- Direttive anticipate
- Morte cerebrale, donazione e prelievo di organi
- Morte
- Accanimento terapeutico
- Umanizzare la malattia e la morte
- Una morte si misura
- Eutanasia?
- Il pensiero e la prassi dell'eutanasia nell'etica cattolica
- L'eutanasia e i problemi etici del morire
- Scelte di fine vita: l'orizzonte etico
- A proposito di eutanasia
- Umanizzare la morte per prevenire l'eutanasia
- Decisioni di fine vita
- Una medicina per chi muore
- Pluralismo di opzioni etiche
- Medicina ed etica di fine vita
- Eppure è viva
- Atteggiamenti etici di fronte alla morte
- Come parlare ai bambini della morte e del lutto
- Cosa è possibile oggi
- Dopo l'ultimo respiro
- Accompagnare la morte
- La buona morte
- Sguardi sulla morte
- Vivere l'ultimo istante
- Gli aspetti etici della comunicazione con il paziente terminale
- L'autodeterminazione e la vita spirituale alla fine della vita
- Tante cure per chi nasce...ma quante per chi muore?
- Pensieri del tempo breve
- Informazione, comunicazione, consenso
- Ai confini tra la vita e la morte
- Morire da cristiani
- Scelte etiche ed eutanasia
Christiane Jomain
Vivere l'ultimo istante
Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1986
pp. 5-13
5
EDITORIALE
La morte ha cambiato volto nella società di massa. È voce unanime, e talvolta denuncia appassionata, che oggi si muore peggio. Recuperare una qualità umana alla morte sembra diventato un punto programmatico prioritario per l'umanesimo del nostro tempo.
La nostra cultura ha contribuito in modo inconfondibile a disumanizzare il morire; tuttavia; al di sotto di qualsiasi trasformazione legata al processo di civilizzazione, le difficoltà fondamentali che si contrappongono a una morte con qualità umana continuano a ruotare intorno a due poli: la miseria del morire in solitudine, e la miseria di non avere lo spazio di solitudine necessario per morire. La contraddizione è più apparente che reale, in quanto si riferisce a due diversi bisogni. Il primo è quello di avere, sul punto di affrontare il momento angosciante del distacco dall'esistenza, la vicinanza rassicurante di qualcuno. Questo ruolo di conforto, assicurato soprattutto da coloro ai quali il morente è legato con legami di sangue e di cuore, nella nostra società è minacciato dalla prassi invalsa di nascondere in modo sistematico al morente la sua condizione. La presenza dei propri cari non conforta più, perché è impregnata di menzogne. Il morente lo avverte, e il rapporto di fiducia con i suoi stessi familiari è infranto. Magari preferirà adattarsi al ruolo che gli si richiede e fingere di ignorare l'avvicinarsi dell' ora fatale, pur di conservare una qualsiasi parvenza di rapporto con chi si
6
occupa di lui. Ma si sentirà murato nel suo isolamento, senza la possibilità di esprimere le sue emozioni e di liberarsi dall'angoscia che gli causa la prospettiva della fine imminente, condividendola a parole con qualcuno.
L'altro bisogno è quello di uno spazio psicologico per elaborare la sintesi conclusiva della propria vita, prendere congedo, svellere una a una le mille radici che ci legano all' esistenza terrena. È un processo di distacco che la psicologia del profondo designa col termine tecnico di «elaborazione del lutto». Una presenza invadente e ciarliera ― compresa quella fatta di discorsi edificanti ― potrebbe essere pregiudizievole per questo bisogno del morente di presenza a se stesso. Lo scrittore Samuel Butler ha colto presso un suo conoscente una situazione in cui la vicinanza era troppo densa e infastidiva il morente; l'ultima parola che questi pronunciò, rivolgendosi a un amico presente nella camera, fu: «Ti dispiace uscire un momento? Vorrei morire...».
La composizione dei due diversi bisogni fa sì che non si possano tracciare regole fisse o fornire ricette per morire in modo umano. Oggi come ieri, è necessaria una creatività spirituale per dare forma alla propria morte. Come dice la poetessa Sylvia Plath,
«Morire,
è un'arte, come ogni altra cosa.
Io lo faccio in modo eccezionale.
Io lo faccio che sembra come inferno.
Io lo faccio che sembra reale».
La deformazione sistematica del morire che oggi ci affligge ― per la quale è stato coniato il termine «distanasia» ― dipende dal venir meno della «giusta distanza» tra chi muore e chi lo assiste. La bilancia si è spostata unilateralmente verso il piatto della
7
solitudine. E il morire è diventato «come inferno». In passato l'inferno era presente al morente come fantasma legato al senso di colpa, spesso deliberatamente favorito da quell'assistenza religiosa che lo storico Jean Delumeau ha chiamato «pastorale della paura» 1. Il tema della morte come punizione e come porta di accesso al castigo eterno si è risolto nella grande colpevolizzazione dell'Occidente cristiano e si manifesta ancor oggi nella fobia di molti alla presenza del sacerdote al capezzale del morente, perché associato con l'angoscia intollerabile della condanna irrevocabile. Ma per la massa dei morenti oggi è piuttosto la solitudine nella fase terminale della vita l'«inferno» che li attende, e più paventata del fuoco eterno. Alla solitudine del morente nella nostra società ha dedicato un saggio sociologico molto convincente Norbert Elias 2. A suo avviso, è lo stesso processo di civilizzazione in cui siamo inseriti che relega dietro le quinte della società la morte e l'agonia, circondandole con un senso di imbarazzo fisico e verbale. La solitudine nel morire è, nella ricostruzione di Elias, un prezzo della civiltà. Siamo protetti da molte insicurezze e pericoli che minacciavano la vita dell'individuo nella società medievale; ma ci viene chiesto un controllo generale e costante di ogni forte impulso emotivo. L'angoscia che suscita la morte viene rimossa nel modo più radicale: ignorando la morte stessa. Così siamo diventati capaci di attenuare medicalmente
8
i tormenti fisici della morte, ma la partecipazione alla morte degli altri è minore. La solitudine di cui soffre il morente non è di natura fisica (i marginali che muoiono sul ciglio della strada e nell' atrio delle stazioni restano isolati fatti eccezionali, universalmente esecrati), ma di ordine affettivo e spirituale. «Quando il morente ― afferma Elias ― sente che non riveste più alcuna importanza per le persone che lo circondano, allora è realmente solo» 3. Non conosce la solitudine solo colui che è abbandonato a se stesso, ma anche la persona che vive in mezzo a gente che è indifferente alla sua esistenza e che ha spezzato i ponti di contatto affettivo tra sé e questa creatura umana. Questo è per lo più il caso dei morenti.
Tra le componenti culturali che hanno portato alla modalità del morire propria del nostro tempo, un posto di particolare rilievo spetta alla medicina. La morte è stata medicalizzata. Diventando un atto di competenza medica, la conclusione della vita è stata resa più difficile. In un duplice senso, che costituisce l'ambivalenza della difficoltà di morire: è un fatto positivo o negativo, può rivolgersi pro o contro l'uomo. In quanto impresa terapeutica, la medicina è stata tradizionalmente concepita come «l'arte di guadagnare terreno sulla morte» 4. Le velleità del passato oggi sono diventate realtà: il progresso bio-medico ha fatto retrocedere in maniera spettacolare i confini della morte. In termini statistici, sempre più anni sono aggiunti alla vita. Ma ora è giunto il momento di accorgersi della miseria che accompagna questi anni. In certi casi, la difficoltà di morire diventa una specie di maledizione. L'impresa medica può interporsi allora tra l'individuo e la sua morte, facendogliela quasi
9
desiderare come una conquista da strappare a forza; la volontà medica di prolungare la vita, da benefica, si rivela improvvisamente malefica. Il «diritto alla morte» è diventato, in tal senso, una rivendicazione di grande attualità.
Che cosa avviene quando la medicina curativa dichiara concluso il suo compito nei confronti di una persona? Se il caso clinico non suscita un interesse tale da giustificare un supplemento di mobilitazione delle risorse terapeutiche, il malato terminale e il moribondo vengono per lo più abbandonati. La medicina diserta il capezzale presso il quale non può operare qualcuno dei suoi ben reclamizzati «miracoli». Se la speranza di tipo medico, concepita sempre a senso unico come speranza di strappare qualche mese o qualche giorno alla morte, viene a cadere, il medico passa la mano. In passato subentrava per lo più il sacerdote, come esperto delle «cose ultime» personali; oggi, caduta in clima di secolarizzazione anche la presenza di tipo pastorale, intorno al morente si apre lo spazio del più doloroso isolamento. Quando la macchina sanitaria cessa di curare, rinuncia contemporaneamente anche a prendersi cura.
Un gioco di colpevolizzazioni, talvolta sottile e talaltra grossolano, fa da sfondo alla solitudine del morente. Da una parte, la disumanizzazione del morire viene attribuita ai sanitari, accusati di venir meno all'ispirazione filantropica che ha sempre caratterizzato la cura dei malati. Medici e infermiere, a loro volta, ritorcono sulle famiglie l'accusa di non assumersi l'onere materiale dell'assistenza dei loro vecchi e di sottrarsi, sopraffatti dall'emotività, quando si tratta di condividere con i malati terminali la verità sulla loro condizione. C'è indubbiamente del vero nelle carenze di una parte come dell' altra. Ma forse è opportuno aggiungere una considerazione che può
10
aiutare a superare la polarizzazione accusatoria: il malessere che circonda la morte è, più che il risultato del deficit morale di un agente sociale, il sintomo dolorante di un'impasse a cui ci ha condotto lo sviluppo della civiltà, con i successi della medicina da una parte (mai l'umanità aveva conosciuto tanti vecchi e, insieme alla longevità, un rallentamento così rilevante del processo del morire) e l'analfabetismo emotivo dall'altra, con l'impaccio e i dubbi che accompagnano la gestione delle emozioni. Ciò che urge non è la ricerca dei colpevoli del processo di disumanizzazione, bensì la proposta di modelli alternativi di assistenza ai morenti. Su questa via incontriamo l'opera di Christiane Jomain.
La situazione da cui ha preso le mosse è stata quella di una soluzione di ripiego, creata da un grande centro ospedaliero francese: un «servizio di rieducazione» a cui indirizzare i malati che, non più bisognosi di cure attive, non potevano però essere dimessi. Dietro l'eufemismo, era emersa ben presto la prosaica realtà: il reparto svolgeva la funzione di un ripostiglio discreto, in cui venivano parcheggiati i malati che non potevano essere guariti e per i quali, quindi, dal punto di vista medico, «non c'era più niente da fare». Praticamente, un'anticamera della morte dissimulata. Anche qui, in conformità all'imperativo culturale dominante, la morte non veniva mai menzionata. Come se bastasse non nominarla, per eliminare l'ingombrante realtà ... Salvo che i sanitari, il personale infermieristico in primo luogo, se la trovavano di fronte ogni giorno.
Christiane Jomain condivide con le altre infermiere la frustrazione di trovarsi intrappolata in un reparto che equivale a un «moritoio ». Ma non prende la via della rassegnazione. Educa se stessa e il personale sanitario a lei affidato a guardare la situazione
11
con altri occhi. E giunge a scoprire che si può «morire nella tenerezza». «Christiane Jomain ― afferma il prof. Michel Philibert nella premessa dell'edizione francese del libro ―, infermiera professionale, e un gruppo incaricato di assistere malati ― giovani alcuni, ma per lo più anziani ― abbandonati dai medici, hanno salvato l'onore della medicina». Nella proposta inventiva di una nuova cultura del morire, la Jomain non è sola. I paesi anglosassoni hanno da alcuni anni aperto la strada con gli hospices, concepiti come strutture intermedie tra l'ospedale e il residence, dove vengono fornite tutte le necessarie cure mediche senza però soffocare i bisogni emotivi del malato, con la partecipazione attiva dei suoi familiari alla gestione dell'ultima parte della vita. Nell'idea degli hospices confluiscono l'assistenza animata dallo spirito religioso e le moderne scienze antropologiche, come la conoscenza della psicodinamica del morire e del lutto (l'opera di Elisabeth Kübler Ross, più volte citata da Christiane Jomain, resta in questo campo il punto di riferimento obbligatorio) e delle leggi della comunicazione interpersonale. Le testimonianze che riflettono l'esperienza vissuta di ciò che può offrire un hospice 5 smentiscono la rappresentazione macabra che ci si può fare, in astratto, di tali istituzioni, immaginandosele come ghetti emarginanti. Quando si parla con franchezza e onestà della morte, in un ambiente dove però ― come contropartita assolutamente indispensabile ― si fa tutto il possibile per eliminare o tenere sotto controllo il dolore, non si crea un'atmosfera morbosa. Piuttosto, un simile ambiente permette al grumo delle emozioni di sciogliersi, rendendo possibile al morente e ai suoi familiari
12
di attraversare tutte le fasi del processo del lutto. Alla fine del percorso non c'è la disperazione, bensì una pacifica accettazione della morte come dimensione ineliminabile della vita. Tale accettazione è possibile tanto per il credente quanto per il non credente. La morte, infatti, può essere vissuta come una crisi di crescita anche da parte dell'uomo secolare, oltre che dall'homo religiosus, quando si privilegia un'antropologia di autorealizzazione evolutiva, che si apre naturalmente su una dimensione transpersonale.
Il modello di assistenza ai morenti elaborato da Christiane Jomain rinuncia alla struttura specifica dell'hospice, a favore dell'ospedale. Uno dei vantaggi di questa proposta è di tener vivo l'interrogativo sui fini della medicina proprio nel cuore delle istituzioni dove questa si esercita. Facendo uscire le cure ai morenti dalla clandestinità e conferendo loro pieno diritto di cittadinanza in ospedale, si provoca una significativa evoluzione dell'etica medica, come acutamente osserva l'autrice. Se il «morir bene» rientra nell' ambito professionale, non può essere lasciato al caso o alla buona volontà del singolo sanitario, ma va integrato nella struttura dell'opera terapeutica. Saper rispondere ai bisogni del paziente terminale fa parte di quell'insieme di conoscenze e di capacità che devono essere trasmesse per formare il buon professionista della sanità. Chi pensasse con spavento che si tratta di un compito troppo gravoso, si ravvivi con quanto dichiara Elisabeth Kübler Ross nel suo ultimo libro, dedicato alla morte dei bambini: «Più studio gli esseri umani di fronte alla morte, più imparo sulla vita e sui suoi misteri fondamentali» 6. E si lasci
13
indurre dal racconto, asciutto ma avvincente, di ciò che Christiane Jomain ha visto e udito, a credere che anche al capezzale dei morenti c'è vita, fino alla fine; e non vita di scarto, ma vita autenticamente umana.
Note
1 Jean Delumeau, Le péché et la peur. La culpabilisation en Occident (XIII-XVIII siècles), Paris 1983. Quest'opera costituisce il completamento di un lavoro di esplorazione storica cominciato con La peur en Occident (du XIV au XVIII siècles), Paris 1978. Tutt'e due tracciano un ritratto completo del "cristianesimo della paura", quale è stato proposto dalle chiese cristiane, e dell'opera di colpevolizzazione per imporlo, poggiata su tre capisaldi: la paura ossessiva del peccato, della morte e dell'inferno.
2 Norbert Elias, La solitudine del morente, trad. it., Ed. Il Mulino, Bologna 1985.
3 Ibidem, p. 80.
4 Pedro Laín Entralgo, Antropologia médica, Barcelona 1984, p. 465.
5 Si veda, ad esempio, il resoconto di Rosemary e Victor Zorza, Un modo di morire, trad. it., Ed. Paoline, Roma 1982.
6 Elisabeth Kübler Ross, On Cbildren and Death, Macmillan, New York 1983.