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Sandro Spinsanti
Incontro con Ronald Carson
in L'Arco di Giano, n. 5, 194, pp. 245-254
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La rubrica è dedicata a mettere in evidenza la personalità di studiosi che con la loro opera hanno contribuito ad ampliare l’orizzonte delle medical humanities.
INCONTRO CON RONALD CARSON
Bisogna proprio avere un buon motivo per spingersi fino a Galveston, la città più meridionale dello stato americano del Texas, affacciata sul golfo del Messico. L’aereo vi deposita a Houston; ricoprire gli altri 80 km. per raggiungere la città, non collegata con la ferrovia, è lasciato all’inventiva personale. Galveston è chiamata “la città degli oleandri”; ma le paludi che si attraversano prima di giungervi evocano piuttosto afa e zanzare.
Il motivo sufficiente per affrontare il viaggio che hanno i cultori delle medical humanities si trova nell’area occupata dalla Facoltà di Medicina dell’Università del Texas (University of Texas Medical Branch). Tra una selva di nuovi edifici ― laboratori, ospedali e cliniche, costruzioni dedicate alla ricerca e alla didattica ― si distingue un edificio singolare. Lo chiamano Old Red. Bisogna riconoscere che fa onore al suo nome. È vecchio di un secolo, e attira l’attenzione per il colore vivo dei mattoni e della pietra rossa del Texas, in uno stile architettonico enfatico chiamato “revival romanico”. Se non rende buoni servizi all’estetica, esprime però adeguatamente l’ambizione di coloro che lo hanno destinato ad ospitare la sede della prima facoltà di medicina costruita ad ovest del Mississipi (fu inaugurata nell’ottobre del 1891, con un corpo docente di 13 professori per 23 studenti di medicina...).
La nostra meta ha sede nell'Old Red, al secondo piano. È l'Institute for the Medical humanities. Vi si accede attraversando prima un corridoio di ingresso ― la Hall of Medicine ― fiancheggiato da dodici altorilievi di altrettanti personaggi che hanno segnato la storia della medicina. Dall’egiziano Imhotep a Marie Curie, passando per Ippocrate, Vesalio, Pasteur e Röntgen, 26 secoli di storia della medicina fanno ala al visitatore.
L'Institute for the Medical humanities è stato creato nel 1973. Nel
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1974 un generoso sussidio federale, nel contesto del National Endowmentfor the Humanities, permetteva all’istituto di decollare. In vent’anni di vita si è creato una solida reputazione come centro pilota nelle medical humanities. Svolge un’opera di formazione per gli studenti di medicina dell’Università del Texas, in diversi momenti cruciali del loro curriculum; promuove la conoscenza della dimensione umanistica della medicina attraverso una rivista apposita ― Medical humanities Review ― e una prestigiosa collezione: Literature and Medicine. Dal 1988 l’istituto è stato autorizzato a conferire il dottorato di ricerca (PhD) in medical humanities: una possibilità che non ha l’equivalente né negli Stati Uniti, né altrove.
Il corpo docente dell’Istituto è costituito da una decina di studiosi, le cui competenze spaziano dalla storia e filosofia della medicina (Chester Burns) al diritto (William Winslade), dall’arte (Mary Winkler) alla letteratura (Anne Hudson Jones), dalla storia culturale (Thomas Cole) all’etica medica (Harold Vanderpool). Direttore dell’istituto, dal 1982, è Ronald Carson.
Dott. Carson, una carriera nelle medical humanities è quanto meno inconsueta. Come si è sviluppata la sua?
R.C. Le mie radici sono nella teologia. Sono cresciuto nella tradizione presbiteriana della Free Church e ho fatto studi di teologia sistematica, culminati nella laurea conseguita nella facoltà di Teologia di Glasgow, in Scozia, con una tesi sulla critica alla religione e alla moralità di Nietzsche. Gli autori su cui mi sono formato sono Jean Paul Sartre ― al cui pensiero ho dedicato un libro, pubblicato nel 1974 ― e Dietrich Bonhoeffer. Le mie radici culturali affondano in Europa. E anche quelle affettive, grazie a una moglie tedesca, che mi ha aperto alla lingua, alla letteratura e alla filosofia della Germania.
Ho avuto una prima occupazione come professore di religione al Mark Hopkins College a Brattleboro. Erano gli anni turbolenti intorno al ’68, quelli del movimento per i diritti civili e della guerra in Vietnam. Studenti e docenti imparavano a compitare insieme il linguaggio dei diritti.
In quanto teologo, sono stato formato per insegnare agli altri. Ma a me della religione importava più l’aspetto pastorale di quello dottrinale. Se volevo aiutare gli studenti a orientarsi nelle questioni alle quali cercavano una risposta, dovevo assumere un atteggiamento di ascolto. Nella teologia cercavo una istituzione morale con funzione critica, che aiutasse a dare un significato nella vita. Devo dire che nelle istituzioni
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ecclesiali non trovavo realizzata la cura compassionevole per l’essere umano che era il mio ideale. Con mia sorpresa, queste aspirazioni dovevano trovare realizzazione nell’ambito delle medical humanities.
Un passo ulteriore in questa direzione è avvenuto con il mio trasferimento nell’Università della Florida, a Gainesville, nel 1975. Ero professore associato nel Dipartimento di igiene e medicina della famiglia (Community Health and Family Medicine) e dirigevo la Divisione di scienze sociali e Humanities. Qui mi sono reso conto delle possibilità offerte dall’etica medica, che cominciava a mobilitare il dibattito pubblico e a suscitare l’interesse esistenziale degli studenti. Era soprattutto l’aspetto applicativo ad appassionarmi: come in precedenza ero rimasto freddo nei confronti della dimensione dottrinale della teologia, a vantaggio dei suoi aspetti pastorali, così ora l’etica medica mi interessava non come speculazione filosofica, ma come nuova pratica.
Nel 1982 sono stato invitato a dirigere l'Institute for the Medical humanities di Galveston: ho trovato così l’ambiente intellettuale e umano capace di dare forma completa alle mie aspirazioni.
Mentre nella cultura attuale, soprattutto negli Stati Uniti, si fa un uso quasi inflazionistico del termine bioetica, colpisce la discrezione dell’istituto di Galveston a questo proposito. La parola non ricorre nelle brochures di presentazione. Parrebbe evitata di proposito. Qual è, in termini più espliciti, il rapporto tra bioetica e medical humanities, secondo la visione che ne ha l’istituto.
R.C. Non si può parlare di una posizione ufficiale dell’istituto, ma di un consenso tra gli studiosi che lo costituiscono. La nostra caratteristica è di non escludere, ovviamente, l’etica dai nostri interessi, ma di collocarla in un contesto più ampio, quello appunto delle medical humanities. La formazione etica che noi miriamo a fornire agli studenti di medicina avviene in un concerto di varie discipline dell’area umanistica, rappresentate dalla storia, dal diritto, dalla letteratura, dalla filosofia e dalla religione. Queste diverse discipline si confrontano con le questioni morali che sorgono in medicina.
L’insegnamento dell’etica, così concepito, è filosofico in senso molto ampio. Non è finalizzato ad applicare i principi etici alla medicina, ma ad impegnare i medici e gli studenti a chiarire quegli aspetti della loro pratica che sollevano perplessità. Ma prima bisogna imparare a vedere e riconoscere queste ultime: l’etica è un problema percettivo, oltre che concettuale. Per questo la formazione al giudizio etico comincia con l’educazione all’immaginazione morale.
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Può aiutarmi a vedere in che modo, concretamente, avviene tale formazione?
R.C. L’Istituto è coinvolto nella formazione dei futuri medici durante il loro intero curriculum. Un momento cruciale è il primo impatto con la medicina. Noi offriamo loro un corso introduttivo di medical humanities in forma di seminario, con una quindicina di studenti per classe. L’esperienza ci ha insegnato, infatti, che la formazione etica, se non vuol essere un indottrinamento, deve essere fatta in un formato che renda possibile il faccia a faccia.
Il corso esamina criticamente le dimensioni della medicina moderna che esulano dalla prospettiva rigidamente bio-medica. Benché tra gli argomenti inclusi tra quelli proposti alla discussione ve ne siano alcuni di alto profilo etico ― come l’Aids e l’aborto ― l’accento è posto soprattutto su quelli di basso profilo. Questi rischiano di essere disattesi, mentre in realtà permeano la struttura stessa della medicina clinica. Mi riferisco alla natura del rapporto medico-paziente e all’etica che lo regge, all’esperienza della malattia, al vissuto della morte e dell’invecchiamento, ai problemi sanitari di pazienti con scarse risorse economiche.
Per introdurre a queste tematiche la letteratura offre maggiori possibilità del ragionamento filosofico. Noi forniamo agli studenti delle letture previe, raccolte in una specie di sillabario. Le letture includono saggi filosofici, articoli di natura storica, resoconti medici, opinioni legali, insieme a brani propriamente letterari. Le letture sono corredate di domande che favoriscono la discussione in classe. Ad esempio, per preparare la sessione intitolata «L’esperienza della malattia», lo studente legge La metamorfosi di Kafka. È guidato, nell’analizzare criticamente il racconto, a prestare attenzione all’esperienza di Gregor Samsa e alle reazioni di coloro che lo circondano: che cosa rivela il racconto circa le risposte all’incidente che sfigura e rende inabile, circa la perdita della funzionalità, del ruolo sociale e della sua stessa identità?
Per introdurre l’argomento dell’eutanasia, viene proposta la lettura della novella Mercy di Richard Selzer, il chirurgo scrittore i cui libri sono molto popolari in America. Attraverso il racconto lo studente viene sollecitato ad esaminare le alternative che si presentano al medico in questione ― sospendere ogni trattamento eccetto i narcotici, somministrare una overdose di morfina e bloccare le vie respiratorie del paziente ― per giungere a una posizione di condivisione o di rifiuto del comportamento del medico.
L’offerta di formazione si differenzia negli anni seguenti. Nel
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secondo anno consiste in quattro sessioni dedicate alla medicina come fenomeno sociale, nell’ambito del corso obbligatorio di medicina preventiva. Nel terzo anno, durante il periodo clinico, vengono presentate sei conferenze sui casi clinici e un corso apposito di medicina legale. Nel quarto anno gli studenti possono partecipare, facoltativamente, a corsi monografici tenuti dal corpo docente dell’istituto. Anche i programmi da interno e da specializzando, che fanno seguito al quarto anno, contengono momenti strategici dedicati alla formazione etica.
L’Istituto di medical humanities di Galveston dedica un’attenzione privilegiata alla letteratura. Della rivista monografica Literature and Medicine, iniziata nel 1982, l’istituto è diventato lo sponsor, a partire dal 1985, e Anne Hudson Jones l'”editor”. Perché e come insegnare la letteratura a chi si orienta verso una professione sanitaria?
R.C. La scelta culturale di fondo dell’istituto è stata quella di tenere aperto il campo delle humanities a medici e studenti di medicina, proprio quando queste discipline si sono generalmente rivolte agli specialisti. Questo è successo anche alla letteratura. Noi abbiamo deciso di non rinunciare alle risorse che la letteratura offre, pur non dimenticando che ci rivolgiamo non a futuri critici letterari, ma a medici. Anche costoro ― forse, soprattutto costoro! ― hanno bisogno della letteratura, in quanto questa amplia l’orizzonte della immaginazione ed educa la sensibilità.
I rapporti tra la medicina e la letteratura sono più che occasionali: possiamo dire che sono strutturali. Come ha notato lo storico della letteratura George Rousseau, ogni volta che un paziente entra nello studio di un medico può accadere un’esperienza letteraria: piena di personaggi, ambienti, tempo, spazio, linguaggio e un copione che può andare a finire in un numero prevedibile di modi. La letteratura arricchisce la percezione di questo dramma quotidiano.
W.H. Auden ha affermato che la letteratura può fornire preziose intuizioni su se stessi. Ecco, è proprio questo che l’insegnamento della letteratura ai medici vuol favorire: quella introspezione che è estranea alla formazione professionale, mentre è essenziale per imparare a curare e a prendersi cura degli altri. Conoscere i propri limiti, le proprie risorse, i propri sentimenti nei confronti della degradazione prodotta dalla malattia e dalla morte è essenziale per la formazione di un buon medico. E allo stesso tempo la letteratura costituisce un apprendistato per chi deve occuparsi degli altri in condizione di dolore.
La modalità di insegnamento della letteratura ai professionisti della
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sanità costituisce un problema che deve essere messo bene a fuoco. Evitati da una parte i tecnicismi adatti per gli esperti in letteratura e dall’altra l’annacquamento dei testi per il fatto che vengono proposti a dei non specialisti, rimane la necessità di un vero e proprio insegnamento. Non ci si può limitare a proporre dei prodotti letterari a professionisti già molto impegnati, sperando che i testi agiscano in modo magico. Gli studenti hanno bisogno di una guida.
L’insegnamento non deve mai mettere in ombra che l’obiettivo in letteratura è lasciare che il testo parli per se stesso. L’attività critica dell’insegnamento della letteratura dovrebbe includere l’interpretazione orale dei testi letterari. Leggere un testo a voce alta costringe a prestare attenzione a ciò che lo scritto sta facendo, senza richiedere una elaborata teoria della letteratura come preliminare. Confrontarsi poi con le interpretazioni di un testo, inclusa l’esplicitazione del rapporto che l’insegnante ha con il testo stesso, costituisce parte integrante dell’insegnamento della letteratura in medicina.
Non è necessario che le tematiche siano esplicitamente mediche. Tanto meno ovvi sono i rapporti con la medicina, tanto più efficace può essere l’effetto di un testo letterario. Non basta, tuttavia, il contenuto medico per ottenere un buon risultato: non è sufficiente la tematica di natura medica per rendere letteratura un testo che non lo sia.
Quand’anche avessimo chiarito tutte le condizioni di un buon insegnamento della letteratura in medicina, non illudiamoci: rimarrà una resistenza di fondo, che è la più difficile da superare. La forza della letteratura, infatti, sta nella sua capacità di evocare e articolare i sentimenti. La medicina, invece, insegna a diffidare dei sentimenti. Il percorso per armonizzare la letteratura, nella sua capacità di modellare l’esperienza umana, senza maltrattarla, con la medicina è ancora molto lungo.
Oltre alla letteratura, l’istituto di Galveston offre tra le medical humanities diverse discipline che non si è soliti vedere allineate nello stesso scaffale della bioetica. Così le arti visive. Quale ruolo hanno nell’insieme del vostro progetto?
R.C. Ci sono significati che sfuggono a un’analisi di tipo concettuale, soprattutto se condotta con gli strumenti della filosofia, mentre la rete delle arti espressive riesce facilmente a catturarli. Potrei riferirmi ai corsi sistematici che tiene in Istituto Ellen More sul corpo nella società e sulle interpretazioni della cultura visiva. Oppure all’opera curata da Anne Hudson Jones che nasce da un simposio tenutosi
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nell’istituto: Images of Nurses. Perspectives from History, Art and Literature (University of Pennsylvania Press, 1988). Per cogliere il significato e il ruolo delle infermiere nella nostra società l’arte e la letteratura ci aiutano quanto la migliore analisi sociologica.
Un altro esempio che vorrei citare è quello della ricerca di un modello alternativo al professionalismo medico che conosciamo come “scientifico”: un modello che sia allo stesso tempo esperto ed empatico. Le donne sono entrate nella professione medica senza riuscire a scalzare il modello dominante, che ignora il rapporto di fiducia e profonda connessione che si stabilisce tra il paziente e il professionista. Il pensiero femminista sembra più adatto a cogliere i modi in cui le donne in medicina tentano di superare la separazione che si è creata tra il carattere morale e la conoscenza tecnica, riconciliando nella donna medico valori e ruoli divergenti. Tutto questo, così importante per una medicina umana, rischia di passare tra le maglie troppo rigide della bioetica. Le arti, invece, sono più funzionali ed efficaci nel proporre altri modelli di assistenza.
Nell’orientamento alle medical humanities è possibile leggere, in filigrana, una critica implicita alla bioetica che è venuta affermandosi negli Stati Uniti negli ultimi due decenni. Quali appunti più specifici possono essere mossi a questa disciplina?
R.C. Le mie riserve nei confronti dell’impostazione dominante in bioetica si sono articolate nel tempo, in continuità con una ricerca che è di lunga data. Ricordo che già nel 1977 ― ero ancora all’Università della Florida, a Gainesville ― il Journal of the American Medical Association ha ospitato un mio articolo dal titolo «What are Physicians for?» («Qual’è il compito dei medici?»). Avevo preso posizione contro un articolo, pubblicato dalla stessa rivista, che riduceva il compito del medico a un ruolo tecnico: contro la richiesta rivolta al medico di curare “tutto l’uomo”, l’intervento pubblicato da Jama rivendicava i meriti di una medicina che si limitasse a combattere la malattia, rinunciando a promuovere la salute. Suddividere l’uomo in organi e tessuti ― sosteneva l’articolista ― è proprio ciò che ha dato alla medicina di questo secolo la sua straordinaria capacità di curare.
In contrapposizione a questa identificazione del ruolo medico, mi rifacevo al classico saggio di Francis Peabody, The Care of the Patient, pubblicato nello stesso Jama cinquant’anni prima. Appoggiandomi all’autorità dell’illustre clinico, proponevo per il medico un equipaggiamento che lo rendesse capace di rapportarsi al paziente in
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modo personalizzato: ascoltando empaticamente, ponendo domande con immaginazione, incoraggiando una storia spontanea da parte del paziente. Mi muovevo nella stessa direzione di Peabody, quando concludeva il suo saggio dicendo che «una delle qualità essenziali del clinico è l’interesse per l’umanità, in quanto il segreto della terapia è prendersi cura del paziente».
Ebbene, la riserva maggiore che ho nei confronti della bioetica è che si è sviluppata in senso antitetico a quello auspicato da quanti si aspettavano che la polarizzazione degli interessi sulla medicina portasse nuova linfa al rapporto tra professionisti e cittadini bisognosi di aiuto. Di fatto, la bioetica dominante, almeno negli Stati Uniti, è il frutto del movimento dell’“etica applicata”, ovvero di un metodo di ragionamento circa i problemi morali. L’etica applicata negli anni ’80 ha scoperto la medicina e ha costruito un approccio stereotipato per risolvere i casi.
Si tratta di un metodo deduttivo. Il punto di partenza è costituito da principi, considerati sufficientemente generali per suscitare un vasto consenso. I principi, una volta posti, sono rapportati a situazioni mediche moralmente problematiche, come “guida all’azione”: alcune volte direttamente, altre mediante regole derivate dai principi sui quali si concorda. Le situazioni mediche sono generalmente dei casi in cui sorge un dilemma, che richiede una soluzione. Si ritiene che l’applicazione di principi ― come il rispetto delle persone, l’autonomia, la veracità, la non maleficità, l’utilità ― aiuterà a risolvere il problema. Si tratta solo di scegliere i principi che fanno al caso, metterli in ordine e, là dove sono in conflitto, conciliarli in modo da giungere a una soluzione eticamente soddisfacente.
Le mie riserve sono rivolte ai limiti della filosofia sottostante. L’etica applicata riposa, infatti, su teorie del contratto sociale. Queste fanno coincidere la responsabilità morale con il rispetto delle regole procedurali: l’essenziale è che ci siano delle regole che governano i nostri comportamenti e dei principi che fungano da arbitri quando le regole entrano in conflitto. Ora, la nozione di contratto sociale è adatta per negoziazioni che intercorrono tra coloro che esercitano una professione e un pubblico informato che ne richiede i servizi.
I punti forti di questa concezione sono la ricerca del proprio interesse nelle relazioni sociali e la concezione negativa della libertà, identificata con il diritto di non subire interferenze non volute. Si può leggere chiaramente in trasparenza la filosofia sociale di Hobbes, con il suo homo homini lupus. Come si può applicare questa visione dei rapporti sociali a ciò che intercorre tra il medico e il paziente, cioè a una relazione in cui la fiducia e la generosità giocano una parte significativa?
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Nella prospettiva del contratto sociale, mi rivolgo a un dottore perché mi sento male, ma in quel rapporto che stabilisco non devo mai far cadere la guardia, mai abbandonare il mio interesse. L’etica applicata ha articolato e legittimato questa concezione della realtà sociale nella cura della salute. Ma è un modo di concepire i rapporti in contrasto con l’esperienza di molti pazienti e professionisti della sanità: la cura della salute è un luogo dove circolano simpatie, gesti di generosità, altruismo, abnegazione.
L’incontro attuale tra le humanities e la medicina sembra proporre un’altra base per l’etica che regola i rapporti che si stabiliscono nella cura della salute. Come articola lei un’etica medica umanistica?
R.C. Ci sono modi di pensare l’etica che rispecchiano in modo plausibile il dialogo che sta avvenendo tra le humanities e la medicina ai nostri giorni. La medicina ha attirato l’attenzione delle humanities non solo, e forse non in primo luogo, in quanto fornisce problemi etici da risolvere. Certo, ci sono anche dilemmi etici, ma sono epifenomeni.
Le humanities hanno cominciato a gravitare attorno alla medicina perché i modi tradizionali di interpretare le esperienze di malattia non illuminano più queste esperienze e hanno bisogno di essere ripensati. I conflitti etici ― e ancor più quelli legali ― in medicina sono sintomatici di profonde differenze di prospettiva nel leggere la realtà. In questa situazione non abbiamo tanto bisogno di esperti nell’applicare regole, quanto di interpreti abili che siano interlocutori nelle conversazioni che avviamo in risposta alla malattia e al male, dove viene messo in discussione il senso che diamo alla nostra vita.
L’esercizio dell’etica di cui abbiamo bisogno in medicina differisce dalla applicazione di regole poste astrattamente o derivate per ragionamento, in quanto è essenzialmente una risposta personale. È affine a quanto, in contesti filosofici e culturali diversi, è stato identificato come “ragione pratica”, “ermeneutica”, “casistica”. È essenzialmente un’opera di discernimento. In quanto tale, impegna la persona dell’interprete: non solo l’intelletto, ma anche il cuore. Sono in sintonia con James Gustafson, che ha chiamato il discernimento «un’intuizione informata, non la conclusione di un’argomentazione logica formale».
La bioetica che propongo sotto l’etichetta del discernimento ha la stessa origine del nostro senso morale ed è diversa dalla predicazione, dalla manipolazione e dalla spiegazione. Discernere equivale a uno spiegamento del nostro senso morale. Il suo compito in un contesto
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clinico è quello di determinare la cosa giusta da fare alla luce della concezione che esprime il senso della nostra vita e una lettura plausibile delle circostanze che caratterizzano il caso concreto. L’interpretazione morale è analoga all’interpretazione di una poesia. Siamo tutti interpreti di una moralità che condividiamo. Come una poesia, ha avuto una quantità di letture e spiegazioni, ma è aperta a una lettura di nuova qualità, che può illuminarla in modo più impressionante e convincente.
La bioetica interpretativa si può trasporre, più che in termini di applicazione di principi e regole, in quelli dell’antica arte della retorica ― intesa come un metodo rigoroso di senso comune per determinare ciò che ha la massima probabilità di essere vero, come ricerca di una sicurezza più certa che probabile, a cui ancorare la nostra vita morale ― negli incontri che nascono nell’ambito clinico.
Riferimenti bibliografici
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Carson R.A., «Religion and medical education», in Self D.J. (a cura di), The Role of the Humanities in medical Education, Teagle and Little, Norfolk, 1978.
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Carson R.A., «Caring for congenitally handicapped newboms», in Winslade W.J. (a cura di), Personal Choices and Public Commitments, Institute for the Medical humanities, Galveston, 1989.
Carson R.A., «Interpretive Bioethics: The way of discernement», in Theoretical Medicine, 11, 1990.
Rousseau G.S., La medicina e le Muse, tr. it., La Nuova Italia, Firenze, 1993.