generale materia che si occupi di questioni biomediche, in parte legate alla crescente complessità dell’attuale struttura sociale.
Le società occidentali ad alto avanzamento tecnologico, politicamente democratiche, sono caratterizzate da un pluralismo etico. Abbiamo abbandonato la concezione etica dello Stato che fornisce un quadro omogeneo di riferimento morale per i soggetti contraenti il patto di convivenza. I cittadini adottano modelli di pensiero molteplici e paritetici fra loro, nell’ottica del rispetto e della rivendicazione di una fondamentale libertà di coscienza e azione.
La realtà dello stato moderno sorge proprio nell’epoca in cui si accantonano le grandi costruzioni teologiche che strutturavano una tavola di principi comuni, grazie alla quale poter immediatamente individuare il comportamento lecito. Quando l’orizzonte etico-giuridico condiviso si è frantumato, sono emerse due necessità: ricercare fondamenti giuridici scevri da precostituiti modelli di riferimento morale e ideologico e fornire griglie collettivamente valide che non pongano in dubbio l’esistenza stessa dell’assetto sociale, inteso come tessuto connettivo delle differenze. Quello che è stato chiamato il “biodiritto” ― ovvero le norme giuridiche che regolano i comportamenti nei confronti della vita ― si trova a doversi confrontare con una difficoltà di fondo: se si stabilisce come valore principe il rispetto e la rivendicabilità dei diritti dei singoli, in quanto soggetti giuridici paritetici, le contraddizioni, opposizioni e conflitti fra questi sorgeranno inevitabilmente. I paradigmi che il diritto ha finora
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utilizzato per promuovere leggi positive non sono ancora sufficienti a garantire una reale reciprocità dei diritti degli individui, senza che ciò adombri il rischio della “guerra di ognuno contro tutti”. Il diritto nelle società complesse dovrebbe, quindi, garantire l’integrazione di unità e diversità, assicurando l’unità per l’esistenza della convivenza sociale, senza comprimere la diversità, che è promessa di libertà e di rispetto delle scelte individuali.
La necessaria differenziazione fra le sfere che regolano il nostro agire ― quella etica sul piano individuale e quella giuridica sul piano collettivo ― pone degli interrogativi di fondo nella costruzione di una sfera biogiuridica: qual è, infatti, la linea di confine fra i diritti di autonomia di coloro che sono coinvolti nelle scelte biomediche e l’ambito di intervento dello Stato con l’elaborazione di doveri, obblighi e divieti? Esistono diritti inviolabili naturali che uno Stato non può intaccare con i suoi interventi? Sebbene non sembrino esserci obiezioni al riconoscimento di una separazione concettuale tra il piano della moralità e quello della legalità, profondi contrasti emergono quando si tratta di stabilire fino a che punto il sistema della legge debba fare propri i principi della morale. Il contrasto è reso ancora più aspro dall’esistenza di più formulazioni etiche, degne ognuna di contribuire alla costruzione del diritto. Per dirimere il conflitto occorre tenere presenti le diverse teorie del diritto in rapporto alla morale, partendo dalle elaborazioni più tradizionali ispirate al giusnaturalismo di matrice classica e medievale, per giungere a quelle più recenti di stampo liberale, proposte da John Stuart Mill (1806-1873).
La prospettiva giusnaturalistica propone una connessione strutturale fra i codici di regolamentazione giuridica e quelli morali. La connessione viene giustificata con l’evidenza (solo presunta) che i concetti di bene e giustizia siano valori assoluti rintracciabili da
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ognuno e non sottoponibili a revisioni dettate da esigenze di contesto culturale o sociale. Secondo questo orientamento ciò che è ritenuto dal senso* comune moralmente vizioso o ingiusto non può essere consentito dalle leggi di un Paese. Si sostiene perciò la necessità di imporre, per norma codificata, i valori etici caratterizzanti una certa società.
Quest’impianto ideologico del diritto sembra, però, non tener conto del fatto che i valori e i principi etici che guidano l’agire degli uomini non permangono identici nel tempo, essendo soggetti a mutamenti storici, culturali e sociali. Le categorie di bene e male, giusto e ingiusto non sono ― come nella prospettiva platonica ― modelli di un mondo sovraterreno cui la società umana tenta di conformarsi, ma prodotti umani, scelte dettate da condizioni temporali precise, rivedibili e mortali come lo sono i loro ideatori. Questa consapevolezza d’altra parte non implica necessariamente un relativismo etico e, dunque, giuridico, per il quale si stabiliscono di volta in volta le direttive di comportamento a seconda di ciò che risulta momentaneamente più utile o conveniente; significa soltanto ribadire la mobilità e il dinamismo delle idee umane, che impedisce di rintracciare ordini di principio perenni e immutabili, cui conformare il diritto positivo.
La concezione che si oppone al giusnaturalismo mantiene, per converso, distinto il piano della moralità da quello del diritto, ritenendo che non tutto ciò che viene considerato eticamente lecito debba essere sancito per legge. Esiste per i sostenitori di tale impostazione una sfera di autonomia dell’uomo per la quale non si ritiene necessaria una forma di codificazione giuridica. Già nel 1858 Stuart Mill scriveva:
«Il solo scopo per cui si può legittimamente esercitare un potere su qualunque membro di una comunità civilizzata contro la sua volontà, è per evitare un
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danno agli altri. Il bene dell’individuo, sia esso fisico o morale, non è una giustificazione sufficiente. Non lo si può costringere a fare o non fare qualcosa perché è meglio per lui, perché lo renderà più felice [...] questi sono buoni motivi per discutere, protestare [...] ma non per costringerlo o punirlo in alcun modo nel caso si comporti diversamente» 13.
A questa concezione liberale dello Stato viene mossa, dai sostenitori del giusnaturalismo, un’obiezione di fondo: ponendo limiti all’intervento legislativo, per una maggiore autonomia di scelta dei singoli, si rischia di fomentare condotte arbitrarie, creando conflitti sociali. In realtà il modello che prevede la separazione fra il piano del diritto e quello della morale non comporta affatto un soggettivismo etico, né promuove una deresponsabilizzazione del singolo nei confronti della società.
Gli opposti modelli giuridici non possono essere adeguatamente compresi, senza fare riferimento alle concezioni antropologiche che li sostengono. Nel modello giusnaturalistico l’ordine morale è già dato ab aeterno, e dunque, è di per sé metafisicamente garantito, universalmente valido e immutabile. Nel modello liberale, al contrario, si abbandona ogni principio di riferimento trascendente, garante della giustizia, per adottare un criterio basato sulla responsabilizzazione del singolo, anzitutto di fronte a se stesso, ricercando l’elevazione etica dei comportamenti nella capacità di valutare autonomamente il proprio agire. Risulta evidente, al fondo di tale impostazione, un’estrema fiducia nell’uomo, un ottimismo che delega all’intimità della coscienza di ognuno la promozione del benessere collettivo. A chi sospetti che nell’ipotesi liberale si nasconda il nucleo di un relativismo normativo si può
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rispondere che nell’ambito della sfera autonoma dell’agire, non limitata da leggi, vi è uno spazio per il confronto e la discussione sulle ragioni morali cui ci si ispira: un confronto peraltro non privo di riflessi sociali, data l’inclinazione umana a compiere atti considerati degni di approvazione morale.
Il problema che si pone il diritto consiste, quindi, propriamente nel chiarire se le questioni di bioetica vadano, totalmente o solo in parte, collocate in questa sfera di libertà morale individuale. Stuart Mill, benché ignaro dei dilemmi contemporanei, riteneva che «su se stesso, sulla sua mente e sul suo corpo, l’individuo è sovrano» 14.
Le fonti cui può attingere la giurisprudenza in sede normativa sono molte e complesse. Rispetto alla bioetica di fine vita appare utile l’adozione del parametro definito “relazionale”. Esso pone al centro della riflessione giuridica il soggetto nella sua dimensione sociale. Se, infatti, il modello individualistico concepisce l’uomo come essere chiuso in se stesso, il paradigma relazionale ritiene il gruppo sociale e la relazione elementi strutturanti l’identità umana e fondanti il suo agire. In questa prospettiva non si ritiene possano essere rivendicati diritti estranei a un contesto relazionale. È proprio la centralità della dimensione sociale a garantire un’effettiva uguaglianza nei rapporti interpersonali, in quanto le conseguenze prodotte dalle azioni saranno valutate secondo il loro impatto collettivo.
Per quanto concerne la specifica questione della fine della vita umana in ambito medico, risulta centrale la constatazione che lo spettro delle possibili decisioni si è ampliato nel tempo, rendendo più complessi non solo gli interventi tecnici, ma soprattutto i fondamenti morali sulla base dei quali operare concretamente. Stabilire confini netti tra scelte che conducono a un
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esito drammatico, come la morte, può apparire questione secondaria rispetto alla tragicità dell’evento in sé. Eppure i tanti modi in cui si può morire nelle società ad alto avanzamento tecnologico-scientifico ― a cominciare dal luogo stesso che costituisce lo scenario in cui avviene la morte: nelle corsie degli ospedali, negli hospice o nelle proprie case ― impongono una riflessione non più irrilevante circa i diversi luoghi e i differenti tempi della morte medicalizzata.
Molte di queste decisioni ― terapia del dolore, interruzione delle cure, astensione da trattamenti straordinari ― hanno rappresentato negli ultimi dieci anni protocolli comportamentali standard per gli operatori sanitari, senza aver acceso pubblici dibattiti o determinato interventi legislativi. Solo la rivendicazione del cosiddetto “diritto a morire”, ovvero l’eutanasia attiva e il suicidio assistito, hanno riscosso l’attenzione dei mass-media e dei legislatori. Negli ospedali l’eutanasia e il suicidio assistito non sono, invece, le uniche scelte difficili e sofferte: come abbiamo visto nella descrizione di diverse situazioni cliniche presentate nel primo capitolo, anche decidere di sospendere la ventilazione artificiale a un paziente in coma vegetativo o di nutrire con la sonda nasogastrica un bambino anencefalico, con scarse possibilità di sopravvivenza, rappresenta un dramma e una scelta dalle implicazioni medico-legali, giuridiche ed etiche. Tuttavia, poiché il diritto positivo si è espresso ufficialmente in merito all’ipotesi di abbreviare l’esistenza di malati terminali, secondo la formula dell’eutanasia attiva e volontaria e rispetto al suicidio medicalmente assistito, è di questa specifica legislazione che ci occuperemo.
In via preliminare è opportuno interrogarsi circa i presupposti etico-giuridici sottesi alle leggi che riconoscono il diritto a morire, in condizioni di malattia nella fase terminale. Il fulcro intorno al quale essi ruotano fa leva sul concetto di autonomia decisionale
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o autodeterminazione del soggetto. L’autodeterminazione implica che colui che è direttamente coinvolto nella scelta abbia il diritto prioritario di decidere ciò che è meglio per sé, senza appellarsi al giudizio di altri. L’autonomia rivendica il diritto di ogni persona a stabilire come orientare il corso della propria vita e quello della propria morte, nell’ottica di una fondamentale disponibilità del bene della vita. In questo orizzonte la vita non è concepita come un dono inviolabile, offerto dalla grazia trascendente, ma rappresenta l’affermazione di un percorso libero e individuale ― nella misura in cui vede rispettate le caratteristiche valoriali ed emozionali di un’esistenza sino al momento della malattia ―. La legittimità giuridica riconosciuta all’ipotesi eutanasica vorrebbe incarnare la realizzazione del principio di autodeterminazione del paziente.
La rivendicazione di questo nuovo valore si sviluppa a partire da una contestazione dell’originario principio etico che vede l’azione del medico orientata esclusivamente al bene del paziente. Il principio presuppone che il personale sanitario sia in grado di stabilire quale comportamento corrisponde al migliore interesse del paziente. Tale atteggiamento, definito paternalistico ― in quanto non lascia spazio a sfere di scelta autonome da parte del soggetto in cura ― sarebbe superato quando si afferma un’area di libertà, che può spingersi fino alla richiesta eutanasica.
In realtà, però, le leggi in materia di eutanasia e suicidio assistito, quando prevedono il coinvolgimento diretto dei medici nell’accertamento della validità e consistenza oggettiva della richiesta di morte, assegnano ancora alla medicina un ruolo decisionale definitivo rispetto alle scelte del paziente, o quanto meno paritetico. In questa prospettiva l’eutanasia, lungi dal rappresentare l’esercizio di un’estrema libertà decisionale, finisce per costituire una mistificazione del principio
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di autodeterminazione del soggetto, in quanto sottoposto al rispetto del valore di beneficità. I medici peraltro non si limitano ad accertare l’esistenza di condizioni oggettive di sofferenza del paziente, tali da giustificare gli interventi che pongono fine alla vita, ma garantiscono giuridicamente la formalizzazione della richiesta di morte.
Emerge così la possibilità che fra il principio di autonomia e quello di beneficità si stabilisca un conflitto, legato alla divergente definizione degli orizzonti teorici e culturali che caratterizzano ì due valori. La discordanza fra le due visioni si fa anche più esacerbata sul piano giuridico, in quanto il principio di autonomia è legalmente irrinunciabile. Negare l’autonomia del paziente equivarrebbe a negare a un cittadino il diritto di esprimere le proprie opinioni, e un’impostazione prevalentemente tesa a procurare il bene provocherebbe un’invasione nella sfera privata della persona, tale da configurare un’inaccettabile sostituzione dell’individualità della coscienza.
In conflitto con ciò sta il codice deontologico proprio della medicina, che impone al medico l’assunzione temporanea della responsabilità sulla salute e sulla vita di un altro essere umano. Si tratta di un imperativo morale difficilmente conciliabile con la plenipotenzialità decisionale del paziente, e con la consapevolezza medica dell’inevitabile ignoranza tecnica di questi.
Appare dal quadro appena delineato che non è proficuo semplificare il ventaglio delle posizioni circa l’assenso o il dissenso nei confronti di tali pratiche: le aree favorevoli al riconoscimento del diritto a morire e le aree non favorevoli non coincidono semplicemente con coloro che valutano moralmente lecita l’eutanasia e quanti, per converso, la ritengono immorale. Anche fra i suoi sostenitori si riscontrano notevoli differenze sul piano delle proposte legislative: le contrapposizioni in merito al tema delle scelte mediche
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di fine vita non si riconducono facilmente a mere opposizioni morali, religiose o ideologiche.
Consapevoli della complessità del problema, possiamo ora iniziare un viaggio all’interno dei principali sistemi legislativi che si sono proposti di regolamentare le decisioni di fine vita.
Il suicidio medicalmente assistito
nello Stato americano dell’Oregon
Nel 1991, Frank Roberts, senatore dello Stato americano dell’Oregon, prepara un testo di legge che prevede la possibilità per un malato terminale di essere aiutato a morire attraverso l’auto-somministrazione di sostanze letali, sotto il controllo e la supervisione del personale medico. Si tratta dunque di un progetto di legge che consente l’introduzione del suicidio assistito come tecnica medica di fine vita. Il 4 novembre del 1994 il Parlamento decide di sottoporre a referendum la proposta di legge del 1991. L’esito referendario è favorevole, sia pur di stretta misura. Nonostante ciò, data la delicatezza della materia, il Parlamento richiede una nuova consultazione elettorale per abrogarla. Il risultato di quella seconda votazione conferma nella sostanza l’orientamento ideologico precedente. Solo a partire dal 1997 il decreto che regolamenta il suicidio assistito viene incluso nel codice giuridico dell’Oregon, sotto il nome di Death with dignity act («Legge per la morte con dignità»). A questa legge hanno fatto ricorso, nel marzo del 1998, per la prima volta due pazienti terminali.
L’indagine sulla legge dell’Oregon non si presta a valutare quali pericoli sociali si profilerebbero con la legalizzazione dell’eutanasia. Il suicidio assistito, infatti, limita l’atto medico all’assistenza al morente, senza richiedere al personale stesso di esaminare i
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motivi che ne ispirano la richiesta. Tuttavia, nonostante il minore coinvolgimento morale e legale del personale medico, la legge dell’Oregon si preoccupa di specificare una serie di termini e condizioni in cui deve versare il paziente affinché i rischi di abuso, dettati da disinformazione e fraintendimento, vengano ridotti. Solo i pazienti cosiddetti “competenti”, ovvero coloro che i medici dichiarano in possesso delle facoltà mentali e cognitive, possono richiedere di essere aiutati a morire; viene richiesto il consenso informato, affinché la decisione del paziente possa figurare il più consapevole possibile; si rende obbligatoria da parte del medico la comunicazione della diagnosi e della prognosi della malattia, nonché la presentazione delle possibili alternative al suicidio, quali le cure palliative e la terapia del dolore.
Benché la legge preveda un obbligo al consenso informato sulle alternative esistenti al trattamento del suicidio, il personale non è vincolato a sperimentare con il malato tutti i possibili percorsi che precedono la scelta della morte. Con ciò non sembra che le leggi dell’Oregon in materia di suicidio assistito (e dell’Olanda in materia di eutanasia volontaria) prestino l’opportuna attenzione e il necessario impegno a favore del movimento dell'umanizzazione della morte, che prevede un sostegno spirituale, emotivo e psicologico per il paziente e la famiglia, oltre a un’assistenza medico-infermieristica per la sedazione del dolore.
Merito della legge americana è di aver stabilito una scadenza temporale per la definizione di malattia terminale: per «patologia incurabile ed irreversibile [si intende un processo] che, secondo il ragionevole giudizio del medico, determina il decesso [del paziente] entro sei mesi» 15. Tale termine, non consentendo ai
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pazienti incurabili la cui prognosi supera questa data di poter accedere alla morte assistita, garantisce almeno un contenimento numerico delle richieste.
La legislazione prevede, inoltre, misure molto restrittive per determinare quando le domande di suicidio assistito possono essere accettabili: il paziente deve formalizzare una prima richiesta orale e una successiva scritta, reiterando entrambe non oltre i quindici giorni dalle precedenti e soltanto dopo che il medico gli abbia offerto la possibilità di recedere dalla decisione. La legge dell’Oregon è peraltro molto chiara circa la definizione dei confini di liceità degli interventi medici: è vietato praticare l’eutanasia; il personale sanitario deve essere sì presente durante l’ingestione da parte del paziente del farmaco letale, ma nulla può indurlo a iniettare sostanze fatali (al contrario della legge olandese) pena la detenzione.
Ancora una volta, però, la giurisprudenza non riesce a tenere conto della complessità delle situazioni: secondo un documento pubblicato dall’organismo sanitario dell’Oregon 16, in 21 casi di suicidio assistito su 114, il personale medico è dovuto intervenire per l’insorgenza di complicanze nell’assunzione del farmaco. I problemi clinici riscontrati comprendevano il risveglio del paziente dal coma indotto, il rigetto delle pasticche e un intervallo più prolungato fra la somministrazione della sostanza, il coma e il decesso, rispetto a quello atteso e comunicato a paziente e familiari. In questi casi, statisticamente significativi, si è trattato di un fallimento della procedura di programma, procedura modificata e resa definitiva dall’intervento dei medici che hanno posto la dose farmacologica nel cavo orale dei pazienti. Quando ciò si verifica, risulta difficile stabilire il confine fra suicidio assistito ed eutanasia,
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sebbene una linea di demarcazione netta sia stata individuata a livello normativo.
La legge dell’Oregon ― come peraltro quella olandese ― esclude dalla procedura quei pazienti che, pur affetti da patologie terminali, soffrono anche di patologie psichiche, come depressione, psicosi e altri disturbi mentali. L’esclusione è formalmente dettata da motivazioni di carattere giuridico, in quanto tali soggetti non rientrerebbero nella definizione di pazienti “competenti”; in realtà si ritiene che la loro scelta non sia legata alla condizione di terminalità della patologia, ma alle sue implicazioni psico-emotive. Le leggi che consentono la morte assistita ne fondano, infatti, l'accettazione morale sul presupposto teorico che soltanto le indicibili sofferenze fisiche giustifichino il desiderio di porre termine alla vita. Benché si riconosca spesso che la volontà di morire attiene prioritariamente a un sentimento di degradazione del sé che il soggetto incurabile sperimenta, si ritiene che concedere la possibilità della morte assistita sia accettabile solo sulla base della sofferenza fisica, considerata ineliminabile dalle moderne tecniche di controllo del dolore. La sofferenza psichica, giudicata, per converso, arginabile e tollerabile attraverso il supporto offerto da équipe di psicologi e assistenti spirituali, non può costituire il movente primario della scelta eutanasica.
Se contro il dolore fisico l’impotenza medica può riconoscere la legittimità morale di una decisione drastica, l’esistenza di percorsi alternativi contro il dolore psichico impone la revisione e il differimento della scelta. In tal senso, la reiterata volontà di morte ― come richiesto dalla legge in Oregon ― non potrà che essere interpretata come carenza dell’assistenza medica palliativa. Compito della palliazione sarebbe sopperire al senso di solitudine e di impotenza sperimentato dai pazienti incurabili, offrire loro la possibilità di conferire un senso al dolore emotivo, accettare la condizione
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patologica e ridimensionare istanze suicidane legate solo indirettamente alla malattia.
Come amaramente testimoniano le seguenti percentuali, le motivazioni che i pazienti hanno addotto per richiedere la morte assistita consistono principalmente nella consapevolezza di essere un peso per la famiglia, nell’inaccettabilità di sentirsi privati della libertà di movimento e pensiero (in quanto storditi dai farmaci) e nella dipendenza dagli altri, forzata e umiliante. Tali motivazioni, lungi dall’essere circoscritte alla sfera meramente fisica del soggetto, sono legate alla perdita della propria percezione identitaria: nel 1999 il 26% dei pazienti morti secondo la legge dell’Oregon dichiarò, quale motivo fondante la scelta di morte, di sentirsi «burden on family, friends or caregivers» 17 («peso per familiari, amici e personale che fornisce assistenza»); nel 2000 una percentuale maggiore (il 63%) fornì questa come ragione principale. La perdita di indipendenza (57% dei casi) costituisce la giustificazione più forte per i pazienti olandesi, seguita (53%) dalla volontà di controllare le condizioni del proprio decesso. Le sindromi obiettivabili, legate a un riscontro medico ― quelle che dovrebbero rappresentare per la società la difesa più rilevante ai fini della scelta di morire ― sono percentualmente meno impellenti e giustificatrici rispetto a quelle di ordine psichico-emotivo: il dolore fisico indica una ragione importante solo nel 43% dei casi, l’astenia nel 31%, la dispnea nel 27%, l’incontinenza nel 19% e la nausea nell’8%.
Questi dati inducono a fare alcune considerazioni. Il tentativo di portare le sindromi di carattere fisico quali motivazioni fondanti la scelta del suicidio assume la funzione strumentale di garantirne una maggiore accettazione sociale. In effetti, la manifestazione del dolore e della sofferenza fisica, essendo empiricamente
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riscontrabile, concede al personale medico la possibilità di condividere più consapevolmente la scelta del paziente in qualità di testimone dell’insopportabilità della patologia. Il dolore psichico, al contrario, attiene alla sfera più intima dell’uomo e non si presta a obiettivazioni cliniche; limita perciò il medico nella facoltà di esprimere giudizi su basi tecniche, a garanzia della liceità e necessità della scelta eutanasica. Egli si trova così relegato in una posizione di marginalità rispetto alla decisione del paziente, contestualmente e paradossalmente, però, ingaggiato nell’esecuzione materiale del mandato di morte.
Il pionieristico caso dell'Olanda
Dal primo giugno del 1994 l’Olanda consente a quei medici che praticano l’eutanasia attiva su pazienti terminali, che ne facciano esplicita richiesta, di autodenunciarsi come rei di omicidio. La legge, infatti, ― almeno sino all’aggiornamento del 10 aprile 2001, che legalizza l’eutanasia volontaria ― considerava tale pratica un reato punibile, soggetto però a depenalizzazione se l’attuazione del mandato eutanasico avveniva secondo determinati parametri: richiesta volontaria e persistente del paziente, condizioni di terminalità della patologia e consultazione di un ulteriore parere medico che verificasse l’attendibilità delle due precedenti condizioni.
L’articolato legislativo aveva inteso puntare l’attenzione sui singoli casi, delegando alla magistratura la valutazione della condotta del medico coinvolto e, dunque, la necessità di procedere o meno penalmente nei suoi confronti. In tal senso la giurisprudenza olandese non garantiva al medico la non perseguibilità rispetto alla procedura di eutanasia, ma gli consentiva di argomentare la scelta di esecuzione secondo il principio di “forza maggiore”. L’autodenuncia del sanitario poteva
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essere accettata come difesa dall’accusa di omicidio, esattamente come le prove che la vita sia minacciata costituiscono un’arringa adeguata nel caso di omicidio per legittima difesa. Con questa procedura la legge del ’94 consentiva da un lato il mantenimento del valore deterrente del divieto di uccidere, in quanto ogni medico doveva procurarsi prove oggettive della necessità di porre termine alla vita di un paziente, mentre dall’altro assicurava, nella prassi quotidiana, una legittimità morale e legale dell’eutanasia.
Nella realtà clinica il principio di potenziale punibilità del personale medico non ha reso i sanitari più prudenti nelle decisioni di fine vita (solo in rari casi si è proceduto penalmente), né ha garantito un controllo pubblico e obiettivo sul numero e le tipologie di pazienti soppressi tramite eutanasia.
Una legge così concepita rappresentava una posizione di confine pericolosa, tra il riconoscimento etico e pratico della liceità dell’eutanasia e la sua condanna sul piano normativo. Tale posizione di confine ha reso ingestibile il fenomeno sul piano sociale, vista l’alta percentuale di decessi avvenuti più in virtù di scelte mediche che non per decorsi naturali delle patologie.
La peculiarità della situazione olandese consiste nel fatto che, già prima della legge del 1994, i medici praticavano regolarmente l’eutanasia volontaria. Lo Stato, consapevole di tali trattamenti, condusse a partire dal gennaio del ’90 uno studio nazionale sulle decisioni mediche di fine vita, noto come Remmelink’s report, dal nome del procuratore generale della Corte Suprema olandese che lo presiedeva. I dati di questa statistica, considerati da numerosi commentatori come preoccupanti, hanno fatto sì che si ripetesse lo stesso studio a distanza di cinque anni (noto come Van der Mass’s report): si intendeva verificare se, attraverso l’introduzione della nuova legge, il numero delle forme di uccisione intenzionale dei pazienti terminali
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fosse diminuito o aumentato. Risulta importante comparare le tabelle dei rapporti al fine di comprendere realmente la situazione olandese.
Per comprendere il risultato dei due rapporti è necessario spiegare anzitutto la metodologia di conduzione dello studio. Il lavoro condotto da tre giuristi e tre medici ha basato l’indagine su due fronti: in primo luogo sono stati inviati questionari contenenti 24 domande a 405 medici (sia generici che specialisti) tendenti a evidenziare quattro elementi: 1) cosa avesse praticato o non praticato il medico nei confronti di un paziente senza speranza; 2) quali fossero state le sue intenzioni nel farlo; 3) quali di quelle azioni era stata discussa preventivamente con il malato; 4) se il paziente fosse capace o meno di prendere decisioni. In secondo luogo si è fatta un’indagine tesa a verificare le cause di decesso su un campione di circa 7000 morti, avvenute di recente. Dalla convergenza delle varie statistiche sono emersi i risultati riportati nella seguente tabella:
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1990 |
1995 |
Eutanasia volontaria |
1,8% |
2,3% |
Eutanasia non volontaria |
0,8% |
0,7% |
Suicidio assistito |
0,3% |
0,4% |
Trattamento dì controllo del dolore |
17,5% |
16,9% |
Sospensione delle cure |
17,5% |
20,2% |
Totale decessi, legati a tecniche mediche di fine vita |
38,0% |
42,6% |
Prima di commentare i dati, è opportuno segnalare che la loro attendibilità non è molto elevata; di conseguenza, l’interpretazione dei risultati non è univoca.
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Sebbene, infatti, il Rapporto Remmelink sia stato ufficialmente pubblicato sull’autorevole rivista The Lancet, i suoi commentatori riportano valutazioni etiche e giuridiche rispetto a dati non rispondenti alla pubblicazione; non solo, ma lo stesso rapporto successivo di cinque anni non sembra riferirsi alla fonte divulgata dal giornale nella comparazione dei risultati con quelli pregressi. Inoltre, la caratteristica legislazione olandese, che prevede l’autodenuncia del medico nei casi di interruzione intenzionale della vita di un paziente, ha fatto sì che molti medici non dichiarassero il numero e le tipologie di trattamento eseguito su malati terminali, per timore di incorrere in sanzioni penali. La consapevolezza di errori insiti in ogni indagine statistica e la presenza di manipolazioni dei dati impone, dunque, una relativizzazione dei risultati e un’attenzione scrupolosa nella loro valutazione.
Risulta piuttosto definita la posizione della maggioranza dei medici olandesi: tanto l’eutanasia quanto il suicidio assistito sono considerati interventi sanitari alla stregua di altre tecniche di fine vita. Nonostante questa concettualizzazione morale e professionale, delle 9000 richieste annue di morte assistita, meno di un terzo (circa 2300) vengono accolte. Questo dato sembrerebbe garantire una ponderazione adeguata da parte del personale sanitario, rispetto alle domande che pervengono.
Per verificare, poi, la reale linea di demarcazione tra liceità etica dell’eutanasia e del suicidio assistito rispetto agli altri due possibili trattamenti (sospensione o non inizio delle cure e alleviamento del dolore con dosi sempre maggiori di oppiacei), è opportuno analizzare le intenzioni e gli obiettivi che i medici si sono posti nel praticarle. Tanto la sospensione dei trattamenti vitali, quanto il ricorso alla terapia del dolore rappresentano percentualmente (cfr. tabella) tecniche altamente utilizzate; in una metà dei casi di sospensione
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di cure il medico era consapevole che quella decisione avrebbe abbreviato la vita del paziente; nell’altra metà questo era l’obiettivo primario, un obiettivo concordato con il paziente solo nel 30% dei casi, mentre nella gran parte delle situazioni il malato non era più in grado di prendere decisioni. Nella casistica della terapia per il controllo del dolore il personale medico era pienamente consapevole che la somministrazione di massicce dosi di morfina potesse implicare come effetto secondario una grave depressione cardio-respiratoria e, dunque, determinare la morte del soggetto; ma, al contrario della sospensione delle cure, il decesso costituiva lo scopo del trattamento solo in una minoranza dei casi.
Sembra difficile demarcare la soglia fra morte intenzionale e morte derivata secondariamente da particolari trattamenti: i dati mostrano l’estrema difficoltà nel delineare il crinale di legittimità etica fra lasciar morire e uccidere, eutanasia passiva e attiva, omissioni consentite e atti illeciti. Un ulteriore elemento traspare dai dati sopra citati: sembrerebbe che la fonte d’argomentazione morale a favore dell’eutanasia ― il principio di autonomia del soggetto ― sia stata abbandonata in favore di un rinnovato e mistificato paternalismo medico. I risultati che danno vita a questa lettura dell’eutanasia, paradossale rispetto alle intenzioni iniziali, sono principalmente due: la discrepanza tra il numero delle richieste di eutanasia (circa 9000) e il numero di quelle concretamente effettuate (circa 2300); la percentuale di pratiche eutanasiche non volontarie (0,8%), esercitate cioè sui pazienti senza la loro esplicita richiesta.
Dal primo risultato emergerebbe che spetta al personale sanitario decidere sull’opportunità di procedere all’esecuzione della richiesta a partire dal riscontro oggettivo di alcune condizioni del malato; il secondo dato conferma ulteriormente che la decisione di praticare
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l’eutanasia dipende prevalentemente dalla presenza di tali sindromi obiettivabili, più che dall’esplicita domanda. La considerazione congiunta dei due dati porterebbe così a dedurre che il movente etico della pratica eutanasica si sia decentrato dal rispetto per l’autonomia decisionale del malato all’impegno medico per l’alleviamento e la liberazione dalla sofferenza oggettivamente riscontrabile. Quest’interpretazione dei risultati ha dato vita all’argomento definito dall’espressione inglese slippery slope (pendio scivoloso). Proprio in quanto la scelta del paziente viene subordinata nella sua applicazione al vaglio ultimo del medico, diviene prioritaria come criterio di scelta operativa la liberazione del malato dalla sofferenza fisica o psichica. Se sono i medici a decidere, in base a criteri di loro competenza, se e quando la richiesta di eutanasia sia legittima, sembra concretizzarsi la proposta paradossale di Christian Barnard. È noto che il cardiochirurgo sudafricano, dopo essere stato una vedette per i trapianti, aveva assunto una posizione pilota nella campagna a favore del diritto di scegliere la propria morte. In un congresso, tenutosi a Nizza nel 1984, che raggruppava i rappresentanti di 26 associazioni finalizzate a promuovere “la morte con dignità”, Barnard aveva dichiarato: «Non possiamo e non dobbiamo domandare al malato di scegliere il momento preciso della sua morte: sarebbe disumano. Sono i medici, e solo essi, che possono decidere quando è giunto per il malato il momento di morire. Perché sono i soli ad avere una formazione che permette loro di fare una diagnosi clinica esatta». Siamo nel pieno trionfo del paternalismo medico. Ciò implica che, se la richiesta del paziente e dunque il principio che la sostiene ― l’autodeterminazione ― vengono posti su un piano secondario, una logica stringente consente lo slittamento della legittimità dall’eutanasia volontaria a quella non volontaria. Se anche non si accettasse l’idea di un ineluttabile slittamento
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logico da una pratica all’altra, rimarrebbe in piedi la versione psico-sociologica dell’argomento: questa interpretazione del “pendio scivoloso” sottolinea l’inevitabile effetto di causalità psicologica che lentamente induce nella società una sorta di passiva accettazione di nuove pratiche eutanasiche. Diventa così legittima la preoccupazione che, quanto più la società si abitua all’idea che sia lecito porre fine alla vita di alcuni soggetti, tanto più si corrode il principio secondo cui la dignità personale è indipendente dalle condizioni oggettivamente precarie in cui un soggetto può versare. Ten Have e Reichlin, a commento dei rapporti Remmelink e Van der Mass 18 sostengono l’impossibilità di esercitare un controllo pubblico sull’eutanasia, una volta garantito il primo passo, ovvero il riconoscimento di quella volontaria: la richiesta del paziente non è empiricamente dirimente, in quanto la pratica si fonda esclusivamente sul principio del beneficio da procurare al paziente, valutato da una prospettiva medica.
La mistificazione delle ragioni che rendono legittima l’eutanasia preoccupa autorevoli esperti di bioetica, che denunciano l’assestarsi progressivo della società su di un crinale pericoloso che può condurre agli spettri dell’eugenetica. Tuttavia, a fronte dei sospetti e delle obiezioni mosse, si registrano posizioni che fondano il consenso all’eutanasia sui medesimi risultati olandesi, letti nondimeno in chiave opposta. Demetrio Neri contesta, infatti, l’argomento di Have e Reichlin partendo dal primo risultato: la discrepanza fra il numero delle richieste di morte e quelle effettivamente realizzate. Scrive in proposito che non comprende come tale statistica possa essere valutata negativamente; essa semmai testimonia «la prudenza e la cautela» 19 del personale medico olandese.
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Neri è consapevole che il dato della discrepanza, pur in sé positivo, rivela che l’autonomia decisionale del paziente non è il criterio centrale della scelta eutanasica. In tal senso, egli riconosce la fondatezza delle tesi di Have quando questi sostiene che la rivendicazione dell’autonomia, che costituiva la pietra angolare della tradizionale giustificazione dell’eutanasia, ha subito uno scacco empirico; tuttavia ― a suo avviso ― il principio di autodeterminazione non ha mai costituito l’unica sorgente di giustificazione morale. Il valore dell’autonomia è condizione certo necessaria, ma non sufficiente per decidere di mettere in atto l’eutanasia. Secondo Neri, il fraintendimento di bioeticisti come Reichlin e Have consisterebbe propriamente nell’aver considerato la richiesta di morte l’unica ― necessaria e sufficiente ― condizione per la sua attuazione. Riletto nella chiave interpretativa offerta da Neri, il dato della discrepanza numerica fra richieste di morte e decessi eutanasici appare effettivamente con temperare tanto l’esigenza del rispetto dell’autonomia, quanto quella dell’accertamento dell’esistenza di condizioni sufficienti per praticarla.
Ben più problematico risulta il dato relativo alle eutanasie non volontarie. Sarebbe un errore ― sempre secondo Neri ― «passare dalla considerazione che la richiesta non è da sola condizione sufficiente dell’eutanasia, alla conclusione che non è neppure necessaria» 20. Non esistono ragioni di logica stringente per passare dalla giustificazione dell’eutanasia volontaria a quella non volontaria. Esse costituiscono due tipologie di intervento che presentano una differenza dirimente: la richiesta o meno del paziente. Lo slittamento pericoloso assumerebbe consistenza solo se la dimensione paternalistica di alleviamento della sofferenza del malato divenisse l’unico e prioritario principio di giustificazione dell’eutanasia.
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D’altronde, leggi proibizioniste in tema di eutanasia e suicidio assistito non appaiono rassicurare maggiormente rispetto agli abusi che una medicina tecnologizzata e onnipotente, quale quella occidentale, può generare. L’indagine australiana, del 1997, permette un confronto diretto circa l’incidenza delle decisioni mediche di fine vita, tra un Paese dove l’eutanasia è consentita (Olanda) e un Paese dove è proibita (Australia). Se l’incidenza in Australia, tra il 1995 e il 1996, dell’eutanasia volontaria e del suicidio assistito era leggermente inferiore rispetto all’Olanda (1,8% e 2,3% rispettivamente), il tasso di interruzione volontaria della vita, mediante il rifiuto delle cure, era più elevato in Australia che in Olanda. Complessivamente, il 30% di tutti i decessi australiani è stato preceduto da una scelta medica tesa esplicitamente ad accelerare la morte del paziente; il dato olandese di paragone è del 16,6% 21.
Questi risultati mettono in dubbio due tesi: quella che in Olanda si stia scivolando dall’eutanasia volontaria a quella non volontaria e la tesi secondo cui che le leggi proibizioniste rappresentino un deterrente efficace per impedire al personale medico di porre termine alla vita dei malati, senza il loro consenso. Attraverso la sospensione delle cure o il loro rifiuto, il paziente può ugualmente morire prima del decorso naturale, in quanto la legge consente tali prassi. Si tratta anche in questi casi di interruzione della vita, ma in virtù di artifici retorici, tali comportamenti vengono considerati pienamente leciti.
Dopo aver sperimentato che giudicare reato l’eutanasia non costituisce un deterrente sufficiente contro abusi e che la potenziale punibilità non incentiva il medico ad autodenunciarsi, l’Olanda ha definitivamente
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approvato la legalizzazione dell’eutanasia il 10 aprile 2001. Questa nuova normativa lascia però perplessi. Nel testo è stato inserito un emendamento che concede la possibilità ad adolescenti di sedici anni di avanzare richiesta di morte, previo consenso parentale. Da un punto di vista giuridico ― non volendo tenere conto degli aspetti psicologici ― questi soggetti non possono essere identificati come pazienti “competenti” in quanto minori; ancor più, non sono in grado di fornire motivazioni pienamente informate e consapevoli tali da giustificare l’intervento eutanasico. A ciò si aggiunga che i malati terminali che richiedono, e ottengono, il trattamento eutanasico rappresentano, tra i giovani, casi eccezionali 22.
Se la concessione dell’eutanasia ad adolescenti rappresenta una distorsione di contenuto della legge, in quanto tale ampliamento non appare affatto necessario, l’impossibilità di obiezione di coscienza per il personale medico che si oppone ideologicamente all’eutanasia, risulta piuttosto un problema di fondazione teoretica. In questa formulazione legislativa il principio di laicità e autodeterminazione del soggetto a essa sotteso non viene pienamente applicato, se la posizione contraria alla legittimità dell’eutanasia non può esprimersi attraverso l’obiezione di coscienza da parte del medico. Questi, chiamato direttamente all’espletamento del mandato, si vede coinvolto a esercitare il diritto di libertà di un altro soggetto, senza poter vedere difeso il proprio.
Nonostante il riscontro di questi elementi che penalizzano l’articolato della legge, essa appare, comunque, sciogliere le contraddizioni della precedente elaborazione, con la quale si rendeva realmente pericoloso e incontrollabile il fenomeno.
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Il living will e le direttive anticipate
nel mondo anglosassone
La priorità di attenzione morale ormai fornita alla dimensione di autonomia del paziente, in contrapposizione alla delega paternalistica della salute al personale medico, ha consentito di elaborare negli ultimi anni, in particolare nei Paesi anglosassoni, una strategia concreta per rendere il paziente attore ultimo delle decisioni terapeutiche. La libertà di scelta del malato viene valorizzata, così da riconoscergli un suo centrale coinvolgimento e una fattiva collaborazione al progetto terapeutico. Ne consegue una diversa fisionomia e interpretazione della morte. Attraverso l’enfatizzazione del principio di autonomia, il soggetto morente è in grado di riappropriarsi del processo del morire. Questo diventa per lui una possibilità, tale da poter essere anticipata e vissuta come compimento dell’esperienza esistenziale.
Il progetto culturale di focalizzazione sulla figura del malato si è concretizzato nell’ipotesi delle cosiddette “direttive anticipate” per il trattamento terminale. Le direttive risultano un’applicazione ultima del principio di autonomia, in quanto consentono l’espressione anticipata di indicazioni comportamentali e tecniche per i medici, da utilizzare nel caso in cui il paziente non sia più nelle condizioni di poter manifestare le proprie volontà. Offrono, infatti, la possibilità ai pazienti definiti “non competenti” ― in quanto privi di attività cosciente o perché incapaci di intendere e volere sul piano delle funzioni cognitive più evolute ― di continuare a rimanere protagonisti dell’attività medica svolta nei loro confronti attraverso la redazione scritta di una dichiarazione di volontà. Tale dichiarazione ― definita propriamente living will o “testamento biologico” ― non esaurisce, comunque, l’orizzonte delle direttive anticipate. Queste includono anche la
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delega a soggetti terzi da parte del malato di prendere decisioni al proprio posto. Anche giudici o magistrati possono essere chiamati a garantire gli interessi del paziente, per ragioni di imparzialità e neutralità nella valutazione.
L’accoglienza delle direttive anticipate fra i bioeticisti anglosassoni è stata estremamente favorevole, in quanto sembrano risolvere molte questioni morali e mediche. In prima istanza le direttive anticipate assicurano una risposta alle inquietudini di coloro che vedono negli interventi eutanasici non volontari olandesi la mistificazione del principio di autodeterminazione del paziente, a detrimento della sua dignità di morente. Le direttive anticipate, infatti, se adottate in modo sistematico dai pazienti ancora coscienti, ma già affetti da patologie allo stadio terminale, non consentirebbero più al medico di stabilire, arbitrariamente o sulla base di inferenze illegittime, ciò che sarebbe bene o necessario praticare.
Questo ridimensionamento del ruolo decisionale medico viene accolto positivamente dagli stessi professionisti. 1 medici si sentono tutelati rispetto all’accusa di paternalismo ― che spesso si specifica nella denuncia di abusi terapeutici o accanimenti sulla vita del paziente ― se la decisione può essere condivisa dal paziente in un momento in cui è ancora in grado di farlo. Viene a ridimensionarsi così anche la concezione di una medicina ipertrofica, in grado di fronteggiare con esisti soddisfacenti (guarigione o sensibile miglioramento delle condizioni di salute) ogni potenziale situazione patologica: il testamento di vita, infatti, muovendo propriamente dalla consapevolezza che le tecniche terapeutiche possono fallire, fornisce disposizioni di intervento rispetto alle complicanze più gravi che si verificano.
Partendo da situazioni cliniche peculiari arrivate in giudizio, l’Inghilterra ha fornito disposizioni favorevoli
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circa l’utilizzo delle direttive anticipate, nella fattispecie dei living will. Si tratta di tre casi occorsi tra il 1992 e il 1993 (di cui il più tristemente famoso è quello relativo ad Anthony Bland) che non hanno indotto la legge a creare un decreto positivo in merito a temi così sfaccettati e complessi, ma ad allentare i pregiudizi nei confronti dei testamenti biologici e a interpretarli come strumento di residua capacità di autodeterminazione dei pazienti, ormai non più in grado di intendere e di volere. Nei casi in questione le sentenze hanno sancito il diritto per un paziente competente di rifiutare trattamenti salvavita, stabilendo contestualmente che tale diritto si estendeva al rifiuto espresso prima di cadere in stato di incoscienza.
Assodato il rispetto giuridico per le determinazioni dei pazienti circa il rifiuto consapevole delle terapie, il governo britannico ha prodotto nel 1997 un documento: «Making Decisions far Incompetent Adults», nel quale definisce la validità legale di una dichiarazione di volontà precedentemente espressa da un paziente ormai divenuto incompetente. Tale provvedimento, che decreta l’accettazione giuridica dei testamenti biologici, presenta una peculiarità inerente l’assetto giurisprudenziale tipico della cosiddetta Common Law. Per quanto, infatti, la legge sia generalmente favorevole all’applicazione prioritaria delle ultime volontà dei pazienti, rispetto alle scelte di altri soggetti coinvolti, essa non dispone di un articolato dettagliato in merito a tali questioni, poiché consapevole della necessità di dare risalto alle specificità dei diversi casi che le si presentano.
Il documento, infatti, conclude: «Data la divergenza d’opinione riscontrata in merito a questa complessa tematica e data la flessibilità inerente lo sviluppo del caso legale, il Governo ritiene che non sarebbe appropriato emanare una legge [specifica], fissando una posizione statutaria una volta per tutte. Il Governo
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è soddisfatto delle linee guida designate nel caso-legge [...]» 23.
Se la sentenza particolare inerente un singolo caso presenta forza superiore d’appello rispetto all’impianto generale (come nella Common Law), valendo come fonte e precedente legale per un analogo dibattimento, non si avverte il bisogno di una legge; in particolare se i temi da normare ― come le direttive anticipate ― non si prestano a facili categorizzazioni.
Il Canada, che pure fruisce del medesimo assetto giuridico britannico (appunto la Common Law), ha deciso, per converso, di pianificare nel dettaglio le scelte mediche di fine vita, attraverso una vera e propria legge. Il complesso pacchetto normativo, ratificato già nel 1992 e definitivamente entrato in vigore nel 1995, stabilisce l’assoluta plenipotenzialità decisionale del paziente, sia in stato di piena coscienza che in assenza delle facoltà mentali. La priorità assegnata alle volontà dei malati sottrae radicalmente ai professionisti sanitari il ruolo di attori terapeutici: i medici diventano meri esecutori tecnici di desideri e bisogni altrui, altamente definiti.
Il nucleo ideologico che soggiace a questa legge presenta inevitabili ripercussioni sulla deontologia propria della medicina. L’impianto paternalistico della deontologia medica è stato totalmente accantonato nei Paesi anglosassoni, mentre rimane appannaggio della classe professionale europea, in particolare di quella italiana. Il Giuramento d’Ippocrate, quale fonte dell’etica medica, ha nutrito e ispirato l’operato sanitario per secoli, trasformandosi progressivamente da protocollo deontologico ― imposto dal principio d’autorità ― a prassi comportamentale intimamente, razionalmente e autonomamente condivisa. Quando al centro della pratica medica viene posta la figura del paziente con
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i suoi bisogni, il conflitto non si situa al livello di un codice di antica scrittura, ma sul piano delle coscienze e degli assetti di valore espressi dalla tradizione degli atti quotidiani della medicina mediterranea. Invertire il modello professionale forgiato dalla tradizione, fondato sul rapporto paternalistico, equivale a sradicare il sentire individuale dell’intera classe medica. Questa chiave di lettura ci aiuta a comprendere la radicale diversità di ricezione del valore di autonomia, nei Paesi anglosassoni e in quelli dell’area mediterranea.
Le direttive anticipate non destano, comunque, scetticismo solo fra quei professionisti che guardano con sospetto al principio di autodeterminazione del paziente che le sostiene. Altrettanta sfiducia suscitano presso i loro fruitori, vale a dire i cittadini in qualità di pazienti. Uno studio americano del 1993 testimonia che solo il 21% dei malati affetti da patologie terminali aveva compilato un testamento di vita 24. Alcune indagini psicologiche dimostrano che i pazienti interpretano l’invito a discutere di direttive anticipate come insinuazione malcelata del fallimento del progetto terapeutico. È comprensibile che la riluttanza nel disporre in anticipo di indicazioni circa le fasi ultime della malattia sia strettamente correlata al rifiuto psichico dell’accettazione della propria mortalità. In tal senso le direttive, per essere realmente operative e per poter essere vissute dal malato in modo non conflittuale, devono essere inserite all’interno di un’alleanza fiduciaria tra medico e paziente. Spesso, invece, le dichiarazioni anticipate vengono a sostituire la relazione terapeutica che è anche relazione umanamente significativa, relegando la figura del medico a quella di mero esecutore delle ultime volontà, in una dinamica spersonalizzante e non priva di rischi per il
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paziente stesso, che si trova, nella solitudine della sofferenza e nella fisiologica incompetenza tecnica, a dover decidere del suo destino ultimo.
Molli medici hanno espresso il timore concreto che le indicazioni terapeutiche contenute nel testamento siano troppo generiche. Non è possibile ― sostengono ― fornire indicazioni esaurienti rispetto alla vasta gamma terapeutica a disposizione; né è realizzabile prospettare in linea teorica le numerose varianti di complicazioni patologiche che possono intervenire nel decorso dei morbi più gravi. Inoltre, data la celerità di innovazione nelle tecniche terapiche, si può verificare il caso che un testamento biologico venga sospeso nella sua capacità direttiva, in quanto si sono resi disponibili interventi più attuali e risolutivi in merito a una determinata situazione clinica.
I problemi individuati nelle direttive sono anche di carattere psicologico, non solo per ciò che esse rappresentano ― l’imminente confronto con la condizione di mortalità ―, ma per l’impossibilità di calarsi in una prospettiva di morte quando si è ancora in vita, benché ammalati. Le risposte comportamentali ed emotive di fronte alla sofferenza dettata da peculiari condizioni patologiche non sono prevedibili in modo definitivo; è probabile ― ad esempio ― che una grave menomazione fisica venga interpretata inizialmente dal paziente come detrimento dell’immagine integrata del sé, mentre, in un momento successivo, può rappresentare il puntello al quale ancorare la cieca volontà di vita. In quest’ottica, è apparso giuridicamente necessario che le direttive anticipate possano essere riviste in qualunque momento della vita del soggetto che le ha redatte. Proprio perché non sono esaustive dal punto di vista clinico, non possono rappresentare l’unica guida sulla quale basare gli interventi medici.
A fronte dei leciti dubbi verso i “testamenti biologici”, molti autori continuano a sostenerne la fondamentale
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validità quando si verificano alcune situazioni limite, quali la caduta in stato di coma persistente o l’eventualità della non rianimazione in certe condizioni. Anche qualora queste indicazioni vengano fornite, implicano da parte del paziente un tale livello di sofisticazione intellettuale e di competenza tecnica che rischiano di escludere da questo tipo di decisioni alcuni settori sociali e culturali. Uno studio sulla diffusione delle direttive anticipate tra la popolazione anziana degli Stati Uniti 25 dimostra come la qualità dell’istruzione e il contesto etnico caratterizzino la maggiore o minore fruizione della dichiarazione anticipata.
Si può profilare l’ipotesi che l’utilizzazione dei testamenti biologici non abbia l’unica funzione di estendere la portata dell’autodeterminazione dei pazienti, ma anche quella di fornire uno stratagemma per ridurre le spese dell’assistenza sanitaria in condizioni di vita disperate. Tra gli stessi sostenitori delle direttive non mancano delle aperture in questa direzione.
La commissione etica della Camera dei Lord, inglese, ha dichiarato che «da quando la medicina ha eliminato molte delle cause di mortalità, parti sempre più numerose della popolazione sopravvivono più a lungo [...]. Le implicazioni sociali di questi risultati sono enormi, poiché garantire cure ed assistenza adeguate a questo maggior numero di pazienti malati ed anziani è difficile e costoso» 26. Cantor ― fra i maggiori fautori delle direttive anticipate ― richiama l’argomento della loro utilità economica per ribadirne la positività 27. Queste impostazioni ideologiche testimoniano con quanta probabilità la difesa etica del rifiuto della terapia si possa convertire in una soluzione del problema
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dei costì delle prestazioni sanitarie. Il rischio maggiore è, quindi, la strumentalizzazione del valore di autodeterminazione del paziente, come fonte di giustificazione morale dell’anticipata pianificazione sanitaria.
Il dibattito giuridico
e le proposte legislative in Italia
Anche in Italia è esistito un dibattito giuridico sull’approvazione dell’eutanasia, un dibattito antico collocato nell’epoca della redazione del Codice penale Zanardelli, del 1889. Cinque anni prima, durante i lavori di preparazione del Codice, il giurista Enrico Ferri aveva sostenuto il diritto del cittadino a determinare il corso della propria vita e quello della propria morte, in modo autonomo e svincolato da qualsiasi legge e da qualunque imposizione ideologica statale o sociale, nella convinzione della piena e assoluta disponibilità della vita da parte dell’uomo. Aveva reso possibile l’accettazione giuridica dell’eutanasia in virtù dell’adesione al suo presupposto essenziale: «Pare a me, che il diritto alla vita sia rinunciabile o abdicabile, per parte di colui che ne è il soggetto, e che l’uomo, cioè, come ha diritto di vivere così abbia diritto di morire» 28.
Questa consapevolezza ideologica non venne recepita nel Codice e venne ripresentata solo nel 1928, dal giurista Giuseppe del Vecchio nel suo testo Morte benefica, nel quale si prevedeva che il nuovo Codice penale del 1930 includesse la seguente norma:
«Chiunque, mosso da motivi giuridici e sociali, dietro invito reiterato ed esplicito rivolto in presenza di testi, procura a un morente, diagnosticato da referto
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medico inguaribile, morte prematura, indolore e benefica, commette un fatto non costituente reato».
Si trattava di un articolo che legalizzava pienamente l’eutanasia volontaria, in quanto il giurista non riscontrava nell’atto nessun elemento che lo rendesse criminoso. La caratteristica dell’uccisione pietosa di mancare di violenza, di essere delegati dalla vittima a procedere nei suoi confronti, di possedere nelle intenzioni di chi la espleta un elevato valore morale e sociale (liberare dalla sofferenza), rende complessa la sua catalogazione giuridica come forma di omicidio.
La giurisprudenza attuale considera il movente soggettivo della pietà e le condizioni oggettive di sofferenza o irrecuperabilità a una normale vita di relazione del soggetto malato come attenuanti dell’entità penale del reato. Tali attenuanti ― previste dall’art. 62 del Codice penale vigente ― garantiscono un ridimensionamento della pena in virtù della consapevolezza che azioni come l’eutanasia, pur essendo criminose, possiedono nei loro moventi ispiratori alte istanze sociali e morali. Nonostante l’esistenza e la possibilità di appellarsi a queste forme di difesa giuridica per arginare l’entità dell’accusa di omicidio volontario, in caso di mandato eutanasico, i giuristi italiani si sono resi conto che, comunque, la pena da infliggere a un reo di eutanasia era sproporzionata rispetto alle ragioni che avevano indotto il medico a praticarla. A tal fine bisognava definire un’ipotesi specifica di reato che distinguesse l’uccisione pietosa dall’omicidio volontario. Si inserisce, così, nel Codice l’articolo 579, che definisce il reato di «omicidio del consenziente», tale per cui la caratteristica di essere un omicidio su richiesta della vittima attenua le responsabilità penali dell’ esecutore.
Quest’ipotesi di reato dovrebbe propriamente applicarsi ai casi di eutanasia, ma l’articolato della norma,
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nella descrizione e definizione di validità del consenso della vittima, sembra escludere esattamente le situazioni in cui si richiede l’eutanasia. Tra i casi in cui il consenso non può essere dichiarato accettabile ― facendo nuovamente ricadere il reato sotto la forma più comune di omicidio ― vi è quello espresso da una persona «che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcoliche o stupefacenti» 29. Secondo questi parametri il soggetto terminale che si trova affetto da patologia, depotenziato nelle proprie capacità cognitive per l’uso costante di farmaci e alterato nei processi psichici dalla condizione di generale sofferenza e degradazione della percezione identitaria, non potrebbe fornire un consenso valido, affinché l’atto rientri nella fattispecie giuridica di «omicidio del consenziente». Appare dunque paradossale che da una parte si voglia riconoscere giuridicamente la peculiarità dell’atto eutanasico, ridimensionandone il portato penale attraverso un’ipotesi ad hoc come quella dell’art. 579, e che dall’altra questa stessa norma escluda il caso dell’uccisione pietosa, per la mancanza di riconoscimento della validità del consenso da parte del soggetto ucciso.
La contraddittorietà della posizione giuridica rispetto agli atti eutanasici spiega il motivo per cui l’articolo 579 sia stato scarsamente applicato nella storia giudiziaria italiana, rendendo così inefficace l’obiettivo che ci si era posti nell’introdurlo. Il giurista Ferrando Mantovani ha dichiarato che il giudice continua a trovarsi di fronte a un grave dilemma quando deve decidere la punizione per un reo di eutanasia; il dilemma consiste:
«[nell’] infliggere una pena che, almeno rispetto a certe situazioni, la coscienza propria e quella sociale
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considerano esorbitante ed iniqua; oppure di disapplicare ― attraverso autentici espedienti (ignorando aggravanti, creando situazioni attenuanti, immaginando infermità totali o parziali di mente o difetti di colpevolezza) ― in parte la legge; o peggio ancora, di pervenire, come è accaduto, ad assoluzioni che non possono in alcun modo giustificarsi» 30.
L’assenza di una chiara e definitiva regolamentazione italiana in materia è dettata dalla necessità pressoché unanime di mantenere fermo il carattere antigiuridico dell’eutanasia. L’idea che si possa giungere a una sua legalizzazione viene rifiutata sulla base di due argomenti fondamentali: l’indisponibilità del diritto alla vita e la moralità intrinseca del diritto. La prima obiezione si fonda sull’impossibilità di riconoscere che il diritto che protegge il bene della vita sia un diritto di cui la persona può disporre. Tale disponibilità, che nel caso dell’eutanasia coinvolge un secondo soggetto, conferirebbe a questi la facoltà di disporre della vita altrui. Se l’eutanasia fosse legalizzata, l’estensione del potere sulla vita di un altro sovvertirebbe l’ordinamento giuridico italiano, fondato sul riconoscimento dell’esistenza di un diritto alla vita dal contenuto esclusivamente negativo, indisponibile a sé e agli altri, come sancisce l’articolo 2 della Costituzione repubblicana.
A commento del principio giuridico di indisponibilità del diritto alla vita, si può obiettare che esistono situazioni comuni ed eccezionali in cui tale diritto diviene disponibile: tanto pratiche finalizzate a scopi altamente sociali ― come la prevenzione del crimine e la difesa dei cittadini o la difesa della nazione ― quanto pratiche più futili, come la partecipazione a sport estremi pericolosi, prevedono la rinuncia alla tutela del diritto
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alla vita. Tale rinuncia viene considerata accettabile, in virtù della sua connessione con costumi entrati nella tradizione morale della società. Questi esempi dimostrano che nel patto di convivenza, regolato dal principio di indisponibilità della vita umana, sono previste circostanze in cui tale principio viene meno.
Il concetto di disponibilità di un bene non può essere fissato in modo assoluto e inderogabile, in quanto è soggetto ai mutamenti e alle evoluzioni negli usi e costumi sociali. Non può perciò divenire l’argomento esclusivo in base al quale dichiarare l’illegittimità morale e l’antigiuridicità intrinseca dell’eutanasia. Inoltre la volontà della maggioranza dei giuristi di articolare il principio della laicità dello Stato, concedendo statuto giuridico a una serie di diritti individuali, in nome del rispetto della libertà di opinione e scelta dei soggetti, non si concilia con la pretesa assolutezza della norma d’indisponibilità della vita. Indubbiamente, il sistema delle fonti giuridiche in materia, determinato prioritariamente dalla Costituzione italiana ― salvaguardia della vita, dell’integrità fisica e della salute, artt. 2 e 32 Cost. ―, risente nella formulazione dell’impianto confessionale dei suoi redattori.
L’altra ragione che impone una negazione a-priori della possibilità di legalizzare l’eutanasia si specifica nelle trame della moralità propria del diritto, una moralità che, diversamente da quella confessionale o deontologica, fonda la propria contrarietà giuridica al riconoscimento del mandato eutanasico, sulla base del fatto che questo creerebbe una cesura nel principio di pariteticità di rapporto tra i due soggetti coinvolti (medico e paziente). Se, infatti, il diritto è chiamato a garantire la relazione tra due soggetti considerati di pari dignità, non può ammettere situazioni nelle quali tale parità di relazione venga meno, come sembra essere il caso dell’eutanasia, quando il paziente conferisce al medico il mandato di porre fine alla sua vita.
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Dobbiamo considerare due situazioni possibili: o il mandato è sindacabile da parte dell’operatore (per cui il malato non può essere garantito nell’espressione della propria esigenza), o il mandato non è sindacabile e, pertanto, il medico è costretto a soggiacere alle determinazioni di un altro soggetto. Nel primo caso il tipo di relazione che sul piano giuridico si verrebbe a creare implicherebbe una prevaricazione del medico sul malato, tale per cui l’operatore si ergerebbe ad arbitro della sua vita; nella dinamica inversa, invece, la prevaricazione si eserciterebbe sul medico, la cui coscienza verrebbe posta a servizio dei desideri di un altro. In entrambe le situazioni il diritto non potrebbe tutelare nessuna delle persone che vengono a trovarsi in una situazione di conflitto. Si configura così la destrutturazione della relazione intersoggettiva e una reificazione di uno dei termini della relazione 31.
Si possono opporre a questa concettualizzazione della relazione eutanasica due situazioni: in primo luogo si potrebbe ammettere l’obiezione di coscienza per il medico, escludendo così la possibilità che il paziente diventi arbitro della sua coscienza; in secondo luogo è prevedibile una situazione in cui sia il soggetto richiedente sia l’operatore concordino sulla decisione e, dunque, si trovino sul binario della relazione paritetica. Anche rispetto a questa seconda evenienza vengono, però, mosse da alcuni giuristi delle obiezioni:
«Chi ha tanta serena lucidità da progettare la propria morte per mano altrui, dovrebbe pur averla per progettarla di mano propria (al limite attraverso il rifiuto delle terapie). E se il paziente rifiuta l’idea del suicidio perché non ne ha sufficiente coraggio, non significa
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ciò forse che viene meno proprio uno degli elementi tipici dell’ipotesi sopra formulata, quello della volontà forte e serena del paziente?» 32
Ma bisogna riconoscere che esistono situazioni in cui il rifiuto delle terapie non porta alla morte il soggetto, o anche se ciò accadesse, il dolore e la lentezza del decorso della malattia costituirebbero un’agonia non moralmente migliore dell’eutanasia. Inoltre, non è detto che chi richieda l’eutanasia sia anche concretamente in grado di porre fine alla propria vita.
Dal quadro appena delineato emerge la difficoltà per un tema delicato come le decisioni mediche di fine vita di far convergere le competenze e le specificità dei vari settori coinvolti: se il diritto e la medicina rivendicano l’esigenza di attenersi ognuno a codici etici autonomi, elaborati nell’elitarietà degli ordini di appartenenza, le scelte dei singoli si troveranno sempre più a essere costrette in un raggio di azione concertato da altri, che non consentono una dialettica esterna al codice convenzionale precostituito. Affinché la bioetica possa avere un reale impatto informativo sul piano culturale, e formativo nell’orizzonte etico, deve garantire la possibilità di una maggiore articolazione interna alle discipline coinvolte.
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Capitolo III
Modelli etici di riferimento
L’analisi delle decisioni mediche di fine vita si è finora articolata sul doppio binario della deontologia professionale, dunque della moralità intrinseca all’operato sanitario e della legge positiva. Ma oltre alle forme di regolamentazione che si danno i professionisti e quelle che lo Stato impone a tutti i cittadini, esistono regole di natura morale che sorgono da un’interrogazione intorno al bene e al male. L’etica di cui tratteremo è di matrice filosofica, in quanto impegna energie intellettuali e categorie mentali piuttosto diverse da quelle che normalmente vengono impiegate nell’indagine morale quotidiana. Anche il cosiddetto “non esperto morale”, ovvero colui che non ha assidua frequentazione dei testi in tema di teorie etiche, possiede una forma di ragionamento morale. Ogni azione è, infatti, portatrice di un valore; l’operare umano veicola sensi e significati, è cioè culturalmente orientato e l’orizzonte morale individua uno dei possibili modi di conferimento di valore al mondo.
Il mondo dell’etica, dell’agire pratico, rappresenta quello specifico universo culturale all’interno del quale ci si interroga sulla bontà o maleficità dell’uomo, dei suoi comportamenti e delle conseguenze che ne derivano, direttamente o indirettamente. La natura propriamente sociale dell’animale umano gli impone di
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ripensare se stesso e il suo agire alla luce dell'intersoggettività, della composizione gruppale cui appartiene: l’etica sorge come istanza sociale, non tanto come una scoperta o invenzione dell’individuo per la propria condotta. L’etica filosofica, pur muovendo dalla stessa origine, si è affrancata dalla dimensione relazionale ― storica e sociale ― per concentrarsi sul concetto di uomo morale in sé, costruendo intorno a esso differenti teorie che, anche prescindendo dalla loro praticabilità empirica e realizzabilità storica, fornissero paradigmi e principi, nonché ragioni coerenti per la loro scelta.
Chiediamo al lettore lo sforzo di seguirci nella presentazione dei vari modelli normativi in etica, tentando di scoprire se e come possano essere utilizzati quali strutture argomentative per sostenere le sfide poste dagli avanzamenti biotecnologici e medici intorno al tema della fine del viaggio umano. Cercheremo, da parte nostra, di rendere meno arduo questo compito semplificando il più possibile la descrizione delle diverse formulazioni etiche e riducendo lo spettro delle varianti interne alle singole teorie.
Costruire un’etica applicata alla medicina implica riproporre l’antica disputa tra un’etica universalistica, che pretende norme assolute di riferimento, e un’etica relativistica che privilegia l’analisi contingente dei casi morali, risolvendoli attraverso il computo delle conseguenze delle decisioni da prendere in un determinato contesto.
Il criterio che si assume per formulare giudizi morali costituisce il fondamento delle distinzioni tra le divergenti teorie etiche.
Secondo la centralità attribuita all’analisi delle intenzioni dei soggetti agenti, al loro carattere o attitudini, oppure alla valutazione delle conseguenze prodotte dalle loro azioni, avremo due impalcature teoriche, il cui orientamento si definisce rispettivamente come “deontologico” e “teleologico”.
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La prospettiva deontologista
L’etimologia del termine “deontologismo” offre una sua parziale comprensione, in quanto fa riferimento alla cosiddetta etica del dovere (dal greco déon). Letica del dovere sottomette ogni singola azione al rispetto di una o più norme stabilite. L’interrogazione etica centrale verte sulla domanda: «Che cosa si deve fare per rendere lecita un’azione?»; conseguentemente: «Quale soggetto morale può essere definito buono?».
Secondo il deontologismo i doveri si organizzano gerarchicamente in senso ascendente, dal dovere meno imperioso a quello più vincolante, in modo da disegnare un’ideale di agente etico. In tal senso un soggetto potrà essere definito “buono” nella misura in cui rispetta con la propria azione gli imperativi morali predefiniti. Poiché, però, l’adesione alle norme etiche può essere dettata da intenzionalità diverse ― un soggetto può cercare la propria utilità o l’appagamento di un suo bisogno ― per un corretto giudizio morale sarà necessario indagare le motivazioni interne del soggetto, il suo carattere e le sue inclinazioni. Il fatto stesso di aver disatteso o onorato la legge morale attraverso il proprio comportamento e di averla rispettata con una motivazione interna e autonoma, libera da coazioni esterne, costituisce dunque il fondamento di un’analisi morale deontologista. Le teorie etiche deontologiste pongono al centro della moralità il rispetto del dovere, più che gli esiti dell’azione compiuta.
Il ragionamento etico di impianto deontologista che si tende ad applicare alla casistica bioetica è prevalentemente di matrice teologica: i doveri e i principi, individuati spesso nella forma dei comandamenti cristiani, ad esempio “non uccidere”, sono dotati di autoevidenza. Si presume che non necessitino di dimostrazioni razionali, poiché derivanti da un ordine trascendente e immutabile e corrispondenti all’individuazione
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di concetti assoluti di bene e buono. La natura storico-culturale dei valori individuali e sociali viene esclusa dal deontologismo teologico, in forza di una loro fondazione metafìsica, collocata in un tempo e uno spazio ultraterreni. Gli imperativi morali non sono mai revocabili e rivedibili dal soggetto agente, pena il detrimento della sua integrità morale.
Esistono anche versioni deontologiste non teologiche, quali quelle definite “contrattualistiche”. Nel contrattualismo deontologico i principi, per quanto inviolabili, non rappresentano la rivelazione di dettami assoluti: individuano più modestamente regole funzionali alla convivenza civile. Il rispetto delle norme equivale a tutelare il “contratto” sociale, al fine di evitare il ritorno allo stato di natura, incompatibile con la pacifica esistenza comunitaria. I precetti obbliganti l’agente morale vengono stabiliti convenzionalmente sulla base di quanto condiviso dalla maggioranza dei soggetti.
Comunque vogliamo fondare le teorie etiche riconducibili al deontologismo ― in modo metafisico o con l’ipotesi di un contratto tra i soggetti coinvolti ― rimane l’assunzione di fondo per la quale si danno atti intrinsecamente leciti e atti intrinsecamente illeciti. Le conseguenze empiriche non risultano rilevanti ai fini di una loro valutazione etica.
L’etica deontologica fonda, dunque, un’etica universalistica: l’elaborazione di pochi principi, univoci e ordinati gerarchicamente, dovrebbe consentire una loro universale applicabilità, indipendentemente dal problema specifico cui sono rivolti. Il successo storico del deontologismo ― anche in bioetica ― si giustifica sulla base di un’esigenza razionale comune: uniformare i comportamenti dei singoli, al duplice scopo di valutarli con griglie concettuali immutabili nel tempo e di garantire una maggiore coesione culturale tra società differenti.
Il riferimento ai principi che caratterizza il deontologismo garantisce la sua versatilità nel risolvere i singoli
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dilemmi morali: qualunque sia il nuovo problema che il progresso biomedico fa sorgere, sono disponibili pochi e chiari principi per inquadrarlo. Il tipo di ragionamento sotteso all’etica universalistica è deduttivistico: dal criterio morale generale si procede logicamente a risolvere il caso particolare. I principi stabiliti, dovendo assolvere alla funzione di guida etica generale, vengono espressi sotto forma di norme astratte e formali, prive di contenuti prescrittivi concreti. “Non uccidere” è il principio invocato nelle più diverse casistiche cliniche, che abbiamo visto costituire le decisioni mediche di fine vita. L’efficacia del riferimento ai principi in ambito bioetico risulta, però, minacciata dalla scarsa comprensibilità di ciò che concretamente, in una specifica situazione, gli operatori sanitari sono chiamati a espletare per tenere un comportamento moralmente lecito.
Il limite di questo impianto non si colloca peraltro solo a livello di fondazione generale, ma si specifica ulteriormente quando pretende di rinnovare l’etica medica. La strutturazione gerarchica dei doveri che guidano i comportamenti non impedisce che insorgano tra loro conflitti. Può accadere che due norme giacciano sullo stesso piano di rilevanza morale, senza che il deontologismo sappia fornire ulteriori criteri morali per dirimerne l’opposizione. Questa dinamica conflittuale caratterizza di frequente il dibattito bioetico quando si pongono a confronto i principi di autodeterminazione del paziente e beneficità. Tuttavia, nonostante le obiezioni sostanziali rivolte all’etica deontologista, rimane il paradigma teorico maggiormente utilizzato in bioetica. Il fatto stesso che l’etica medica contemporanea sia spesso dominata dal confronto- scontro tra due principi ― autonomia e beneficità ― implica l’adesione all’etica del dovere.
La complessità del panorama offerto suscita ulteriori riflessioni quando sondiamo le origini storiche di
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questi due valori: la loro genesi e il loro sviluppo concettuale si situa, infatti, sul terreno del teleologismo, l’approccio antitetico al deontologismo. Se cioè la forma in cui sono espresse l’autonomia e la beneficità ― in qualità di doveri inderogabili ― li fa appartenere all’etica principialista, i loro contenuti morali li ancorano all’utilitarismo, nel quale lo sguardo non è tanto rivolto ai principi, quanto piuttosto al fine e alle conseguenze, come è proprio delle teorie a orientamento teleologico. Benché si tenda a opporre il paradigma deontologico a quello teleologico, per semplificarne l’esposizione, è altresì vero che nel corso della loro complessa elaborazione elementi specifici dell’uno sono confluiti nell’altro, non consentendo definizioni univoche nel tempo. Basti pensare che Jeremy Bentham, il fondatore della riflessione utilitaristica, intitolò il suo più importante trattato morale: Deontologia o scienza della moralità.
L’impianto teleologico:
utilitarismo e liberalismo
Le teorie a orientamento teleologico raccolgono numerose correnti: egoismo etico, edonismo, utilitarismo. Le unifica il fatto di ritenere che il concetto di bene non possa essere stabilito universalmente, e che pertanto debba trarre il suo contenuto dalle cosiddette “teorie del valore non morale”. I nostri giudizi si rivolgono a oggetti diversi per i quali si utilizza sempre il termine “buono”, sebbene con significati differenti: quando mangiamo un cibo gustoso lo definiamo buono in un senso diverso da quello che attribuiremmo a un uomo impegnato a combattere la fame nel mondo.
Il teleologismo sostiene che il significato della “bontà” in etica non sia di una particolare natura, ma che vada semplicemente mutuato dalle attività di giudizio esterne alla morale. Ciò accade, ad esempio, quando il bene
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è identificato con il piacere; il piacere non è un valore prettamente morale, eppure fonda la teoria etica dell’edonismo, una peculiare versione dell’utilitarismo. In sostanza, il teleologismo nega che la condotta umana possa essere regolata da doveri assoluti, poiché ritiene fondamentale la dimensione storica e culturale tanto dei valori morali quanto dei modi in cui il bene etico si traduce.
La forma più conosciuta e adottata di teleologismo è l’utilitarismo. Pur articolandosi in diverse teorie, tiene fermo un punto: un’azione per essere definita buona deve produrre un beneficio. Come ogni forma di teleologismo ― dal greco télos, che significa “fine” ― anche l’utilitarismo circoscrive il giudizio morale di un’azione alla valutazione delle sue conseguenze. È, infatti, un’osservazione di senso comune che non si può istituire un rapporto di equivalenza fra bontà dell’agente morale e bontà dell’azione, o l’inverso; ne consegue che l’unico parametro per discernere la qualità etica dei comportamenti è fornito dalla considerazione degli effetti che concretamente producono. In questo approccio, l’intenzione e il carattere del soggetto ― dimensioni fondamentali per l’analisi etica deontologista ― non vengono presi in esame perché ritenuti insondabili, data la scarsa possibilità di penetrazione reale nell’interiorità umana. Per quanto un’intenzione sia buona, ciò non basta a garantire la bontà dell’azione prodotta; esattamente come un’intenzione negativa non è detto che produca un esito nefasto. Se allora le motivazioni interne che portano a compiere una certa azione non sono facilmente oggettivabili ― conclude il filosofo morale che argomenta in senso teleologista ― lo saranno le sue conseguenze: l’azione sarà considerata morale solo se la sua conseguenza sarà buona, non un effetto semplicemente inteso o voluto, ma quello concretamente prodotto.
Inevitabilmente, anche per valutare la qualità delle conseguenze, è necessario possedere un criterio per
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stabilire cosa sia il bene e cosa sia il male. Secondo l’utilitarismo, tutte quelle azioni che all’interno di una comunità comportano una riduzione del danno e una promozione quantitativamente superiore di bene sono buone, vanno cioè promosse moralmente dalla collettività. Anche l’utilitarismo, come la teoria deontologica, stabilisce regole e principi di condotta comuni; ma la differenza sostanziale è che tali principi sono derivati da un calcolo di utilità: quanto più certi comportamenti favoriscono la diffusione del benessere sociale, tanto più essi dovranno diventare norme morali, valide per ognuno. Se le norme deontologiche sono date a priori, partendo dal presupposto di aver individuato ciò che universalmente costituisce il bene morale, le norme utilitaristiche vengono elaborate a posteriori. A seconda dell’effetto che dimostreranno di produrre, una volta introdotte nella collettività, verranno incoraggiate o accantonate.
L’istanza centrale della prospettiva utilitaristica è quella di sganciare l’uomo e la sua condotta dalle regole imposte per principio d’autorità, puntando piuttosto sul senso di autonomia e responsabilità individuale. Se le norme possono essere sempre rivedibili nella dimensione privata della coscienza e sono create all’interno di uno spazio di concertazione con la collettività (dimensione sociale), i soggetti devono compiere lo sforzo di indagare se stessi, di riappropriarsi dei propri bisogni, manifestandoli attraverso valori soggettivi. Ciò che conta, quindi, non è se siano compatibili con un ordine prestabilito dallo Stato, da Dio o dalla società, ma che siano in armonia con la propria interiorità, così da permettere che le persone possano esprimersi e realizzarsi.
Il valore dell’autonomia del soggetto, che si specifica nell’insindacabile diritto dell’individuo di decidere in merito alla propria vita e alla propria morte, costituisce il fondamento delle teorie teleologiche. In
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questa prospettiva la collettività è intesa come momento di incontro e confronto fra esigenze soggettive inevitabilmente differenti, che si uniscono in vista del perseguimento di obiettivi concordati. Ne discende che la funzione dello Stato consisterà nel garantire il raggiungimento di quegli obiettivi, limitandosi a favorire l’integrazione e la compatibilità tra bisogni eterogenei, senza imporre alcuna determinata e dogmatica visione del mondo. Il liberalismo insito nell’approccio utilitaristico caratterizza la struttura sociale dell’Occidente, nella quale non ha diritto di cittadinanza la pretesa di stabilire dei valori di riferimento assoluti, da cui far derivare le scelte pubbliche e private.
L’impostazione teorica del liberalismo, quando è adottata dall’etica medica, assume la forma del principio di autonomia. Prevede che la medicina stessa si limiti a stabilire le condizioni formali che garantiscono l’esercizio delle libertà individuali, riconoscendo a ognuna pari dignità e diritto. Quando si applica alle scelte mediche di fine vita, quest’impostazione etica richiede che lo Stato non venga considerato proprietario della vita dei suoi cittadini, né impegnato a tutelare il valore della vita al di sopra dell’autorità morale della persona coinvolta, ma che divenga esclusivamente garante del libero esercizio della titolarità etica in fatto di vita e di morte. L’«utilitarismo libertario» ― come viene propriamente definito ― ritiene di potersi chiamare fuori dai conflitti che sorgono tra le diverse impostazioni morali, in quanto pretende di accedere a un punto di vista imparziale nella concezione dell’uomo e della vita. Se, infatti, ognuno può ritagliarsi un’area di libertà in cui rivendicare diritti personali, la moralità diviene un’elaborazione soggettiva. Rispetto alle scelte mediche di fine vita, l’utilitarismo libertario non può che favorire le scelte dei pazienti, quindi anche l’eutanasia volontaria, il rifiuto delle cure e le dichiarazioni anticipate di volontà: sono scelte moralmente
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approvabili, perché scaturiscono dalla dimensione interiore dell’uomo, perciò insindacabili.
In realtà, la neutralità di questa visione etica può essere messa in discussione, in quanto ogni concezione morale si nutre di un base antropologica ben precisa. L’antropologia sottostante alla visione liberale considera gli individui come singoli, in sé definiti, a prescindere da ogni rapporto sociale; la relazione con gli altri risulta una dimensione accessoria. Il criterio liberale soffre di quei limiti già enucleati nella discussione circa la sua applicabilità nell’ambito bio-giuridico, in quanto l’immagine dell’uomo concepito unicamente come singolo, oltre a non rispondere a una reale descrizione della condizione umana, non può pretendere di rappresentare una posizione moralmente neutra e imparziale.
Come il principio di autodeterminazione, anche quello di beneficità trae origine dall’utilitarismo, ma impegna una nozione di utilità morale differente dal liberalismo. Il concetto stesso di beneficità (bene del paziente) come criterio per valutare l’azione medica implica il tentativo di stabilire ciò che è bene fare per altri; perciò nell’etica medica la valutazione delle azioni si eserciterà a partire dalla elaborazione di determinati giudizi sulla qualità della vita. Se, infatti, non possiedo un’idea intorno al tipo di esistenza che conduce un malato in coma persistente, o un paziente oncologico, difficilmente potrò individuare quale sarà il suo bene. L’utilitarismo etico sotteso alla beneficità si specifica, dunque, in regole che tendono a massimizzare le preferenze morali condivise da una maggioranza di soggetti. In tal senso, la beneficità non è intesa come espressione di ciò che ognuno liberamente crede essere il proprio insindacabile bene, come vuole l’ottica liberale: la caratterizzazione di questi giudizi non viene lasciata all’intimità della coscienza individuale, ma si pretende obiettiva, basata su parametri che si suppongono socialmente
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verificabili. Anche la beneficità adotta, dunque, una certa visione antropologica che giustifica o censura certi atti pubblici, assumendo come criteri di riferimento concezioni del bene collettivamente definite. Appare evidente che formulare sentenze sulla qualità della vita di una persona è del tutto pertinente quando ci si affidi al soggetto che quella qualità di vita dovrà realmente sperimentare; risulta invece altamente problematico e rischioso fornire valutazioni universalmente condivisibili. La dialettica tra i due valori etici ― autonomia e beneficità ― può essere così sintetizzata: mentre l’«utilitarismo della preferenza» (che costituisce il nucleo teorico del principio di beneficità), stabilisce in concreto, sulla base delle preferenze morali condivise da un gruppo, che cosa sia bene o dannoso fare, l’utilitarismo libertario rimuove definitivamente la dimensione del buono, limitandosi a ritenere giuste quelle scelte dei soggetti che non ledano l’autonomia di altri.
I concetti di beneficence e di autonomia così intesi presentano però due problemi: l’utilitarismo della preferenza, basandosi su una razionalità quantitativa di tipo economico, che ne preclude il vaglio qualitativo, rischia di minare la libertà individuale; l’utilitarismo libertario, dal canto suo, ponendo l’accento sull’espressione della singola preferenza morale, rischia di ledere il valore dell’utilità collettiva, fondamentale per la convivenza sociale. Il prezzo della rivendicazione dell’autonomia consiste, allora, nella rimozione dell’intera questione del bene morale e «nell’affermazione della priorità del giusto sul buono, dei diritti sui beni» 33. La scelta di adottare la beneficità, d’altra parte, esclude la possibilità di generare consenso al di fuori di comunità che condividono quella determinata visione morale. In effetti, se l’autonomia, intesa come
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non ingerenza nelle scelte private dei soggetti, non esaurisce il contenuto della morale, il principio di beneficità giunge a supplire tale privazione attraverso il conferimento di contenuti morali concreti.
Se, d’altronde, applichiamo la sola prospettiva della beneficità, imponendo al soggetto scelte coerenti con ciò che altri hanno stabilito essere il suo bene, arriviamo a negare il principio di autonomia. In tal senso, Tristam Engelhardt - uno dei maggiori esponenti della bioetica laica in America ― sostiene che «più gli individui sono moralmente stranieri e più gli atti di beneficenza diventano supererogatori piuttosto che erogatori» 34. Ciò significa che la definizione del bene morale, previsto dal principio del bene del paziente, limita la sua applicazione alla comunità che condivide quel peculiare senso etico; il principio dell’autonomia, al contrario, costituendo la condizione di possibilità dell’esercizio della libertà individuale, garantisce la fondazione di un linguaggio etico minimo.
La maggiore forza etica del principio che obbliga a rispettare l’autonomia del soggetto su quello che chiede di fare il suo bene, emerge quando si analizzano le sanzioni morali che deriverebbero dalle loro rispettive violazioni. Venir meno al rispetto che è dovuto a ogni individuo implica la rinuncia all’appartenenza alla comunità pacifica, significa cioè «perdere le ragioni per esigere rispetto [altrui] e per protestare contro l’uso della forza a scopo difensivo e offensivo da parte degli altri» 35. Se si revoca, invece, il principio di beneficità, ciò non comporta per il soggetto l’espulsione dalla comunità, ma solo l’impossibilità di vedere esercitata su se stessi quella solidarietà negata agli altri.
Nell’impostazione del bioeticista americano, autonomia e beneficità rappresentano i due pilastri su cui si
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fonda la moralità considerata rispettivamente nel suo aspetto più universale e in quello più specifico: il primo individua un principio di autorità che fonda l’etica del rispetto delle persone, mentre il secondo costruisce un’etica dello stato di benessere. Entrambi individuano norme deontologiche, la cui validità morale si giustifica a prescindere dalla considerazione delle loro conseguenze. In ambito applicativo, però, tale identificazione di principio viene meno: se il valore di autonomia mantiene sempre la sua forza di regola universale, quello di beneficità costituisce un vincolo etico solo in una dimensione teleologica, ovvero solo se il computo delle conseguenze prodotto dalle azioni risulta volto a procurare un bene e a evitare un male.
L’analisi del pensiero di Tristam Engelhardt consente di rilevare che intorno al concetto di “bene del paziente” si articola uno dei temi più controversi della bioetica contemporanea. Ciò d’altronde non sorprende, dal momento che qualsiasi riflessione di carattere etico non può non interrogarsi sulle modalità concrete in cui si traduce il bonum come ideale. Il nodo morale dell’etica medica dovrà, allora, essere risolto tentando di individuare dei valori comuni ed essenziali che identifichino stabilmente la beneficence. Nel caso specifico, il bene da valutare è quello del soggetto che si appresta a concludere la propria vita.
Deontologismo e teleologismo a confronto
sulle scelte mediche di fine vita
I due orientamenti con cui si possono valutare le azioni umane ― guardando a monte, verso i principi, o a valle, verso le conseguenze; considerando ciò che le motiva e ciò cui tendono ― diventano immediatamente rilevanti quando ci si applica a discutere i diversi interventi sulla fine della vita, raggruppandoli in due categorie
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maggiori: atti eutanasici attivi e passivi. La distinzione mira a stabilire una differenza morale tra i due tipi di azioni, riconducibile a quella che intercorre tra “uccidere” e “lasciar morire”.
Occorre sottolineare che tale dibattito si presenta estremamente complesso e denso di sfumature nelle conclusioni cui di volta in volta giunge. Non pretendiamo pertanto di esaurire la rassegna delle diverse posizioni etiche: attraverso analisi selezionate di alcuni autori, vorremmo presentare le argomentazioni morali paradigmatiche.
La distinzione tra eutanasia attiva ed eutanasia passiva nasce in ambito medico, per differenziare i trattamenti terapeutici dei pazienti terminali: con l’espressione “eutanasia attiva” si intende un atto volto a interrompere la vita del malato attraverso un’iniezione letale o tramite l’introduzione di aria per via endovenosa, tesa a provocare un aereombolismo fatale. Con la generica definizione di “eutanasia passiva”, invece (che da un punto di vista medico-legale si distingue ulteriormente in “eutanasia larvata” ed “eutanasia omissiva”), si intendono quegli atti o omissioni che, pur avendo come scopo l’alleviamento delle sofferenze del paziente, ne comportano l’accelerazione della morte. Essi consistono principalmente nell’astensione o interruzione dei cosiddetti trattamenti vitali (alimentazione e ventilazione artificiale) e nell’analgesia spinta attraverso l’uso di oppioidi che, dovendo essere utilizzati in dosi sempre maggiori in quanto producono nel paziente tolleranza ― quel fenomeno farmacologico per il quale, nell’utilizzo degli oppiacei, la possibilità di mantenerne l’effetto analgesico desiderato prevede la necessità di incrementarne le dosi nel tempo ―, ne provocano la morte per arresto cardiaco o per induzione di uno stato di incoscienza comatosa.
La differenziazione fra le varie forme eutanasiche non è risultata funzionale solo per il personale sanitario,
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consentendogli di individuare le responsabilità legali rispetto a determinati trattamenti, ma ha avuto ripercussioni sul dibattito etico. Distinguere tra eutanasia attiva ed eutanasia passiva è diventato cruciale per determinare la legittimità o l’illegittimità delle diverse prassi contemplate. Proprio in quanto l’eutanasia attiva prevede un intervento fattivo e diretto a provocare la morte del paziente, essa si configurerebbe come omicidio, mentre l’eutanasia passiva, implicando “soltanto” che il personale medico si astenga dal compiere ciò che garantirebbe la conservazione in vita del soggetto, si presenta come un lasciar morire o, meglio, un far sì che la malattia, e non il medico, decida della sorte ultima del paziente. Per coloro che sostengono con forza l’esistenza e la centralità di una tale distinzione ― bioeticisti di matrice confessionale cattolica e fautori della teoria etica deontologista, come Robert Veatch e Hans Jonas ―, l’elemento dirimente sembra poggiare sull’idea di una maggiore colposità morale di un atto, rispetto alla minore responsabilità di un’omissione. Così, il confine tra ciò che è moralmente lecito e ciò che non lo è si specifica nella distinzione tra atti e omissioni.
Il problema di questa differenziazione consiste nell’impossibilità di sostenere che l’omissione non sia di per sé anche un atto, un’azione: sospendere la ventilazione o la sonda nasogastrica, somministrare analgesici, è pur sempre un “fare”. Se queste azioni, infatti, non venissero omesse, il paziente continuerebbe a vivere. Data la complessità di rintracciare una linea di demarcazione tra compiere e omettere, l’attenzione viene spostata su un altro piano morale, ovvero sulla differenza di intenzioni che esiste nel praticare l’eutanasia attiva e quella passiva.
L’obiettivo del medico nell’eseguire un’iniezione letale al paziente sarebbe interamente volto a provocarne la morte, mentre nel caso della sospensione di alcuni trattamenti, il suo scopo primario consisterebbe
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nell’alleviamento delle sofferenze terminali, benché il prezzo da pagare per una tale scelta possa anche essere l’accelerazione del processo di morte avviato dal morbo. In tal senso, la differenza di intenzioni dell’agente costituisce la pietra angolare per stabilire l’illegittimità dell’uccidere e la legittimità ― pur sempre drammatica ― del lasciar morire. Il fatto che l’«uccisione pietosa» sia intenzionale o non intenzionale, ovvero cagionata volutamente o prodotta come effetto secondario di atti volti ad altri scopi, ne dirimerebbe la problematicità etica, in quanto nel primo caso sarà sempre condannata come omicidio, mentre nel secondo potrà essere giustificata in particolari situazioni. Come argomentano Beauchamp e Childress, che pure muovono da posizioni utilitaristiche: «È importante preservare la distinzione tra l’intenzione di alleviare il dolore, col rischio di avvicinare la morte, e l’intenzione di uccidere al fine di alleviare il dolore, per quanto difficile possa essere applicare la distinzione ai casi di confine» 36.
In questa prospettiva si muove con efficacia e autorità Robert Veatch, contrario alla legalizzazione della pratica eutanasica, benché non oppositore di una sua potenziale e circostanziata liceità in situazioni specifiche. Egli sostiene che, nonostante siano molteplici le caratteristiche che rendono un’azione moralmente sbagliata, esistono tuttavia delle valutazioni prioritarie: se, ad esempio, vi fosse una bugia talmente grave, considerando le conseguenze che ne derivano, da risultare tanto immorale quanto un omicidio, ciò non implicherebbe affatto l’abolizione di ogni loro differenza morale di giudizio; l’omicidio rimarrebbe pur sempre un atto in sé più riprovevole della menzogna. Questa conclusione risulta possibile adottando un ragionamento
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etico di natura deontologista, caratterizzato dall’individuazione di doveri che impongono restrizioni etiche: primo tra questi è il divieto di uccidere un essere umano, indipendentemente dalle conseguenze che ne derivano. L’omissione dei trattamenti terapeutici si differenzia così in modo sostanziale dall’uccisione attiva.
Il dovere di fare il bene del paziente ― che imporrebbe al medico di mantenerlo in vita o il dovere di mantenere le promesse (nel caso in cui il medico avesse garantito di fornirgli trattamenti di sostegno vitale) ― presenta un carattere secondario rispetto al dovere di non uccidere. In tal senso Veatch conclude: «Mentre uccidere attivamente è sempre una violazione del principio [...] di evitare di uccidere un altro essere umano, lasciar morire, quando colui che decide è fuori dal nesso di responsabilità, non è altro che soddisfare il principio [...] di rispettare l’autonomia» 37. La differenza dunque ― secondo l’ottica deontologista ― che intercorre tra uccidere e lasciar morire consisterebbe nel fatto che il primo viola un dovere prioritario (non uccidere), mentre il secondo revoca un dovere secondario (non fare del male o promuovere il bene dell’altro). Veatch conclude definitivamente che, per quanto in talune situazioni specifiche le due forme di deroga al dovere di non uccidere possano assumere la medesima gravità, ciò non intacca la considerazione più generale che il principio di non uccidere intenzionalmente un essere umano sia, rispetto agli altri, gerarchicamente superiore.
Nelle varie argomentazioni a sostegno di una differenza etica tra eutanasia attiva ed eutanasia passiva, due appaiono essere gli elementi dirimenti reciprocamente connessi. Il primo insiste sul fatto che l’intenzionalità dell’eutanasia attiva è esplicitamente volta all’uccisione del paziente, mentre quella dell’eutanasia
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passiva è prioritariamente interessata all’alleviamento della sua sofferenza. Il secondo elemento comprende il diverso peso dei doveri che in entrambe le pratiche non vengono attuati (non-uccidere e promuovere il bene altrui): questi si pongono in un ordine gerarchico tale per cui il primo atto costituisce una lesione etica più grave rispetto all’altro.
La teoria così formulata non sembra lasciare spazio a contestazioni, in quanto muovendo da un impianto morale costruito su un’organizzazione gerarchica di doveri, garantisce che qualsiasi soggetto sia in grado di agire moralmente seguendo semplicemente le norme. In realtà, l’impianto deontologista, lungi dal dirimere la controversia morale, solleva dubbi in merito a come viene valutato il comportamento che si definisce eutanasia passiva: anche accettando la minore gravità morale del lasciar morire, rispetto a quella dell’uccisione intenzionale, rimane ancora da argomentare la liceità dell’eutanasia passiva. Questa pratica sembra assumere legittimità se posta in paragone con quella attiva, moralmente mai accettabile; ma essa rimane di per sé un atto deontologicamente non consentito, in quanto deroga ad alcuni doveri. Il fatto che la forma passiva di morte risulti meno traumatica di quella attiva, non illumina per nulla sulla giustificazione etica dell’atto passivo del lasciar morire, considerato in sé e per sé. Se, infatti, non si dimostrasse l'intrinseca liceità etica dell’eutanasia passiva, a prescindere dal confronto con quella attiva, la teoria deontologista cadrebbe in contraddizione con se stessa, poiché farebbe derivare l’accettazione dell’una e la negazione dell’altra non dal riconoscimento di una reciproca diversità sostanziale, ma dal semplice computo degli interessi che andrebbero rispettivamente a intaccare. Quest’argomentazione risulta inaccettabile, poiché ricorrerebbe a criteri di analisi morale teleologico-utilitaristici e non deontologici. Per uscire da tale impasse i fautori del deontologismo
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etico sono ricorsi a un ulteriore argomento: la cosiddetta “dottrina del doppio effetto”.
Tale complessa formulazione è volta a individuare quelle condizioni in base alle quali un soggetto può accettare moralmente di compiere azioni che cagionino un male (quale, nello specifico, la morte indiretta di una persona), senza che ciò leda la propria integrità etica. La dottrina esprime l’idea di fondo che le azioni umane comportino, insieme alle conseguenze buone prodotte a partire da un’altrettanto buona intenzione, anche effetti non desiderati volontariamente e che sono intrinsecamente malvagi. Teoricamente questa modalità di procedimento logico non dovrebbe essere concessa dalle etiche del dovere, in quanto non ammettono che si possa mai compiere un danno; tuttavia, la realtà ineludibile della coesistenza in ogni azione di danno e beneficio obbliga a elaborare criteri aggiuntivi atti a stabilire se, e fino a che punto, un agente morale possa e debba causare insieme al bene anche il male.
Si ritiene che un comportamento che implichi contestualmente effetti negativi sia consentito solo se vengono soddisfatte quattro condizioni:
a) che l’atto sia in sé intrinsecamente buono;
b) che la conseguenza positiva sia quella prioritariamente voluta dall’agente, mentre quella nefasta sia esclusivamente tollerata, ma non direttamente intesa;
c) che il prodotto secondario (il nocumento) non costituisca il mezzo per raggiungere quello primario (il beneficio);
d) che l’effetto intenzionalmente perseguito costituisca un bene proporzionalmente maggiore al danno di quello non voluto.
Nell’applicare la dottrina del doppio effetto all’atto eutanasico passivo, l’obiettivo consisteva nello stabilire una sua specifica attuabilità etica. In realtà neanche tale teoria dirime la questione, poiché risulta inutilizzabile. La pratica passiva di morte elude, infatti, la prima condizione
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elencata: l’azione deve essere intrinsecamente buona, ma tale intrinseca bontà è proprio ciò su cui si sta indagando. Anche l’analisi del quarto presupposto, affinché la teoria del duplice effetto possa essere applicata all’eutanasia, implica delle difficoltà. Se, infatti, la giustificabilità di un’azione dipende dalla maggiore quantità di bene prodotto in confronto al male, ci si muove all’interno di un’interpretazione proporzionalistica che si inscrive più nell’ambito del consequenzialismo teleologico che non in quello deontologico. Per definire la legittimità morale del lasciar morire, ci si potrà, allora, esclusivamente basare sulla soddisfazione della seconda e terza condizione prescritta: l’intenzionalità buona dell’agente e la non strumentalizzazione dell’effetto negativo per il raggiungimento del fine positivo. Tuttavia, anche il concetto di intenzione implica una qualche problematicità di utilizzo in campo morale. Questa è la critica mossa, in particolare, dai sostenitori dell’utilitarismo consequenzialistico. Come giustamente argomenta il bioeticista Rachels: «Se l’atto è sbagliato se compiuto con un’intenzione, come può essere giusto se compiuto con un’altra?». È difficile vedere come la trasformazione da sbagliato a giusto possa essere attuata semplicemente «purificando le intenzioni» 38.
Le teorie teleologiche, che puntano all’analisi degli atti attraverso l’esclusivo ricorso alla valutazione dei loro effetti, possiedono ovvie ricadute quando si applicano alla presunta differenza morale tra uccidere e lasciar morire: se due pratiche ottengono lo stesso obiettivo finale ― nel caso specifico la morte del paziente ― a prescindere dalle intenzioni con cui l’hanno provocato, si configurano come identiche anche sul piano del giudizio etico. Data la coincidenza morale, considerando gli eguali effetti che causano, la conclusione circa la loro ammissibilità o illegittimità concernerà
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entrambe: «O sono entrambe accettabili o non lo sono. Stanno o cadono insieme» 39.
Attraverso tale ragionamento viene introdotta la cosiddetta “tesi dell’equivalenza”, per la quale azioni simili si giudicano in modo simile; poiché l’eutanasia attiva come quella passiva sono simili in termini di effetti, saranno altrettanto simili nei giudizi morali che implicano. La questione, allora, consisterà nel verificare se entrambe siano lecite o meno; naturalmente, il presupposto dell’argomentazione di Rachels è che siano legittime.
Una delle differenze tracciate tra l’uccidere e il lasciar morire sembrava dipendere da una più ampia distinzione, quella fra “azione dell’uomo” e “azione della natura”, dove natura è il termine generale utilizzato per «abbracciare in una sola categoria tutte le cose che non sono prodotte dall’uomo, tutta la parte del mondo che... non dipende dal fare dell’uomo» 40. Dal momento in cui, però, le capacità tecniche di sostegno vitale consentono di modificare quegli eventi un tempo irreversibili, la differenza tra l’azione degenerativa della malattia e l’azione umana, tesa a causare un’accelerata distruzione del processo vitale, sembra diventare sempre più evanescente. L’astensione dalla terapia è vincolata al “fare dell’uomo”, non è dettata dall’impossibilità di far fronte alla malattia; il considerare gli atti medici terminali come natura o artificio dipende, in realtà, più dalle interpretazioni strumentali o dalle intenzioni soggettive che non da fattori di riscontro oggettivi. Questa è una delle ragioni essenziali per cui, nel nostro contesto ipertecnologico, la differenza tra uccidere e lasciar morire non appare più sostenibile.
Come argomenta definitivamente Rachels, una volta che si sia stabilito che la morte del paziente non rappresenti per lui un male assoluto da contrapporre
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al bene del perdurare in vita, poiché la sofferenza esistenziale che lo avvolge non gli consente più di riconoscersi come persona, allora le modalità con cui si esplicherà l’intervento di interruzione della vita, non saranno oggetto di disputa morale. Piuttosto, la domanda provocatoria e radicale può invece essere: «Togliere permanentemente la coscienza a un paziente, sapendo sin dall’inizio che non gliela si potrà mai più ridare, non è atto che equivale all’uccidere?». In effetti, nell’ottica di un rispetto sacrale per la persona del malato ci si dovrebbe interrogare sulla differenza che può sussistere per lui tra cadere in stato di permanente coma e morire per iniezione letale. Attribuire, allora, una qualche ancora efficace differenza alle due forme eutanasiche, sembrerà dipendere da una più profonda concezione ideologica. Pensare che gli atti della natura, prescindendo da una loro obiettiva realtà empirica, presentino uno statuto etico superiore rispetto a quelli promossi dall’intervento umano, comporta un principio di sacralizzazione della natura, tanto da ritenere questa l’unica che possa legittimamente porre fine all’esistenza umana. Una natura così concepita sembra assumere quei connotati di trascendenza che, allontanandola dalla dimensione della finitezza, la avvicinano sempre più all’orizzonte deificato che la rende, proprio come Dio, proprietaria e tessitrice dell’umano destino. Se si assume questa prospettiva la condanna dell’eutanasia attiva non può essere argomentata in modo definitivo, poiché si fonda su una peculiare percezione del mondo che non può pretendere di ergersi a universale paradigma etico.
Il “personalismo ” d ’oltreoceano
La riflessione bioetica ruota intorno a due principi fondamentali ― il beneficio da procurare al paziente
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e il rispetto della sua autonomia ― che dovrebbero giustificare le azioni e le scelte dei soggetti coinvolti nelle pratiche biomediche. Oltre ai tentativi speculativi di contrapporli, sono stati fatti sforzi per dirimerne il conflitto. Ci riferiamo in particolare alla proposta di Edmund Pellegrino e David Thomasma di riformulare il valore della beneficità, senza avallare il rapporto paternalistico del passato.
due autori si uniscono al coro di condanna dell’atteggiamento assistenzialistico della medicina, che nega ogni diritto d’espressione alla volontà al paziente; ritengono che «il paternalismo medico fallisce perché annulla un elemento essenziale nell’etica deontologica al centro della medicina, ossia il rispetto per le persone. Violare l’autonomia del paziente significa privarlo di un elemento essenziale per il suo stesso bene e, così, violare l’impegno della medicina ad agire per il bene del paziente» 41. Tuttavia Pellegrino e Thomasma non condividono il modello dell’utilitarismo libertario; ribadiscono piuttosto la priorità morale del bene da procurare sui diritti. Ritengono, d’altra parte, che la negazione del paternalismo medico non debba prevedere l’eliminazione del principio di beneficità. Si tratterà semmai di riformularlo alla luce di un criterio che concili le istanze di autodeterminazione del malato con quelle deontologiche proprie dei medici.
Per tentare la mediazione si parte dall’assunto che il fulcro intorno al quale si esercita la professione medica rimane il bene del paziente. Il processo di definizione di un tale bene si svolge all’interno di una dimensione relazionale, fondata sull’alleanza fiduciaria tra medico e paziente. La beneficence, così intesa, non si limiterà allora a non causare danni ― alla mera “non-maleficità” ―, ma implicherà un rapporto di impegno
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interpersonale nel quale il medico metterà in gioco la sua autorità e il suo prestigio. L’originalità di questa riflessione consiste nell’uscita dal vicolo cieco dell’interpretazione individualistica sottesa tanto all’autonomia quanto alla beneficità. In questa impostazione si pone al centro della dimensione etica la persona nella sua originaria relazione con la comunità, intendendo la salute come un bene a un tempo individuale e sociale, in vista del quale costituire dei legami significativi. La riformulazione della beneficità punta alla corresponsabilità del medico e del paziente, più che alla mera soddisfazione dei diritti reciprocamente in conflitto.
Anche questo ripensamento della beneficence implica, però, la determinazione specifica di alcuni beni, in virtù dei quali esercitare l’azione medica. Pellegrino e Thomasma ne individuano quattro, organizzati gerarchicamente in ordine ascendente.
In primo luogo viene posto il bene in senso strettamente medico, inteso cioè come miglioramento oggettivo delle condizioni di salute generale del paziente attraverso interventi di carattere tecnico.
In seconda istanza emerge il bene come migliore interesse per il malato, basato su ciò che il paziente ritiene essere meglio per sé. Quest’accezione dell’interesse assume un carattere prettamente soggettivo e relativo: è relativo alla contingenza della situazione e soggettivo in quanto afferente alle scelte di quel determinato soggetto.
In terzo luogo, il concetto di bene si specifica in riferimento alla sfera esistenziale umana che vuole riconoscere nell’azione verso il paziente un’attenzione alla sua capacità razionale e alla possibilità di libero esercizio della volontà.
Infine, l’ultima determinazione concreta del bene si articola nell’individuazione dei criteri morali, intellettuali, estetici ed emotivi in relazione ai quali il paziente regola il proprio complessivo progetto di vita. Tale bene supremo sarà soggettivo, variabile per ognuno e definito come
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«il fine della vita umana, così come viene inteso nel paziente il suo punto di vista relativamente al significato e al destino della vita umana, le posizioni assunte riguardo ad altri uomini e donne, il mondo e Dio» 42.
Il fatto di aver individuato questi quattro complementari modi di intendere il bene in medicina non deve, tuttavia, illudere: lo spazio per una loro reciproca conflittualità è situato nella prassi quotidiana. Ripensare la beneficità, nei modi di Pellegrino e Thomasma, è utile, allora, per avvicinare e integrare il bene del paziente e il suo diritto ad autodeterminarsi. Bisogna, infatti, restituire il principio di beneficità alla professione medica, senza che ciò automaticamente implichi l’adozione di un atteggiamento paternalistico. Il dibattito sui principi e sui valori morali deve essere ricollocato all’interno di quello spazio umano, altamente significativo, che è la relazione medico-paziente.
Il tentativo di dirimere la tensione tra il principio di autodeterminazione e quello di beneficità rappresenta la possibilità di fondere due prospettive morali fondamentali: quella all’interno della quale si considera che cosa comporti agire con autorità e quella all’interno della quale si determini che cosa significhi fare del bene ed evitare il male. Nella loro sintesi entrambi esprimono il fatto che il punto di vista morale è dato dal riferimento al bene da promuovere, ma entro i limiti imposti dal rispetto interpersonale, anche quando si danno ruoli diversi come medico e paziente.
Una griglia per l’analisi etica dei casi clinici
Prendere una decisione etica è un momento di alta creatività intellettuale e spirituale. Non si potrà mai
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proporre uno schema obbligante di comportamento, che assicuri un buon risultato come una formula per risolvere le equazioni e neppure come un algoritmo che aiuti il clinico a fare una diagnosi differenziale. Tanto più quando le decisioni hanno la drammaticità e la complessità delle situazioni che preludono al termine della vita. Ciò non vuol dire, però, che l’alternativa sia quella di procedere a caso, lasciandosi guidare dal proprio “fiuto etico”. La proposta che concilia creatività e rigore è quella di un metodo, ovvero di una via da seguire. Ciò nella consapevolezza che la via è un mezzo, non un fine; ma che anche è più facile mancare l’obiettivo se non si ha una strada tracciata da percorrere. Questa è la funzione della griglia per l’analisi dei casi clinici che proponiamo.
Lo strumento si appoggia sulla teorizzazione bioetica proposta da Diego Gracia 43. La sua riflessione valorizza i principi evidenziati dalla bioetica anglosassone: possiamo considerarli come il sunto di tutta la storia culturale dell’Occidente relativamente all’etica in medicina. Tuttavia, per poter procedere a un giudizio morale è necessario stabilire tra loro una gerarchia, collocandoli su due livelli: quello del “minimo morale” e del “massimo morale”.
I minima moralia delineano quel livello al di sotto del quale non si può scendere, se non vogliamo che la società smarrisca i suoi tratti essenziali di umanità. Il minimo morale non è legato al consenso né alla soddisfazione. Anche se, per ipotesi, la maggioranza dei cittadini si accordasse su certi comportamenti o politiche che offendono i principi che tutelano il minimo morale, non potrebbe addurre il consenso come prova di legittimità. Questo vale, per esempio, per i comportamenti ritenuti giusti in alcune epoche (come
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l’approvazione della schiavitù). La maggioranza degli attori sociali ― per esemplificare ancora ― potrebbe ritenere economicamente vantaggioso e umanamente più conforme alla dignità non tenere in vita le persone in coma vegetativo permanente; ma queste scelte cadrebbero sotto il minimo morale (purché si sia stabilito in modo incontrovertibile che abbiamo ancora a che fare con persone umane), qualunque sia la soddisfazione di coloro che le prendono.
Il primo dovere è quello, che si impone sopra tutti in medicina, di non recare detrimento al paziente. Si tratta del primum: non nocere, già identificato dall’etica ippocratica. Il non fare il male a una persona è un principio non negoziabile, che per di più è sottratto alla disposizione del soggetto stesso. Ciò vuol dire che, anche se un paziente pienamente capace di intendere e di volere chiedesse qualche cosa che alla valutazione della sensibilità morale della società risulta un male, siamo autorizzati a non concederlo. Il male non si deve fare neppure a chi lo chiede.
Ugualmente non negoziabile è l’altro principio fondamentale, quello della giustizia. Anche questo non dipende dalla volontà delle persone. La richiesta fondamentale della giustizia è che tutti nella nostra società debbano essere trattati con uguale considerazione e rispetto, senza privilegiare qualcuno a danno di altri. Non c’è una vita che vale di più o una vita che vale di meno. A questo principio arriviamo sia attraverso la definizione di persona, sia attraverso la via kantiana del rispetto dell’individuo, che va trattato come fine, non solamente come mezzo.
Diverso, invece, è il secondo livello, quello del “massimo morale”, regolato dai principi dell’autonomia e della beneficità. Per “massimo morale” intendiamo quei modi di organizzare la vita morale che dipendono dai valori soggettivi e trovano espressione nelle varie comunità morali di appartenenza: è quello
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che, per esempio, fa un testimone di Geova diverso da un musulmano, oppure un cittadino educato in senso individuale e liberista da un altro che mette al primo posto i valori familiari di appartenenza o le reti sociali. L’autonomia della persona richiede che siano rispettati i valori e le preferenze di ognuno, dando il massimo rilievo all’autodeterminazione. E la beneficità, che richiede di orientare il corso dell’azione verso il maggior vantaggio del paziente, dipende da quello che il malato, o la singola persona, valuta come il proprio bene.
La non-maleficità e la giustizia sono principi assoluti, che noi dobbiamo assolutamente rivendicare. In questa accentuazione possiamo individuare l’apporto dell’Europa, che ha una coscienza infelice nei confronti di quello che è riuscita a perpetrare conculcando queste fondamentali esigenze di rispetto dell’umanità. Infliggendo deliberatamente il male, violando l’integrità personale e la giustizia (pensiamo soltanto ai campi di sterminio nazisti), l’Europa è scesa sotto il minimo morale. Il non procurare danno agli altri e dare a tutti uguale considerazione e rispetto sono i “minima moralia” (Th. W. Adorno), sotto i quali non c’è etica, anche se tutta la società ― per ipotesi ― fosse d’accordo. Questa prospettiva rende inaccettabile un contrattualismo che si limitasse a cercare il bene della maggior parte delle persone, se ciò è ottenuto ai danni di qualcuno o non attribuendo a qualche attore sociale uguale considerazione e rispetto.
La beneficità, invece, tutelata dall’autonomia, è la ricerca del massimo morale. Entrambe chiedono per la loro realizzazione il contributo della persona direttamente interessata dalle scelte mediche che la riguardano. Ciò implica che un’etica medica, che si presenti in versione aggiornata di una bioetica tutta rivolta alla difesa del minimo morale (per esempio, della difesa a oltranza
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di un’etica della sacralità della vita) non è sufficiente. Volenti o nolenti, siamo entrati in un’epoca in cui nelle nostre scelte dobbiamo fare i conti con il massimo morale, ovvero con quello che, soggettivamente, ciascun soggetto morale coniuga con la ricerca della felicità o del bene, con la vita morale, così come emerge dai valori e dalle preferenze individuali.
La griglia che proponiamo aiuta a porre le domande essenziali nell’analisi di un caso, evitando che siano trascurati elementi rilevanti per la decisione etica:
Il comportamento eticamente giustificabile
A. La difesa del minimo morale
1) Evitare ciò che nuoce o danneggia il paziente
(principio di non maleficità)
Il paziente potrebbe ricevere un danno per la salute o per la sua integrità dal trattamento previsto? Si sta omettendo un intervento che potrebbe impedire un abbreviamento della vita del paziente o un danno permanente?
2) Opporsi a discriminazioni e ingiustizie
(principio di giustizia)
In una società giusta, tutte le persone meritano uguale considerazione e rispetto. In questo caso il paziente è discriminato per motivi di ordine ideologico, sociale, razziale o economico? Esistono considerazioni di ordine sociale (aziendale) che inclinano a offrire al paziente un livello di assistenza medica inferiore a quanto clinicamente appropriato?
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B. La promozione del massimo morale
L’orientamento al bene del paziente
(principio di beneficità)
Sulla base della diagnosi e della prognosi, quale trattamento medico ― scientificamente corretto ― si può proporre?
Tale trattamento influenza positivamente la prognosi nel caso specifico?
Come vengono valutati rispettivamente i benefici e i danni?
Esistono alternative terapeutiche? Ognuna di queste alternative quali aspetti potrebbe comportare (abbreviazione della vita, sofferenze fisiche e morali, peggioramento dello stato di benessere)?
4) Il coinvolgimento del paziente nelle decisioni che lo riguardano
(principio di autonomia)
Chi prende la decisione diagnostico/terapeutica (il medico, la famiglia del malato, il malato stesso)? Se decide il malato, attraverso quale processo informativo è stato messo in grado di decidere (semplice presentazione delle alternative; modulo scritto da firmare; calde raccomandazioni di aderire al progetto terapeutico)?
Che cosa si conosce del sistema di valori del paziente e del suo atteggiamento nei confronti dei trattamenti medici (intensivi, rianimativi, palliativi)?
Il paziente è stato informato circa i trattamenti proposti, i rischi e benefici potenziali e le possibili alternative?
È stata offerta al paziente la possibilità di avere un parere complementare (“second opinion”)?
Se il paziente non può essere coinvolto nella valutazione e nella scelta, chi può fare le veci del paziente nel prendere le decisioni?
Esistono “direttive anticipate” o analoghe disposizioni del paziente?
La valutazione etica delle decisioni da prendere sull’estrema soglia della vita deve, anzitutto, confrontarsi con il pericolo che si possa scendere al di sotto del minimo morale. Le leggi potrebbero anche permettere certi comportamenti (così avveniva per l’eutanasia praticata sulle «vite non degne di essere vissute», sotto il regime nazista) e la deontologia professionale non sanzionarli; ciò nondimeno, il discernimento etico è autorizzato a dichiararli non praticabili. “Procurare un danno” (in latino: nocete) a qualcuno e discriminare le persone, non trattando tutte con uguale considerazione e rispetto, sono le due frontiere che non devono essere valicate, se non si vuol cadere sotto il “minimo morale”.
Se teniamo presente la varietà dei casi clinici considerati nel primo capitolo, ci rendiamo conto che nel contesto della medicina contemporanea si può nuocere non solo abbreviando la vita di qualcuno, ma anche prolungandola oltre misura (che è la misura della disponibilità del soggetto a rimanere inchiodato a una sopravvivenza che è solo tormento). I comportamenti ingiusti ci rimandano a quanto la società può e vuole mettere in atto per dare dignità anche agli estremi lembi di vita. L’eutanasia potrebbe assumere un volto “sociale”, quando sono i sistemi sanitari che dispongono la limitazione delle risorse da destinare ai malati anziani o destinati in ogni caso a non recuperare la salute.
Se il “minimo morale” si presenta come una frontiera da non varcare, il “massimo morale” è invece un orizzonte cui tendere. Non lo possiamo identificare
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senza la partecipazione attiva della persona, oggetto delle decisioni cliniche. Per stabilire quale è il “bene” che intendono procurarle, i sanitari hanno bisogno di mettersi in ascolto della sua voce, di considerare i suoi valori ― che sono diversi da una persona all’altra, e non di rado si modificano con il tempo anche nella stessa persona ―, di tenere conto delle sue preferenze. Per qualcuno il “bene” è poter aggiungere giorni ― o anche solo ore ― alla vita; per qualcun altro essere libero da dolori, per altri ancora non subire degradazioni incompatibili con il proprio concetto di dignità personale.
Per ognuno si tratterà di negoziare il prezzo che si è disposti a pagare per poter dare alla propria morte la forma ritenuta migliore. Il rispetto dell’autonomia richiederà anche un’attenta considerazione di quante e quali informazioni la persona desidera sul decorso clinico della propria malattia, per poter partecipare consapevolmente alle decisioni che la riguardano, o per lasciarsi condurre a occhi chiusi verso la fine, se preferisce non guardare in faccia la morte.
Verso il massimo morale si può andare solo insieme, in quel particolare abbraccio tra sanitari e pazienti che si è convenuto chiamare “alleanza terapeutica”.
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Capitolo IV
VALORI SPIRITUALI E SCELTE MORALI
La vita, il sacro, il limite
Abbiamo bisogno di regole per guidare i comportamenti sull’ultimo confine tra la vita e la morte. Questa preoccupazione è comune sia alle religioni, sia all’attività di pensiero che si sviluppa sotto il segno della ragione. Religione e filosofia possono convivere; ancor più, possono attingere l’una dall’altra. Storicamente ciò è avvenuto nell’ambito dell’etica medica. Nelle grandi religioni storiche del ceppo monoteista ― ebraismo, cristianesimo e islamismo ― l’arte del guarire è stata sempre tenuta in grande considerazione; costante è stata anche la preoccupazione di elevare lo standard etico e spirituale dei sanitari. Nella preghiera attribuita a Mosè Maimonide, il medico nella sua preghiera quotidiana si rivolge a Dio dicendogli:
«Nella Tua eterna Provvidenza, Tu hai scelto me per vigilare sulla vita e sulla salute delle Tue creature. Ora sto per dedicarmi ai compiti della mia professione. Sostienimi, o Dio onnipotente, in questa importante impresa, affinché ciò possa essere di giovamento all’umanità, poiché senza il Tuo aiuto nulla potrà avere buon esito, neppure la più piccola cosa» 44.
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È un atteggiamento interiore che permette al medico religioso di sentirsi in alleanza con Dio nel proteggere la vita e combattere la morte. Una conseguenza indiretta è la resistenza a cambiare le regole morali che sovrintendono alla professione, in quanto, anche quando sono scritte nel linguaggio secolare della deontologia, sono circondate da un alone sacrale.
Anche agli inizi della nuova riflessione che si è sviluppata negli ultimi trent’anni, conosciuta sotto il nome di bioetica, troviamo una vivace presenza religiosa. Il movimento impegnato a riportare “valori umani” all’interno della pratica della medicina e delle scienze della vita è stato animato soprattutto da cristiani, motivati in senso umanistico e religioso. Agli inizi degli anni ’60, in America, sono stati principalmente degli assistenti spirituali di campus universitari e facoltà di medicina, di diverse confessioni religiose, a preoccuparsi della tendenza sempre più accentuata in medicina a separare il fatto tecnico da quello umano. Nel 1968 fu fondata una «Società per la salute e i valori umani», particolarmente sostenuta dalla Chiesa presbiteriana, che è stata molto attiva nel diffondere la convinzione che non si possono formare dei buoni sanitari se si trascura l’insegnamento dei valori umani implicati nell’azione terapeutica. Anche se nello sviluppo successivo la bioetica ha assunto una chiara autonomia dalle ispirazioni religiose iniziali, si può rintracciare una interconnessione profonda tra la riflessione filosofica, nata all’interno delle scienze della vita, e l’impegno umanistico condotto in nome della fede religiosa.
La morale religiosa che l’ebraismo, l’islamismo e il cristianesimo elaborano per i credenti, confrontati con i dilemmi che propone oggi la promozione della vita, non si identifica con la bioetica. Le differenzia il fatto fondamentale che le religioni si muovono all’interno della rivelazione divina, che propongono alla fede del credente, mentre il pensiero filosofico procede
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riferendosi esclusivamente a parametri razionali. Tuttavia, questi due tipi di sapere normativo non sono solo posti in parallelo, senza interattività reciproca. Se la fede ha bisogno della ragione per pensare la rivelazione, il pensiero razionale, a sua volta, può ricevere dalla concezione dell’uomo, che deriva da un corpo di conoscenze rivelate, degli stimoli che gli permettono l’apertura di nuovi orizzonti. È quanto può avvenire, in particolare, nell’ambito dei comportamenti relativi alla morte e al morire.
Una versione estremamente semplificata dell’insegnamento religioso lo riconduce al precetto di non interferire con il processo del morire, nel senso di accelerarlo, perché ciò violerebbe il precetto “non uccidere”, che deriva dalla sacralità della vita umana. Sempre procedendo per semplificazioni, si è soliti contrapporre il criterio della sacralità della vita, promosso dalle visioni morali che si ispirano a una visione religiosa del mondo, al criterio della qualità della vita, nel quale si riconoscono le diverse etiche a orientamento secolare. Mentre il primo tutelerebbe la vita dell’uomo da ogni intervento tendente ad abbreviarla, sottraendo questo tipo di decisioni non solo ai medici ma anche al soggetto stesso vivente, il criterio della qualità della vita porterebbe come conseguenza che è possibile disporne, quando scende al di sotto di un livello accettabile.
Questa schematizzazione ha avuto un certo successo ed è stata ripetutamente riproposta. Se però esaminiamo più accuratamente il criterio della sacralità della vita, ci accorgiamo che è molto carente nel fornire una guida pratica per le decisioni da prendere sul finire della vita. È facile trovarsi d’accordo su affermazioni molto generali, come sul fatto che la vita è un bene prezioso; che deve essere rispettata e protetta; che nessun essere umano deve essere privato della vita senza adeguata giustificazione (una giustificazione che diventa
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sempre più arduo trovare per la pena di morte, mentre fino a un passato recente anche i credenti affermavano che va tutelata la vita “innocente” e tendevano a far entrare la pena di morte nei poteri riconosciuti allo Stato). Ma la vita ci appare come un valore conflittuale. La volontà di proteggerla e affermarla può scontrarsi con valori etici (come l’altruismo e la solidarietà: è considerato un atto virtuoso aiutare chi ha bisogno, anche mettendo a rischio la propria vita) e con valori sociali (ad esempio la difesa del bene comune).
La religione, inoltre, apre un altro fronte che può anch’esso entrare in collisione con la tutela della vita. La Chiesa venera come martiri coloro che non esitano a rinunciare alla vita per non venir meno all’adorazione di Dio. Essa arriva a considerare la stessa difesa di certe qualità ― come la verginità ― un valore superiore, a cui può essere subordinata la vita fisica.
La collocazione del valore della vita in una scala gerarchica che prevede valori superiori ad altri è quanto mai attuale in medicina. Con la capacità attuale di prolungare quasi indefinitamente le funzioni vitali dell’organismo, anche quando le funzioni cerebrali superiori e la vita relazionale sono definitivamente compromesse, il criterio della sacralità della vita potrebbe facilmente degradarsi, se non viene opportunamente mitigato. Se fosse spinto all’estremo, ne deriverebbe un vitalismo riduttivo, dal punto di vista antropologico, ovvero una celebrazione della vita ricondotta ai soli parametri biologici. Ciò risulta contrario sia allo spirito dell’umanesimo, sia alla stessa visione cristiana dell’uomo.
Sarebbe paradossale che il cristianesimo, dopo aver per secoli tradizionalmente mostrato una certa indifferenza per la vita terrena (pensiamo solo alle schiere di giovanissime educande e religiose che, fin verso i primi decenni del XX secolo, andavano gioiosamente verso una morte prematura per le condizioni non igieniche della vita in convento, dispensando parole
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di conforto ai genitori, che restavano in un mondo da esse percepito come estraneo allo spirito: questo anelito alla vita spirituale, anche quando doveva svilupparsi a spese della vita corporea, era considerato un modello di esemplare virtù cristiana), diventasse ora un difensore a oltranza del prolungamento incondizionato della vita fisica. Più che un’evoluzione della morale cristiana, un simile cambiamento di fronte ci apparirebbe come una frattura profonda con la tradizione. La sacralità della vita, spinta a questi estremi, si confonderebbe con l’idolatria della vita.
Le religioni offrono una guida al comportamento dei credenti o in un modo prescrittivo (sono le regole che deve seguire il “buon cattolico”, il “buon ebreo”... e che differenziano i credenti dai non credenti, e i credenti di una religione da quelli di un’altra), oppure proponendo valori. Fa parte di questa seconda accezione il comando fondamentale delle religioni monoteiste di non farsi degli idoli. Il principio di trattare la vita umana come sacra non va inteso nel senso di fare della vita un idolo. Quando ciò avviene, si è creata una fatale confusione tra la natura e Dio.
Il rapporto tra gli eventi naturali ― tra i quali collochiamo la morte ― e la volontà di Dio riguarda il fondamento esistenziale, non le circostanze dell’esistenza. Certe espressioni, che possono avere un senso sul piano affettivo o hanno il valore di un’immagine poetica ― come: “Dio l’ha chiamato a sé”; oppure: “Dio ha fatto diventare un angioletto il vostro bambino” ― non possono essere prese in senso letterale. E tanto più importante tenere presente questa distinzione, quanto maggiore è diventato il potere dell’uomo sugli eventi naturali, che si traduce in concreto nella medicalizzazione della morte. Le rappresentazioni che mettono ciò che succede sul piano della natura in rapporto con la volontà di Dio hanno un insuperabile valore simbolico, ma non sono verità scientifico-naturali o etico-razionali.
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Introdurre la scelta umana della medicina tra l’uomo e Dio (e la volontà di Dio) aiuta a purificare il discorso stesso su Dio. Un passo ulteriore consiste nel considerare l’uomo come persona, ossia come una realizzazione assolutamente originale di valori, libertà e responsabilità. Quando si tratta di sapere fin dove è lecito abbreviare o prolungare la vita, non è la vita che dobbiamo interrogare, bensì il vivente. In termini teologici, ciò è contenuto nella nozione di creaturalità.
La natura “effimera” ― da creature di un giorno ― della vita umana è presente ai poeti e ai saggi di qualsiasi epoca. Per limitarci alle celebri espressioni di Pindaro nella Pitica ottava:
Creature d’un giorno, che mai
è alcuno, che mai non è?
Sogno di un’ombra è l’uomo.
Ma per l’esperienza religiosa il limite naturale è il segno della creatura e il fondamento delle sue scelte morali. L’uomo è creatura divina, non benché sia limitato, ma proprio perché ha il limite iscritto nel suo essere. La sacralità della vita umana non comporta l’intangibilità, quanto piuttosto la gestione responsabile dei limiti.
L’idea di limite era presente nell’atteggiamento tradizionale nei confronti del trattamento delle malattie, sotto forma di rispetto della natura, ovvero di distinzione tra ciò che è “naturale” e ciò che non lo è. Il discernimento tra i comportamenti che rispettano la natura e quelli che ne violano le leggi aveva anche una connotazione religiosa, che non è andata completamente perduta, neppure quando l’arte terapeutica ha assunto come suo campo di azione quello della scienza. L’idea di limite da non oltrepassare è molto chiara nel linguaggio del mito. In quello greco che narra la vicenda di Asclepio, l’eroe primordiale dell’arte medica,
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così come è riferito da Pindaro nell’ode Pitica terza, la trasgressione come superamento dei confini naturali (per i greci questo costituiva il peccato più grave ― la hybris ― che portava in sé i semi della tragedia) costituisce il pericolo intrinseco della medicina. Asclepio, infatti, iniziato dal centauro Chirone all’arte di «guarire i morbi dolorosi degli uomini», sarebbe morto fulminato da Giove. La sua colpa: aver accettato, per denaro, di procedere a un atto terapeutico illecito, salvando dalla morte un uomo destinato dalla natura a morire («rapire dalla morte un uomo ormai catturato»).
Nella concezione che valorizza la natura e i suoi limiti intrinseci, il medico possiede solo un potere derivato, che gli viene prestato, per breve tempo, per porsi a servizio della natura stessa. Il medico è tanto più bravo, quanto più si piega all'insight dell’inevitabile. Il tema non è scomparso con il mondo classico e il tramonto dell’etica che riconosce il comportamento doveroso in quello che Orazio ha chiamato “aurea mediocritas”, cioè la capacità di riconoscere il giusto mezzo, che evita sia il troppo che il troppo poco. Con un’audace interpretazione di alcune fiabe della raccolta dei Fratelli Grimm ― corredate da numerosi parallelismi in altre tradizioni e culture ― il teologo e psicanalista Eugen Drewermann ha ricostruito il permanere dell’ammonizione a non superare i limiti stabiliti dalla natura 45.
Il punto di partenza scelto da Drewermann per descrivere il rapporto tra il medico e le malattie mortali nella cultura tradizionale è la fiaba Comare Morte (nell’originale tedesco, essendo la parola morte di genere maschile, si parla di Gevatter Tod, cioè letteralmente “Padrino Morte”). Protagonista è un medico che ha ricevuto dalla morte, sua madrina di battesimo, il dono di riconoscere se il paziente presso cui è chiamato a
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prestare la sua opera professionale è destinato a sopravvivere o a morire: se la morte ― che solo lui ha il privilegio di vedere ― si trova al capezzale del malato, questi vivrà; se invece sta ai suoi piedi, è destinato a morire. Il medico per due volte, essendosi ammalato il re e successivamente sua figlia, dà scacco alla morte, ricorrendo a un’astuzia: fa girare il letto, così che la morte, che sedeva ai piedi dell’infermo, viene a trovarsi al suo capezzale. Ma, pur essendo il figlioccio della morte, paga la ripetuta trasgressione con la propria vita. Secondo il modello trasmesso dalla cultura tradizionale, ― sostiene Drewermann ― il buon medico è colui che sa discernere tra i malati da curare e quelli che sono destinati alla morte.
Il naturalismo ha ricevuto la sua prima formulazione teorica nell’ambito della medicina greca, che era essenzialmente una medicina “fisiologica” (perché la physis ― cioè la natura ― costituiva l’ordine da rispettare). La concezione naturalistica è stata rafforzata quando è stata fatta propria dal cristianesimo medievale: l’uomo è tenuto ad adattarsi all’ordine della natura, che in ultima analisi è un ordine divino, in quanto Dio è creatore della natura e delle sue leggi. Ma l’orientamento alla lex naturalis, come partecipazione alla lex aeterna, non offre più un criterio di discernimento per l’uomo della modernità. Caratteristica della tecnica moderna, a differenza di quella greca e medievale, è di «produrre artificialmente degli esseri naturali» (per usare una formula del filosofo spagnolo Xavier Zubiri). L’artificialità non è più, in sé, un criterio negativo di valutazione morale. Ciò vale non solo per come si nasce ― procreazione artificiale ― ma anche per il modo di morire. Il prolungamento artificiale della vita non è più considerato un disvalore, o una situazione da evitare. Ma proprio le situazioni cliniche che abbiamo considerato nel primo capitolo ci costringono a rivedere questo giudizio: l’artificialità, infatti, oltre un certo limite si può rivolgere
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contro l’uomo. Tra coloro che concepiscono la vita umana come sacra e coloro che, in una prospettiva laica, la considerano come naturalmente limitata, si può così instaurare un proficuo dialogo.
Vita spirituale e autodeterminazione
Vorremo dare al concetto astratto di autodeterminazione la concretezza di una storia personale. È quella di Peter Noli, raccontata da lui stesso nel libro: Sulla morte e il morire 46. Noli era un professore universitario, docente di diritto penale a Zurigo. Oltre che di cultura giuridica, era impregnato di teologia. Come giurista e cristiano, ha riflettuto a lungo, e in modo originale, sui problemi del potere e della legge. Ispirandosi direttamente a Gesù, che Noli amava rappresentare come il “disobbediente”, ha esercitato una critica contro l’etica cristiana, quando identifica l’essere cristiano con l’obbedire all’autorità, a qualunque condizione:
«Il contrario, rappresentato esemplarmente da Gesù, si può rappresentare solo riconoscendo la ribellione al fine di ottenere la libertà; e richiamandosi, audacemente, al divino comandamento della libertà. Chi si sottomette a questo comandamento di libertà non avrà mai pace; sarà sempre un outsider,; ma acquisterà una calma e un distacco che gli consentiranno di essere immune contro tutte le potenze, contro le loro minacce e le loro tentazioni».
Il momento di mettere in atto questo esigente programma di “protestante” contro la cultura dominante suonò per Peter Noli a 56 anni, quando gli venne diagnosticato un cancro alla vescica. La soluzione medica
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prospettatagli comprendeva l’asportazione chirurgica della vescica (da allora in poi sarebbe stato dotato di un sacchetto artificiale); l’intervento, completato da interventi di irradiazioni, gli avrebbe dato una scarsa probabilità di sopravvivenza ― tra il 35 e il 50 per cento ― limitata nel tempo e mutilata.
Deve scegliere: il differimento della morte, con le risorse della medicina, o le metastasi? Determinante nella scelta è la difesa della propria libertà: «Non voglio finire nella macchina chirurgico-urologica-radiografica, perché così facendo perderei pezzo a pezzo la mia libertà».
«Quello che mi disturba è la perdita della libertà; il fatto che gli altri possano disporre di me, che possa finire in un apparato che mi domini e di cui non sono all’altezza. Naturalmente mi disturberanno anche i dolori insopportabili. Per sfuggirvi ci si affida all’apparato, che toglie i dolori e con essi la libertà. Ed è esattamente quello che non voglio. È questa la tentazione cui cede la maggior parte delle persone, anche quando l’operazione non ha alcuna probabilità di successo: ci si consegna semplicemente all’ospedale, così sono gli altri a occuparsi di noi, a decidere per noi e ci si è convinti di aver predisposto tutto il possibile. Che razza di tranquillità è questa? Si ritorna bambini? Solo che non si ha il calore della madre; e qui, secondo me, sta l’errore. Il malato a morte che si è consegnato all’apparato medico è completamente abbandonato, perché l’aiuto che riceve è freddo» 47.
Peter Noli è consapevole che, acconsentendo all’operazione, si adeguerebbe definitivamente al ruolo di paziente per il resto della sua vita. Decide, pertanto, di rinunciare all’intervento che la medicina gli offriva:
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«Così non sono un paziente; non sono sanissimo, sono anzi mortalmente malato, ma non un paziente».
Il rifiuto dell’operazione come atto di eroismo? No: piuttosto come espressione di speranza. Ma di una speranza diversa da quella medica, che la identifica esclusivamente con qualsiasi prolungamento della vita. Speranza per Peter Noli era, invece, poter vivere più consapevolmente la parte finale della vita: «La mia esperienza è stata questa: viviamo meglio la vita se la viviamo così com’è, limitata nel tempo. Ho avuto la fortuna di conoscere la morte. È il vantaggio della morte per cancro, di cui tutti hanno tanta paura».
La consapevolezza di una morte prossima gli ha portato un patrimonio di saggezza. Con la morte davanti agli occhi, il tempo diventa più prezioso del denaro; cambia il rapporto con gli altri; si diventa più liberi, perché non è più necessario avere dei riguardi. Ma allo stesso tempo la sua scelta divide gli animi e suscita critiche. Una conoscente lo rimprovera: «Tu dai noia alla gente con la tua decisione. Quando uno ha il cancro va in ospedale e si fa operare; è normale. Ma se uno ha il cancro e se ne va in giro allegramente, come fai tu, diventa un fenomeno inquietante».
Nel libro, che contiene le riflessioni dell’ultimo anno di vita di Peter Noli, diventa molto convincente il percorso seguito, come conclusione di una vita più breve ma molto feconda. Lo scrittore Max Frisch, che è stato suo amico, commenta la vicenda nella postfazione affermando che ciò che Peter Noli ci offre è «lo sguardo di un uomo liberato, che osa sapere quello che sa e che aspetta che noi facciamo altrettanto».
La posizione di Peter Noli è espressione di un’aristocrazia spirituale che non è facile imitare. Il suo valore esemplare, tuttavia, va oltre l’offerta di un modello. Ci offre l’opportunità di mettere a fuoco uno dei problemi centrali dell’autonomia come valore culturale: se sia o no compatibile con un orientamento religioso
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nella vita. Il diritto dell’individuo ad autodeterminarsi, in quanto unica autorità nell’ambito delle scelte personali, si è presentato sulla scena della nostra civiltà con una forte carica eversiva, contro ogni forma di assolutismo, compreso quello religioso.
Il riferimento a Kant è d’obbligo. Dello spirito che anima l’epoca moderna egli ha dato le descrizioni più incisive. Nel definire l’illuminismo, lo ha contrapposto alla minorità, intesa come incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro:
«L’Illuminismo è l’uscita degli uomini dallo stato di minorità dovuto a loro stessi. Minorità è l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. A loro stessi è dovuta questa minorità se la causa di essa non è un difetto dell’intelletto ma la mancanza di decisione e del coraggio di servirsene come guida».
Questo è l'incipit famoso del trattatello di Kant: Risposta alla domanda: che cos’è l'Illuminismo? 48. Nel prosieguo illustra con alcuni esempi che cosa intendesse per minorità voluta e acconsentita:
«Se ho un libro che pensa per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che decide per me sulla dieta che mi conviene, ecc., io non ho più bisogno di darmi pensiero per me. Purché io sia in grado di pagare, non ho bisogno di pensare: altri si assumeranno per me questa noiosa occupazione».
L’invito di Kant: «Sapere aude» (Abbi il coraggio di servirti della ragione) ― si è esteso progressivamente a tutti gli ambiti della vita sociale. Solo la medicina ha
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costituito, per lungo tempo, una specie di riserva retta ancora dalle leggi dell’assolutismo, in veste di paternalismo benevolo. Nello stato di malattia l’individuo sembra riprecipitare in una condizione di “minorità”, anche se anagraficamente ha superato da molto tempo l’età in cui si diventa maggiorenni. La maggiore età è una condizione labile agli occhi del paternalismo medico. Quando un individuo è malato, il diritto a usare il proprio intelletto appare sospeso: è il medico che decide quali informazioni dare al malato, il trattamento più indicato, i percorsi da fargli seguire nell’accidentato cammino verso la salute. E ancor più quando il cammino inclina verso la morte.
Il diritto alla libertà, nella sua versione di diritto all’autodeterminazione ― ovvero a fare scelte in armonia con i valori autonomi della persona ― appare dotato di una forte carica eversiva nei confronti delle autorità costituite. Il razionalismo ha preteso di riportare la morale stessa entro i limiti della ragione, rifiutando ogni orientamento alla trascendenza. Questa connotazione antireligiosa accompagna il principio dell’autodeterminazione, che negli ultimi anni ha cominciato a modificare il rapporto tradizionale tra medici e pazienti. Dobbiamo sospettarlo di minacciare la vita religiosa degli individui? Cadono molto opportune le osservazioni di Peter Noli quando fonda la sua “disobbedienza” alle prescrizioni della medicina sul “disobbediente” Gesù. Possiamo seguirlo nel coraggioso tentativo di fondare la sua scelta critica nei confronti del rituale medico-tecnico del morire non nel razionalismo kantiano, ma nella libertà che per lui nasce da una frequentazione del Vangelo.
Un’altra considerazione di carattere generale possiamo derivare dalla vicenda di Peter Noli: le persone sono uniche, non solo per eredità genetica che le costituisce, ma ancor più per la gerarchia di valori che ognuno fa propria. Nel suo caso la priorità non andava
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alla lunghezza della vita, ma alla sua qualità. Ancor più precisamente, avere una vita di qualità equivaleva per lui alla possibilità di mantenere un controllo della propria interiorità, non lasciarsi espropriare dalla routine medica della possibilità di concludere la propria esistenza con un massimo di consapevolezza. Non per tutti questo è il valore principale.
Una vicenda parallela è quella che riguarda Sigmund Freud, il fondatore della psicoanalisi. E noto che Freud morì per cancro che gli fu diagnosticato nel 1923, a sessantasette anni. Sostenuto nelle sue decisioni da Max Schnur, il suo medico di fiducia, Freud affrontò con coraggio la lotta contro la malattia: fino al 1939, l’anno della sua morte, subì trentatré interventi chirurgici per contrastare la devastazione progressiva causata dal male che egli chiamava “il mostro”. Sedici anni di lotta continua, finché il 21 settembre 1939, Freud convoca il dr. Schnur per dirgli: «Caro Schnur, lei si ricorda del nostro primo colloquio? Allora mi ha promesso che non mi avrebbe piantato in asso quando sarebbe giunto il momento. Ora è solo tormento e non ha più senso». Lo stesso giorno, il 21 settembre, il dr. Schnur somministra al suo paziente, che finora ha sempre rifiutato ogni calmante, una forte dose di morfina e due giorni dopo, senza aver ripreso conoscenza, Freud muore.
Le scelte di Noli e Freud divergono su punti sostanziali. Mentre Noli ha rifiutato consapevolmente un trattamento medico che aveva qualche probabilità di prolungargli la vita, Freud ha fatto ampiamente ricorso alle risorse della medicina, fino al momento in cui ha optato per una sedazione profonda, con cui si è spento. Ma la struttura della morte dell’uno e dell’altro ha tutelato i valori centrali della loro vita. Per Freud si trattava della razionalità: il giudizio chiaro, la lucidità della mente. Scriveva al fratello: «La vita non mi dà più gioia, da diversi punti di vista sono un relitto, ma sono in possesso delle mie facoltà intellettuali, lavoro ancora». La sua
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scelta di non volere calmanti è stata comunicata al dr. Schnur con la seguente motivazione: «Preferisco pensare tra i tormenti che non pensare». La sua morte è stata coerente con la sua gerarchia di valori.
Se l’autodeterminazione è, fondamentalmente, l’esercizio del diritto di strutturare le proprie scelte riguardo alla vita e alla morte, secondo la propria gerarchia di valori, non può essere estranea al credente. Di più: nessuno come il vero credente la sente connaturata con la propria vita spirituale. La fede inizia, secondo il Vangelo, con una metànoia, che equivale a un terremoto interiore: l’ordine esistente è scompigliato, ciò che prima contava non conta più, ciò che prima era disprezzato brilla di luce nuova. Le conversioni di cui sono costellati i racconti evangelici danno sostanza biografica al concetto di metànoia.
In senso generale, possiamo affermare che il prolungamento a ogni costo della vita non trova giustificazione nell’universo spirituale del credente. La vita stessa è diventata relativa, rispetto alla “vera vita” che la speranza addita dopo la morte. Aggrapparsi alla vita terrena, come al valore più importante, ha il sapore dell’idolatria. Saper mettere un limite agli sforzi della medicina è espressione di saggezza, non mancanza di speranza.
«Voglio dire che non facciate più nulla»: questa l’estrema richiesta di mons. Tonino Bello, il compianto vescovo di Molfetta. Nella biografia scritta da Claudio Ragaini è ricostruito lo scenario dell’agonia, che conclude una lunga lotta contro la malattia. Sopravvenne una crisi e il malato cominciò a respirare a fatica. Il medico voleva dargli l’ossigeno, ma don Tonino lo rifiutò con un gesto. «Sembrava che cercasse di dire qualcosa ai presenti. Gli si accostarono, e lui con uno sforzo sovrumano sussurrò: “Voglio che non facciate più nulla”» 49. Nessuno oserà affermare che
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questa scena di morte non sia coerente con la vita di un credente ― di un grande credente ― semplicemente perché ha rinunciato a un prolungamento di vita che la tecnologia biomedica poteva assicurargli.
Non è, dunque, la vita al primo posto nella gerarchia dei valori di un credente. Le virtù teologali sono così importanti che il credente deve essere disposto anche al martirio per difendere la fede e a rinunciare alla vita per la carità (come P. Kolbe). Anche altre virtù hanno un rango così elevato che, quando entrano in conflitto con la tutela della vita, è quest’ultima a cedere il passo.
Nella gerarchia dei valori da difendere a ogni costo va inclusa anche la dignità? È la questione più recente e spinosa, sulla quale si è concentrato il dibattito relativo alla liceità di certe scelte sul limitare della vita. Ci sono persone per le quali il bene della sopravvivenza non è più tale, se avviene in condizioni di totale degrado fisico e mentale. Una voce autorevole che ha articolato il rifiuto della vita quando è pagato con il prezzo della dignità è stato Indro Montanelli. L’opinione giornalistica ha voluto vedere in lui un paladino dell’eutanasia. La sua posizione è stata più differenziata: ha rivendicato il diritto di chiedere il suicidio assistito, quando le condizioni di sopravvivenza fossero state, a suo giudizio, indegne. Ha scritto, infatti, in una delle sue rubriche di risposte ai lettori contenuta nel volume Nuove stanze:
«Ritengo che tra i diritti dell’uomo ci sia anche, anzi soprattutto, quello di congedarsi dalla vita quando questa sia diventata per lui soltanto un calvario di sofferenze senza speranza e, mettendolo alla mercé degli altri, gli abbia tolto anche la possibilità di difendere il proprio pudore, e quindi la propria dignità 50.
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La sua era piuttosto una perorazione a favore dell’autodeterminazione quale strumento per difendere i propri valori personali. L’ampia eco suscitata dalle sue posizioni è dovuta al fatto che attraverso questa voce ha trovato espressione una paura molto diffusa: quella di venirsi a trovare in balia di medici che considerano come loro dovere esclusivamente quello di prolungare il più possibile il funzionamento dell’organismo del paziente, in qualsiasi condizione ciò avvenga, e ignorando ogni altra dimensione della vita umana che non sia quella biologica. Quando si verifica l’ostinazione terapeutica, tenere in vita per qualche giorno o per qualche ora in più un paziente terminale diventa per il sanitario quasi un punto d’onore. Il prezzo dell’ostinazione è una somma inenarrabile di sofferenze inflitte, tanto al paziente quanto ai suoi familiari.
Il fantasma del medico ostinato a prolungare la vita vegetativa induce alcuni a contrapporgli la rivendicazione di un “diritto a morire”. Come fosse contenuto nel diritto all’autodeterminazione. In realtà il diritto a morire viene per lo più evocato come una barriera da contrapporre al medico che soggiaccia alla libido sanandi e che non sia disposto ad accettare la morte del paziente, in quanto smentisce le sue fantasie inconsce di onnipotenza. Se non vogliamo trovarci costretti a difenderci dai medici, bisogna che venga assimilato il principio che l’accresciuta disponibilità di mezzi terapeutici non crea, con ciò stesso, l’obbligo morale di utilizzarli.
Esiste il dovere morale di salvare la vita di un altro essere umano contro la sua volontà? In questo caso entrano in conflitto due specie di obblighi: quello di difendere la vita e quello di rispettare la libertà, secondo il principio dell’autonomia personale; mentre il primo giustifica l’intervento, il secondo richiede la non interferenza (nel caso in cui si sia moralmente certi che la decisione suicidarla è stata presa in effettiva libertà, e
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non sotto costrizione). Pensiamo, in concreto, al conflitto in cui viene a trovarsi un medico chiamato a fornire l’alimentazione forzata a un detenuto politico che abbia deciso lo sciopero della fame a oltranza, facendo così fallire la deliberata intenzione del suo gesto.
Solo poche voci isolate propongono il rispetto assoluto della volontà di commettere il suicidio come condizione per salvaguardare la dignità umana. Più generalmente, l’Occidente ha dato la preferenza all’obbligo di salvare la vita del suicida: in passato ricorrendo per lo più alle argomentazioni religiose che riferiscono il comandamento “non uccidere” anche alla vita del soggetto stesso; oggi prevalentemente con motivazioni secolari, ivi compreso il principio giuridico secondo cui il diritto alla vita va inteso come un diritto “assolutamente indisponibile”, tutelato dallo Stato anche contro la volontà dell’individuo.
Con particolare mitezza si tende, oggi, a valutare i tentativi di porre fine alla propria vita da parte di persone che intendono sfuggire ai dolori intollerabili e ai trattamenti disumani nella fase terminale della malattia. Anche in questi casi non sussiste, almeno dal punto di vista dell’etica cristiana, alcun valido motivo per riformulare il giudizio morale che ritiene illecito ogni attentato contro la propria vita. Ma non dovremmo sentirci dispensati dal riflettere sul significato profondo di tali gesti suicidi, nei quali molto spesso si riversa una vibrata protesta contro le condizioni di vita a cui sono costretti i malati terminali. La prevenzione del suicidio non può ridursi allora alle misure coercitive. Deve estendersi piuttosto alla modifica di quelle forme più generali di malessere, le cui radici vanno fatte risalire all’organizzazione sanitaria del morire. Quando una persona giudica la propria vita come invivibile, non basta impedirgli di porvi fine: bisogna offrirgli l’aiuto necessario perché la sua vita ritrovi la qualità umana.
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Appurato che si tratti di un vera volontà di morire, un’altra opera di discernimento è affidata all’etica: la distinzione tra la volontà sana e quella patologica. Non tutti accettano che possa esistere una sana volontà di morire. Per lungo tempo qualsiasi progetto autodistruttivo nei confronti della propria vita è stato etichettato come moralmente perverso. I comportamenti sociali verso i suicidi, comprendenti persino il rifiuto di esequie religiose, avevano una funzione prevalente di deterrente, affinché non si innescasse il fenomeno dell’imitazione; la valutazione morale era, in ogni caso, di condanna. A questo atteggiamento ha fatto seguito l’epoca dell’indulgenza, ma solo perché al gesto di chi si toglie la vita è stato conferito un carattere patologico. La conoscenza delle radici socio-psicologiche del comportamento suicida ha aperto la strada a un atteggiamento di maggior comprensione. Peccato... pazzia...: la volontà di morire non può essere coniugata anche con la salute, sia morale che mentale?
L’istinto naturale per la vita e l’obbligo morale di preservarla sono indubbiamente il punto di partenza dell’etica della vita fisica. Ma la volontà di morire non può essere esclusa in assoluto dal progetto di vita umano. Essa può esprimere la positiva accettazione della propria umanità, come essenzialmente limitata nel tempo. La fantasia dell’immortalità è legata all’io; talvolta ne esprime l’ipertrofia: in questo caso, è la fantasia di immortalità, non la volontà di morire, ad avere carattere patologico. Quando l’individuo lascia che si sviluppi anche la dimensione transpersonale, che trascende l’orizzonte dell’io, l’abbarbicamento alla vita corporea viene superato. A un certo livello di autorealizzazione la persona si apre a un’aspirazione mistico-unitiva con il Tutto, anche al di fuori dell’esperienza formalmente religiosa.
La volontà di morire può avere anche un risvolto di ribellione all’idolatria della vita, caratteristica della
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cultura immanentista nella quale siamo immersi. Quando la vita fìsica è considerata il bene sommo e assoluto, al di sopra della libertà e della dignità, l’amore naturale per la vita si tramuta appunto in idolatria. La medicina implicitamente promuove tale culto, organizzando la fase terminale come una lotta a oltranza contro la morte. Ribellarsi a tale organizzazione ― che per lo più espropria il malato di ogni autonomia, sottoponendolo ai rituali chirurgici e rianimatori dell’ostinazione terapeutica ― può essere anche un gesto di disobbedienza, mentalmente e moralmente sano. Dovremmo aspettarcelo soprattutto dal credente, che la fede ha reso libero dai miti (l’immortalità) e dagli idoli (la vita corporea sopra ogni altro valore).
Il rispetto dell’autodeterminazione si accompagna a un discernimento dei motivi delle proprie decisioni e di quelle altrui. Voler staccarsi dalla vita o aggrapparsi a essa oltre ogni ragionevolezza; voler mettere in atto tutto l’arsenale di cui dispone la medicina per prolungare la vita, oppure disporsi ad affrettare la fine della persona che si ama: dietro questi comportamenti ci possono essere motivazioni diverse, dalle più nobili e altruistiche ad altre moralmente impresentabili. La compassione può essere egoismo mascherato o inconsapevole; la disponibilità a tenere in vita può contenere tratti sadici; l’impegno per l’altro può essere inserito entro una trama di giochi di potere. Oltre l’ambito delle luci verdi o luci rosse che sono funzioni dell’etica, si apre lo spazio del discernimento ― che cosa guida le nostre scelte e a quale fine tendono le nostre azioni ― che è proprio della spiritualità.
Persona e comunità
Il processo di civilizzazione ha trasformato in molti modi il morire. Gli storici hanno descritto dettagliatamente
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le convinzioni condivise, i ruoli sociali e i rituali, religiosi e profani, che ci differenziano dai nostri antenati, anche solo nel giro di alcune generazioni. Tuttavia, è possibile individuare alcune costanti. Le difficoltà fondamentali che si contrappongono a una morte con qualità umana continuano a ruotare intorno a due poli: la miseria del morire in solitudine e la miseria di non avere lo spazio di solitudine necessario per morire.
La contraddizione è più apparente che reale, in quanto si riferisce a due diversi bisogni. Il primo è quello di avere, sul punto di affrontare il momento angosciante del distacco dall’esistenza, la vicinanza rassicurante di qualcuno. Questo ruolo di conforto, assicurato soprattutto da coloro ai quali il morente è legato con legami di sangue e di cuore, nella nostra società è minacciato dalla prassi invalsa di nascondere in modo sistematico al morente la sua condizione. La presenza dei propri cari non conforta più, perché è impregnata di menzogne. Il morente lo avverte, e il rapporto di fiducia con i suoi stessi familiari è infranto. Magari preferirà adattarsi al ruolo che gli viene richiesto e fingere di ignorare l’avvicinarsi dell’ora fatale, pur di conservare una parvenza qualsiasi di rapporto con chi si occupa di lui. Ma si sentirà murato nel suo isolamento, senza la possibilità di esprimere le sue emozioni e di liberarsi dall’angoscia che gli causa la prospettiva della fine imminente, condividendola verbalmente con qualcuno.
Per dare concretezza a questa situazione, attingiamo ancora un caso esemplare dal prezioso archivio costituito dai casi clinici sottoposti al Comitato etico della Fondazione Floriani.
Il sig. S. è ricoverato in ospedale, nella divisione di neurologia con diagnosi recente di tumore cerebrale, non suscettibile di terapia causale. E in dimissione perché terminale, ma gli viene detto che ha avuto un ictus
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e che va a casa in attesa dì un posto presso un centro di riabilitazione.
Il paziente ha una forte cefalea e vomito, non controllati dalle terapie attuate dal personale della divisione. La moglie del paziente ― che è ausiliaria nello stesso ospedale ― e la figlia ― infermiera professionale presso la divisione di psichiatria ― fanno pressione sui medici della neurologia perché sia richiesta la consulenza dell'Unità di cure palliative. Ottenuta la richiesta di visita a parere dello specialista di questa Unità, la moglie e la figlia chiedono che la visita non sia effettuata dal responsabile dell’Unità, conosciuto dal malato, ma da altro medico che si qualifichi come specialista pneumologo.
Casi analoghi si erano già presentati, almeno altre due volte. Nell’équipe i pareri sono discordi: ci si chiede se sia corretto assecondare il desiderio dei familiari di mantenere il paziente nell’ignoranza della diagnosi e rinunciare al proprio ruolo, qualificandosi come altro servizio.
Il parere ragionato del Comitato etico inclina in senso contrario: adduce solide motivazioni per concludere che la richiesta dei familiari (non solo di non informare il paziente, ma di mentire sulla diagnosi e la prognosi, fino a chiedere di mascherare la propria qualifica di specialisti in cure palliative) non dovrebbe essere assecondata. In realtà le decisioni dei sanitari sono per lo più conformi al modello del nascondimento. La conseguenza ― non voluta in quanto tale, ma legata a questo modo di strutturare i rapporti ― è che il malato muore in una totale solitudine psicologica e spirituale.
L’altro bisogno, opposto e complementare, è quello di uno spazio psicologico per elaborare la sintesi conclusiva della propria vita, prendere congedo, svellere a una a una le mille radici che ci legano all’esistenza
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terrena. È un processo di distacco che la psicologia del profondo designa col termine tecnico di “elaborazione del lutto”. Una presenza invadente e ciarliera ― compresa quella fatta di discorsi edificanti ― potrebbe essere pregiudizievole per questo bisogno del morente di presenza a se stesso. Lo scrittore Samuel Butler ha colto, presso un suo conoscente, una situazione in cui la vicinanza era troppo densa e infastidiva il morente. L’ultima parola che questi pronunciò, rivolgendosi a un amico presente nella camera, fu: «Ti dispiace uscire un momento? Vorrei morire...».
La composizione dei due diversi bisogni fa sì che non si possano tracciare regole fisse o fornire ricette per morire in modo umano. Oggi, come ieri, è necessaria una creatività spirituale per dare forma alla propria morte. Come si è espressa la poetessa Sylvia Plath:
«Morire,
è un’arte, come ogni altra cosa.
Io lo faccio in maniera eccezionale.
Io lo faccio che sembra come inferno.
Io lo faccio che sembra reale».
La deformazione sistematica che oggi ci affligge ― per la quale è stato coniato il termine “distanasia” ― dipende dal venir meno della giusta distanza tra chi muore e chi lo assiste. La bilancia pende unilateralmente sul piatto della solitudine. E il morire è diventato “come inferno”.
In passato, l’inferno era presente al morente come fantasma legato al senso di colpa, spesso deliberatamente favorito da quell’assistenza religiosa che lo storico Jean Delumeau ha chiamato “pastorale della paura” (paura ossessiva del peccato, della morte e dell’inferno: questi i tre capisaldi sui quali si è basato il cristianesimo della paura). Il tema della morte come punizione e come porta di accesso al castigo eterno si è risolto nella
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grande colpevolizzazione dell’Occidente cristiano e si manifesta ancor oggi nella fobia di molti alla presenza di un sacerdote al capezzale del morente, perché associato con l’angoscia intollerabile della condanna irrevocabile. Ma, per la massa dei morenti, oggi è piuttosto la solitudine nella fase terminale della vita l’“inferno” che li attende; ed è più paventata del fuoco eterno.
Alla solitudine del morente nella nostra società ha dedicato un saggio sociologico, molto convincente, Norbert Elias: La solitudine del morente 51. A suo avviso, è lo stesso processo di civilizzazione in cui siamo inseriti che relega dietro le quinte della società la morte e l’agonia, circondandole con un senso di imbarazzo fisico e verbale. La solitudine del morire è, nella ricostruzione di Elias, un prezzo della civiltà. Rispetto alle insicurezze e ai pericoli che minacciavano la vita dell’individuo, nella società medievale, ci sentiamo protetti; ma ci viene chiesto un controllo generale e costante di ogni forte impulso emotivo. L’angoscia che suscita la morte viene rimossa nel modo più radicale: ignorando la morte stessa. Così siamo diventati capaci di attenuare medicalmente i tormenti fisici della morte, ma la partecipazione alla morte degli altri si è atrofizzata.
La solitudine di cui soffre il morente non è di natura fisica (i barboni che muoiono sui marciapiedi delle città in inverno o gli anziani soli, che vengono trovati cadavere dopo parecchi giorni nella propria casa, restano isolati fatti eccezionali, universalmente esecrati), ma di ordine affettivo e spirituale. «Quando il morente», afferma Elias, «sente che non riveste più alcuna importanza per le persone che lo circondano, allora è realmente solo». Non conosce la solitudine unicamente colui che è abbandonato a se stesso, ma anche la persona che vive in mezzo a gente indifferente alla sua esistenza, e che ha spezzato i ponti di contatto
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tra sé e questa creatura umana. Questo è per lo più il caso dei morenti.
La medicalizzazione della morte e la crescente divaricazione tra il curare e il prendersi cura sono la causa prossima della solitudine del morente. Che cosa succede quando la medicina curativa dichiara concluso il suo compito nei confronti di una persona? Se il caso clinico non suscita un interesse tale da giustificare un supplemento di mobilitazione delle risorse terapeutiche, il malato terminale e il moribondo vengono per lo più abbandonati. La medicina tende a disertare il capezzale presso il quale non può operare qualcuno dei suoi ben reclamizzati “miracoli”. Se la speranza di tipo medico, concepita sempre a senso unico come speranza di strappare qualche mese o qualche giorno alla morte, viene a cadere, il medico passa la mano. In passato subentrava per lo più il sacerdote, come esperto delle “cose ultime” personali; oggi, caduta per la secolarizzazione anche la presenza di tipo pastorale, intorno al morente si apre lo spazio del più doloroso isolamento. Quando la macchina sanitaria cessa di curare, rinuncia contemporaneamente anche a prendersi cura.
Un gioco di colpevolizzazioni ― talvolta sottile, talaltro grossolano ― fa da sfondo alla solitudine del morente. Da una parte, la disumanizzazione del morire viene attribuita ai sanitari, accusati di venir meno all’ispirazione filantropica che ha sempre caratterizzato la cura dei malati. Medici e infermieri, a loro volta, ritorcono sulle famiglie l’accusa di non assumersi l’onere materiale dell’assistenza dei loro vecchi e di sottrarsi, sopraffatti dall’emotività, quando si tratta di condividere con i malati, giunti al capolinea della vita, la verità sulla loro condizione.
C’è indubbiamente del vero nelle carenze tanto dei professionisti sanitari quanto dei familiari. Ma forse è opportuno aggiungere una considerazione che può aiutare a superare la polarizzazione accusatoria: il malessere
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che circonda la morte è, più che il risultato di un deficit morale di un agente sociale, il sintomo dolorante di un'impasse cui ci ha condotto lo sviluppo della civiltà, con i successi della medicina da una parte (mai l’umanità aveva conosciuto tanti vecchi e, insieme alla longevità, un rallentamento così rilevante del processo del morire) e l’analfabetismo emotivo dall’altra, con l’impaccio e i dubbi che accompagnano la gestione delle emozioni. Ciò che urge non è la ricerca dei colpevoli del processo di disumanizzazione del morire, bensì la proposta di modelli alternativi di assistenza ai morenti.
Una ars moriendi per il XXI secolo ?
Con il termine “ars moriendi” si designa un genere letterario che si è tradotto in un certo numero di opere, diffuse nel periodo a cerniera tra il medioevo e il rinascimento. Ne esistono circa 300 manoscritti e un centinaio di incunaboli (opere a stampa, del primo periodo di quest’arte). Si tratta di scritti di struttura e contenuto analogo, di natura didattico-devozionale, destinati sia al popolo che ai letterati. Alcuni sono semplicemente una raccolta di preghiere e di meditazioni sulla morte. Altri sviluppano il tema delle tentazioni contro delle virtù (la fede, la speranza, la pazienza, il distacco dai beni...); se le tentazioni vengono superate, l’anima del moribondo viene consegnata agli angeli. Alcune delle artes moriendi, infine, contengono testi biblici e brevi considerazioni sulla morte, accompagnate da figure corrispondenti ai testi riportati. Oltre a una miscellanea di citazioni sulla morte di autori cristiani, i testi contengono avvertimenti ai moribondi sulle tentazioni cui sono esposti, abbozzi di risposte ai dubbi da cui il moribondo può essere assalito, nonché consigli alle persone che assistono il moribondo e preghiere che devono recitare.
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Il termine ars qualificava scritti rivolti a guidare i comportamenti. Il tardo medioevo ha prodotto manuali pratico-didascalici di questo genere anche su altri argomenti, come la gentilezza, il corteggiamento, le buone maniere. L’ars moriendi considerava la morte come un processo, per il quale l’uomo ha bisogno di aiuto: come deve essere aiutato a entrare nella vita, alla nascita, così deve essere assistito per uscirne. Il ruolo di aiuto non spetta alla medicina, quasi che il morire debba essere considerato solo un processo corporeo: il morente ha bisogno di un accompagnamento umano e spirituale. Nella prospettiva religiosa, era soprattutto un aiuto per prepararsi al giudizio divino imminente. L’eutanasia ― nella sua accezione originaria di aiuto per una “buona morte” ― emerge come un compito non medico, bensì filosofico-religioso.
Nell’ars moriendi la medicina è considerata estranea perché ha luogo uno spontaneo orientarsi del pensiero verso la morte. Nell’ultima fase della vita, infatti, la morte occupa in maniera crescente la coscienza. Già san Gregorio Magno aveva parlato della prolixitas mortis: la morte che si dilunga coincide con l’esperienza del limite e della finitezza. L’ars moriendi ci mostra, considerata in questa prospettiva, il suo vero volto: non è altro che l’altra faccia dell’ara vivendi. Non ci si può appropriare del significato della morte sul punto di morire, se per tutta la vita la morte è stata assente. L’ars moriendi è un apprendistato permanente, grazie al quale la persona previene di essere collocata forzatamente di fronte alla morte come a una realtà estranea.
Anche l’umanesimo cristiano del rinascimento ha condiviso questa visione della morte. Lo testimonia l’opera di Erasmo da Rotterdam: La preparazione alla morte, del 1533 52. La philosophia christiana proposta dagli umanisti
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si pone in continuità con la tradizione classica: ripropone il memento mori, non per svuotare di significato e di qualità l’esperienza terrena, ma per darle più valore, inquadrandola entro un orizzonte di finitezza, che in termini teologici è l’esistere come esseri creati.
La nostra epoca ha visto un fiorire di iniziative che, frettolosamente, sono state battezzate come un revival dell’ars moriendi In questo genere confluiscono tentativi diversi di riportare la morte al centro dell’attenzione, ad opera di “esperti del morire”. È indicativa la parabola di Elisabeth Kübler-Ross, che da psichiatra attenta alla psicodinamica del morire ― con le sue classiche “fasi del morire”― si è progressivamente collocata in un ambito più esplicitamente spirituale, con l’intento di favorire una riappropriazione sapienziale della morte che integri anche le tradizioni spirituali dell’Oriente. Periodicamente emergono figure carismatiche, che si conquistano laicamente la qualifica di esperti dell’accompagnamento dei morenti e attirano consensi alla causa dell’umanizzazione (o ri-umanizzazione) del morire. Citiamo solamente il forte ruolo giocato da Marie de Hennezel, soprattutto in Francia, grazie anche all’appoggio autorevole concessole dal presidente Francois Mitterand. Questi ha espresso pubblicamente la consapevolezza della malattia mortale che l’aveva colpito e ha validato l’approccio di Marie de Hennezel, che ha spinto la sua competenza di psicoioga nell’accompagnamento dei morenti fino a promuovere l’aptonomia, ossia la scienza del contatto affettivo che si stabilisce attraverso l’incontro tattile.
«Come morire?», si domanda François Mitterand, introducendo il libro di Marie de Hennezel: La morte amica 53. «Se c’è una risposta, sono poche le testimonianze capaci di ispirarla con la forza di questa». L’insegnamento principale che il presidente francese ne trae
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è che «la morte può far sì che un essere diventi ciò che era chiamato a divenire; può essere, nella piena accezione del termine, un compimento».
Possiamo includere nel filone anche la pubblicazione di numerose testimonianze, a metà strada tra la denuncia e la proposta, in particolare dall’ambito del volontariato nelle cure palliative. A questo punto possiamo porci la domanda: equivale tutto ciò all’elaborazione di una ars moriendi per i nostri giorni? Decisamente no. La convinzione che esista un’arte del morire e che questa si possa imparare non è condivisa. Soprattutto è entrato in crisi l’umanesimo come convinzione ingenua di poter parlare dell’“uomo” al singolare, senza passare per le innumerevoli declinazioni dell’umano, fatte dalle culture. Ancor più incide il pluralismo dei modelli etici: prevale la fisionomia di una società composta di “stranieri morali”, ai quali non può essere applicato l’identico modello di morte ideale.
Harold Brodkey, lo scrittore americano che ha avuto il coraggio di redigere un resoconto dettagliato del suo ultimo soggiorno in ospedale, concluso con la morte, traccia una linea minima. Ritiene che si debba quanto meno «morire da persone educate». Riconosce che il suo è «ottimismo senza speranza»: non solo la speranza religiosa di un’altra vita, ma anche la speranza secolare che consiste nel guardare al futuro («È il fondamento dell’America, questo guardare al futuro. Noi creeremo una nazione, e avremo giardini, piscine e chirurgia plastica. Il sogno americano è quello di ricostruire dopo l’alluvione, trovandosi in condizioni migliori di prima, di superare questa o quella sfida, fino alla morte, morte inclusa. Beh, come si fa a essere ottimisti per il momento? Senza speranza?»).
L’arte del morire viene ridotta a una specie di galateo, ovvero alla recita fino alla fine della parte del vivo, così come coloro che contornano il paziente si aspettano da lui:
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«I miei amici e conoscenti che erano morti di Aids, verso la fine, quasi tutti, avevano un’aria di nervosa finzione, come attori guardinghi. Forse era sempre stato chiaro, ma adesso mi era chiarissimo, che si recita una parte nel restar vivi e che il posto in cui si recita questa parte è vuoto, privo di pavimento, e di una definizione percepibile. Si recita questa parte con un brio alla rovescia, cercando di nascondere (senza riuscirci) la propria condizione di non residenti» 54.
Il comportamento da morente che Brodkey tratteggia ― comportamento molto diffuso, al di qua e al di là dell'Atlantico ― ci appare antitetico a quello adottato da Peter Noli. Da una parte la recita secondo il ruolo che altri ― l’organizzazione medica delle cure, le attese sociali ― hanno affidato; dall’altra la difesa di uno spazio di libertà, fino nel segmento finale della vita, anche a costo di dover rinunciare a qualche risorsa della medicina.
Le voci dei nostri contemporanei ci rendono consapevoli di quanto sia cambiato l’atteggiamento nei confronti della morte. Tuttavia, riusciamo a individuare una costante, costituita dalla tipologia sommaria di due gruppi di persone: coloro che escludono la morte dal proprio campo di consapevolezza e coloro che la morte preferiscono guardarla in faccia e, nei limiti del possibile, controllarla.
Per riferirci a formulazioni classiche dei due modelli, possiamo descrivere il primo tipo con le parole di Pascal:
«Distrazione. Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza, hanno risolto, per vivere felici, di non pensarci (...).
Nonostante tutte queste miserie, l’uomo vuol essere felice, e vuole soltanto essere felice, e non può non volere essere tale. Ma come fare? Per riuscirci, dovrebbe
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rendersi immortale; siccome non lo può, ha risolto di astenersi dal pensare alla morte» 55.
Michel de Montaigne dà voce all’opzione opposta: tenere lo sguardo fisso sulla morte:
«Per cominciare a togliergli il suo maggior vantaggio su di noi, mettiamoci su di una strada assolutamente contraria a quella comune. Tagliandogli il suo aspetto di fatto straordinario, pratichiamolo, rendiamolo concreto, cerchiamo di non aver niente così spesso in testa come la morte. A ogni istante rappresentiamola alla nostra immaginazione, e in tutti i suoi aspetti» 56.
Non si tratta di una meditazione religiosa, ma civile. Le considerazioni di Montaigne ― contenute nel cap. XX dei Saggi: «Filosofare è imparare a morire» ― nascono dalla convinzione che «la meditazione della morte è meditazione della libertà» e che «chi ha imparato a morire ha disimparato a servire: il saper morire ci affranca da ogni soggezione e costrizione».
Che cosa riusciamo a traghettare nel XXI secolo della saggezza tradizionale? Reagendo alla sensazione frustrante di non disporre di modelli di valore universale e obbligante da riproporre, concentriamoci almeno su alcuni tratti. La legittimità di dare alla propria morte una fisionomia personale è uno degli elementi costitutivi della morte umana dei nostri giorni. Come è unica ogni persona, così può e deve essere unica ogni morte, in quanto ricerca di un punto d’incontro personale tra ciò che la natura ci costringe a subire (la morte è pathos) e ciò che, a partire dai valori che strutturano la nostra vita, possiamo e vogliamo fare (la morte può essere anche figlia di eros). Per dirlo con le parole di un poeta, che ha espresso la sua speranza sotto forma di preghiera:
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«Signore, dà a ciascuno la sua morte,
la morte che da quella vita viene,
in cui ebbe amore, anima, angoscia.
Perché noi siamo solo guscio e foglia.
La grande morte che ciascuno ha in sé
è il frutto intorno a cui tutto si volge» 57.
Un secondo tratto della “buona morte” del futuro è quella di poterla affrontare grazie a un rapporto particolare con medici, infermieri e altri sanitari: un rapporto che, in analogia con la categoria biblica dell’alleanza, possiamo chiamare “alleanza terapeutica”. Anche questo aspetto lo vogliamo esprimere con le parole di un poeta: John Donne, poeta inglese del XVII secolo. Nel suo Inno a Dio, il mio Dio, nella mia infermità, considera la malattia come l’anticamera della morte. Morire significa, nel suo orizzonte di fede, diventare musica di Dio; meditare sulla morte equivale ad accordare il suo strumento («e ciò che allora dovrò fare penso prima dell’ora»):
«Mentre i miei medici, per loro amore
sono diventati cosmografi ed io
loro mappa, stesa su questo letto
perché da loro sia mostrato come
io scopra qui il mio passaggio a Sud-Ovest
per fretum febris, per
questi stretti morire
io giubilo, che in tali stretti vedo
il mio Occidente» 58.
La via della “buona morte” è per il poeta un viaggio avventuroso, come la travagliata ricerca del passaggio
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a Sud-Ovest per raggiungere l’Oriente viaggiando verso l’Occidente, che tanto affaticò i navigatori fino a Magellano. L’immagine di un varco da scoprire tra i ghiacciai della Terra del Fuoco si attaglia perfettamente alla ricerca di una buona morte. Alcuni secoli sono passati da allora. Tutte le coordinate sono cambiate: le rappresentazioni che ci facciamo della morte e dell’aldilà, i modi di organizzare l’intervento medico per affrontare la malattia, le risposte sociali alle minacce che incombono sulla vita. Ma la ricerca del «passaggio a Sud-Ovest» è rimasta pur tuttavia un valore prioritario nella vita degli uomini più consapevoli. Questa navigazione perigliosa non la possiamo affrontare senza il prezioso aiuto di quei “cosmografi” che hanno fatto della medicina una professione, certo, ma una professione che nasce dall’amore e non si può esercitare senza amore.
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Conclusioni
MEMENTO VIVERE
Affidiamo i pensieri conclusivi a un celebre quadro: l'«Autoritratto con la morte che suona il violino», del pittore svizzero Arnold Böcklin.
Dipinto nel 1872, il quadro pervenne alla Galleria Nazionale di Berlino ― dove tuttora si trova ― nel 1898. Non senza dissensi, a cominciare da quelli dell’imperatore prussiano Guglielmo II, che criticava nel quadro simbolista gli elementi “fantastici”, “non veri”...
La creazione di Böcklin attinge a una tradizione di lungo respiro, che visualizza la morte ― rappresentata come macabro scheletro ― quale ammonimento a non dimenticare la fugacità della vita. L’esistenza non è saldamente nelle nostre mani: ci può sfuggire in qualsiasi momento. In breve, la trascrizione iconografica del «Memento mori».
La dimensione esistenziale della morte è ampiamente presente nell’opera pittorica di Böcklin. Basta
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ricordare la notissima “Isola dei morti”, concepita come un invito alla contemplazione delle cose ultime. Nell’autoritratto, tuttavia, la figura della morte non è finalizzata a sottolineare la caducità della vita. Il quadro simboleggia piuttosto la ricerca dei valori ultimi e più profondi. La morte, sempre in agguato, dà ispirazione all’artista, che si arresta ad ascoltare la nota acuta dell’unica corda del violino.
Intimità, ispirazione attinta dal lato oscuro della vita, immortalità dell’arte (sulla tomba di Böcklin, sepolto a Firenze, è scolpito il verso di Orazio: Non omnis moriar, «Non tutto di me morirà»). Certo; ma non solo. L’opera d’arte può guidarci verso significati che sopravanzano i contenuti presenti alla coscienza dell’artista. Senza forzature, possiamo collocare sotto il quadro di Böcklin le riflessioni che siamo andati sviluppando. Più di un secolo è trascorso, non senza conseguenze profonde circa lo scenario abituale del morire. Oggi come ieri, tuttavia, l’opera d’arte per eccellenza è l’uomo, che acquista forma conclusa con la morte. Di ogni uomo, non solo dei pochi privilegiati dalle Muse. L’artista è solo un fratello maggiore di ogni essere umano, che vive ed esprime con più consapevolezza l’imperativo: Memento vivere. La forza morale che emana dall’autoritratto del pittore è quella richiesta a ognuno per armonizzare la propria vita e la propria morte.
Sulla trama di questi valori permanenti si inseriscono le novità del nostro tempo. L’individuo non è più solo a condurre il muto dialogo con la morte. Lo Stato, con le sue leggi e con le misure di politica sanitaria, gioca un ruolo determinante nell’ambito delle nostre scelte. All’organizzazione sociale chiediamo di difendere il valore di ogni vita, contro logiche di mercato e di utilità che portano a sacrificare i più fragili ai più forti. E di rendere possibili i programmi enfaticamente espressi da parole quali “sacralità della vita”,
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“dignità”, “autodeterminazione” mediante una sanità pubblica ispirata all’equità, che non abbandoni i malati quando non può più guarirli. Una sanità, quindi, che includa le cure palliative in ciò che ci impegniamo a garantire a ogni individuo.
Tra l’uomo, “artista” della propria vita, e la morte si inseriscono poi, ai nostri giorni in modo determinante, le figure dei professionisti sanitari. La medicalizzazione della morte ha comportato un’espropriazione crescente del ruolo di protagonista proprio della persona che muore. Un’inversione di tendenza è possibile. Le decisioni cliniche possono e devono essere più condivise, più negoziate, a cominciare dal morente stesso, nella misura in cui è disposto a partecipare attivamente e consapevolmente alle decisioni che lo riguardano. Perché ciò si realizzi, la morte deve cessare di essere il tabù dominante della nostra civilizzazione e tornare a essere oggetto di parola o, piuttosto, di parole.
Le diverse concezioni etiche possono diventare l’oggetto di una conversazione irenica, senza demonizzazioni reciproche, senza scomuniche. Se sulla morte, come sul sole, non si può fissare direttamente lo sguardo, si può almeno ascoltare. Oltre all’ascolto intenso che ciascuno ― come il pittore Böcklin nell’autoritratto ― può esercitare, oggi ci è richiesto sempre più di metterci all’ascolto delle voci che esprimono i mondi morali degli individui e di filosofie che organizzano risposte argomentate alle sfide che il morire ci pone. Forse il nostro tempo non sa dare una risposta unica e univoca su che cosa è bene, che cosa è giusto fare per chi sta morendo. Ma l’alternativa alla voce solista non è necessariamente la cacofonia: può essere una sonorità corale.
Sandro Spinsanti
Francesca Petrelli
[quarta di copertina]
La forma più frequente di morte ― al di fuori delle catastrofi prodotte dalla natura, o dall’uomo ― è quella che avviene tra le braccia della medicina. Braccia fredde per definizione; ma non necessariamente destinate a essere disumane. Purché ci si renda conto che la medicina ha cambiato il processo del morire e che bisogna modificare il modo in cui si prendono le decisioni al letto del malato.
L’etica di sempre, quella rivolta alla cura e alla tutela della vita, non è superata, ma non può essere riproposta senza il correttivo di un profondo rispetto dei valori personali e delle preferenze di chi affronta l’ultimo viaggio. Partendo dalle situazioni cliniche più frequenti e drammatiche ― terapia del dolore, arresto di trattamenti che prolungano artificialmente la vita, stati di coma permanente, richieste di interventi per porre fine alla vita ― questo testo percorre la trama delle norme che regolano le decisioni di fronte alla morte, interrogando la deontologia medica, la legge, l’etica, la morale religiosa.
Saper accompagnare la fine del viaggio della vita si profila come un capitolo maggiore dell’umanesimo contemporaneo.
1 L. Schwartzenberg, P. Vianson-Ponté, Cambiamo la morte, Mondadori, Milano 1980.
2 S. Nuland, Come moriamo, Mondadori, Milano 1993.
3 K. Binding, A. Hoche, Die Freigabe der Vernichtung lebensumuerten Lebens, Leipzig 1922.
4 V. Bonito, «Prolungare o no la vita? L’esperienza di Bergamo», in Tempo medico, n. 741, 16/05/2002.
5 H. Schneider, Il piccolo Adolf non aveva le ciglia, Rizzoli, Milano 1998.
6 J.D. Bauby, Lo scafandro e la farfalla, Ponte alle Grazie, Milano 1997.
7 S. Nuland, Come moriamo, op. cit.
8 E.J. Emanuel, M.P. Battin, «What are the potential cost savings from legalizing physirian-assisted suicide?», in New England Journal of Medicine, vol. 339, n. 3, 1998.
9 Cfr. S. Spinsanti, Documenti di deontologia e etica medica, ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 1985, p. 190.
10 Ibidem, pp. 62-72.
11 G. Dalla Torre, Bionica e diritto, Giappichelli, Torino 1993, p. 146.
12 F. D’Agostino, «Bioetica e diritto», in Medicina e morale, n. 4, 1993, p. 688.
13 J. Stuart Mill, Saggio sulla libertà, Il Saggiatore, Milano 1981, pp. 32-33.
14 Ivi.
15 Documentazione Oregon: «Death with dignity act», in Medicina e Morale, n. 5, 1996, p. 1001.
16 C. Vetere, «Complicazioni nell’eutanasia legalizzata e nel suicidio assistito», in Nuovo Medico d'Italia, n. 4, 2000, p. 7.
17 C. Vetere, ibidem.
18 Aa.Vv., Quando morire? Bioetica e diritto nel dibattito sull'eutanasia, Viafora (a cura di), Gregoriana Libreria Editrice, Roma 1997, pp. 132-133.
19 Ibidem, p. 157.
20 Ibidem, p. 162.
21 H. Kuhse, «Eutanasia volontaria, politica e diritto. Un resoconto dall'Australia», in Bioetica, n. 2, 1997, p. 297.
22 Looman, «Euthanasia and other medical decisions concerning the end of life», in The Lancet, vol. 338, 1991, p. 671.
23 V. English, «The UK experience of “Living Will”», in Autodeterminarsi nonostante, R. Dameno (a cura di), Guerini e Associati, Milano 2002, p. 109.
24 J. Lynn, Teno, «After the Patient’s Self-Determinalion A et: the need for empirical research on formal advance directives», in Hastings Center Report, vol. 23, n. 1, pp. 20-24.
25 D.M. High, «Advance directives and the elderly: a study of intervention strategies lo increase use», in Gerntologist, vol. 34, pp. 342-349.
26 D. Lamb, L’etica alle frontiere della vita, Il Mulino, Bologna 1998, p. 86.
27 N. Cantor, Advance Directives and the pursuit of death with dignity, Indiana University Press, Bloomington-Indianapolis 1993, p. 65.
28 Cfr. D. Neri, Eutanasia. Valori, scelte morali, dignità delle persone, Laterza, Bari 1995, p. 143.
29 Ibidem, p. 142.
30 F. Mantovani, «Problemi giuridici dell’eutanasia», in Archivio giuridico E Serafini, vol. CLXXVII, 1970, pp. 45-46.
31 F. D’Agostino, «Bioetica e diritto», in Medicina e morale, n. 4, 1993, p. 687.
32 Ibidem, p. 688.
33 M. Reichlin, «Il concetto di “beneficence” nella bioetica contemporanea», in Medicina e morale, n. 1, 1995, p. 53.
34 Jr., Engelhardt, Manuale di bioetica, Il Saggiatore, Milano 1998, p. 132.
35 Ibidem, p. 130.
36 Beauchamp, Childress, Principles of Biomedical Ethics, Oxford University Press, 1989, pp. 144-145.
37 R. Veatch, Death, Dying and the Biological Revolution, New Haven 1989, p. 73.
38 J. Rachels, La fine della vita, Sonda, Torino 1989, p. 101.
39 Ibidem, p. 117.
40 N. Bobbio, Locke e il diritto naturale, Giappichelli, Torino 1963, p. 26.
41 Pellegrino, Thomasma, Per il bene del paziente. Tradizione e innovazione nell'etica medica, ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 1992, p. 68.
42 Pellegrino, Thomasma, op. cit., p. 174.
43 Cfr. D. Gracia, Fondamenti di bioetica. Sviluppo storico e metodo, ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 1993.
44 S. Spinsanti, Documenti di deontologia e etica medica, op. cit., pp. 21-23.
45 E. Drewermann, Der Herr Gevatter. Artz und Tod in Märchen, Walter, Freiburg i. B. 1990.
46 P. Noll, M. Frisch, Sulla morte e il morire, Mondadori, Milano 198.5, p. 238.
47 Ibidem, p. 33.
48 I. Kant, «Risposta alla domanda: che cos’è l'Illuminismo?», in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, UTET, Torino 1975, pp. 141-149.
49 C. Ragaini, Don Tonino, fratello vescovo, Paoline, Milano 1977 (IV ed.), p. 183.
50 I. Montanelli, Le nuove stanze, Rizzoli, Milano 2001, p. 532.
51 N. Elias, La solitudine del morente, Il Mulino, Bologna 1985.
52 E. da Rotterdam, La preparazione alla morte, ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 1984.
53 M. de Hennezel, La morte amica, Rizzoli, Milano 1998.
54 H. Brodkey, Questo buio feroce (Storia della mia morte), Rizzoli, Milano 1998, p. 74.
55 B. Pascal, Pensieri, Einaudi, Torino 1962, p. 160.
56 M. de Montaigne, Saggi, Adelphi, Milano 1966, p. 109 s.
57 R. M. Rilke, Il libro d’oro, Marcelliana, Brescia 1950, p. 92.
58 J. Donne, Poesie amorose, poesie teologiche, tr. Cristina Campo, Einaudi, Torino 1971.