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Sandro Spinsanti
MALATTIA
in Dizionario di Spiritualità dei Laici
Edizioni O.R., Milano 1981
pp. 1-5
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Sommario - 1. M. e peccato - 2. Nella prospettiva dell’alleanza - 3. L’attività terapeutica di Gesù - 4. Gesù e il male fisico - Bibliografia
1. M. e peccato
Nel mondo biblico la m. non è solo un fatto contingente che viene a interrompere in modo accidentale il progetto vitale dell’uomo. È piuttosto una realtà carica di mistero, che indica la situazione spirituale di un uomo o d’un popolo davanti a Dio. La m. è un segno; essa parla un linguaggio che si può capire solo se lo si riferisce al dialogo tra l’uomo e Dio.
Per gli ebrei, questa estensione della realtà della m., fino ad attribuire ad essa un senso e una funzione soprannaturali, era resa facile dall’ambiente culturale in cui si muovevano. I popoli che li circondavano ― gli egiziani a sud e i babilonesi a nord ― credevano comunemente che la m., come ogni altra disgrazia, fosse opera della divinità. In essa ravvisavano l’intervento di una potenza superiore all’uomo, per lo più malvagia. La fede monoteistica impediva agli ebrei di concepire un dio del male, antagonista di quello del bene. Tutto viene rapportato all’azione di Jahvé. Ciò non impedisce tuttavia che anche nella Bibbia quello che si riferisce alla m. abbia talvolta i tratti del demoniaco. È una concezione che riscontriamo ancora presente nell’ambiente dei vangeli, in particolare in alcune guarigioni di malattie accompagnate da esorcismi. I problemi posti da quanto si è accennato alla nostra mentalità moderna vengono notevolmente diminuiti se teniamo presente il modo abituale di vedere e di narrare i fatti di m. in diversi ambiti culturali, in quello orientale ma anche in quello grecoromano. La Bibbia, pur adottando questo linguaggio, dal momento che non ne conosceva un altro, non intende vincolare esplicitamente quelle concezioni all’autorità della parola di Dio per la salvezza degli uomini.
La questione diventa invece scottante quando consideriamo le affermazioni bibliche circa il legame tra m. e peccato.
Accenniamo solamente ad alcuni passi biblici, che dovrebbero essere esaminati dettagliatamente nel loro contesto: la m. di Saul (1 Sam 16,14); punizione del servo cupido di Eliseo, colpito da lebbra (2 Re 5,27); m. e guarigione del re Ezechia (2 Re 20,1-11); a proposito del re Joram (2 Cr 21,11-19); m. e morte di Alcimo, che aveva preteso di abbattere il muro di separazione tra l’atrio degli israeliti e quello dei pagani (1 Mac 9,54-56); m. e morte dell’empio Antioco iv Epifane (2 Mac 9,11-12); m. mortale del re Nabucodonosor (Dn 4,28-30).
Oltre che nelle precedenti narrazioni, il rapporto tra m. e peccato personale è stato affermato anche da testi poetici (tra gli altri Sal 31 (32), 3-5; 37 (38), 4; Sir 38,15; Gb 22,5-14, che esprime la tesi degli amici di Giobbe, difensori della dottrina ufficiale del giudaismo).
Le affermazioni sulla m. come punizione del peccato, già sufficientemente categoriche nella Bibbia, sono state successivamente raccolte ed elaborate fino all’esasperazione negli ambienti religiosi giudaici. Se già gli amici di Giobbe interpretavano un caso di m. secondo le regole: «Nessuna punizione senza colpa» e; «Dove c’è il patire c’è stato prima il peccato», in seguito il giudaismo portò agli estremi questa concezione. I giudei devoti affermavano che Dio vigila affinché peccato e punizione corrispondano alla regola; «misura per misura». Così la gravità della punizione cresce con la gravità del peccato: le più grosse catastrofi, che possono capitare ai singoli o alla comunità, hanno per presupposto i più gravi peccati.
Così non solo si presumeva di sapere quale disgrazia facesse seguito a determinati peccati, ma si poteva anche risalire dalla sventura di un uomo al suo peccato! La m. diventava un segno per riconoscere la colpa.
Gli ebrei al tempo di Gesù erano impregnati di queste concezioni. Nella guarigione del cieco nato ritroviamo in modo evidentissimo le tracce delle teorie dei rabbini. «Maestro ― domandano i discepoli di Gesù ― chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché nascesse cieco?» (Gv 9,2). Gesù recide alla radice questa problematica, tipicamente di scuola: «Non ha peccato, né lui, né i suoi genitori». Ugualmente rifiuta di credere che le vittime di Pilato e gli uomini schiacciati dal crollo della torre di Siloe siano stati puniti dalla disgrazia per loro particolari peccati (Lc 13,1-9). L’insegnamento di Gesù è categorico: se la m. è un segno, non lo è necessariamente di una colpa personale, e perciò non è lecito inferire dalla m. o disgrazia a un peccato antecedente. Questa decisa presa di posizione di Gesù non è senza conseguenze per ciò che concerne l’atteggiamento morale del cristiano di fronte alla m. In molti malati si può notare infatti la tendenza spontanea ad autoaccusarsi, e quindi a sentirsi colpevoli, a considerarsi puniti. Anche quando ci si ribella a tale connessione tra m. o disgrazia e peccato («Che cosa ho fatto perché Dio mi punisca così?») si rimane in quest’ottica.
Ora è bene tener presente che il terreno psicologico su cui spunta la tendenza alla colpevolezza è quello regressivo. La psicologia descrive la regressione del malato mediante tre elementi: il restringimento del proprio mondo, l’egocentrismo e un atteggiamento fatto allo stesso tempo di tirannia e di dipendenza. La passività e la dipendenza spiegano a sufficienza la facilità con cui il malato tende a piegarsi sotto l’ipotetica accusa significata dalla m. L’atteggiamento religioso di docile autoaccusa è un espediente per cercare sicurezza.
Con queste premesse è facile che il rapporto m.-peccato personale sia accettato — se non addirittura inconsciamente ricercato per uscire da uno stato d’ansia ― quando viene proposto da certa ascetica e da certa pastorale. Ecco perché assume la massima importanza la netta dissociazione fatta da Gesù tra m. e punizione di un peccato personale. Questa prospettiva aiuta a evadere da uno stato di morboso senso di colpa. Il quale, del resto, non offre un’opportunità per la vita religiosa. Ogni incontro di
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fede tra Dio e l’uomo ― anche l’uomo malato ― deve essere un incontro personale e responsabile, non uno stato di soggezione malsano e infantile. L’incontro personale della fede avviene tra Dio e l’uomo vivente, padrone di se stesso, perché Dio non vuole incontrare gli istinti ma la libertà. Compito del sacerdote e di tutti coloro che assistono il malato con una motivazione religiosa è quello di cercare un rapporto che abbia una funzione pedagogica rispetto alla fede del malato. Respingiamo perciò la tentazione di «sfruttare la situazione», approfittando della fragilità psicologica del malato per proporgli un rapporto con Dio fatto di passività, infantilismo e colpevolezza morbosa. Cerchiamo piuttosto di favorire il passaggio da una «coscienza infelice» a una «coscienza responsabile», aiutando il malato a liberarsi dalla tendenza a rifugiarsi nel senso di colpa.
2. Nella prospettiva dell’alleanza
Gesù rifiuta con ogni decisione la teoria della m. come conseguenza di un peccato personale. Ma non rifiuta con la stessa radicalità la prospettiva religiosa che vede nella m. un segno della situazione dell’uomo davanti a Dio. È tipico, a questo proposito, il racconto della guarigione del paralitico (cfr. Mt 9,1-8). Perdono dei peccati e guarigione del corpo sono associati senza per questo avallare le idee relative alla m. come punizione. Resta dunque una certa relazione tra la sofferenza fisica e il peccato, anche quando si rinuncia a legarli come causa ed effetto. La teologia ha cercato di far luce su questo punto oscuro introducendo la nozione di peccato originale. Il dolore sarebbe la conseguenza non del peccato personale, bensì del peccato che tutta l’umanità ha compiuto mediante i progenitori. Nel linguaggio religioso popolare ricorre abitualmente questo tipo di «spiegazione». Non è opportuno affrontare qui la questione del rapporto tra m. e peccato originale, che appartiene alle nozioni più radicalmente rimesse in questione dai teologi e dagli esegeti. Un approccio del problema, più consono alla terminologia biblica e più accessibile alla mentalità moderna consiste nel considerare la m. nella prospettiva dell’alleanza tra Dio e il suo popolo.
La prima osservazione che siamo portati a fare è che Israele ha, sì, accettato le categorie culturali che vedevano nei mali un intervento della divinità, ma le ha integrate nella sua idea della vita di fede come un rapporto di vassallaggio, che obbliga reciprocamente un signore ― in questo caso Dio, Jahvé ― e un suddito ― il popolo d’Israele ―. Alleanze di questo tipo venivano stipulate mediante formulari fissi, dei quali faceva parte una minuta elaborazione di benedizioni e maledizioni condizionali. Vale a dire, di benedizioni o maledizioni che seguiranno se il partner si atterrà o, al contrario, non si atterrà alle clausole stipulate. Valga come esempio particolarmente eloquente il c. 28 del Deuteronomio. Nei testi biblici in cui si parla di m. come punizione, la m. non è isolata, ma ricorre insieme ad altre calamità, quali la carestia, le cavallette, i nemici, ecc. E anche là dove la m. ricorre da sola, è sempre la prospettiva di fondo dell’alleanza che bisogna presupporre.
Per entrare nella prospettiva biblica è importante rendersi conto che benedizioni e maledizioni non vanno considerate come premi e castighi estrinseci, usati pedagogicamente per tenere il partner umano nell’alleanza, ma sono parte integrante dell’alleanza stessa. L’alleanza infatti è finalizzata alla «salvezza» dell’uomo, e questa, in quanto salvezza per l’«uomo», non è disincarnata, ma lo investe nella sua dimensione terrena, corporea, concreta. Per questo la terra, la sicurezza dai nemici, la salute del corpo, il cibo e il vestito fanno parte della salvezza, sono la salvezza accordata da Jahvé al suo popolo. Finché Israele resta fedele al suo Dio non può che partecipare della salvezza, e quindi della terra promessa, della salute, della longevità, del benessere.
Evidentemente questa prospettiva non risolve tutti i problemi, anzi ne pone di particolarmente acuti. La sofferenza del giusto resta un enigma che non trova spiegazione adeguata in uno schema di natura giuridica, fosse pure quello dell’alleanza.
Se le benedizioni sono intrinseche all’alleanza, lo scriba e il rabbino non vedevano come potessero venir meno, qualora non si fosse peccato contro Dio infrangendo così l’alleanza. Apparterrà agli scrittori sapienziali e ai salmisti di inquadrare il problema posto dalla sofferenza del giusto e di risolverlo, non rinunciando ai princìpi generali dell’alleanza, bensì approfondendoli. Il vertice di questa riflessione sarà raggiunto dal libro di Giobbe. L’importante è che il problema della sofferenza del giusto, che emotivamente tende ad accaparrare tutta l’attenzione, non offuschi il disegno di fondo dell’alleanza. Salute e m. acquistano un senso religioso in quanto Israele è in relazione di alleanza con Dio. Esse entrano a far parte integrante del disegno di salvezza, come ne fanno parte la vita e la morte. M., morte e peccato appaiono come realtà comunicanti e congiuranti contro l’uomo, dalle quali Dio lo libererà mediante la storia della salvezza che ha messo in atto. È appunto la prospettiva della storia della salvezza che permette alla m. di svolgere la funzione di segno della condizione dell’uomo in alleanza con Dio.
La m. dice relazione non solo all’uomo e al suo bisogno di salvezza, ma anche al piano di Dio che offre la salvezza. Come l’esilio e la schiavitù, essa appare come la realtà provvisoria, la cui sparizione sarà il segno dei tempi nuovi. Il significato religioso della m. è legato non solo a un passato di peccato, ma anche a un avvenire di salvezza. Numerosi testi biblici ci parlano della m. precisamente come della realtà che dovrà essere abolita all’apparizione dei tempi escatologici, che saranno anche tempi di guarigione. Nel mondo nuovo, inaugurato dalla nuova alleanza (cfr. Ger 31,31-34), la m. sarà soppressa: non ci saranno più né ciechi, né sordi, né muti, né zoppi («lo zoppo salterà come un cervo»: Is 25,8; 65,19). In
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questi passi profetici la guarigione è messa in rapporto con la liberazione, l’abbondanza, la pace; anzi, la guarigione è adoperata come metafora per indicare la salvezza completa e perfetta. Se la parola di Dio è una parola per la vita, nella prospettiva della storia della salvezza bisogna considerare in modo privilegiato il momento in cui l’alleanza tra Dio e l’uomo ha stretto il suo dono definitivo. Nell’esistenza umana e nella parola di Gesù si è reso manifesto quale è la vita che Dio intende per l’uomo. Solo una riflessione sul mistero della salvezza nella sua maggiore densità, vale a dire nella pasqua del Cristo, ci mostrerà come la sofferenza fisica possa cambiare di segno ed esprimere anch’essa, paradossalmente, la grande benedizione con cui Dio ha benedetto l’umanità.
3. L’attività terapeutica di Gesù
Che la morale cristiana si costruisca a partire dalla vita e dall’insegnamento di Gesù sembra ovvio. Ogni insegnamento morale che si voglia cristiano cerca di agganciarsi a quella dottrina e a quella prassi. Il problema sorge quando confrontiamo le diverse accentuazioni, o addirittura le differenti interpretazioni di ciò che è essenziale nel cristianesimo. Troviamo così che nel mistero del Cristo alcuni accentuano prevalentemente la passione e la morte, vista come l’agire definitivo in ordine alla salvezza: con le sue sofferenze, col sangue e con la croce, Gesù ha redento gli uomini dal peccato. Altri invece sottolineano la prassi liberatrice di Gesù, che ha condotto una lotta contro il male in tutte le sue espressioni, nelle sue conseguenze come nelle sue cause.
La differenza di prospettiva è particolarmente evidente quando si parla del malato in riferimento a Cristo. Alcuni privilegiano la prospettiva che converge sulla croce, ritenendo che la sofferenza fisica collochi il malato in una situazione di particolare partecipazione alla passione di Cristo. Di qui l’identificazione abituale della m. con la croce. Di qui, anche, le esortazioni ad accettare la m. come modo di continuare a soffrire con Cristo e di cooperare alla salvezza del mondo.
Ma dopo le prospettive aperte per la liturgia e la teologia dalla riconsiderazione del valore di salvezza proprio della risurrezione, anche la teologia morale non può più esimersi dal considerare il mistero del Cristo nella sua integralità. Il Cristo ci ha salvato compiendo la sua pasqua. Se consideriamo la salvezza come un evento connesso con l’intera vicenda personale del Cristo che compie la sua pasqua nella condizione umana, il raggio degli avvenimenti che portano e significano la salvezza si estende prima e dopo la croce. Gesù ha operato la salvezza dell’uomo non solo perdonandolo, ma dandogli vita in modo sovrabbondante; egli doveva non solo riparare una colpa, ma dare una nuova vitalità all’uomo. E la trasformazione dell’uomo non avviene senza l’azione dello Spirito nel cuore, quello Spirito che è dato da Gesù risorto. È tutta la vita di Gesù, culminante nella risurrezione, che è salvezza, comunicazione di vita nuova.
In particolare, l’attività terapeutica di Gesù non appare più marginale, o destinata soltanto a fornire carte di credito per l’annuncio della parola: essa fa parte integrante dell’opera della salvezza. Questa è, del resto, la conclusione cui ci conduce la considerazione dei dati biblici. Essi documentano a sufficienza che le guarigioni hanno costituito una parte importante del ministero di Gesù. L’evangelista Matteo così riassume l’attività di Gesù in Galilea: «Gesù percorreva tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe, predicando il vangelo del regno e sanando ogni malattia e infermità del popolo. E giunse la sua fama in tutta la Siria, e gli portarono tutti i malati oppressi da varie malattie e tormentati, indemoniati, lunatici e paralitici, ed egli li guarì» (Mt 4,23-24).
Anche se qui si tratta di un sunto del redattore, non viene infirmato il carattere storico della testimonianza secondo la quale Gesù svolse un’attività terapeutica a favore di tutti, guarendo da ogni specie di infermità. La sottolineatura evangelica che tutti venivano guariti non va intesa in senso quantitativo, ma nel senso che Gesù guariva malati di tutti gli ambienti e affetti da ogni sorta di malattie. Questa osservazione non mancava di una punta polemica: lasciarsi toccare dalle folle innumerevoli ed eterogenee era un’abominazione, dal punto di vista dei farisei e dei monaci esseni; Gesù sottolineava con questa prassi che aveva ricevuto la missione di esercitare il suo ministero presso il popolo intero.
Non solo l’universalità, ma anche l’abbondanza delle guarigioni è l’ambiente indispensabile per capire il Gesù dei vangeli. Ci colpisce la sproporzione numerica tra le pochissime guarigioni riferite dall’AT e le tante riportate dal N. Perché questa profusione improvvisa di miracoli? Il motivo è il momento particolare della storia della salvezza (il Kairós) rappresentato dalla venuta di Gesù Cristo. Per capire il senso delle guarigioni miracolose di Gesù è illuminante il quadro costruito da Luca per dare solennità all’inaugurazione del ministero di Gesù. Il giovane rabbi prende la parola nella sinagoga di Nazaret. Legge dal profeta Isaia (61,1-2) quanto si riferisce all’attività del messia nell’anno della salvezza universale: «Lo Spirito è sopra di me; per questo mi ha consacrato, mi ha mandato a predicare ai poveri la buona novella, ad annunziare ai prigionieri la liberazione, ai ciechi il recupero della vista, a mettere in libertà gli oppressi, a promulgare un anno di grazia del Signore». Gesù commenta la citazione profetica dicendo semplicemente: «Oggi si è adempiuta questa scrittura nelle vostre orecchie» (Lc 4,21). L’anno giubilare ebraico (Lv 25,8-18.23-55), con cui è raffigurata la salvezza escatologica, è iniziato; il grande sabato della fine dei tempi è arrivato. Le guarigioni di Gesù in giorno di sabato, così scandalose per i legalisti, volevano appunto alludere a questo grande anno sabbatico.
Le guarigioni, con il loro numero e la loro prodigiosità, hanno precisamente il compito di
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essere segno dei tempi nuovi che sono arrivati. In quanto segno sono un avvenimento indicativo di qualche cosa; l’elemento straordinario attira l’attenzione e la dirige stilla realtà nascosta, il regno di Dio, appunto, che sta venendo. Le guarigioni taumaturgiche di Gesù sono l’annuncio e l’inserzione nel tempo d’un ordine nuovo, quello escatologico e definitivo, inaugurato dai tempi messianici.
Quando i profeti annunciavano il regno futuro, ne descrivevano la venuta attraverso una serie di segni; la consolazione, l’abbondanza, la pace, la guarigione (Is 61,1-3; Mic 4,1-4; Ger 33,6; Is 35,5-6). Come l’esilio e la schiavitù, la m. appare come la realtà provvisoria, la cui sparizione indicherà la venuta dei tempi nuovi. Con la guarigione sarà benedetto il popolo che entra nell’area dell’alleanza definitiva. Le m. hanno, in generale, quella funzione di segno che Gesù attribuisce in particolare alla cecità del cieco nato: «Né lui, né i suoi genitori hanno peccato, ma è così perché si manifestino in lui le opere di Dio» (Gv 9,3). La cecità ci appare qui come l’occasione nella quale Dio manifesta la realtà e la potenza della grazia nel quadro della missione di Gesù. La m. non è spiegata: essa è là per essere vinta dall’intervento travolgente del Dio fedele all’uomo. Questa è l’interpretazione che Gesù dà esplicitamente della fioritura di guarigioni attorno alla sua persona. Rispondendo alla domanda perentoria della delegazione del Battista: «Sei tu quello che deve venire?», Gesù rimanda ai segni messianici ben conosciuti dai lettori della Bibbia: «Andate e riferite a Giovanni quello che udite e vedete: i ciechi vedono, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono mondati, i sordi odono, i morti risorgono, ai poveri è annunciata la buona novella» (Mt 11, 2-6). Per amore di chiarezza Luca, riportando stesso episodio, aggiunge: «In quel momento egli guarì molte persone da malattie, da infermità e da spiriti maligni e restituì la vista a molti ciechi» (Lc 7,21). L’elemento più caratteristico in queste guarigioni è che esse: non vogliono essere un semplice ristabilimento della salute come equilibrio organico, ma espressione della venuta d’un ordine nuovo, in cui il male non ci sarà più. Per questo le guarigioni sono così spesso collegate con il perdono dei peccati. È un segno che Dio, attraverso il suo Spirito, riprende possesso di tutta la creazione che gli si è alienata.
Il perdono dei peccati ha dunque lo stesso significato della guarigione. Questa concretizza il perdono (cfr. soprattutto Mc 2,1-12); ma l’uno e l’altro insieme attestano la venuta dei tempi nuovi in cui gli uomini sono guariti e perdonati, liberati e saziati. Le guarigioni di Gesù sono un vero atto di salvezza, la conseguenza necessaria della nuova alleanza: dopo aver dato all’uomo un cuore nuovo, ecco che Dio «fa nuove tutte le cose» (Ap 21,5). Anche questi segni della salvezza partecipano della tensione tra «già» e «non ancora» che è proprio del momento attuale della storia sacra. Se, da un lato, Cristo ha vinto la morte (e la m.) nella sua propria risurrezione, dall’altro è chiaro che non l’annienterà definitivamente che alla sua parusia (cfr. 1 Cor 15,26).
I vangeli stessi ci aiutano a non interpretare in modo trionfalistico i segni del regno. Sottolineano che tali segni si realizzano in un contesto così sprovvisto di potenza, che possono diventare tanto occasione di scandalo, quanto occasione di fede (Mt 11,6). Le guarigioni operate da Gesù non sono destinate a inaugurare in modo glorioso un’era di felicità sulla terra, sul tipo dei miti millenaristici, ma solo a porre dei segni della presenza del Figlio dell’uomo e della prossimità del regno.
Figlio dell’uomo non realizza la sua missione terrena trionfalmente. Si comporta precisamente in quel modo umile e inglorioso con cui Isaia aveva tracciato il destino del «servo sofferente di Jahvé» (Is 42,1-7; 49,1-6; 50,4-9; 52,13; 53,12). La missione di Gesù è stata una missione salvatrice condotta nella debolezza umana pienamente abbracciata. Gesù guarisce, ma lo fa caricandosi della miseria umana. A tal punto, che il «segno» decisivo non saranno le guarigioni delle m., ma il «segno di Giona» (cfr. Mt 12,38-40), cioè la croce e la risurrezione.
4. Gesù e il male fìsico
Nella vita di Gesù possiamo individuare due risposte alla provocazione del male fisico: quella del profeta-terapeuta che guarisce per annunciare e instaurare l’ordine nuovo, e quella del servo di Jahvé che trasforma il dolore facendone un momento della salvezza. Tra i due atteggiamenti è possibile una sintesi superiore, dialettica, alla luce del mistero pasquale nella sua interezza. Se consideriamo l’opera di Gesù dal punto di vista del mistero pasquale, dobbiamo tener presenti gli elementi che costituiscono la categoria biblica della pasqua. Li possiamo sintetizzare in questa espressione: da una situazione di morte (schiavitù, peccato, alienazione), per opera di Dio, scaturisce una vita nuova. Questo è il significato della prima pasqua: un passaggio dalla schiavitù in Egitto e dalla condizione di «non-popolo» alla condizione di «popolo di Dio», grazie all’intervento travolgente e gratuito di Jahvé (cfr. Dt 7,7-8). Gli stessi elementi ritroviamo nella pasqua di Gesù; quella che darà origine all’alleanza nuova e definitiva. Solidarizzatosi con gli uomini, egli ha voluto operare, per sé e per tutti, un passaggio dallo stato di lontananza da Dio ― che il linguaggio biblico descrive come «secolo presente», sotto il potere di satana ― alla condizione di perfetta alleanza con Dio, cioè di «figli di Dio», sempre secondo il linguaggio della Bibbia. Ma la pasqua di Gesù non è stata opera di potenza folgorante: egli ha accettato la condizione umana di impotenza di fronte al male e l’ha vissuta senza deflettere minimamente dal dono di sé al Padre e ai fratelli. Il valore di salvezza umana di Gesù ― che raggiunge l’apice nella passione e nella morte ― consiste nel fatto che diventa espressione dell’amore fedele al Padre e agli altri uomini: un amore tanto più radicale,
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quanto è più totale la debolezza in cui si esprime, fino a quel vertice unico di fedeltà e di debolezza proclamato dal grido di Gesù morente: «Padre, nelle tue mani raccomando il mio spirito» (Lc 23,46). In risposta a questa fedeltà «Dio ha costituito signore (Kjrios) e messia» questo Gesù crocifisso dai suoi (cfr. At 2,36) e lo ha reso sorgente di spirito e di vita nuova per tutti (cfr. 1 Cor 15,45). In questo senso preciso le sofferenze di Gesù e la croce sono state redentrici.
Il dinamismo pasquale della vita del Cristo rende ragione di ambedue gli atteggiamenti di fronte al male fisico: la lotta a oltranza di Gesù terapeuta e l’accettazione di Gesù quale servo di Jahvé. Gesù ha voluto lottare contro il male, perché la salute è una delle «benedizioni» della nuova alleanza e il suo recupero è uno dei segni della vicinanza del regno, anzi del fatto che il regno è già presente nel mondo come lievito nella pasta (Mt 13,33). Ma ha lottato senza adottare un atteggiamento di titanismo, bensì nella debolezza umana. Ha impedito però che il male lo allontanasse dal Padre; ne ha fatto anzi il mezzo per dimostrare un amore fedele a oltranza, assumendo il dolore nella sua vicenda pasquale. Con ciò Gesù ha vinto realmente il male fisico nel suo aspetto più pericoloso, cioè quello di bloccare il progetto esistenziale umano nella sua maturazione in senso personale e sociale. Per questo il credente può lanciare, con s. Paolo, la sfida: «Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?» (1 Cor 15,55). Il male fisico non deve esistere e un giorno, nel regno ― anticipato ora nel corpo glorioso di Gesù ― non esisterà più. Se esiste ancora ― in quanto la «consumazione» non è ancora venuta ― esso è vinto, perché può diventare espressione di amore fedele in colui che non si lascia sviare dal suo atteggiamento di dedizione di se stesso sul modello di quello di Gesù. Non è facile sintetizzare l’atteggiamento di Gesù di fronte al male fisico in una sola espressione. Dopo la considerazione della dialettica pasquale, non possiamo parlare semplicemente di lotta contro il male o semplicemente di accettazione: rischieremmo di deformare il messaggio biblico, mutilandolo. Quel che è certo è che nella vita di Gesù trova espressione concreta e visibile quella «costanza» (hypomoné) nella quale i primi cristiani hanno individuato, a livello morale, la novità cristiana nel mondo. Questa novità sono chiamati a vivere, anche quando sono colpiti dalla m., coloro che si sono messi alla sua sequela.
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