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Sandro Spinsanti
ANTROPOLOGIA MEDICA
in Dizionario di Bioetica
EDB-ISB, Bologna-Acireale 1994
pp. 51-55
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1. Antropologia fisica
L’antropologia è, in senso strettamente etimologico, lo studio (logos) dell’uomo (anthropos). Suo oggetto è l’essere storico e culturale, il cui comportamento comprende dimensioni anche etiche e spirituali.
Fin dagli inizi della medicina scientifica occidentale l’antropologia si è rivelata un punto di riferimento importante per ogni impresa terapeutica. Nel modello ippocratico l’arte terapeutica si orienta verso un’antropologia naturalista, secondo la quale la Natura sa, senza averlo essa stessa imparato, ciò che è giusto e appropriato. La Natura (physis) influisce nell’arte (techne), per conservare e sviluppare l’essere proprio (nomos) dell’uomo. Il medico concepisce se stesso come servitore della physis (minister naturae) e diventa perciò maestro del nomos. La medicina è nella sua essenza e nei suoi principali strumenti ― diaita e therapeia ― antropologia.
Tutta la storia della medicina può essere ripercorsa tenendo presente il suo intreccio con le antropologie di riferimento. Da questo punto di vista, l’interesse per le questioni antropologiche sviluppatosi in quell’ambito della medicina contemporanea che è stato investito dal dibattito della bioetica non è qualcosa di qualitativamente nuovo. Si tratta solo di un giro di vite, dettato dalla radicalità dei problemi. I progressi scientifici e le applicazioni tecnologiche, soprattutto
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nei segmenti dell’inizio e della fine della vita, hanno portato a una «diluizione dei confini» (Malherbe, 1989). Ancor più: lo sviluppo biomedico tende a mutare l’immagine che gli uomini e le donne hanno della loro vita. Le rappresentazioni dell’uomo, della coppia, della famiglia, della sofferenza e della morte ereditate dalle culture tradizionali non sorreggono più la pratica della biomedicina, dove il libero intervento dell’uomo si sta sostituendo al corso «naturale» delle cose. Il dibattito bioetico si sviluppa mediante un continuo rimando, implicito o esplicito, a questioni essenzialmente antropologiche.
Le fonti per la conoscenza dell’uomo sono di natura diversa. Per la cultura moderna è stata decisiva la distinzione tra antropologia fisica e antropologia culturale. La classificazione risale a I. Kant, per il quale tutto il filosofare poteva essere ricondotto alle quattro domande fondamentali: «Che cosa posso sapere? Che cosa devo fare? Che cosa posso sperare? Che cos’è l’uomo?». Nell’antropologia, il filosofo illuminista ha distinto due aspetti: quello «fisiologico» (che considera «che cosa la natura fa dell’uomo») e quello «pragmatico» (che cosa l’uomo come essere libero fa, oppure può e deve fare di se stesso).
La duplice accezione è rimasta. L’«antropologia fisica» studia i caratteri biologici dell’uomo (l’uomo nella sua struttura somatica, nei suoi rapporti con l’ambiente, nelle sue classificazioni razziali, nel suo passato paleontologico, nella sua dotazione genetica). In quanto «culturale», invece, l’antropologia considera l’uomo nelle caratteristiche che gli derivano dai suoi rapporti sociali e si occupa della cultura in quanto sistema integrato con cui i gruppi sociali interagiscono con l’ambiente.
L’incrocio dell’antropologia fisica con la bioetica è meno marginale di quanto a prima vista si può immaginare. È più che una curiosità storica, infatti, che il termine stesso «bioetica» sia stato coniato e utilizzato da Van Rensselaer Potter in una prospettiva di antropologia fisica. La tesi fondamentale sostenuta dallo studioso era che i valori etici non possono essere separati dai fatti biologici; la sopravvivenza dell’intero ecosistema dipende dalla creazione di un ponte tra queste due culture: la «bioetica», appunto (Van Rensselaer Potter, 1971). Questa scienza nuova, finalizzata a garantire la sopravvivenza della vita, si fonda in uguale misura sui valori umani e sulle conoscenze biologiche, in particolare quelle ecologiche (indispensabili per l’uomo, essendo questi inserito in un ambiente naturale), quelle genetiche (studio dei meccanismi ereditari che in parte vincolano e in parte spiegano la natura umana) e quelle fisiologiche.
In Italia una riflessione bioetica orientata in questo senso è quella promossa da Brunetto Chiarelli, docente di Antropologia presso l’Università di Firenze, e dalle iniziative che a lui fanno capo (Società Italiana di Bioetica, rivista Global Bioethics/Problemi di bioetica). La bioetica proposta tende a cercare dei fondamenti su basi naturali. Tale disciplina deve focalizzare problemi connessi con la migliore sopravvivenza dell’uomo come individuo e come specie, nonché la relazione tra uomo e ambiente naturale. La bioetica, intesa come «tentativo di patto fra uomo e natura per rendere ancora possibile la nostra esistenza su questo pianeta», promuove la ricerca di norme etiche basandosi esclusivamente su principi razionali e naturalistici, e quindi utilizzando gli stessi criteri della scienza.
2. Antropologia culturale
Una seconda articolazione della bioetica con l’antropologia è quella riferita allo studio di ciò che l’uomo, in quanto essere libero, «fa e deve fare di se stesso», ovvero crea la cultura per rispondere alle sfide dell’ambiente ed è da essa modellato. La storia degli studi antropologici rivela un interesse costante per le rappresentazioni e per le pratiche relative al mantenimento e al ripristino della salute nelle diverse società
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e nei diversi strati sociali. Ricerche di grande interesse sono state condotte nell’ambito dell’etnomedicina, a cominciare dall’opera classica di W. Rivers, Medicine, Magic and Religion (1922), che per prima ha concettualizzato la medicina come un sistema culturale. La medicina, secondo la definizione di Rivers, è «un insieme di pratiche sociali con cui l’uomo cerca di dirigere e controllare uno specifico gruppo di fenomeni naturali, quelli cioè che colpiscono specialmente l’uomo stesso e influenzano il suo comportamento in modo da renderlo disadatto per il normale svolgimento delle Sue funzioni fisiche e sociali, fenomeni che abbassano la sua vitalità e tendono alla morte».
L’antropologo valuta le differenze del comportamento umano nella cura della salute come un’espressione tipica di quella divaricazione tra i diversi gruppi umani che è prodotta dalla cultura. La descrizione etnografica delle credenze e dei comportamenti sanitari dei popoli «primitivi» era spesso viziata da un pregiudizio etnocentrico, che induceva a svalutare ciò che fosse difforme dalla cultura dell’osservatore. L’antropologia culturale ha operato una svolta copernicana nel modo di considerare le risposte alla situazione «naturale» dell’uomo. I sistemi medici, così come le istituzioni sociali, devono essere studiati come elementi integrati in una cultura, e non essere considerati in rapporto al punto di vista dell’osservatore.
L’antropologia medica che si è sviluppata da questa prospettiva ha assunto il rilievo di una vera e propria disciplina (specialmente nei Paesi anglosassoni, dove è conosciuta col nome di medical anthropology). Nella definizione di David Landy, essa è «lo studio dei modi umani di confrontarsi con là malattia e l’infermità, e degli accomodamenti adattivi (cioè medicine e sistemi medici) fatti dai gruppi umani per far fronte a questi pericoli che minacciano sempre e ovunque gli esseri umani» (D. Landy, 1977). Il campo di lavoro dell’antropologia medica comprende tra i suoi argomenti tematici: i sistemi medici e le teorie relative alla malattia e alla guarigione; stati emotivi e costrizioni culturali (etnopsichiatria); ecologia ed epidemiologia delle malattie; status e ruolo del paziente e del terapeuta; trasformazione dei sistemi medici nel cambiamento sociale e culturale, specialmente nel processo di modernizzazione.
Sullo sfondo di questa attenzione costante che l’antropologia, in quanto scienza sociale, ha dedicato alla medicina, possiamo collocare il dialogo più recente che si sta sviluppando tra la bioetica e l’antropologia medica. L’antropologia, fondata sulla ricerca empirica, fornisce una informazione vitale circa il contesto socioculturale della pratica biomedica, inclusa la conoscenza dei sistemi di credenze (belief systems) dei pazienti e dei sanitari.
La critica che l’antropologia medica può rivolgere alla bioetica è di essersi sviluppata da radici che affondano nella teologia, nel diritto e nella filosofia morale, cioè da discipline che non hanno alcuna tradizione di ricerca empirica. Queste discipline si basano invece sulle ortodossie della verità ricevuta, sulla legislazione esistente e sull’analisi formale; prescindono dall’esame critico dei complessi contesti sociali: e culturali nei quali vengono fatte lé scelte mediche rilevanti per la bioetica.
Il ruolo potenziale che può avere l’antropologia culturale per la bioetica è eloquentemente illustrato dagli studi pioneristici di Renée Fox (sulla «formazione all’incertezza» nel training medico, sul ruolo dell’autopsia nel curriculum formativo degli studenti di medicina, sul trapianto di organi e la dialisi, sulla reazione dei pazienti e dei sanitari ali cuore artificiale), di Andrea Sankar (sulla home care e l’assistenza domiciliare ai malati terminali), di Deborah Gordon (sulla comunicazione della diagnosi ai malati di cancro).
3. Antropologia filosofica
Fin dall’epoca dell’umanesimo, nella
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tradizione culturale europea Si e consolidata una accezione di «antropologia», intesa come riflessione filosofica sulla peculiarità della natura umana. La prima traccia letteraria di questo concetto di antropologia può essere individuata nell’opera di Magnus Hundt, Anthropologium de hominis dignitate, pubblicata a Lipsia nel 1501. Il tema dell’antropologia in questo senso specifico è costituito dalla posizione particolare dell’essere umano nel mondo dei viventi. Questa riflessione fisolofico-deduttiva è metodologicamente e contenutisticamente diversa dalla conoscenza propria dell’antropologia concreta che si è formata nell’epoca moderna, nei due versanti dell’antropologia fisica e dell’antropologia pragmatica già individuati da Kant.
Nella linea dell’antropologia filosofica post-idealistica, il problema dell’uomo come vivente ha ritenuto l’attenzione soprattutto di filosofi di indirizzo fenomenologico-esistenziale. Vanno citati: F.J. Buytendijk, L. Binswanger, M. Boss, H. Plessner, A. Gehlen, M. Merleau-Ponty, J.P. Sartre. La loro antropologia si propone di comprendere l’uomo come l’essere che, nell’unità della sua corporeità animata, esiste nel mondo storicamente. La riflessione avvenuta nell’ambito della medicina ha applicato in particolare questo tema all’uomo malato e ai problemi esistenziali connessi con le vicende della salute, costituendo nell’insieme dell’antropologia un capitolo di «antropologia medica».
Una realizzazione particolarmente felice di questo tipo di medicina, che si assume anche il compito di pensare filosoficamente l’uomo al quale è diretta l’azione terapeutica, è rappresentata dalla Anthropologische Medizin tedesca. Sorta nel periodo successivo alla prima guerra mondiale, è rappresentata da pensatori di diversa estrazione, ma con una base comune: rivendicare all’azione medica una prospettiva antropologica, per reagire ai riduzionismi propri della medicina concepita come scienza della natura, attenta solo al lato biologico dell’esistenza umana. Senza costituire una scuola nel senso proprio del termine, la «Medicina antropologica» ha svolto un ruolo caratteristico nel riportare gli interessi umanistici nell’ambito della medicina. Il suo orizzonte problematico è per la massima parte sovrapponibile a ciò che negli ultimi venti anni è stato dibattuto sotto l’etichetta di «bioetica».
Comune a tutti gli Autori di questa corrente ― menzioniamo, tra i più significativi: L. von Krehl, R. Siebeck, Th. von Uexküll, A. Mischerlich ― è l’importanza attribuita alla biografia del paziente e alla storia della malattia per capire la patogenesi. Non si presta attenzione solo alla biologia, ma anche ad altri fattori, come l’ambiente, la storia e la psiche, compresa l’azione dinamica dell’inconscio. La malattia appare così come un processo complesso: non solo qualcosa che si subisce, in quanto sopravviene dall’esterno come un intervento estraneo al soggetto, ma anche qualcosa in cui il malato è impegnato attivamente. «Non si ha solo una malattia, ma si è malati», ha sintetizzato Viktor von Weizsäcker.
Quest’ultimo Autore è indubbiamente l’esponente più rappresentativo della «Medicina antropologica». A lui risale la formula: «introdurre il soggetto in medicina», quale programma per una rifondazione della scienza medica. L’orientamento assunto dalla «Medicina antropologica» apre alla comprensione della malattia un ambito che la medicina in quanto scienza della natura si era precluso. «La malattia dell’uomo ― afferma ancora von Weizsäcker ― non è il guasto di una macchina, bensì la sua malattia non è altro che lui stesso, o meglio, la sua possibilità di diventare se stesso»: L’essere e il poter/dover essere, l’antropologia e l’etica appaiono così organicamente legate, in una visione che mira a recuperare la totalità.
La corrente della «Medicina antropologica» non interessa solo lo storico delle idee. Essa ha continuato
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a produrre una riflessione sulla medicina e sull’azione sanitaria a partire dagli interrogativi sull’uomo che la medicina intende guarire e assistere. Tra le realizzazioni più ragguardevoli segnaliamo in particolare l’opera dello storico della medicina Pedro Laín Entralgo, Antropologia medica (suddivisa organicamente in parti dedicate rispettivamente a «La realtà dell’uomo», «Salute e malattia», «L’atto medico e i suoi orizzonti»). L’etica appare organicamente inserita nell’atto medico come sua parte integrante, in quanto la realtà stessa dell’uomo è costitutivamente morale.
L’antropologia medica, nelle sue diverse articolazioni, ci permette di rilevare che l’etica in medicina non ha una data d’inizio. I sanitari hanno sempre agito avendo in mente un’immagine dell’uomo (un’antropologia), anche se non sempre esplicita e riflettuta. A partire da quest’immagine si domandano che cosa devono fare e quali sono la portata e i limiti dei loro doveri morali. L’etica in medicina ha a che fare essenzialmente con la riflessione sull’antropologia: il modo in cui l’uomo capisce se stesso è interpreta la sua azione in rapporto a tale fine.
L’antropologia medica rimane un punto di riferimento obbligato per la bioetica, soprattutto per quegli orientamenti esclusivamente centrati sull’etica analitica, che sembrano voler rinunciare alla tradizionale riflessione antropologica.
[→ Antropologia filosofica; Antropologia teologica; Bioetica; Malattia; Medico; Salute].
BIBLIOGRAFIA
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R. Fox, The autopsy: its place in the attitude-learning of Second-Year Medical Studies», in: Essays in Medical Sociology: Journeys into the Field, Wiley, iNew York 1979, 51-77
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D. Landy (a cura di), Culture, disease and healing: Studies in medical anthropology, Macmillan, NewYork-London 1977
J.F. Malherbe, Per un’etica della medicina, Paoline, Cinisello Balsamo 1989
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A. Sankar, La comunicazione tra i familiari e i sanitari nell’assistenza domiciliare ai morenti, in: Bioetica e antropologia medica, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1991, 241-256
S. Spinsanti, Guarire tutto l’uomo. La medicina antropologica di V. von Weizsäcker, Paoline, Cinisello Balsamo 1988
V. von Weizsäcker, Filosofia della medicina, Guerini e Associati, Milano 1990