- Interessi plurali, interessi in conflitto nella pratica clinica
- Conflitto di interessi
- L'alleanza terapeutica
- Chi ha potere sul mio corpo?
- Curare e prendersi cura
- Il medico e il paziente, una relazione complessa
- Le mani sulla vita
- Come riconoscere il medico giusto
- Cambiamenti nella relazione tra medico e paziente
- L'educazione come terapia
- «Dottore, sto male» - «Mi racconti»
- Narrative based medicine
- We have a dream
- L'ascolto che guarisce
- La comunicazione medico-paziente
- La gestione dei conflitti in ambito sanitario
- Ripensare la cura nel contesto di una società conflittuale
- La necessità di porre limiti alla medicina
- Parlare o tacere?
- Il rapporto medico-paziente
- Il recupero del soggetto
- Etica della vita e intervento sanitario
- Elogio della indecisione
- Comunicare e informare: quale empowerment per il cittadino?
- L'ascolto che guarisce: conclusioni
- Dignità del malato e dignità del medico
- Aspetti etici della relazione medico-paziente
- La decisione cardiochirurgica: aspetti etici
- Il segreto nel rapporto con il paziente sieropositivo
- Il rapporto medico-paziente: modello in transizione
- La formazione culturale del curante
- Le professioni della salute si incontrano
- Le separazioni nella vita
- Quando inizia l'accanimento diagnostico e terapeutico?
- L'accanimento diagnostico e terapeutico
- La persona è al centro della comunicazione
- Il medico impari a non «scomunicare»
- Ma il malato deve o vuole sapere?
- Il dottor Knock si aggiorna
- Il tempo come cura
- A una donna come me
- La difficile virtù di saper ascoltare
- Dottore, ma l'operazione s'ha proprio da fare?
Sandro Spinsanti
IL RAPPORTO MEDICO-PAZIENTE: IL POSTO DELL'ETICA
in Salute e Società
anno III, n. 1-2004, pp. 51-68
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1. Un punto di vista sull’etica medica
Nel numero della primavera scorsa de “La Professione”, mensile della Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurgici e odontoiatri, troviamo diversi indizi del malessere che circola tra i medici italiani. Una lettera (Fango sui medici legali) protesta sul discredito gettato sui medici che si occupano dei casi di responsabilità professionale, accusati di aver indotto un aumento dei costi assicurativi. Un articolo dedicato alla crisi del rapporto medico-paziente oscilla tra difesa e autocritica (“Forse ci siamo distratti e non abbiamo seguito abbastanza l’evolversi della società, cosicché altri hanno preso il timone e ci hanno relegato solo ai remi...”). A documentazione della crisi vengono citati tre articoli recenti su tre diversi giornali: la copertina de “L’Espresso”, con la foto di un medico e la didascalia: Ci possiamo ancora fidare di loro?; l’articolo de “Il bisturi” che riporta un’indagine del Tribunale dei diritti del malato: I cittadini non si fidano dei medici specialisti del Ssn; un articolo su un numero precedente de “La Professione” dal titolo: Il malessere di una categoria. Illustra la crisi anche la notizia della costituzione di “Amami”, acronimo di Associazione medici accusati di malpractice ingiustamente (raramente un acronimo è stato più efficace: sintetizza un percorso secolare in cui il rapporto tra professionisti e pazienti, che gravitava intorno a una richiesta reciproca di amore, è diventato una ricerca di tutela gli uni dagli altri...). Potremmo continuare, citando dallo stesso numero de “La Professione” a cui ci stiamo riferendo un altro ampio articolo dal titolo eloquente: Il medico “aggredito”. Come difendersi, che culmina con l’esortazione rivolta ai medici a “riappropriarsi dei propri atti”, rifiutando la subalternità alle logiche di tipo efficientistico-finanziario che predominano oggi nelle aziende sanitarie. Ci fermiamo qui: quanto abbiamo spigolato è sufficiente a tracciare le coordinate della crisi, così come la vivono i medici.
Sull’altro versante, quello dei cittadini e dell’opinione pubblica sull’operato dei medici, il malessere si traduce spesso in accuse di sapore moralistico. Il principale capo di imputazione sembra nascere da una delusione: come dall’aver scoperto che quei professionisti, idealizzati come
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“missionari” della salute, in realtà siano dei mercanti, e che dietro le grandi parole ― filantropia, scienza, bene dell’umanità, stato sociale ― si nascondano interessi molto meschini. E se non tutti sono attrezzati per rilevare le carenze scientifiche nelle decisioni mediche prese “in scienza e coscienza”, cresce il numero di coloro che si ritengono autorizzati a sospettare della “coscienza” dei medici, quasi che tutti i professionisti della sanità, caduti dal piedistallo di un’etica superiore, fossero motivati da intenti quanto meno equivoci.
È molto arduo trovare una via d’uscita da un confronto articolato in termini di accuse e difese. L'impasse appare ancora più grave quando ci rendiamo conto che mancano chiarezza e consenso riguardo al rapporto medico-paziente così come dovrebbe essere. La linearità di parametri etici unitari e condivisi da tutti i protagonisti, professionisti e cittadini, è venuta meno. In una situazione caratterizzata dalla complessità è inevitabile che sorgano malintesi, quando la qualità morale dei comportamenti viene misurata con criteri diversi. Perché l’etica medica unitaria del passato si è moltiplicata in molteplici etiche, ovvero in “punti di vista” diversi su ciò che è giusto e appropriato nei rapporti di cura.
L’indicazione di “un punto di vista” va assunta in senso letterale, applicando all’etica le scoperte che Jean Piaget ha fatto nell’ambito dell’epistemologia genetica [Piaget e Inhelder 1948]. Studiando lo sviluppo cognitivo dell’essere umano, Piaget ha analizzato come si forma la rappresentazione dello spazio nel bambino. Ha individuato una soglia che costituisce il passaggio dal pensiero concreto (che Piaget chiama “realismo intellettuale”) a quello del pensiero astratto. Soltanto dopo aver passato quella soglia ― collocabile cronologicamente intorno ai 7-8 anni ― il bambino giunge a riconoscere l’esistenza di molteplici punti di vista spaziali, e soprattutto a comprendere che i rapporti spaziali fenomenici fra gli oggetti possono mutare cambiando punti di vista. Prima di allora il bambino, pur osservando le cosa da un punto di vista spaziale, ignora per lungo tempo l’esistenza contemporanea di altri punti di vista possibili; non è dunque in grado di rendersi conto che il suo stesso è “un punto di vista” tra altri, e che quindi persone diverse vedono cose diverse, se la prospettiva che assumono cambia.
Ciò che vale per lo spazio si può applicare anche ai valori. E quindi all’etica. Anche l’etica medica è chiamata a uscire dall’infanzia epistemologica, entrando nell’età adulta caratterizzata dalla convivenza di molteplici prospettive, non riducibili le une alle altre. Si tratta di superare la fase di “realismo intellettuale”, che porta ad assolutizzare il proprio punto di vista, escludendo la possibilità stessa che la qualità etica di comportamenti ― buona o cattiva pratica della medicina ― possa essere valutata diversamente a seconda dei punti di vista. In pratica, ciò equivale alla piena acquisizione dello spazio tridimensionale, anche nell’etica. “L’etica è un’ottica”:
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il gioco di parole proposto da E. Lévinas muove nella stessa direzione; l’etica è condizionata dallo sguardo, da ciò che vediamo.
L’accettazione della complessità richiede il passaggio dalla dimensione che è familiare a ciascuno ― soprattutto se interiorizzata attraverso il processo di socializzazione in un determinato gruppo professionale ― ad altre dimensioni. Con grande umorismo e virtuosismo immaginativo insuperabile lo scrittore inglese Erwin Abbott ha tentato di realizzare qualcosa di questo genere nel racconto fantastico Flatlandia. Ha immaginato che cosa significhi passare da un mondo bidimensionale, abitato da esseri totalmente piatti: segmenti, triangoli, quadrati, poligoni vari e sublimi circoli ― la Flatlandia, o Paese del Piano ― alla Spacelandia, o Paese a tre dimensioni [Abbott 1996], La sfida per noi, abituati alla tridimensionalità, va nel senso contrario: immaginarci che cosa significhi vivere in Flatlandia, come scrive Abbott nell’incipit:
«Posate una monetina nel mezzo di uno dei vostri tavolini nello Spazio, e chinatavi a guardarla dall’alto. Essa vi apparirà come un cerchio. Ma ora, ritraendovi verso il bordo del tavolo, abbassate gradatamente l’occhio (avvicinandovi così sempre più alle condizioni degli abitanti della Flatlandia), e vedrete che la monetina diverrà sempre più ovale: finché da ultimo, quando avrete l’occhio precisamente all’altezza del piano del tavolino (cioè, come se foste un autentico abitante della Flatlandia), la moneta avrà cessato di apparire ovale, e sarà divenuta, per quanto potrete vederla, una linea retta».
Solo apparentemente ci siamo allontanati dalla rivisitazione del rapporto medico-paziente; in realtà, ci siamo collocati al centro del problema: la pluralità dei punti di vista su ciò che significa oggi il “buon” esercizio della medicina e la difficoltà di passare da una prospettiva “piatta” a una multidimensionale. I malesseri ― tanto dei medici quanto dei cittadini ― dai quali abbiamo preso le mosse sono un sintomo di crescita: il passaggio da Flatlandia a Spacelandia in medicina. È quanto cercheremo di vedere, sottoponendo a una disamina analitica i contenuti dei vari modelli etici che hanno corso oggi in sanità.
2. Stagioni dell’etica in medicina
2.1. Il superamento dell’etica medica
Parlare di etica medica presuppone concezioni di fondo ― per lo più non esplicite ― che abbiamo presenti quando portiamo un giudizio su ciò che intercorre tra medico (o altri professionisti sanitari) e paziente, attribuendogli un carattere morale positivo (buono) o negativo (cattivo). Si tratta di un sistema di regole che determinano in che modo devono comportarsi i diversi
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protagonisti del sistema delle cure: i medici, i malati, le varie professioni sanitarie, i familiari del malato, la società nel suo insieme.
Tradizionalmente l’insieme dei comportamenti attesi rispondeva allo schema 1.
Schema 1 - Etica medica pre-moderna
_____________________________________________________________________________
Epoca pre-moderna
Etica medica
_____________________________________________________________________________
La buona medicina “Quale trattamento porta maggior beneficio al paziente”?
L’ideale medico Paternalismo benevolo
Il buon paziente Obbediente (compliance)
Il buon rapporto Alleanza terapeutica (il dottore con il suo paziente)
Il buon infermiere “Paramedico”. Esecutore delle decisioni mediche.
Supporto emotivo del paziente
Chi prende le decisioni Il medico, in “scienza e coscienza”
Principio-guida Beneficità
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Il modello ha caratteristiche di grande antichità e di forte tenuta nel tempo. La sua antichità è indiscussa, in quanto in Occidente si è soliti farlo risalire alla medicina greca (etica ippocratica). Ma anche la sua forza è notevole: non esiste in tutta la tradizione occidentale un modello culturale che abbia resistito tanto a lungo. L’Occidente ha cambiato una quantità di cose nell’organizzazione sociale ― l’economia, la famiglia, la religione, il diritto, la politica ― dall’antichità greco-romana a oggi. La medicina stessa si è profondamente modificata nel corso del tempo, sia nei modelli teorici che nel modo di fornire aiuto ai malati. Tra il medico seguace di Galeno ― che interpreta le malattie secondo la teoria degli umori ― il medico scienziato dell’Ottocento ― che ricorre al metodo della scienza sperimentale per spiegare come funziona l’organismo sano o malato ― il medico della nostra epoca ― che è in grado di ricondurre le malattie a un difetto del corredo genetico, così da prevederne l’insorgenza con anni di anticipo ― le differenze sono enormi. La stessa cosa si può dire sul versante dell’arsenale terapeutico, che dal ricorso di salassi è passato ai vaccini, agli antibiotici e all’ingegneria genetica. La diversità tra questi mezzi terapeutici, quanto a efficacia ed efficienza, è incolmabile.
Per l’etica, invece, non è avvenuto così. Le convinzioni su ciò che è bene o male fare in medicina, sui comportamenti giusti o ingiusti nei confronti
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del malato sono rimaste relativamente stabili per secoli. Praticamente si tratta di una tradizione ininterrotta che in Occidente è durata per più di 25 secoli, dall’antichità greco-romana fino ai nostri giorni: in tutto questo tempo non abbiamo mai sentito il bisogno di modificare il concetto, condiviso dai medici e dai pazienti, di quelle pratiche di cura della salute a cui attribuire un valore morale positivo.
Ci possiamo riferire a quest’epoca come alla stagione premoderna dell’etica in medicina. Sinteticamente la denominiamo etica medica. L’aggettivo è giustificato. L’etica a cui ci riferiamo, infatti, è sostanzialmente l’etica “del medico”: la dominanza medica (Freidson) si esprime anche nell’etica, non meno che nell’organizzazione del lavoro. È il medico che determina i criteri della “buona medicina” e la professione medica che se ne fa garante. In questa etica sono prescritti comportamenti per i malati, per i familiari, per le professioni che collaborano con il medico; tutti svolgono, tuttavia, funzioni subordinate e sono chiamati a modellarsi sulle richieste che provengono dai medici, i quali hanno un ruolo decisivo nello stabilire che cosa sia buona medicina, sia in senso clinico che in senso etico. La qualifica di “paramedici” data a coloro che esercitano professioni sanitarie non mediche rispecchia bene questa situazione di centralità del medico. Possiamo dire che anche l’etica dei non medici in questa stagione è un'etica “paramedica”.
La domanda fondamentale a cui risponde la medicina di qualità dell’epoca pre-moderna è: “Quale trattamento porta maggior beneficio al paziente?”. Troviamo questa preoccupazione già nel giuramento di Ippocrate, nella cosiddetta clausola terapeutica: “Prescriverò agli infermi la dieta opportuna che loro convenga per quanto mi sarà permesso dalle mie cognizioni e li difenderò da ogni cosa ingiusta e dannosa”.
Tutta l’azione del medico è diretta a procurare un beneficio al paziente, in quanto mira a risolvere i problemi posti dalla patologia. Le risorse che il medico utilizzerà sono ovviamente quelle che la scienza del tempo gli mette a disposizione: per il medico dell’antichità era la “dieta” (cioè il regime terapeutico che tendeva a ristabilire nella vita del malato l’equilibrio turbato); per il medico dei nostri giorni i trattamenti appropriati potranno essere gli antibiotici o i trapianti di organo. Qualunque sia la scienza di riferimento, il modello rimane tuttavia lo stesso: il medico si impegna a fare il bene del paziente, utilizzando le risorse terapeutiche che ha a disposizione.
I principi fondamentali di questa etica, riconducibili all’imperativo di procurare un beneficio alla salute del paziente, presuppongono un modello ideale del medico fondamentalmente paternalista: il medico è colui che sa qual è il bene del paziente e vuole realizzarlo, mettendovi tutto il suo impegno, con assoluta dedizione. È la scienza in continuo progresso che lo guida nel percorso della terapia, mentre la coscienza gli impedisce di trarre profitto dalla debolezza del paziente (per esempio, strumentalizzandolo ai fini di ingiusto lucro o di fama). Questa duplice guida è riassunta da una formuletta, molto amata e citata dai medici, quando rivendicano a se
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stessi l’obbligo di prendere le decisioni “in scienza e coscienza”. Nel linguaggio della bioetica americana, si parla a questo proposito di una medicina ispirata al principio di “beneficità” (in inglese il termine utilizzato è beneficence, che bisognerà accuratamente evitare di tradurre, a orecchio, con “beneficenza”; il medico non fa beneficenza, ma procura al paziente il bene di salute che la sua scienza gli permette di conoscere).
Il malato contribuisce alla buona medicina impegnandosi a essere docile e osservante delle prescrizioni, in un rapporto di affidamento fiduciale. Egli non ha, di per sé, nulla da dire in merito all’atto terapeutico, che rimane affidato a quanto il medico stabilisce per il suo bene. Tutto quello che il malato ha da fare, è di diventare “paziente”, in tutti i significati del termine (anche in senso morale, in quanto la pazienza è la principale virtù che è chiamato a esercitare). Il buon paziente è il paziente “osservante”. A lui si richiede di collaborare al trattamento prescritto con il comportamento denominato compliance. Come sentenziava l’illustre spagnolo Gregorio Marañon, che ha rappresentato nella prima metà del XX secolo il permanere dell’ideale ippocratico: “Il malato che non sa essere paziente diminuisce le sue possibilità di guarire. Obbedire al medico è incominciare a guarire”.
In questo modello il buon rapporto è l'alleanza terapeutica tra colui che si dedica all’opera della guarigione e chi riceve questo servizio. Il termine “alleanza” fa parte della tradizione religiosa. Il rapporto medico-paziente ha, di fatto, una connotazione fortemente religiosa in senso ampio, in quanto, allo stesso modo dell’alleanza che è il pilastro centrale della religione ebraico-cristiana, mette in relazione due fondamentali diseguaglianze. Nell’alleanza religiosa si tratta del legame che si instaura tra la divinità, in quanto fonte della potenza che produce la salvezza, e la situazione di necessità propria del popolo che ha bisogno di redenzione. L’unione dei due mediante l’alleanza salva dalla condizione di bisogno (schiavitù, peccato ecc.). Analogamente, la guarigione in medicina, nel modello tradizionale, si ottiene mediante l’unione tra la scienza-coscienza del medico (che include il suo sapere, la filantropia, la volontà di fare il bene del paziente) e la volontà del paziente di mantenersi dentro questo rapporto di alleanza.
L’osservanza della prescrizione medica è la condizione essenziale perché l’alleanza possa esplicare i suoi effetti benefici, e quindi procurare la guarigione. Il contraente dell’alleanza, che è il malato, si deve affidare e accettare le condizioni che gli vengono poste per la guarigione; il medico, che concede l’alleanza, lo guida verso la salvezza, identificata con la guarigione. Dai collaboratori del medico, in quanto “paramedici”, ci si attende che collaborino anche a indurre i malati a essere “osservanti”. L’informazione fornita al paziente non entra come un elemento costitutivo della buona medicina secondo il modello premoderno. Tutt’al più può essere utile, strumentalmente, per ottenere una maggiore collaborazione da parte del paziente (compliance); ma non si può in alcun modo parlare di un diritto del paziente a essere informato, né di un corrispettivo dovere del medico di informare.
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Questo modello continua ancora a strutturare i nostri comportamenti sociali, sia come medici che come pazienti. Soltanto quando diventiamo “moderni” il modello entra in crisi.
2.2. La “modernizzazione” dell’etica, ovvero la bioetica
Quando comincia l’epoca moderna? I manuali di filosofia e di storia generalmente fanno iniziare la modernità con l’Illuminismo, nel XVIII secolo. Nella cultura dell’Occidente è avvenuto un cambiamento profondo, una di quelle fratture che hanno ripercussioni generalizzate su tutta la struttura dell’esistenza. I valori della “modernità” hanno progressivamente modificato l’insieme della vita politica e sociale; solo un ambito è rimasto tenacemente “pre-moderno”: la medicina. Soltanto da una ventina di anni sono diventati visibili i segni di una frattura che indica la “modernizzazione” della medicina. Di conseguenza, cambiano tutti i parametri che costituiscono il modello di buona medicina caratteristico dell’epoca premoderna. Per evidenziare il cambiamento del paradigma etico, indichiamo la transizione come il passaggio dall’epoca dell’“etica medica” a quello della “bioetica”.
Schema 2 - Etica medica e bioetica
___________________________________________________________________________________
Epoca pre-moderna Epoca moderna
Etica medica Bioetica
___________________________________________________________________________________
La buona medicina “Quale trattamento porta “Quale trattamento
maggior beneficio rispetta il malato nei suoi valori
al paziente”? e nell’autonomia delle sue scelte”?
L’ideale medico Paternalismo benevolo Autorità democraticamente condivisa
Il buon paziente Obbediente (compliance) Partecipante (consenso informato)
Il buon rapporto Alleanza terapeutica Contratto di prestazione d’opera
(il dottore con il suo paziente) (partnership professionista-utente)
Il buon infermiere “Paramedico”. Esecutore Facilitatore della
delle decisioni mediche; comunicazione, a beneficio
supporto emotivo del paziente di un paziente autonomo
Chi prende le decisioni Il medico, in “scienza e Il medico e il malato
coscienza” insieme (decisione consensuale)
Principio-guida Beneficità Autonomia
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Se consideriamo sinotticamente le voci principali che costituiscono la struttura portante dell’etica medica, notiamo che nessuno dei suoi parametri è stato risparmiato dal cambiamento. Lo scopo generale della medicina non è più soltanto quello di portare il maggior beneficio al paziente: perché un trattamento medico abbia un carattere di qualità, ci dobbiamo anche domandare se tratta il malato da adulto, rispettandolo nei suoi valori e nell’autonomia delle sue scelte. Il beneficio procurato non è l’unico indicatore della buona medicina: nell’epoca moderna, infatti, il malato va fondamentalmente considerato come una persona autonoma, capace di auto-determinare le proprie scelte.
L’autonomia della persona è un pilastro fondamentale della modernità. Così lo ha espresso Immanuel Kant nel famoso saggio Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo?: l’Illuminismo comincia quando si decide di uscire dallo stato di minorità imputabile all’uomo stesso, intendendo per minorità “l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro”. Il primo paragrafo dello scritto, che sintetizza il programma di vita dell’uomo moderno, termina con l’esortazione: Sapere aude! Ovvero, abbi il coraggio di servirti dell’intelletto come guida.
L’epoca moderna comincia in medicina quando il programma generale dell’emancipazione si estende anche a quella “minorità non dovuta” ― in quanto non dipende dalla condizione di minorenne per età cronologica o dalla mancanza di capacità di intendere e di volere ― che vige tra il medico e il paziente secondo il modello paternalistico tradizionale.
Il malato dell’epoca moderna è quello che ha la capacità e il coraggio di non farsi trattare come una persona eterodeterminata, ma assume il peso e la responsabilità delle decisioni che lo riguardano. Ciò mette in crisi il modello dell’etica medica, secondo il quale il malato è per definizione in condizione di “minorità”, in quanto non può determinare da solo i fini e i mezzi per conseguirli. Riconosciamo l’influenza di concezioni antiche, come quelle che ha espresso Aristotele nell’affermare che il malato, proprio per la sua condizione, non è capace di dare giudizi razionali, in quanto è turbato dalle passioni, come ad esempio la paura per la propria vita; nello stato di malattia deve quindi subentrare la struttura paternalistica di contenimento: qualcun altro prende le decisioni per il bene del malato, dal momento che questi non lo può fare. Dire che la medicina entra nell’epoca moderna significa prima di tutto rimettere in discussione questo paradigma profondo, che presuppone una fondamentale diseguaglianza tra le persone autonome e quelle che non lo sono (le scelte di queste ultime essendo determinate dalle prime), e assume che il malato, per il solo fatto di essere malato, perda il privilegio dell’autonomia.
Quando la medicina si modernizza i valori del malato, intesi come quadro di riferimento che guida le sue scelte in modo congruente con la “buona vita” che intende condurre, diventano un momento fondamentale di un’attività sanitaria eticamente giustificabile. La potente ed efficace medicina
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che la scienza, abbinata alla tecnologia, ci mette oggi a disposizione non assomiglia in niente alla medicina del passato, povera di risposte terapeutiche. L’arsenale medico è potente e vario, e ci mette di fronte ad alternative create dai valori soggettivi. A seconda del concetto personale di buona vita ― ovvero di ciò che individualmente corrisponde a un’esistenza riuscita o fallita ― un intervento medico può essere appropriato o no.
Perché si abbia buona medicina non ci si può limitare a rispondere alla domanda: “Questo intervento porta oggettivamente un beneficio al paziente?”. Non basta stabilire ― per esempio ― che l’atto medico ha di fatto prolungato la vita del paziente. Se quanto il medico intraprende va contro i suoi valori e le sue decisioni, non possiamo giustificare eticamente l’intervento, anche se è rivolto a tutelare il bene della salute o della vita stessa. L’autodeterminazione del paziente, in quanto articolazione fondamentale dei suoi diritti (per capire la differenza del paradigma, basti pensare che nel modello tradizionale si parla solo di doveri del medico e non di diritti del paziente) diventa un criterio di qualità. L’intervento sanitario non può più essere deciso unilateralmente dal medico che si basa sul suo sapere professionale, ma deve essere individuato insieme al paziente, spesso con un faticoso processo di negoziazione.
L’epoca moderna comporta una profonda modifica del modello ideale di autorità. Al potere assoluto (un medico del XVII secolo, Rodrigo de Castro, nell’opera Medicus politicus l’ha formulato, sostenendo che “il medico ha potere sul corpo umano così come il sovrano ha potere sullo stato e Dio sul mondo”) si sostituisce una condivisione di potere e di responsabilità. Superato il paternalismo benevolo, l’ideale medico nel modello della bioetica diventa un’autorità democraticamente condivisa; il buon paziente è un paziente partecipante alla decisione. Il cardine di questa strutturazione concettuale è il consenso informato, nel senso proposto dal Comitato nazionale per la bioetica: in quanto “si traduce in una maggiore partecipazione del paziente alle decisioni che lo riguardano” (Comitato nazionale per la bioetica: Informazione e consenso all’atto medico, 1992). L’idea di qualità dell’atto medico si arricchisce di una nuova componente: è buono l’intervento sanitario che ha anche una correttezza formale, vale a dire il rispetto delle procedure volte a far partecipare il paziente alle scelte diagnostiche e terapeutiche.
Nella prospettiva della modernità il paziente non ha solo il diritto di essere curato bene, ma anche dei nuovi doveri. E non solo l’antico dovere di esercitare la pazienza ed essere obbediente. La sua posizione non è solo di privilegio, ma può costituire anche una scomoda responsabilità, in quanto deve partecipare al processo decisionale. Non possiamo escludere che talvolta il paziente potrebbe preferire piuttosto di delegare la decisione e di demandarla al medico (“Faccia quello che è necessario: il dottore è lei, non io!”). Il paziente partecipante nelle scelte ha il compito di essere un “buon paziente”. Per diventarlo non basta che si limiti a non creare difficoltà
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ai sanitari, non porre troppe domande, essere docile e seguire le prescrizioni mediche; il buon paziente ha anche un compito etico: deve accettare il coinvolgimento nelle scelte che lo riguardano, condividendo l’orizzonte di incertezza che è proprio delle decisioni cliniche. Il buon rapporto è una partnership, che si instaura tra professionista e utente.
L’asimmetria nei rapporti di sapere e di potere resta, ma va contemperata con un uso consapevole e mirato dell’informazione. Il paziente si muove così verso la posizione di un “utente”. Il termine può suscitare delle associazioni che sembrano fuori luogo in sanità. Per ricondurlo entro l’ambito appropriato, basta pensare al senso etimologico della parola. L’utente è colui che “usa” la competenza del medico; in quanto utente, ha il dovere di usarla bene, responsabilmente, per fare insieme al professionista le scelte appropriate. Questo modello etico include il concetto di partecipazione. Il termine bioetica è un neologismo, adatto a un modello di qualità in medicina veramente inedito. È la buona medicina appropriata per la stagione dell’etica in medicina che abbiamo chiamato “moderna” (non nel senso di maggiore attualità, ma con riferimento alla modificazione culturale che si identifica con la rivoluzione liberale e il rispetto illuministico dell’autonomia personale).
Sentiamo il bisogno di cambiare etichetta anche perché non ci troviamo più nell’ambito dell’etica medica, cioè del medico, concentrata sul medico, elaborata dalla professione medica a beneficio anche del malato. La bioetica implica uno spostamento dell’accento, per cui la qualità non è più determinata in maniera unica ed esclusiva dal sapere e dal potere del medico, ma viene stabilita in modo dialogico, insieme al paziente, il quale deve partecipare alle decisioni con i suoi valori, nell’ambito del consenso sociale. Quindi nella bioetica entra la società, l’etica civile, l’accordo ottenuto trasversalmente alle diverse comunità morali di appartenenza, includendo anche gli “stranieri morali”.
Questo modello di qualità si diffonde con estrema difficoltà. Lo contrasta una profonda resistenza, sia da parte del mondo medico, sia da parte dei cittadini. Tanto i professionisti della sanità quanto i pazienti sono obbligati a cambiare modelli di riferimento che hanno una lunghissima tradizione. È un passaggio epocale; spostandosi da un modello all’altro i punti abituali di riferimento si modificano, tanto che possiamo affermare che stiamo assistendo all’inaugurazione di una nuova epoca della qualità e dell’etica nella medicina.
Per evitare facili equivoci e smantellare almeno alcune riserve ― quelle che nascono dal timore che si intenda abbandonare il modello dell’etica medica tradizionale ― è necessario sottolineare che i due modelli non sono diacronici, ma sincronici. In altre parole, non si susseguono nel tempo, sostituendo con il modello moderno i valori tradizionali, ma sono chiamati a convivere. Riferendoci ai “punti di vista” dell’epistemologia genetica di Piaget, non si tratta di scalzare la prospettiva dominante in passato con
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un’altra, ma di uscire dalla concezione ingenua secondo cui esiste un solo punto di vista e mettere insieme più dimensioni dell’etica. La buona medicina dal punto di vista della professione medica e dal punto di vista del paziente (cliente) differisce: la qualità etica ha più dimensioni.
2.3. Quando la sanità si organizza come un’azienda di servizi
Mentre proviamo ancora tanta difficoltà a entrare nella stagione della medicina moderna, forti spinte ci stanno già indirizzando verso l'epoca post-moderna. Ci stiamo muovendo, infatti, secondo quanto prescrivono sia lo spirito che la lettera della riforma sanitaria, avviata in Italia dall’inizio degli anni ’90, verso l’introduzione dello “stile azienda” in sanità. Il modello di qualità comporta un rapporto nuovo con il paziente. Sommariamente possiamo dire che chi riceve dei servizi alla salute non solo deve essere informato e responsabilizzato per partecipare in modo autonomo alle decisioni terapeutiche, ma deve essere considerato come un “cliente”. Oltre ad avere diritti da rivendicare, vuole anche essere soddisfatto.
Questa prospettiva caratterizza quel tipo di organizzazione sanitaria che è stata messa in moto con il riordino del Servizio Sanitario Nazionale (D.L. 502/1992 e D.L. 517/1993) e che si sintetizza nel concetto di azienda sanitaria. Soddisfare i pazienti diventa un’esigenza strategica per la sopravvivenza dell’azienda stessa. Il paziente, infatti, spostandosi da una struttura all’altra, porta dietro la sua capacità di spesa, rappresentata dalla sua quota capitaria. Quindi è importante una gestione oculata dell’azienda: se perde i pazienti, perché questi preferiscono un’altra struttura, l’azienda esce dal mercato. Se i sanitari non trattano bene i pazienti per la ragione che è loro diritto in quanto cittadini avere una buona assistenza, devono farlo almeno per interesse dell’azienda.
Il modello di qualità postmoderno comporta delle variazioni anche in tutte le altre articolazioni fondamentali del sistema di rapporti entro cui si svolge l’azione sanitaria. Innanzi tutto l’interrogativo fondamentale che dovrà porsi chiunque abbia delle responsabilità nelle scelte ruoterà intorno a elementi della qualità di carattere gestionale: quale trattamento ottimizzerà l’uso delle risorse e produrrà un paziente-cliente soddisfatto? La fisionomia stessa dell’interrogativo etico viene modificata.
Nell’etica medica il registro per valutare la qualità è quello della bontà (l’azione è buona in quanto porta il beneficio della guarigione o lenisce i sintomi dolorosi); la bioetica si colloca entro la tradizione etica coltivata nel mondo anglosassone, che valuta se l’azione sia giusta o ingiusta, in rapporto ai diritti e nel rispetto delle procedure; la nuova stagione che si è aperta ci obbliga a interrogarci se l’azione sia appropriata rispetto ai fini da conseguire, che comportano sia una più acuta sensibilità per il bene comune e l’equità sociale, sia l’acquisizione di un atteggiamento che abbini
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la soddisfazione del cittadino/cliente con l’attenzione agli interessi dell’azienda.
La qualità, che include il valore etico di un intervento sanitario, oggi è molto più complessa. I criteri più recenti non devono sostituire quelli precedenti, ma integrarsi con essi. La “buona” medicina è sempre quella che deve mirare a “guarire in maniera rapida, efficace e duratura” (è il compito che S. Hahnemann affidava alla medicina omeopatica, ma che vale per la medicina tout court!). Questo continua a essere l’obiettivo della medicina e il criterio con cui valutare la sua qualità; tuttavia non è più sufficiente: la medicina per essere buona deve anche preoccuparsi di essere “giusta”, rispettando i diritti del malato e promuovendo la sua autonomia. A queste considerazioni si aggiungono, nell’ottica dell’organizzazione efficiente della sanità, anche quelle relative a ciò che si dimostra appropriato nell’orizzonte della giustizia, in considerazione dell’accesso ai servizi e dell’equa distribuzione delle risorse.
La buona medicina, quella dotata di qualità, è quella che nasce dall’integrazione cumulativa delle esigenze che nascono dell'etica medica, da quelle della bioetica e delle esigenze, infine, di quella nuova stagione dell’etica in medicina che sentiamo incombere, sotto la spinta delle nuove condizioni sociali e della pressione dell’economia, e che possiamo chiamare etica dell’organizzazione. Per la precisione, da tutt’e tre contemporaneamente. Le stagioni dell’etica in medicina, con le rispettive esigenze riguardo a ciò che è giusto e appropriato nell’assistenza sanitaria, non vanno viste come modelli conclusi che si succedono nel tempo, ma come esigenze contemporanee e contestuali. La qualità etica di un intervento sanitario prende forma mediante la sovrapposizione di dimensioni che si aggiungono le une alle altre. La prima dimensione è quella del bene del paziente, propria dell’etica medica tradizionale. Finché la qualità dell’intervento sanitario sul paziente si misurava esclusivamente con il metro del beneficio del paziente (epoca premodema), maggiore era il beneficio che il malato riceveva da quello che si poteva fare per lui, maggiore era la qualità, anche etica, dell’atto medico.
La modernità, con l’introduzione dell’autonomia del paziente, ha introdotto un altro parametro: le preferenze del paziente stesso. La buona scelta medica dovrà tener conto temporaneamente di due fattori: il beneficio da procurare al paziente e il suo consenso a ciò che il malato ha individuato e scelto come suo bene. La scelta si realizza sul piano orizzontale di una contrattazione, che non di rado produce un compromesso (non è detto, infatti, che ciò che costituisce dal punto di vista clinico il maggior beneficio per il paziente corrisponda alle sue preferenze; o inversamente: ciò che il paziente informato vuole per sé può non coincidere con quanto la medicina sarebbe in grado di fare per lui).
A queste due dimensioni oggi dobbiamo aggiungere una terza, così che la decisione clinica ci appare collocata in uno spazio tridimensionale.
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Dobbiamo considerare, infatti, anche l’appropriatezza sociale degli interventi sanitari, in una prospettiva di uso ottimale di risorse limitate, solidarietà con i più fragili ed equità. Quello che possiamo fare per un malato, anche se valutabile con un punteggio alto sul parametro dell’appropriatezza clinica e su quello delle preferenze personali, potrebbe collocarsi molto in basso rispetto al criterio del buon uso delle risorse.
La buona medicina ci appare così come il frutto di una “contrattazione” molteplice, che deve tener conto di tre diversi parametri: l’indicazione clinica (il bene del paziente), le preferenze e i valori soggettivi del paziente (il consenso informato) e infine l’appropriatezza sociale. L’assistenza sanitaria, dovendo conciliare nelle sue scelte esigenze diverse e talvolta contrastanti, senza minimamente rinunciare ai requisiti di scientificità, ci appare più che mai un’arte.
L’ideale medico dell’epoca post-moderna è una leadership morale. Il modello paternalista non funziona più là dove si assume lo stile dell’azienda post-moderna: è necessario dotarlo di autorevolezza. Non ci possiamo più basare su una divisione dei compiti di tipo burocratico. Soltanto chi ha quella che la cultura del management chiama la vision, cioè la visione strategica degli obiettivi e dei mezzi, sviluppa una forza morale capace di trascinare gli altri membri dell’équipe.
Il buon paziente è il cliente soddisfatto e consolidato; ma bisogna subito aggiungere che l’obiettivo non può essere quello di un cliente in qualsiasi modo soddisfatto e consolidato, bensì solo di un cliente giustamente soddisfatto, escludendo l’ingiusta soddisfazione. Il buon rapporto è la stewardship, che implica un atteggiamento non centrato sul professionista, ma sugli standard di qualità del servizio, in un raffronto costante con la qualità offerta da altri erogatori (bench-marking).
Lo schema grafico completo delle dimensioni dell’etica in medicina assume quindi la seguente fisionomia riportata nello schema 3.
3. Verso l’empowerment del cittadino
La presenza contemporanea di tre modelli di buona medicina induce una modifica di fondo nei rapporti che intercorrono tra coloro che erogano le cure e i cittadini che le ricevono. Con una parola che sintetizza tutto il processo, ci si riferisce al fenomeno nel suo insieme come a un empowerment del cittadino. La parola inglese contiene la nozione di “potere” (power). L’aspetto più visibile è proprio quello di uno spostamento di potere tra le persone coinvolte nella relazione. Il potere a cui ci si riferisce non è quello di natura politica o, nei rapporti interpersonali, ciò che autorizza qualcuno a dare ordini, aspettandosi che altri obbediscano; il potere entra inevitabilmente in gioco quando qualcuno si prende cura di persone a lui affidate. Tutte le relazioni di cura e assistenza prevedono un potere,
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Schema 3 - Etica medica, bioetica ed etica dell'organizzazione
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Epoca pre-moderna Etica medica |
I Epoca moderna Bioetica
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Epoca post-moderna Etica dell’organizzazione |
La buona medicina |
Quale trattamento porta maggior beneficio al paziente"? |
Quale trattamento rispetta il malato nei suoi valori e nell'autonomia delle sue scelte”?
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“Quale trattamento ottimizza l’uso delle risorse e produce un paziente/cliente soddisfatto”? |
L'ideale medico |
Paternalismo benevolo |
Autorità democraticamente condivisa
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Leadership morale, scientifica, organizzativa |
Il buon paziente |
Obbediente (compliance) |
Partecipante (consenso informato) |
Cliente giustamente soddisfatto e consolidato
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Il buon rapporto |
Alleanza terapeutica (il dottore con il suo paziente) |
Partnership (professionista- utente) |
Stewardship (fornitore di servizi- cliente) Contratto di assistenza: Azienda/popolazione
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Chi prende le decisioni |
Il medico, in “scienza e coscienza” |
Il medico e il malato insieme (decisione consensuale) |
La direzione aziendale, insieme ai dirigenti delle unità operative (negoziazione)
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Principio-guida |
Beneficità |
Autonomia |
Giustizia
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utilizzato in modo benefico a vantaggio di un altro: pensiamo al rapporto tra genitori e bambini, insegnanti e allievi, medici e malati, appunto.
L’analisi di questo tipo di transazioni raggruppa rapporti di natura molto diversa nella categoria di “relazioni complementari”. Queste si basano sulla differenza tra le posizioni coinvolte. Funzionano bene quando ognuno si attiene al suo ruolo e non pretende di fare la parte dell’altro. Dal punto di vista grafico, il modello che le rappresenta prevede due posizioni: una sovrastante (one up) e una di sottomissione (one down):
one up ________ one down |
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Diverse invece sono le “relazioni simmetriche”, nelle quali i protagonisti hanno uguale potere e non si comportano secondo ruoli fissi. Ce li possiamo immaginare l’uno di fronte all’altro, faccia a faccia, senza poter dire chi comanda e chi obbedisce [cfr. Watzlawick et al. 1971].
Il senso del processo di empowerment del paziente non è quello di mettere quest’ultimo in posizione one up e il medico in posizione one down, invertendo i rapporti di potere che siamo soliti associare con l’esercizio della medicina (dove il medico è considerato tanto più bravo quanto più esercita un’autorità indiscutibile e induce il paziente a essere “osservante” o compliant). Non sarebbe un progresso se il medico diventasse l’esecutore nelle decisioni del paziente; anzi ciò costituirebbe una minaccia per la salute, perché al paziente verrebbe a mancare il bagaglio di conoscenze proprie del sapere professionale del medico. L'empowerment è invece un cambiamento di rapporti complesso, che ha luogo su diversi piani. Lo schema grafico che, qui sotto, proponiamo prevede dei cambiamenti significativi: sul piano sociale (o della cultura), nel rapporto clinico tra professionisti sanitari e pazienti, nell’ambito dei valori condivisi o dell’etica.
EMPOWERMENT DEL CITTADINO
NEL PROCESSO DI CURA
I Dimensione culturale
● Autogestione della salute vs “espropriazione della salute” [Illich 1977], mediante “un processo che renda le persone capaci di aumentare il controllo sulla loro salute e migliorarla” (Carta di Ottawa).
● Conoscenza dei propri diritti; rappresentanza attiva, anche organizzata (“rivoluzione liberale” in medicina).
● Atteggiamento psicologico “adulto” verso medici, infermieri e altri professionisti sanitari.
● Coinvolgimento dei cittadini nel miglioramento dei servizi, sollecitando suggerimenti, anche critici.
II Dimensione clinica
● Raccolta sistematica di informazioni sui trattamenti proposti (ricerca; diagnosi; terapia) e sulle alternative.
● Promozione del “parere complementare” (second opinion).
● Accesso consapevole alle prestazioni sanitarie, grazie alla conoscenza di benefici attesi, effetti collaterali, rischi, complicazioni.
● Competenza nell’automedicazione semplice.
● Educazione all’autogestione delle patologie croniche.
III Dimensione etica
● L’autonomia come principio etico che bilancia il principio del “bene del paziente” stabilito unilateralmente dal medico.
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● Più ampia partecipazione del paziente alle decisioni che lo riguardano (decisioni consensuali).
● Assumere la responsabilità per le scelte sanitarie e, più in generale, per la propria vita.
● Autodeterminazione personale (l’individuo, non la famiglia come referente delle informazioni e soggetto delle decisioni).
● Promozione delle direttive anticipate: living will o indicazione di persona delegata a decidere; disposizioni per la donazione di organi.
Il modello dell'empowerment proposto rispecchia la definizione che troviamo nell’Enciclopedia della Gestione della Qualità in Sanità: «Termine entrato in uso e di difficile traduzione in italiano per indicare la tendenza a dare più potere, più coinvolgimento nelle decisioni ai pazienti, al di là del consenso informato».
Nella dimensione culturale dell’empowerment individuiamo anzitutto l’adeguamento alla filosofia che ispira l’OMS nota come “promozione della salute” (Health promotion). La carta di Ottawa [1986] l’ha descritta come “un processo che renda le persone capaci di aumentare il controllo sulla propria salute e di migliorarla”. L’autogestione è il contrario di quella “espropriazione della salute” che il classico saggio di Ivan Illich ― Nemesi medica [1977] ― imputava alla medicina, quando diventa un’impresa totalitaria che pretende di gestire la salute al posto del soggetto. La rivoluzione liberale, quando viene introdotta anche nell’ambito della medicina, comporta la nozione dei diritti nelle relazioni che si instaurano nell’ambito della cura: diritti personali, in quanto i trattamenti non sono obbligatori, e diritti civili, nell’orizzonte dello stato sociale che garantisce livelli di assistenza sulla base del bisogno, non delle disponibilità economiche.
Dato il perdurare dell’asimmetria nei rapporti di potere, si tende a dare rilievo ai rappresentanti dei pazienti (ad es. gruppi organizzati di pazienti, di ex pazienti o di familiari) o a istituzioni di tutela dei diritti (tribunale dei diritti del malato, gruppi consultivi misti). Iniziative di questo genere hanno contribuito in modo determinante a modificare l’atteggiamento psicologico di sudditanza che i malati in passato tendevano ad assumere, promuovendo rapporti adulti.
Anche la prospettiva dell’“aziendalizzazione” ha in sé la potenzialità di modificare socialmente i rapporti tra chi eroga i servizi sanitari e chi li riceve. Nel concetto di “cliente” è implicita la considerazione della soddisfazione di colui che riceve i servizi, nonché il suo coinvolgimento attivo nella valutazione della qualità ― quanto meno della dimensione soggettiva, che può essere percepita dall’utente ― delle prestazioni erogate. La dimensione del mercato applicata alla società è indubbiamente pericolosa, in quanto può stravolgere l'ethos ippocratico nel quale tradizionalmente la medicina si è riconosciuta; tuttavia può anche potenzialmente arricchire lo
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spessore sociale di chi riceve servizi sanitari, attribuendogli un ruolo critico e di promozione attiva della qualità.
Sul piano clinico ― ovvero nei rapporti che si instaurano tra medici, infermieri e altri professionisti sanitari da una parte, e il paziente e i suoi familiari dall’altra ― l'empowerment diventa effettivo solo attraverso un processo informativo sistematico. Il paziente va informato se ciò che gli viene proposto si inquadra in un progetto di ricerca (il consenso alla sperimentazione è diverso da quello che ha per oggetto un trattamento standard), in un’indagine diagnostica (a partire dall’ipotesi che guida il percorso diagnostico) o in un trattamento terapeutico. L’informazione non è completa se non include anche le alternative, i benefici attesi, gli effetti collaterali, i rischi e le complicazioni dei trattamenti proposti.
Nel processo dell’informazione acquista oggi un peso nuovo il parere complementare (in inglese: second opinion), inteso come un diritto del paziente ad acquisire informazioni diverse presso altri professionisti (per esempio nel caso di un intervento chirurgico elettivo; oppure di ascoltare il parere di un internista, dopo aver raccolto quello di un chirurgo...). L'empowerment implica anche l’acquisizione delle conoscenze che permettono l’autogestione delle malattie croniche (le patologie dalle quali non si guarisce, qualunque cosa faccia il medico, sono oggi l’80%, rispetto a un 20% per le quali si può sperare la restitutio ad integrum). L’OMS ha raggruppato questo tipo di interventi che favoriscono il controllo del paziente sulla propria malattia sotto l’etichetta “educazione terapeutica”.
Da non dimenticare, infine, in questa prospettiva che la maggior parte dei problemi di salute sono piccoli disturbi, curabili con i farmaci di automedicazione. Lo sviluppo di una cultura di automedicazione ― fondata su un dialogo tra consumatore, farmacista e medico ― aiuta il consumatore a orientare le sue scelte di cura (secondo l’ANIFA, l’Associazione che raggruppa le industrie dei farmaci di automedicazione, il patrimonio dei farmaci che si rivolgono al pubblico senza l’obbligo della prescrizione medica ― pur essendo sottoposti agli stessi controlli previsti per i farmaci da prescrizione ― è ancora molto sottoutilizzato in Italia). Nell’ambito clinico l'empowerment può essere fatto equivalere, in sintesi, a un maggiore “senso di padronanza” della situazione.
Sul piano propriamente etico l'empowerment comporta il passaggio dal modello ideale dell’etica medica a quello della bioetica, che abbiamo descritto. Contro ogni semplificazione ― del tipo: “prima il potere era tutto del medico, ora è tutto del paziente”... ― sottolineiamo che l’orientamento della medicina a fare il bene del paziente rimane valido, ma si deve combinare con quanto del proprio bene può e deve definire il paziente stesso. Il paziente non può essere solo passivo: è chiamato a collaborare attivamente con il medico nella definizione degli obiettivi dell’intervento sanitario (compresa la decisione se privilegiare le azioni rivolte a salvare e prolungare la vita o quelle finalizzate a risparmiare inutili sofferenze).
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L’empowerment è fortemente correlato con la responsabilizzazione dell’individuo per le decisioni che lo riguardano.
Coerente con questa visione dei rapporti è il ruolo centrale che spetta al soggetto, anche nei confronti della sua famiglia. Per quanto i familiari possano essere ben intenzionati nei suoi confronti, nessuno meglio della persona stessa può interagire con i professionisti sanitari per giungere alla decisione che meglio salvaguardi tutti i valori in gioco. Nel caso, poi, che il soggetto sia attualmente incapace di esprimere la propria volontà, i familiari possono essere coinvolti in quanto fonte privilegiata per conoscere le preferenze della persona (living will o disposizioni di volontà anticipate). Tanto più se c’è stata un’esplicita autorizzazione previa a consultare un familiare o un congiunto in caso di propria incapacità. Come nel caso dell’espressione di volontà per la donazione degli organi dopo la morte, l'empowerment tende a valorizzare le preferenze individuali e a rispettarle anche al di fuori del contesto in cui hanno un valore giuridico.
L'empowerment del cittadino è l’atto finale della rivisitazione del rapporto medico-paziente che la situazione attuale della complessità ci costringe a intraprendere. Per il mondo sanitario, chiamato a esplorare la pluralità delle dimensioni nelle quali si articola l’atto di cura, è quanto mai appropriata la dedica che Abbott prepone a Flatlandia: “Agli abitanti dello spazio in generale è dedicata quest’opera da un umile nativo di Flatlandia nella speranza che, come egli fu iniziato ai misteri delle tre dimensioni avendone sino allora conosciute soltanto due, così anche i cittadini di questa Regione Celeste possano aspirare sempre più in alto ai segreti delle quattro cinque o addirittura sei dimensioni”.
Bibliografia
Abbott E. (1966), Flatlandia. Racconto fantastico a più dimensioni, Adelphi, Milano.
Illich I. (1977), Nemesi medica, Cittadella, Assisi.
Kant I. (1975), Risposta alla domanda: che cos'è l’Illuminismo?, in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, Utet, Torino.
Morosini P. - Perraro F. (a cura di) (1999), Enciclopedia della Gestione della Qualità in Sanità, Centro Scientifico ed., Torino.
Piaget J., Inhelder B. (1948), La représentation de l’éspace chez l’enfant, Puf, Paris.
Watzlawick P. et al. (1971), Pragmatica della comunicazione umana, tr. it., Astrolabio, Roma.