Rihito Kinura: la via asiatica alla bioetica

Sandro Spinsanti

RIHITO KIMURA: LA VIA ASIATICA ALLA BIOETICA

in Tempo Medico

anno XXXV, n. 27, 29 settembre 1993, pp. 12-13

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Lo studioso giapponese, che insegna a Tokio e Washington, si è scelto l’arduo compito di smantellare il millenario paternalismo dei medici del suo paese. Mobilitando anche le casalinghe

Mentre molti studiosi si sono avvicinati alla bioetica gradualmente, in modo quasi insensibile, il giapponese Rihito Kimura l’ha incontrata in modo spettacolare, così come avvengono le conversioni. La sua via di Damasco è stata Saigon. Vi si trovava nel 1971, a insegnare diritto della famiglia. Era la sua specializzazione. Esperto in diritto comparativo, si interessava al confronto tra il diritto della famiglia asiatico e quello occidentale.

L’orizzonte culturale di Kimura si era progressivamente allargato ad altre società asiatiche, affini al Giappone. Dopo la laurea,è stato cinque anni a Bangkok, sulle orme di uno studioso di diritto giapponese che, all’inizio del secolo, aveva contribuito a fondare il sistema giuridico tailandese, combinando la tradizione asiatica con la legge anglo-americana. Poi l’incarico di insegnamento a Saigon negli anni 1970-1971.

Il «risveglio», che l’avrebbe portato ad affacciarsi agli orizzonti della bioetica, avvenne inaspettatamente. Un giorno uno studente andò a trovarlo. Il motivo della visita non era legato all’insegnamento: non veniva a chiedergli qualche cosa sui sistemi familiari o sulla concezione giuridica del matrimonio nelle diverse culture; gli domandò, del tutto inaspettatamente, che cosa mangiasse di solito. Alla sua risposta ― riso, pesce, in particolare gamberi... ― gli raccomandò di smettere di mangiare pesci e di bollire l’acqua.

Un professore di diritto nella famiglia scopre le violenze sulla natura

Gli dimostrò, a conferma del suo allarme, alcuni documenti che allora erano ancora segreti: dimostravano gli effetti inquinanti dei prodotti che gli Stati Uniti stavano usando nella guerra contro i vietcong. In particolare l’«Asian orange», il defogliante usato nella giungla per portare allo scoperto i ribelli, conteneva diossina. Questa non attaccava solo la vegetazione, ma anche gli esseri umani: provocava aborti spontanei e nascita di bambini handicappali. Secondo le fonti ufficiali americane, i defoglianti erano innocui per gli uomini; ma le prove segrete dimostravano invece la loro tremenda pericolosità, in quanto attaccavano la struttura genetica. E i prodotti inquinanti si diffondevano: l’acqua della foresta confluiva in maree inquinava i pesci. Per questo bisognava cessare di mangiarli, soprattutto i crostacei. La notizia non era uno strumento di propaganda ideologica. Poco tempo dopo l’ambasciata giapponese contattò il professore, facendogli le stesse raccomandazioni che gli erano venute in via confidenziale dallo studente. Per Kimura quell’allarme riapriva una vecchia ferita: un suo zio era andato a Hiroshima dopo il bombardamento atomico. Aveva aiutato molte persone, ma non era riuscito a evitare le radiazioni. Anche se non colpito direttamente dalla bomba, era morto poco tempo dopo. Ora si era aperto un nuovo fronte. Si stava perpetrando una forma inedita di genocidio: attraverso l’aggressione del patrimonio genetico, si sterminavano insieme l’ambiente e gli esseri umani.

Scienza e tecnologia si alleavano alla genetica per la distruzione. Bisognava opporsi, mettere un limite, alzare una barriera contro la distruzione della vita, in nome del diritto e dell’etica. Il giovane giurista della famiglia aveva scoperto un’altra vocazione. All’epoca non portava ancora il nome di bioetica, ma si collocava esattamente all’incrocio tra l’abuso della tecnologia, i diritti umani e la tutela della vita.

L’illuminazione di Saigon non doveva diventare realtà tutto d’un colpo, ma gradualmente. Una seconda tappa importante nell’orientamento di Kimura alla bioetica è il 1973. Dopo Saigon, Kimura è chiamato a Ginevra, presso il Consiglio Ecumenico delle Chiese, nell’Istituto di studi ecumenici di Bossey. Ha compiti di insegnamento ― corsi sui diritti umani all’Università di Ginevra ― e organizza programmi sui diritti umani e i valori impliciti nella scienza e nella tecnologia per conto dell'Istituto.

Nel 1973 partecipa a Zurigo al convegno su «Genetica e qualità della vita», organizzato dal Consiglio Ecumenico delle Chiese. Era presente, tra gli altri, il biologo inglese Edwards, il quale stava già facendo le ricerche sulla fecondazione in vitro che avrebbero portato, cinque anni dopo, alla nascita di Louise Brown, la prima bambina concepita in provetta. Tra gli altri temi in agenda: l’amniocentesi e la ricerca di criteri per stabilire quali bambini gravemente malformati alla nascita vanno trattati con misure eroiche. Kimura coglie alcuni elementi del movimento della bioetica che si andava formando: non era un’azione contro gli scienziati, ma con loro, che erano spesso preoccupati più di chiunque altro per le conseguenze della ricerca; era un movimento interdisciplinare, che mobilitava tutti a interrogarsi sulla vita e sulla sua qualità; faceva appello alla comunità internazionale.

Un’altra tappa formativa importante per Rihito Kimura è stato un soggiorno di due anni presso l’Università di Harvard, presso il centro che si dedica allo studio delle religioni. L’interesse religioso che egli aveva nei riguardi bioetica ― lui, membro della diaspora cristiana in Giappone ― ha potuto ampliarsi, confrontandosi con quello delle religioni diffuse a livello mondiale: buddisti, musulmani, ebrei. Prendeva sempre più chiaramente forma il progetto in cui avrebbe fatto confluire le sue energie intellettuali e capacità organizzative: un programma di bioetica come ponte tra l’Asia e l’Occidente. Il programma doveva nascere nel 1983, presso il Kennedy Institute of Ethics della Georgetown University, a Washington. Da un decennio Kimura lo dirige, con crescente successo. Divide il suo anno accademico equamente tra Washington e Tokyo, dove insegna dal 1975 nel dipartimento di Scienze della salute dell’Università Waseda. L’impressione che ha il visitatore è che il quartier generale della sua attività sia proprio quel suo ufficio a Georgetown, foderato fino al soffitto di libri in eleganti ― e incomprensibili ― ideogrammi giapponesi. Alcuni recano la sua firma. In particolare, un manuale di bioetica molto diffuso in Giappone, dove è adottato nelle facoltà di medicina.

La posizione «eccentrica» di Kimura rispetto al Giappone si è rivelata un’abile strategia per la causa della diffusione della bioetica. Parlare dagli Stati Uniti, in quanto direttore di un programma asiatico del Kennedy Institute, gli dà un’udienza che non potrebbe avere altrimenti nel suo paese. Perché chi vuol fare il missionario della bioetica in Giappone non ha vita facile. Kimura ricorda i primi anni in cui proponeva quanto era andato assimilando in Europa e negli Stati Uniti circa l’etica della vita nell’ambito della sanità: i medici lo guardavano come se venisse da Marte... Infatti i giapponesi, molto inclini a occidentalizzarsi in tanti aspetti della vita quotidiana, quando si tratta di valori che regolano le interazioni profonde nella società tendono a far quadrato sulla tradizione e a respingere tutto quello che non è giapponese.

L’ostilità dei medici a concezioni e pratiche diffuse dal movimento della bioetica ― come il consenso informato, la comunicazione della diagnosi al paziente, la trasparenza nella scelta dei candidati alla ricerca clinica, i comitati di etica ― si spiega in parte con la tenace persistenza del modello paternalista per regolare i rapporti tra medico e paziente. La situazione di partenza per la società giapponese è illustrata in modo impressionante da un film di Akira Kurosawa del 1952: Vivere.

Il protagonista, un umile capoufficio del catasto, va a farsi visitare per persistenti dolori di stomaco. In sala di attesa ha un colloquio informale con un veterano degli ambulatori medici. Dapprima questi gli descrive esattamente i sintomi del cancro allo stomaco; poi passa a predire il comportamento del medico: se il medico, guardando la radiografia, minimizza, nega risolutamente che si tratti di cancro, scherza e gli dice che può mangiare tutto quello che vuole, si può essere

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certi: la diagnosi di cancro è confermata! Al malato restano solo pochi mesi di vita. E proprio in questo modo indiretto il nostro capoufficio verrà a conoscere la sua sentenza.

In Giappone la resistenza a dare direttamente all’interessato le cattive notizie che lo riguardano si appoggia su valori culturali che considerano il singolo solo in quanto appartiene a un organismo ― la famiglia ― che a sua volta è strutturata gerarchicamente. Kimura ricorda che, quando a suo padre fu diagnosticato un cancro, la notizia non è stata comunicata dai medici all’interessato, ma alla famiglia. Più esattamente, né alla madre né alla sorella; spettava a lui, figlio maschio maggiore, essere informato. Ma siccome egli si trovava a Ginevra, è stato convocato dai medici il fratello più giovane, in quel caso delegato a rappresentare il clan familiare.

La medicina giapponese è nutrita in profondità dell’ethos confuciano, che richiede il rispetto della legge, dell’ordine e dell’autorità. Nella struttura familiare tradizionale della società giapponese ogni persona è tenuta a comportarsi con modestia, in modo non assertivo, tendendo all’armonia nelle relazioni con gli altri, in particolare con professionisti come i medici, con i funzionari governativi e con i superiori nel posto di lavoro. Per quanto riguarda la medicina, l’ethos confuciano tradizionale riporta la cura della salute all’arte del Jin, cioè l’amore-gentilezza dell’insegnamento di Confucio. Praticare la medicina è un’azione di benevolenza da parte del medico, da cui tutti i pazienti tendono a dipendere. Su questi valori condivisi è prosperato l’autoritarismo dei medici nei confronti dei pazienti e dei membri della sua famiglia; i pazienti, da parte loro, sono inclini a obbedire al medico, la cui figura è circondata di prestigio.

Ciò fa sì che i valori promossi dalla bioetica occidentale ― come la pretesa di essere considerato nella propria unicità, i diritti della persona ― siano recepiti come delle stranezze nella società giapponese. In particolare,il concetto di autonomia, così centrale nella bioetica americana, è estraneo alla tradizione culturale giapponese. Il Giappone è nutrito di buddismo e di confucianesimo, per i quali l’ideale consiste nell’abolire il sé egoistico. L’autonomia è appunto sospettata di incrementare l’egocentrismo, e di indurre a dimenticare che le persone dipendono di fatto le une dalle altre nella famiglia, nella comunità sociale ed economica. Per converso, in Occidente si ha sempre meno comprensione per pratiche che costituiscono la quotidianità nella sanità giapponese: come, per esempio, tenere segreto un referto; prescrivere medicine senza spiegare a che cosa servono e che cosa contengono; eseguire interventi chirurgici senza discutere con il malato i rischi e le possibilità alternative.

Ma anche all’interno del Giappone riesce sempre meno tollerabile la delega di decisioni altamente personali ad altri. Non è necessario per questo diventare discepoli ideali dell’Illuminismo: basta avvertire quanto si sia dilatato il campo delle scelte che la medicina tecnologica apre. Kimura si è fermato a riflettere su ciò che succede nelle unità di cura intensive neonatali. In Giappone, come negli altri paesi che possono adottare le moderne risorse di rianimazione e dispongono di sufficienti incubatrici, molti neonati affetti da gravi malformazioni, che in passato sarebbero morti, oggi possono essere salvati: anche quando ciò che ne deriverà sarà solo un’esistenza misera, gravata da numerose e gravi limitazioni. Il medico giapponese ― osserva Kimura ― tende ad assumere su di sé la responsabilità di tali decisioni: «Se non possiamo decidere noi medici, chi può farlo al posto nostro?». Ma per quanto nobile sia il senso di responsabilità che tali affermazioni esprimono, un numero crescente di giapponesi dubita che decisioni di questo genere possano essere lasciate in esclusiva al medico. La semplice trasposizione dei modelli di decisione in ambito clinico elaborati dalla bioetica americana non è attuabile. Né questo è mai stato un obiettivo di Rihito Kimura. Per adottare ancora l’analogia della missione, Kimura non ha voluto convertire alla bioetica i suoi connazionali indottrinandoli, ma ha inteso «inculturare» la bioetica in Giappone. La bioetica giapponese dovrà parlare con categorie giapponesi, e trovare le proprie strutture per esprimersi. Come quella della condivisione delle responsabilità, più appropriata a una cultura che attribuisce maggior valore alla interdipendenza, piuttosto che all’autonomia individuale. Da questo punto di vista merita un’attenzione particolare il tentativo di promuovere la bioetica come movimento popolare. Kimura è molto fiero di aver contribuito a diffondere la bioetica non solo nel mondo accademico e nelle istituzioni professionali, ma anche nelle comunità locali. Racconta con particolare orgoglio di gruppi di casalinghe che si riuniscono per trattare i problemi dell’etica della vita così come si presentano nella loro quotidianità: l’assistenza ai genitori anziani, ai bambini handicappati, l’uso delle risorse sanitarie pubbliche, le decisioni che devono essere prese nella cura della salute, i problemi dell’ambiente.

Le tematiche bioetiche hanno germinato facilmente in un tipo di gruppi di studio e di cooperazione già esistenti dagli anni settanta. Li ha promossi Okamura, un giornalista e fotografo di guerra, per discutere originariamente di ambiente, di nutrizione, in rapporto all’inquinamento crescente. La dinamica è quella dei gruppi di qualità, con cui i giapponesi hanno rivoluzionato i sistemi produttivi, coinvolgendo attivamente operai e impiegati e facendo appello alla loro creatività. La scommessa è portare lo stesso spirito nella grande fabbrica della qualità della vita, coestesa alle strutture della vita quotidiana. È quanto fanno i gruppi di casalinghe che si riuniscono una volta alla settimana: per leggere qualche testo o articolo di giornale; per condividere i problemi della salute e dell’ambiente (e, a differenza delle lezioni accademiche, c’è anche la possibilità che l’ascolto sia reciproco); per consumare un pasto insieme.

Ciò che avviene nei gruppi di casalinghe non sconvolge certo la vita del paese; ma neppure rimane senza conseguenze nella storia piccola ma concreta delle persone. Kimura racconta un episodio. Una donna, che aveva discusso a lungo nel gruppo i problemi della comunicazione con i medici, si trova a dover portare il padre all’ospedale. Domanda al medico curante che diagnosi ha fatto e che medicine ha prescritto. Il medico è fuori di sé: è la prima volta che qualcuno osa chiedergli cose di questo genere. Ma la donna insiste. Deve domandare tre volte, ma alla fine ottiene la risposta. Così cambiano comportamenti consolidati nella tradizione, quando la bioetica è concepita non solo come questioni teoriche che fanno discutere, ma come cambiamenti nella qualità della vita da «fare insieme».

Le decisioni sulla salute e la malattia non sono solo un problema dei professionisti della sanità: sono competenza della gente comune. È la nozione di bioetica che Kimura chiama di «azione civica». A questa va diretto il maggior interesse, piuttosto che a istituzioni come i comitati di bioetica, che pur cominciano a diffondersi: senza un intervento sostanziale sui rapporti di potere sottostanti, i comitati di etica creati per rispondere ai problemi di «high tech» ― come le fecondazioni in vitro ― rischiano solo di camuffare agli occhi del pubblico l’incapacità di una medicina paternalista di adottare un serio rispetto dei diritti del paziente.

La bioetica del secolo prossimo? Kimura se la immagina come una classe in cui vecchi e bambini si insegnano reciprocamente l’arte della manutenzione della vita...