![Book Cover: Etica medica o bioetica? Una transizione epocale](https://sandrospinsanti.eu/wp-content/uploads/2019/08/02-c-tempo-della-legge-o-tempo-delletica-Custom.jpg)
- Etica medica o bioetica? Una transizione epocale
- La bioetica per la formazione del personale sanitario
- La formazione del personale delle aziende sanitarie
- La formazione del personale sanitario in bioetica clinica
- Bioetica e deontologia professionale
- Certezze e incertezze del sapere medico
- Impariamo a litigare
- Né troppo né poco
- Un rapporto difficile
- Il bioetico non diventi un mandarino
- Documenti di deontologia e etica medica
- L'etica medica
- La bioetica - Biografie per una disciplina
- Stagioni dell'etica e modelli di qualità in medicina
- Stagioni dell'etica e modelli di qualità in medicina
- Stagioni dell'etica e modelli di qualità in medicina
- Guarire tutto l'uomo
- Etica medica o bioetica? Una transizione epocale
- Relazione dell'etica e della deontologia medica con la bioetica
- Bioetica
- Il tramonto dell'assolutismo medico
- Il personale sanitario tra presente e futuro
- L'etica medica e il futuro dell'uomo
- La fragilità nella storia del pensiero sanitario
- Daniel Callahan: La difficile scienza del limite
- Rihito Kinura: la via asiatica alla bioetica
- Thomas Murray: un bioetico con i piedi nelle scienze sociali
- L'antropologia medica di Viktor v. Weizsäcker
- Guarire «tutto» l'uomo
- L'Ethos ippocratico
- Edmund Pellegrino: nella tradizione del medico-filosofo
- Incontro con Jean Bernard
- Incontro con Mark Siegler
- Incontro con Mirko Grmek
- Incontro con Pedro Laín Entralgo
- Incontro con Van R. Potter
- Incontro con Warren Reich
- Incontro con Ronald Carson
- Incontro con Albert Jonsen
- Come si diventa bioeticisti: il cammino di una professione discussa
- Bioetica: le radici arcaiche di una disciplina post-moderna
- Biologia, medicina ed etica
- La cultura medica tra storia, scienza ed etica
- L'antropologia medica di Viktor Von Weizsäcker: conseguenze etiche
TEMPO DELLA LEGGE O TEMPO DELL'ETICA?
a cura di Sandro Spinsanti
in I quaderni di Janus
Zadigroma editore, Roma 2009
pp. 14-24
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ETICA MEDICA O BIOETICA?
UNA TRANSIZIONE EPOCALE
I cambiamenti intervenuti nell’ambito dell’etica biomedica nell’ultimo mezzo secolo sono assimilabili a un “progresso” o a una “rivoluzione”? Una risposta può venire dalla scena che si svolge in un celebre film tra il figlio di un personaggio e il suo medico personale.
L’anziano genitore è appena tornato a casa da un soggiorno di sei settimane in una clinica dove si era recato per accertamenti. L’accompagna l’annuncio trionfale da parte della moglie: l’operazione esplorativa ha dimostrato che non ha niente, solo un piccolo spasmo al colon. Più gioioso di tutti è il diretto interessato, che festeggia in quel giorno 65 anni: «Mi hanno detto che vivrò. C’è un milione di sensazioni che voglio ancora provare. Tutte voglio gustarle!».
Ma al figlio il medico confida, in privato, un’altra verità. Il referto è di segno del tutto opposto: è un tumore maligno ed è inoperabile. Non c’è speranza. Quando il giovane contrappone le buone notizie diffuse dal medico stesso, lui non esita a riconoscere: «Bugie. Ho mentito. Anche a lui ho mentito. Etica professionale». Alla timida protesta del figlio: «È giusto illudere così il padre?», non c’è risposta. Il richiamo dell’etica professionale è risuonato come una sanzione superiore, senza appello, che non permette di mettere in discussione il comportamento del medico.
Qualcuno avrà riconosciuto il riferimento letterario: si tratta del dramma di Tennessee Williams La gatta sul tetto che scotta, del 1955, trasportato nel 1958 in un film con Paul Newman ed Elisabeth Taylor nei ruoli principali. Le coordinate cronologiche sono importanti. Per quanto siano trascorsi appena cinquant'anni, le norme comportamentali alle quali si fa riferimento suonano del tutto arcaiche. Ai nostri giorni, nessuno potrebbe riproporle con la tranquilla sicurezza che esibisce il medico nel dramma di Williams. E non solo negli Stati Uniti: anche nella più conservatrice Europa le regole che sovrintendono al rapporto tra medici, pazienti e familiari sono cambiate in modo irreversibile. L’etica professionale dei medici non prescrive più
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la menzogna come espressione della pietas del sanitario nei confronti del malato su cui incombe una prognosi infausta, né i costumi sociali attribuiscono ai familiari il compito di gestire l’informazione al posto della persona interessata, quali diretti interlocutori del medico. Queste regole del gioco sono franate, a dispetto della loro secolare tenuta nel tempo: nel giro di pochi anni sono state riscritte, delineando un nuovo profilo di diritti e doveri tra le parti coinvolte. Il cambiamento ha dunque il carattere di una rivoluzione, più che di un progresso lineare.
La trasformazione avvenuta non è stata solo repentina nel tempo, ma anche radicale nel modo di concepire i rapporti tra chi eroga professionalmente le cure e chi le riceve. Si può illustrare anche questo aspetto del cambiamento con un prodotto letterario: la novella Rip van Winkle dello scrittore americano Washington Irving. Apparso nel 1819, il racconto aveva come protagonista un colono della Nuova Inghilterra. Di temperamento vagabondo, va a cacciare nelle Catskill Mountains, vicino a New York. Incontra degli strani abitanti della foresta che gli danno da bere un liquore. Beve e si addormenta. Quando si sveglia torna al villaggio natio, ma non lo riconosce più: la moglie è morta, la figlia bambina si è sposata... Rip aveva dormito vent'anni! La pointe del racconto, che l’ha reso molto popolare in America, è costituita dal momento in cui avviene il lungo sonno di Rip. Lo scrittore lo colloca a ridosso dell’indipendenza degli Stati Uniti. Quando Rip si addormenta, era ancora suddito dell’Inghilterra; quando si sveglia era già avvenuta, nel 1776, la sollevazione che dava origine al nuovo Stato democratico e federale.
Forzando appena l’analogia, si può dire che ciò che ha avuto luogo nell’ambito dei rapporti medico-paziente non è dissimile da quella clamorosa trasformazione politica. Chi si svegliasse dopo un sonno di vent’anni troverebbe, come Rip van Winkle, un mondo sanitario tutto diverso: alla monarchia ha fatto seguito un tessuto repubblicano, il paternalismo è stato sostituito da rapporti egualitari, le regole etiche che riguardano l’informazione sono state riformulate.
Chi amasse scenari drammatizzati potrebbe immaginare un nuovo Rip van Winkle che, ricoverato in ospedale per un intervento, si vedesse sottoposto un modulo di consenso informato da firmare. Avrebbe tutte le ragioni per domandarsi che cosa è avvenuto durante il sonno. Ma non meno stupiti sono i nostri concittadini che, in un periodo di
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tempo non superiore al sonno attribuito al personaggio letterario, hanno vissuto la trasformazione di rapporti consolidati nel tempo. Il cambiamento in corso riguarda tutti: i professionisti sanitari, i cittadini nel ruolo di pazienti e i loro familiari.
Guelfi e ghibellini
Diversa è la valutazione se ci si lascia guidare dai bilanci e dalle autovalutazioni di carattere istituzionale. È ancora recente il bilancio ufficiale che è stato fatto dello sviluppo della bioetica in Italia. L’occasione è stata offerta dal quindicesimo anniversario dell’istituzione del Comitato nazionale per la bioetica (Cnb), avvenuta nel 1990. Nel dicembre 2005 un convegno, articolato su più giorni, ha preso in esame i principali documenti elaborati dal Comitato in quindici anni di attività e ha raccolto le riflessioni in un poderoso volume (Il Comitato nazionale per la bioetica: 1990-2005. Quindici anni di impegno). Il convegno è stato inaugurato dal presidente in carica, Francesco D’Agostino, con un “Elogio del Comitato nazionale per la bioetica”. Fedele all’assunto, il bilancio stilato dal presidente non contiene alcuna critica all’operato dell’istituzione (anche se, per una captatio benevolentiae, si presenta, con le parole di Benedetto Croce, come un contributo alla critica di se stesso). La molteplice attività del Cnb, tradottasi nella pubblicazione di più di 50 documenti, oltre a numerose raccomandazioni e pareri, viene elogiata per lo spirito che l’ha animata, sotto la costante guida della virtù dell’umiltà, della tolleranza e della difesa della dignità dell’uomo.
Una ricostruzione più analitica delle vicende iniziali del Cnb lascia intravedere un percorso della bioetica in Italia meno lineare e trionfalistico. Con una mozione della Camera dei deputati del 1988, il Parlamento aveva impegnato il Governo a promuovere un confronto a livello nazionale sullo stato della ricerca biomedica, come punto di riferimento per future scelte legislative in grado di coniugare il progresso della scienza con il rispetto della dignità umana. Veniva così deliberato di istituire presso la presidenza del Consiglio un comitato che fosse in grado di formulare indicazioni per eventuali atti legislativi: uno strumento, dunque, prelegislativo, vincolato alla volontà del legislatore di farne buon uso.
I primi segni di vita del neonato organismo hanno mostrato le tensioni che ne avrebbero resa difficile l’attività futura. Il Comitato nazionale,
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costituito per la prima volta presso il ministero della Sanità nella primavera del 1989, ha avuto vita brevissima per la caduta del Governo. Ma la sua breve esistenza è stata istruttiva: appena resa nota la composizione si è costituita a Milano, come contraltare, una Consulta di bioetica, a carattere laico. Era la reazione di un gruppo autorevole di studiosi e di operatori sanitari che non si sentiva rappresentato dal Comitato nazionale nominato centralmente, perché lo sentiva sbilanciato in senso troppo confessionale. Lo statuto della Consulta le affidava come compito istituzionale quello di promuovere la riflessione razionale sui problemi della bioetica ispirata a una concezione “laica” della vita, cioè ragionando etsi deus non daretur. Con la sua scelta la Consulta rivendicava il carattere di pluralismo che devono avere le scelte pubbliche. La via italiana al pluralismo in bioetica sembra però essere la risposta di una società a due poli, dove l’esistenza di un polo rafforza l’identità dell’altro. La contrapposizione tra laici e cattolici appare come un modello da cui non sappiamo staccarci nella vita civile, quasi che lo scontro tra guelfi e ghibellini costituisca un imprinting definitivo dell’italianità. Eppure il superamento di quel modello polarizzato era precisamente l’opportunità offerta dall’orizzonte delle problematiche bioetiche: tutti sono chiamati alla difesa della vita e alla promozione del carattere umano degli interventi biomedici, moltiplicando le risorse delle diverse tradizioni culturali (“famiglie spirituali” ha osato chiamarle la Francia, istituendo nel 1983 il suo Comitato consultivo nazionale di etica per le scienze della vita e della salute) in senso collaborativo e sinergico, non con spirito antagonistico.
La fragilità che deriva al Comitato nazionale dalla mancata risposta all’esigenza di superare gli schieramenti polarizzati è diventata evidente con la crisi del 1994. Con decreto firmato dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, il 16 dicembre 1994 il Cnb veniva rinnovato, con mandato quadriennale. Aspre polemiche sono state innescate dalla mancata riconferma, quali componenti del Comitato, di alcuni studiosi riconosciuti come componenti di area laica. La composizione generale del Comitato veniva spostata su una linea considerata “cattolica”. Grande rilievo è stato dato dai media alla decisione di tre influenti membri laici di rassegnare le dimissioni, motivandole con l’impossibilità di continuare proficuamente il loro lavoro.
La Consulta di bioetica ha dato della vicenda una lettura non riducibile
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a un semplice scontro tra maggioranza e opposizione: «Si tratta di decidere se è possibile la convivenza libera tra persone che si riconoscono in diverse posizioni morali e che discutono in uno spirito di rispetto e di tolleranza, con l’obiettivo di accordarsi fra loro sul quadro giuridico che consente questa convivenza». L’editoriale di Bioetica, rivista della Consulta, rincarava l’analisi dei valori in gioco: «È necessario che l’antico tema della tolleranza, che sembrava ormai superato, in quanto proprio di altri periodi storici, ritorni nuovamente al centro del dibattito e che tutti, laici e cattolici, vengano richiamati a pronunciarsi su questo principio, che sta alla base delle moderne società liberali».
Che cos’è la dignità?
Negli anni seguenti i toni della polemica si sono smorzati, ma progressivamente la polarizzazione tra bioetica laica e bioetica cattolica si è trasferita dal Comitato alla società. Soprattutto l’acceso dibattito che ha accompagnato prima l’approvazione della Legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita e poi il referendum abrogativo ha portato la contrapposizione a schieramenti sempre più radicalizzati: pro o contro la vita, concezione sacrale o secolare dell’embrione, subordinazione o indipendenza dell’etica dalla legge. Nell’“Elogio del Cnb” tracciato da D’Agostino la questione della tolleranza è data come risolta:
La tolleranza è sempre stata naturalmente ritenuta dal Cnb un’autentica virtù: sia nel significato debole e tradizionale, per cui è meglio non confrontarsi frontalmente con il male, quando questo confronto può, anziché minimizzarlo o almeno ridurlo, moltiplicarlo all'infinito; sia nel significato forte e moderno, per cui tolleranza significa rispetto, comprensione e al limite ammirazione per il portato di verità che ogni opinione, ogni visione del mondo, ogni manifestazione dell’humanum portano con sé, anche se lontanissime dalle nostre. A queste due forme di tolleranza ― e in specie alla seconda ― il Cnb è sempre restato fedele. Ciò a cui il Cnb ha sempre consapevolmente detto di no è quella forma di tolleranza che non si avvede ― nella pretesa o nell’illusione di rispettare l'altro di dare pari legittimità a pratiche logicamente e pragmaticamente antitetiche e quindi inconciliabili, giungendo così ― contro le buone intenzioni dei “tolleranti” ― a ferire e spesso a distruggere quell’insieme di valori umani irrinunciabili, che siamo soliti riassumere nella parola dignità.
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Molti indicatori inducono invece a credere che nell’ambito della bioetica si registri un revival di intolleranza. Il pluralismo dei mondi culturali nell’ambito della ricerca scientifica e delle decisioni biomediche, al quale la bioetica intende dare una risposta operativa, è ancora più difficile da comporsi quando il criterio scelto per demarcare i comportamenti è quello della “dignità”. Se è arduo tracciare una linea tra le scelte individuali che una società liberale può tracciare e quelle che non sono tollerabili (la compravendita degli organi? Le mutilazioni genitali femminili? Il suicidio assistito? L’astensione da trattamenti terapeutici su neonati malformati?), ancora più precario diventa il riferimento alla “dignità umana”. L’argomento della dignità della vita umana può servire contemporaneamente sia a promuovere un determinato comportamento, sia a giustificare il suo contrario. In concreto, è utilizzato dalla bioetica autonomista per giustificare un’azione che mette fine a una vita incompatibile con i propri valori (ricerca di una “morte degna”), e dalla bioetica a orientamento religioso per fondare l’interdizione, in nome della dignità umana, a disporre della propria vita (e anche a disporre della vita nelle sue primissime fasi embrionali).
Il ricorso alla dignità può fare appello tanto al principio dell’autonomia, in armonia con la valutazione di ciò che è ritenuto soggettivamente opportuno o desiderabile, in ogni caso “degno” della persona, quanto a una prospettiva paternalistica, in cui le modalità dell’azione sono stabilite dall’esterno (un’altra istanza, diversa dalla persona interessata, decide ciò che è conforme o no alla sua dignità: un’autorità religiosa, un professionista medico).
Una qualifica così indefinibile con criteri che non siano soggettivi, come quella di “dignitoso” abbinata alla vita umana, si presta a radicalizzare la contrapposizione tra mondi morali diversi. La bioetica, invece di costituire quel linguaggio comune che permetta a degli “stranieri morali” di intendersi, diventa uno strumento per sottolineare l’appartenenza a mondi morali diversi, che per tradizione sono soliti correlarsi reciprocamente secondo la modalità della svalutazione reciproca e dell’intolleranza.
Lingua franca per stranieri morali
Il sogno utopico di molti pionieri che hanno promosso la nascita della bioetica era stata la possibilità di trovare, nelle parole di Tristram
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Engelhardt, «un’isola per stranieri morali». La condizione di stranieri morali non si verifica solo tra atei e credenti: anche all’interno dei due gruppi si identificano divergenze radicali sulle più importanti scelte etiche che caratterizzano la pratica della medicina e delle scienze biologiche. La sfida a cui la bioetica ha immaginato di poter dare una risposta è elaborare un’etica per le situazioni problematiche che possa parlare con autorità razionale alle più diverse concezioni morali. In un’epoca di incertezze, la bioetica vuole offrire la possibilità di condurre discussioni aperte e pacifiche tra gruppi in disaccordo. Vuole essere la lingua franca di un mondo che, pur senza possedere una concezione etica comune, intende risolvere pacificamente i conflitti che nascono intorno alla vita (comprese le forme di vita non umane: il trattamento degli animali, in particolare il loro uso nella sperimentazione dei farmaci, è un tema molto caldo della bioetica), alla salute, alle cure, all’assistenza sanitaria.
Il rispetto della libertà degli agenti morali coinvolti è il nucleo centrale di un’etica per la società postmoderna e pluralista. Questo ideale di una convivenza pacifica, che rinuncia alla repressione, a meno che non sia giustificata come risposta all’atto di forza ingiusto, ha un prezzo: bisogna tollerare possibili tragedie dei singoli ― le persone, nella loro libertà, possono fare scelte che altri considereranno sconsiderate e nocive ― e la moltiplicazione di concezioni morali alternative, che spesso renderanno impossibile un’azione comune in molti campi. Quando nelle dichiarazioni programmatiche di natura politica si sente citare la bioetica, non è a questa pratica dialogica e contrattuale che si fa riferimento, ma a paletti invalicabili stabiliti per legge. Si dice bioetica, ma si ha in mente un biodiritto. L'intervento della legge nell’ambito della biomedicina, soprattutto all’interno delle decisioni cliniche riferite all’inizio e alla fine della vita, è una novità recente. In Italia, fino agli anni Novanta, leggi specifiche in ambito biomedico sono state molto rare, e circoscritte ad alcune pratiche che creano particolari perplessità etiche e giuridiche: la donazione degli organi (1975; legge riformata, dopo lungo dibattito, nel 1999), il transessualismo (1978), l’interruzione volontaria della gravidanza (1978). Se a queste specifiche leggi ad hoc si aggiungono le norme relative all'assistenza psichiatrica, quelle che regolano l'uso di sostanze stupefacenti o psicotrope e la lotta contro l’Aids, si ha il quadro completo delle leggi che fino a poco tempo fa hanno interferito con la pratica della
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medicina. Questa era regolamentata con norme deontologiche o con decisioni prese dai sanitari “in scienza e coscienza”. Negli ultimi anni, invece, la legislazione a cui ci si riferisce con la denominazione di bioetica ha preso un ritmo accelerato. Soprattutto si è diffusa la convinzione che i comportamenti debbano essere uniformati per legge: così sulla procreazione medicalmente assistita (Legge 40/2001), sulle decisioni di fine vita (eutanasia e direttive anticipate), sulla bioingegneria e sulla ricerca genetica.
Circa l’opportunità dell’intervento della legge nelle singole procedure diagnostiche e terapeutiche di cui si dibatte in bioetica le opinioni sono divergenti. Non c’è accordo in quali ambiti sia opportuno legiferare e in quali invece sia meglio affidarsi alle regolamentazioni deontologiche o al solo criterio dell’etica, lasciando ai cittadini la scelta di farvi ricorso o no. Soprattutto non c’è accordo fino a che punto debba estendersi un’eventuale legislazione bioetica: deve determinare analiticamente tutta la fattispecie, oppure è preferibile una normativa “leggera” che si limiti a una legge-quadro?
La necessità di una legislazione comune europea
Il problema del rapporto tra bioetica e biodiritto non è solo italiano, ma ha una dimensione sovranazionale. In Europa, dalla metà degli anni Ottanta, si è cominciata a sentire in maniera acuta la carenza di una riflessione adeguata nell’ambito bioetico come supporto per normative omogenee. Già nel 1985 i ministri della giustizia del Consiglio d’Europa si dichiaravano per un fronte comune, affermando che le leggi nazionali sarebbero state inefficaci se non ci fosse stato un allineamento dei Paesi vicini. Il diffondersi delle nuove pratiche che nascono dagli sviluppi della medicina, della biologia e della genetica scuote la società nelle sue convinzioni più profonde. Chi non è turbato dalle questioni metafisiche o dai dubbi etici non può non vedere almeno la dimensione economica dei problemi sul tappeto. In Europa è diventato realtà il “grande mercato”, che fa seguito allo smantellamento delle barriere nazionali.
Poiché le pratiche biomediche hanno una ricaduta economica di enorme importanza, quando gli investimenti privati hanno la possibilità di circolare liberamente si rischia di vederli risucchiati da Paesi con una legislazione più tollerante, a danno di quelli che pongono limitazioni più severe in nome della sicurezza e dell’etica. È una prospettiva
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che diventa inquietante quando si prende in considerazione la commercializzazione del corpo umano. Ma anche il “turismo terapeutico” crea enormi problemi, quando al di qua e al di là di una frontiera sono in vigore leggi che rendono possibile in un Paese ciò che è vietato in un altro, dal “turismo” abortivo a quello per la procreazione medicalmente assistita. Si assiste a fenomeni curiosi: per la fecondazione eterologa gli svedesi si recano in Danimarca, dove non sono obbligatorie l’identificazione del donatore e l’eventuale comunicazione dell’identità del genitore genetico del concepito; la Svizzera è la meta per chi cerca un aiuto per suicidarsi, dal momento che la legge non prevede sanzioni penali a chi fornisce aiuto al suicidio.
Le iniziative per creare una legislazione comune in materia di bioetica hanno dovuto affrontare il dibattito se, in linea di principio, questa unificazione sia possibile o auspicabile. Chi è contrario a una legiferazione in questo ambito adduce come argomento l’insufficiente consenso che esiste attualmente su alcune questioni antropologiche cruciali, come l’inizio e la fine della vita, lo status giuridico dell’embrione, l’impatto delle tecnologie riproduttive e della genetica. L’impegno comune, per esempio, a rispettare la vita umana ha poco senso quando le discipline giuridiche nazionali divergono radicalmente in questioni come l’aborto e l’uso di embrioni nella ricerca. Chi invece sollecita misure di regolazione giuridica considera i benefici di una legislazione a diversi livelli. La legge da sola non rende morali i cittadini; tuttavia influenza il comportamento morale. Non avere nessuna legge equivale all’anarchia. Tra una legge inefficace e un’abdicazione alla responsabilità da parte dello Stato è meglio correre il rischio di un’eventuale inefficacia. Una legislazione anche imperfetta, inoltre, può avere effetti contagiosi positivi su altri Paesi, che potrebbero prenderne ispirazione e migliorarla.
L’Italia e la Convenzione di Oviedo
In questo spirito è stato concepito e portato a compimento da parte del Consiglio d’Europa il progetto di una Convenzione europea in tema di biomedicina, che orienti lo sviluppo futuro del diritto sanitario, oltre che della deontologia professionale. Il testo della “Convenzione per la protezione dei diritti dell’uomo e la dignità dell’essere umano riguardo alle applicazioni della biologia e della medicina” (nota anche come Convenzione di Oviedo) è stato approvato nel
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novembre 1996 e successivamente sottoposto alla firma degli Stati membri del Consiglio d’Europa.
Circa metà dei 40 Paesi allora membri del Consiglio d’Europa ha sottoscritto la Convenzione. Il documento deve poi essere ratificato dai parlamentari degli Stati firmatari. Rispetto alle raccomandazioni del Consiglio d’Europa e ai trattati, che si limitano all’enunciazione di principi, lo strumento della Convenzione trae infatti la sua forza dal fatto che diviene vincolante per gli Stati che la ratificano, obbligandoli all’applicazione delle sue norme all’interno dei singoli ordinamenti nazionali. La convenzione non ha dunque un significato esortativo per gli Stati che la sottoscrivono, bensì normativo. Il Parlamento italiano ha ratificato la Convenzione con la Legge 145, il 25 marzo 2001. La Convenzione delinea in modo molto netto il nuovo rapporto tra sanitari e cittadini nell’ambito sanitario. Gli Stati che sottoscrivono la Convenzione si impegnano a non far prevalere una visione massificata della società: «L’interesse e il bene dell’essere umano devono prevalere sul solo interesse della società e della scienza». Al tempo stesso, però, sono obbligati ad assicurare «un accesso equo a cure della salute di qualità appropriata». La Convenzione, in altri termini, non giustifica un liberalismo estremo, attento solo a tutelare i diritti dell’individuo, ma prevede un impegno parallelo da parte dello Stato a garantire i più deboli.
La Convenzione accetta pienamente l’orientamento fondamentale della modernità a riconoscere l’autonomia per il paziente nel rapporto con i professionisti sanitari. Nessun intervento può, in linea di principio, essere imposto a una persona senza il suo consenso: «Un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato». L’individuo deve comunque poter liberamente dare o rifiutare il proprio consenso a qualsiasi “intervento”, inteso nell’accezione più ampia: ogni atto medico con finalità di prevenzione, di terapia, di educazione sanitaria o di ricerca.
Un’attenzione particolare merita l’articolo 9 della Convenzione, relativo alle preferenze espresse in previsione di potersi trovare nella condizione di non essere in grado di farlo: «I desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente, che al momento dell’intervento non è in grado di esprimere la sua volontà, saranno tenuti in considerazione». L’indicazione è importante:
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toglie legittimità a norme che, come quelle contenute nel progetto di legge sul “testamento biologico” in discussione nel Parlamento italiano, esentassero il medico da ogni responsabilità giuridica qualora non rispettasse un’espressione di volontà del paziente precedentemente espressa, ma decidesse piuttosto “in scienza e coscienza”. È una situazione emblematica, nella quale la bioetica ha bisogno di un’adeguata protezione da parte del biodiritto.
Misurato sul modello ideale della Convenzione di Oviedo, il cambiamento intervenuto in Italia, sia nella legislazione sia nella cultura diffusa, sembra lontano dall'empowerment del cittadino nell’ambito della gestione del corpo e delle decisioni di cura, che è la vera posta in gioco della modernità. Forse anche mezzo secolo è un lasso di tempo troppo breve perché la redistribuzione del potere possa aver luogo. Probabilmente i “lavori in corso" nella bioetica sono solo l’inizio del cambiamento. Anche un cammino lungo inizia con i primi passi. Ma non è fuori luogo proprio all’inizio del viaggio fermarsi e chiedersi se con la polarizzazione tra bioetica laica e bioetica religiosa e con la priorità data al biodiritto abbiamo imboccato la strada giusta.