Chi ha potere sul mio corpo?

Book Cover: Chi ha potere sul mio corpo?
Parte di Rapporto professionista-malato series:

Sandro Spinsanti

CHI HA POTERE SUL MIO CORPO ?

Nuovi rapporti tra medico e paziente

Figlie di San Paolo, Milano 1999

pp. 209

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SOMMARIO

7      Introduzione: Dall’alleanza al patto

    

11    capitolo I - UNA SVOLTA NELLA CULTURA SANITARIA

11      1. Medici e malati hanno cessato di capirsi?

18      2. Tre scenari, tre ruoli per il paziente

26      3. L’attualità del dibattito sul consenso informato

34      4. Tribunali e dintorni

42      5. La qualità dei servizi sanitari

53    capitolo II - LA TRAMA DELLE NORME

53      1. La legge americana sull’Autodeterminazione del paziente

57      2. Il consenso informato nelle leggi italiane

60         Informazione e consenso all’atto medico

63         Codici di deontologia dei medici italiani (1978, 1989, 1995, 1998)

73         La regolamentazione della ricerca biomedica

77         La protezione dei dati personali (privacy)

97         Gli accordi europei sulle nuove regole in bioetica

109   capitolo III - MODELLI ETICI PER IA NUOVA MEDICINA

109     1. Stagioni dell’etica in medicina

125     2. La ricerca di una buona medicina

149   capitolo IV - INFORMAZIONE, COMUNICAZIONE, CONSENSO

149     1. Comunicare senza informare

155     2. Informare senza comunicare

159     3. Come utilizzare il consenso scritto

163     4. Consenso e formazione del personale sanitario

169   capitolo V - LE DECISIONI SULLA FINE DELLA VITA

169      1. Il ruolo della famiglia in prossimità della morte

181      2. Quando comincia l’accanimento diagnostico e terapeutico?

189      3. Sacralità della vita, qualità della vita: due criteri da conciliare

199     4. Quale etica per le cure palliative?

205   epilogo - TRA MEDICO E PAZIENTE, NUOVI DIRITTI E NUOVI DOVERI

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Introduzione

DALL’ALLEANZA AL PATTO

Per tranquillizzare gli spiriti più pavidi, diciamo subito che il cambiamento che questo libro vuol descrivere non è una rivoluzione. Nel senso, almeno, in cui la parola è collegata all’evento traumatico da cui ha avuto origine la configurazione del mondo moderno: la rivoluzione francese che ha posto fine dlV Ancien Regime. Lo ha fatto tagliando la testa a coloro che incarnavano il potere esercitato in modo assolutistico: il re, i nobili, l’alto clero. Il cambiamento che è in corso nei rapporti tra medici e pazienti nella nostra società non ha preso la via della rivoluzione.

Qualcuno ha temuto che ciò potesse avvenire. Il medico e filosofo tedesco Viktor von Weizsäcker (1886-1957), teorico della «medicina antropologica», era così consapevole del malessere serpeggiante tra i pazienti, nella prima metà del nostro secolo, che ipotizzò nei suoi scritti una svolta drammatica nel rapporto tra i medici e i cittadini malati. I medici sono soliti richiedere ai pazienti una fiducia incondizionata. Non prendono neppure in considerazione che si possa dubitare della loro volontà di fare il bene del malato  della loro «coscienza», quindi  e che abbiano le capacità necessarie per farlo: quelle riassunte nella «scienza».

Tradizionalmente il rapporto medico-paziente è stato interamente rappresentato da questo modello: scienza e coscienza da parte del medico, fiducia e docilità da parte del malato. Quando questo rapporto si

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rompe o si incrina  nel senso, per esempio, che il malato si accinge a ritirare la sua fiducia  i medici sono soliti adottare una strategia di difesa, trincerandosi per lo più dietro l’autorità della scienza, concepita come una grandezza impersonale di cui essi sono i servitori. Ma attenzione, ammoniva von Weizsäcker: se i medici si comportano come una corporazione, chiudendosi in una posizione difensiva, un giorno l’intera corporazione può essere oggetto di una seria reazione: «Se si va avanti così per un certo tempo, potrà succedere un giorno che un’intera corporazione (Stand), la corporazione dei medici e degli scienziati, diventerà l’oggetto (Gegenstand) di una grave aggressione; non mi meraviglierei se, come la rivoluzione francese ha ucciso gli aristocratici e i preti, un giorno fossero uccisi medici e professori, e non benché si siano irrigiditi cercando riparo dietro alla scienza impersonale, bensì proprio per questo motivo» (Weizsäcker, 1956. Vedi riferimenti bibliografici, p. 207).

Il gioco di parole proposto dallo studioso tedesco (la contrapposizione tra «corporazione», Stand, e «oggetto», Gegenstand), va irrimediabilmente perduto nella traduzione italiana; il suo pensiero, tuttavia, risulta chiaro: anche i medici rischiano di fare la fine di tutti i poteri assoluti e di essere spazzati via da una rivoluzione! La fosca previsione rivoluzionaria non si è avverata. Per fortuna. La medicina sta entrando nella sua epoca moderna in modo incruento, anche se non senza traumi.

Il modello paternalista di esercizio della medicina è rimesso in discussione da una cultura che ha cambiato i presupposti di fondo. Il paziente non è un «povero cristo» da trattare benevolmente, magari abbinando all’efficacia dei trattamenti anche una dose di «umanizzazione», ma un cittadino titolare del diritto di ricevere un trattamento. Un cittadino colto, informato, consapevole delle sue scelte; e, qualora non lo fosse, ha diritto che chi esercita la medicina si prenda

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il tempo e la cura di informarlo, per farlo accedere alla condizione in cui ricevere un trattamento non equivale a essere oggetto di un atto di benevolenza, bensì un esercizio di libertà civile e di responsabilità.

Il malato di oggi non vuole più essere trattato come un Pinocchio recalcitrante, che una materna farina deve convincere, con modi seducenti, a mandar giù la medicina. Non vuol essere un bambino, e tanto meno un burattino, ma un adulto che sa coniugare i suoi diritti con le responsabilità che ne derivano. Ne consegue che, anche senza gli sconvolgimenti di una rivoluzione, il clima che regna oggi tra il professionista che offre le cure e colui che le riceve è profondamente diverso dal passato. L’innovazione è in corso e richiede di cambiare comportamenti che si sono consolidati nei secoli.

L’angolatura che abbiamo adottato per presentare il cambiamento è quella riassunta sinteticamente da due parole: il passaggio dall'alleanza al patto. Anche se molti dizionari propongono i due termini come sinonimi, di fatto essi rimandano a due modalità molto diverse di organizzare i rapporti tra i professionisti che erogano cure sanitarie e i malati. L’alleanza è carica di implicazioni religiose e comporta una relazione asimmetrica. L’espressione più alta di questo modo di rapportarsi è il giuramento. Da Ippocrate in poi, fino al nuovo giuramento premesso alla più recente revisione del Codice deontologico, nel 1998, i medici giurano di difendere il malato da ogni cosa nociva e di dedicarsi a promuovere il suo bene. L’asimmetria è evidente: il malato non ha alcun giuramento da fare, ma è il beneficiario passivo dell’impegno preso solamente dal medico.

Il patto invece implica, per definizione, una reciprocità. Si fa tra uguali, anche se i ruoli possono essere diversi. Come segno dei nuovi tempi, che sono iniziati nell’ambito della sanità, possiamo citare il «Patto

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con il cittadino», proposto dagli infermieri nella loro giornata nazionale del 1997 e ripreso come introduzione al loro recente Codice deontologico (febbraio 1999). A livello istituzionale più alto, il Piano sanitario nazionale per il triennio 1998-2000 si presenta come «Un patto di solidarietà per la salute»:

Il contesto sociale mutevole e complesso pone l’esigenza di avviare nel Paese un vero e proprio patto di solidarietà per la salute, che impegni le istituzioni preposte alla tutela della salute e una pluralità di soggetti: i cittadini, gli operatori sanitari, le istituzioni, il volontariato, i produttori, non profit e for profit, di beni e servizi di carattere sanitario, gli organi e strumenti della comunicazione, la comunità europea e internazionale. I risultati di salute non dipendono, infatti, solo dalla qualità tecnica delle prestazioni, ma trovano radici più profonde nella responsabilizzazione dei soggetti coinvolti nella loro capacità di collaborare.

I tempi sono cambiati, anche se ci sono ancora medici che mostrano di non essersene resi conto. Molti continuano a comportarsi con i pazienti come hanno sempre fatto. Forse nella professione attingono anche a solide conoscenze di medicina scientifica e sanno tenersi lontani dalle tentazioni del potere esercitato sugli ignoranti. Ma se alla scienza e alla coscienza non hanno imparato ad abbinare l’informazione, quello che fanno non corrisponde più alla «buona medicina» come la concepiamo oggi. Così sono passati, senza saperlo, tra i parrucconi dell’Ancien Régime. Ci penseranno i pazienti a togliere loro la parrucca  la testa, no: mi raccomando...  e a costringerli a confrontarsi con le esigenze della nuova cultura sanitaria.

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I.

UNA SVOLTA NELLA CULTURA SANITARIA

1. Medici e malati hanno cessato di capirsi ?

Per apprezzare veramente il cambiamento che, nel susseguirsi di un breve giro di anni, sta avvenendo in medicina, dovremmo poter beneficiare di un’esperienza simile a quella di Rip van Winkle. Questo è un personaggio letterario creato dallo scrittore Washington Irving nella prima metà del XIX secolo e da allora molto familiare soprattutto agli anglosassoni: Rip è noto in America come Pinocchio in Italia e Gargantua in Francia. Nel racconto Rip è un colono americano, di origine olandese, che un certo giorno va nel bosco a far legna. Incontra strani personaggi, beve del vino da loro offerto e si addormenta. Al risveglio torna al villaggio, ma non riconosce nessuno e nessuno riconosce lui. Tutto è cambiato. La spiegazione è semplice: Rip van Winkle aveva semplicemente dormito vent’anni. Il successo del raccontino è garantito dall’essere storicamente collocato a ridosso della dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America, il 4 luglio 1776. Quando Rip si addormenta c’erano ancora le colonie inglesi; quando si sveglia, si trova in un Paese tutto nuovo, perché è cambiato dalle fondamenta, in quanto è stato modificato il sistema politico che lo governava.

L’allegoria del racconto di W. Irving si applica perfettamente al mondo della sanità. Se avessimo dormito vent’anni, potremmo scoprire, con lo stupore del ride-stato,

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che ai nostri occhi si presenta un paesaggio nuovo. In un paio di decenni, una «rivoluzione» è avvenuta a nostra insaputa: si tratta di uno sconvolgimento non meno radicale di quello politico che ha potuto trasformare delle colonie in madrepatria. Rispetto ai discorsi che ci erano familiari soltanto un paio di decenni fa, saremmo colpiti dal binomio indiscutibile che si è creato tra medicina ed etica. Più che la frequenza dei riferimenti all’etica, sono nuovi i contenuti.

Tradizionalmente il richiamo all’etica in medicina faceva riferimento  per lo più implicitamente  allo spirito che doveva animare chi, a diverso titolo di professionalità, era coinvolto nell’erogazione di cure sanitarie. L’etica rimandava allo spirito con cui questo lavoro va fatto: con altruismo, abnegazione, mettendo gli interessi legittimi di chi riceve i servizi prima degli interessi dei professionisti. Etica  in altre parole  richiamava l’esigenza per chi si occupa della salute altrui di esercitare le attività di cura in modo coinvolto, prendendosi cura delle persone malate.

L’etica in medicina che è diventata l’oggetto dei nostri discorsi si riferisce al «che cosa fare» più ancora che allo spirito con il quale farlo. Nei due decenni che abbiamo alle spalle i principali problemi che si sono posti alla riflessione sono quelli relativi a «dare le cose efficaci» (escludendo i trattamenti dannosi o inutili), «nel modo giusto» (rinunciando all’atteggiamento paternalistico, tradizionalmente assunto dai sanitari), «a tutti quelli che ne hanno diritto e bisogno» (contrastando le sperequazioni e le iniquità nell’accesso ai servizi): cfr. Bonaldi et al., 1994. Per rispondere a queste domande l’etica è invocata a soccorso.

Il primo interrogativo ha a che fare con la dimostrazione di efficacia. La restrizione delle risorse ha portato in primo piano la valutazione degli esiti delle prestazioni. Per riprendere l’efficace formulazione di Gianfranco Domenighetti, oggi «qualunque prestazione

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deve essere considerata inefficace, finché non si è dimostrato il contrario» (Domenighetti, 1995). Per giudicare come eticamente accettabile un trattamento, dobbiamo sapere di più sulla sicurezza, l’appropriatezza e l’efficacia dei farmaci, delle procedure diagnostiche e terapeutiche, sui successi e fallimenti delle prestazioni, a seconda dei diversi sistemi organizzativi. Tutto ciò non è solo un risultato secondario dell’introduzione di nuovi sistemi di rimunerazione delle prestazioni (prima l’ospedale veniva pagato in base alla giornata di degenza, ora sulla base dei Raggruppamenti Omogenei di Diagnosi: tanto per un’appendicectomia e tanto la cura di una broncopolmonite...!), ma il portato di quella che è stata salutata come la «rivoluzione che ci ha introdotti nell’era della valutazione e del comportamento responsabile» in medicina (assessment and accountability: Relman, 1988).

Non basta fornire i servizi di provata efficacia: bisogna anche che ciò sia fatto «nel modo giusto». È quanto esige il pilastro centrale della cultura della modernità, vale a dire il rispetto dei valori soggettivi del paziente, la promozione della sua autonomia, la tutela della diversità culturale, intesa come un diritto da rivendicare. Rispetto a un passato molto recente, in cui la medicina era organizzata in modo autoritario e gestita con stile paternalistico, oggi si richiede un coinvolgimento attivo del paziente nelle decisioni che lo riguardano. Buona medicina è quella che, oltre all’appropriatezza clinica, valutata dal professionista sanitario, considera auspicabile e rende possibile che il paziente partecipi alle decisioni che si ripercuotono sul suo benessere (Kassirer, 1994).

La terza scansione dell’etica in sanità è quella che si riferisce ai problemi dell’allocazione delle risorse e ai cambiamenti necessari affinché il principio solidaristico che sta alla base dei sistemi di welfare sia tradotto in pratica. Dopo aver disegnato, con generosità e una buona

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dose di utopia, lo stato sociale che si occupi della salute di tutti i cittadini, indipendentemente dal ruolo sociale e dalle capacità economiche, ora l’imperativo etico è di riformarlo senza deflettere dal patto di solidarietà che l’ha ispirato. Sanità fa rima con equità: anche questa è diventata un’emergenza etica degli ultimi anni.

Un cambiamento, infine, che caratterizza il modo in cui negli ultimi anni l’etica ha cominciato a essere invocata nell’ambito medico è la delegittimazione dei sistemi etici intolleranti. L’etica di cui la medicina ha bisogno è un’etica per un «piccolo pianeta», dove i risultati del miglioramento delle condizioni di vita possono essere ottenuti solo dalla sinergia di tutti. Questa prospettiva richiede il superamento della contrapposizione polemica tra etica laica ed etica religiosa (Maguire, 1999).

La belligeranza delle religioni contro la modernità ― che include la contestazione della possibilità di elaborare un progetto secolare veramente morale  ha suscitato come reazione la belligeranza delle etiche laiche contro le religioni, mettendo in discussione la loro pretesa di determinare l’agire umano come buono per una via diversa da quella puramente razionale. Il confronto fondamentalista non è una soluzione accettabile, così come non lo è l’alleanza strategica su temi specifici (per es., contro il controllo delle nascite), che però non comporti un rapporto corretto tra sistemi normativi religiosi e laici.

La via di soluzione passa, da una parte, per lo scrupoloso rispetto della libertà religiosa di tutte le persone e, dall’altra, per l’accettazione, da parte delle religioni, dei minimi etici che lo Stato deve esigere coercitivamente da tutti, cioè l’etica civile. Questa deve essere stabilita mediante procedimenti partecipativi e democratici, e pertanto deve rispettare il parere di tutti, secondo i meccanismi che portano alla formazione della maggioranza.

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È vero che le opinioni morali  anche quelle della maggioranza  possono essere sbagliate (o almeno può sembrare ad alcuni che lo siano). Ma questa condizione autorizza solo a iniziare un dibattito o un processo di educazione morale della società, nel quale esercitare la propria capacità di convincere gli altri, con argomenti razionali, a far proprie le ragioni addotte. Ogni altro procedimento, che invece di proporre ed educare cerchi di imporre, deve considerarsi, in linea di principio, inaccettabile nella nostra epoca.

Sulla tela di fondo costituita dall'emergere, in medicina, di interrogativi che si correlano con l’etica, acquista particolare risalto il cambiamento relativo al rapporto tra medico e paziente. La relazione che si instaura tra chi offre cure mediche e chi le riceve si modifica a un ritmo diverso dal sapere terapeutico. Nel giro di appena un paio di secoli abbiamo visto passare la medicina dal ricorso a salassi e clisteri alla somministrazione di antibiotici, per puntare ormai all’ingegneria genetica. Eppure il rapporto di fondo tra terapeuta e malato potrebbe teoricamente essere lo stesso. Su quella che lo storico della medicina Edward Shorter ha chiamato «la tormentata storia del rapporto medico-paziente» (Shorter, 1986) influiscono più i cambiamenti nell’organizzazione sociale delle cure che i progressi scientifici della medicina. Soprattutto incide quella realtà impalpabile ma reale costituita dalla cultura del tempo.

Il cambiamento culturale che sta avendo luogo sullo scorcio del XX secolo  a partire dagli anni Settanta nei Paesi anglosassoni e solo molto più di recente da noi  ha trovato un punto di riferimento nel «consenso informato», quale condizione di esercizio della medicina in un contesto in cui prevalgono modelli ideali diversi rispetto al passato. Ma è possibile dare al «consenso» lo stesso significato in tutta l’ampia gamma di interventi che costituiscono una terapia?

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Pretendere che colui che viene sottoposto a un trattamento terapeutico dia un consenso dello stesso tipo, quando i trattamenti sono così diversi, non rischia di creare intorno al consenso informato un alone insanabile di ambiguità?

Ciò a cui si consente è profondamente diverso  per prendere le due situazioni estreme dello spettro  in psicoterapia e in chirurgia estetica. Quando si inizia una terapia psicologica, né il terapeuta né il paziente sanno con esattezza dove la terapia li condurrà. Il paziente  mettiamo il caso  ricorre allo psicoterapeuta perché è afflitto da un bisogno compulsivo di bere alcolici che non riesce a frenare con il semplice esercizio della volontà. Chiede di essere aiutato a liberarsi dal sintomo. Insieme al terapeuta inizia un percorso che lo porterà a rimettere in discussione comportamenti e motivazioni in aree anche molto lontane da quelle in cui il sintomo si esprime (la sua autorealizzazione nel lavoro o nei legami affettivi, per esempio, oppure il rapporto con la madre, per giungere magari ad affrontare una tendenza omosessuale repressa...). Evidentemente sarebbe irrealistico pensare che, prima di iniziare il trattamento, il terapeuta sia in grado di dare al paziente un’informazione precisa dei cambiamenti che sarà necessario introdurre nella sua vita per ottenere il risultato previsto e, ottenuto il suo consenso, dare avvio alla terapia!

Situazione opposta in chirurgia estetica. In questo caso il terapeuta è tenuto non solo a mettere in atto gli interventi terapeutici appropriati per ottenere il risultato atteso, ma ha l’obbligo del risultato stesso. Lo ha sancito giuridicamente il Tribunale di Milano (sentenza 04394 dell’8 agosto 1985), chiamato a dirimere una curiosa causa legale: una ballerina e spogliarellista ha citato per danni un chirurgo estetico che, nel rifarle il seno, ha prodotto delle cicatrici, della cui presenza la paziente non era stata avvertita. Il Tribunale ha accolto

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le sue richieste, in forza dell'obbligo di risultato che incombe sulla chirurgia estetica.

Nella massima della sentenza si legge che il dovere di informazione che grava sul professionista, in questo caso non riguarda solo le potenziali cause di invalidità o di inefficacia della prestazione professionale, «ma anche le ragioni che questa rendano inutili in rapporto al risultato sperato dal cliente». Il chirurgo estetico, in altre parole, non può limitarsi a prospettare i possibili rischi del trattamento suggerito, ma deve anche informare il cliente se il miglioramento estetico da questi perseguito è conseguibile o no. Nel caso in questione, il chirurgo avrebbe dovuto sottoporre alla spogliarellista delle foto relative al residuato di cicatrici prodotte da interventi di analoga natura. È ovvio che il chirurgo in questi casi sarà obbligato a fare ricorso a un’informazione la più accurata possibile, a ottenere il consenso e a documentarlo in modo inoppugnabile, in vista di un possibile contenzioso giudiziario.

Nell’infinita varietà di situazioni terapeutiche che si presentano tra i due casi estremi della psicoterapia e della chirurgia estetica, variano sia il grado di informazione che è appropriata, sia la possibilità del paziente di dare il suo consenso all’intervento terapeutico, sia infine la modalità del consenso stesso (tacito o esplicito, verbale o per iscritto, personale o per interposta persona). Forse niente visualizza meglio di un modulo da firmare, prima di un intervento diagnostico o terapeutico, il senso di estraneamento che proverebbe un ipotetico Rip van Winkle, ridestato dopo vent’anni, che si presentasse oggi a un medico. Medici e malati hanno cessato di capirsi nella maniera spontanea  o quanto meno regolata da una codificazione implicita delle regole  propria del passato? Quali nuovi rapporti stanno prendendo forma? A quali regole deve obbedire oggi la pratica medica, per essere eticamente giustificabile?

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2. Tre scenari, tre ruoli per il paziente

Per cercare di mettere ordine in un intreccio di rapporti molto diversificati, distingueremo tre situazioni tipiche. L’intento è quello di mostrare che il coinvolgimento della persona cui sono rivolti i trattamenti è diverso nei tre scenari; di conseguenza, anche il concetto di «consenso» del paziente all’atto medico acquista significati diversi.

● La partecipazione volontaria alla ricerca biomedica.

Nell’inventario delle situazioni che hanno modificato il rapporto tradizionale tra medico e paziente, il primo posto spetta agli interventi che devono essere qualificati come ricerca biomedica. La priorità è anzitutto quella cronologica, in quanto il problema del consenso è stato sollevato originariamente in rapporto ad atti e procedure finalizzate non a ottenere una guarigione, ma a perseguire una conoscenza, eventualmente utilizzabile a fini terapeutici.

La società, nel suo insieme, accettando l’introduzione del metodo scientifico in medicina, ha implicitamente avallato la sperimentazione come via per la crescita del sapere. I primi seri interrogativi sulla liceità della ricerca bio-medica risalgono al trauma avvenuto nell’opinione pubblica quando si è venuti a conoscenza, all’indomani della seconda guerra mondiale, delle sperimentazioni ciniche e insensate, espressione di sadismo più che di amore per la scienza, eseguite da medici nazisti su prigionieri nei lager. La fiducia incondizionata nell'ethos professionale dei medici, come garante contro la possibilità di abusi, è stata messa a dura prova.

Sull’onda dell’emozione e nel ricordo dell’orrore, si è fatta strada la convinzione che fosse necessario procedere a una severa regolamentazione in questo ambito. Frutto di questa presa di coscienza è stato il

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cosiddetto Codice di Norimberga, elaborato nel 1946: un documento in dieci punti inteso a limitare le possibili sperimentazioni mediche su soggetti umani.

Come condizioni necessarie per giustificare moralmente un esperimento con esseri umani, il Codice di Norimberga prevede esplicitamente, oltre all’utilità e all’innocuità dell’esperimento, il consenso del soggetto sperimentale. Il consenso è, precisamente, il primo dei dieci punti che costituiscono il documento:

Il consenso volontario del soggetto umano è assolutamente essenziale. Ciò significa che la persona in questione deve avere capacità legale di dare il consenso, deve essere in grado di esercitare il libero arbitrio senza l’intervento di alcun elemento coercitivo, inganno, costrizione, falsità o altre forme di imposizione o violenza; deve avere sufficiente conoscenza e comprensione degli elementi della situazione in cui è coinvolto, tali da metterlo in posizione di prendere una decisione cosciente e illuminata.

Successivamente l’Associazione Medica Mondiale si è occupata a più riprese di dare norme deontologiche ai medici che fanno ricerche con soggetti umani. La Dichiarazione sulle ricerche bio-mediche, (nota come dichiarazione di Helsinky, promulgata nel 1964, rivista poi a Tokyo nel 1975, a Venezia nel 1983 e a Hong Kong nel 1989) è più analitica del Codice di Norimberga. Tra le regole centrali troviamo ancora quella del consenso:

Art. 9. Al momento di ogni ricerca sull’uomo, l’eventuale soggetto sarà informato in modo adeguato sugli obiettivi, metodi, benefici scontati e sui rischi potenziali e sugli svantaggi che potrebbero derivargliene. Egli (ella) dovrà anche essere informato (a) che è libero (a) di disimpegnarsi in qualsiasi momento. Il medico dovrà ottenere il consenso libero e cosciente del soggetto, preferibilmente per iscritto.

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Nei vari sviluppi della normativa  dichiarazioni internazionali e linee guida  risulta evidente che l’interesse è rivolto alla protezione del soggetto, soprattutto sul versante della sua libera partecipazione alla sperimentazione. Quello che si vuol prevenire è l’arruolamento di soggetti in ricerche cliniche e sperimentazioni mediante la costrizione, l’inganno, le intimidazioni o le incentivazioni che utilizzano la debolezza di persone che si trovano in posizione di vulnerabilità (detenuti, militari, persone che versano in condizioni di estrema indigenza, ecc.).

Progressivamente, l’accento si è spostato dalla libertà del consenso alla qualità dell’informazione che lo precede. È evidente, infatti, che lo scienziato e il soggetto sperimentale non si trovano su due posizioni equiparabili, quanto a conoscenze e a potere decisionale. È facile estorcere un consenso, sottraendo o manipolando le informazioni. L’autonomia dell’individuo è rispettata solo se, prima di acconsentire a essere arruolato nell’esperimento, la persona coinvolta ha ricevuto le informazioni necessarie, le ha comprese e ha valutato tutta la portata della propria partecipazione alla ricerca. Questo insieme di condizioni viene per lo più evocato dalla dizione abbreviata «consenso informato».

Analizzeremo nel secondo capitolo, in dettaglio, le norme recenti che regolano la sperimentazione, attraverso accordi protocollari che hanno ormai una dimensione internazionale: le regole della sperimentazione con gli esseri umani sono uguali in tutto il mondo. Qui ci interessa evidenziare che nell’ambito della ricerca è stata raggiunta per prima la consapevolezza che l’affidamento fiduciario che tradizionalmente si richiedeva al paziente non è più compatibile con lo spirito del nostro tempo, quando si tratta di ricerca e trattamenti sperimentali. é diritto del soggetto essere informato e dare il proprio consenso.

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● Uno scenario diverso si crea nell’ambito di procedure diagnostiche e trattamenti a carattere non sperimentale, quindi in un contesto terapeutico, ma che comportano un certo grado di pericolosità e di effetti collaterali negativi. Una trasfusione sanguigna, per esempio, è quanto di più standardizzato si possa immaginare in medicina; eppure non è esente da rischi. Ci rendiamo sempre più conto che, pur avendo il medico la delega sociale a fare per il paziente ciò che secondo lo stato dell’arte medica risulta appropriato, e magari anche da parte del paziente la richiesta esplicita a fare tutto il possibile in vista del risultato terapeutico, non sarebbe corretto nei confronti del paziente nascondergli i rischi.

Per alcune di queste procedure esiste un vero e proprio obbligo formale di informare il paziente e di chiedergli il consenso alle procedure (così nel caso delle trasfusioni sanguigne: vedremo più sotto le norme di riferimento). Per tutte, possiamo parlare di obbligo morale. Indipendentemente dall’intenzione  più che legittima  del medico di mettersi al riparo da future possibili rivendicazioni del paziente per via giudiziaria, non è accettabile che il medico si assuma in prima persona la responsabilità di decidere un intervento che potrebbe essere dannoso per il paziente. Anche se, per esempio, è una procedura ormai standardizzata sottoporre le gestanti quarantenni alla diagnosi prenatale, non sarebbe corretto  dal punto di vista morale, indipendentemente da qualsiasi obbligo giuridico  da parte del medico non informare la donna della percentuale di rischio per la vita del feto insita nell’intervento diagnostico dell'amniocentesi. Allo stesso modo in cui non sarebbe corretto non informare la paziente della probabilità di avere un bambino malformato.

Talvolta il tentare «il tutto per tutto», anche in condizioni di incertezza sull'esito, può essere sollecitato dal paziente stesso, indotto dalla situazione a giocare anche la carta della disperazione. Ma il consenso

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del paziente a tentativi terapeutici che abbiano un carattere sperimentale non può essere semplicemente presunto. Le differenze da persona a persona possono essere molto marcate; e anche, per la stessa persona, la volontà di sottoporsi a terapie estreme può variare nelle diverse fasi del decorso della malattia. Non si può assumere che «tutto il possibile» sia la misura giusta per tutti. Il consenso esplicito del paziente a ciò che gli viene proposto è la condizione che rende umanamente e moralmente giustificabili gli interventi terapeutici di questo genere.

Un’illustrazione chiara di questa modalità di rapporto con il paziente e della specifica informazione che essa richiede si può trovare in alcune pubblicazioni concepite a uso degli specialisti, per fornire loro sussidi didattici nelle procedure diagnostiche e interventi terapeutici di loro competenza. Citiamo, per esemplificare, Il consenso informato in cardiologia (Lotto et al., 1995), a cura del «Progetto di educazione sanitaria A. Menarmi». Ognuna delle procedure diagnostiche (quali: test ergometrici da sforzo, test farmacologici nel contesto di procedure diagnostiche ecografiche e scintigrafiche, periocardiocentesi, biopsia endomiocardica, coronarografia, angiografia) e degli interventi terapeutici (cardioversione elettrica, impianto di pace-maker, angioplastica coronarica, trial clinici, by-pass aorto-coronarico, sostituzione valvolare, fino al trapianto cardiaco) sono analizzati dal punto di vista medico e descritti, anche con l’aiuto di appropriate figure, per il paziente. Al medico vengono ricordate le indicazioni e controindicazioni di ciascuna procedura o intervento, compresi i rischi connessi e le eventuali alternative.

Si tratta, in pratica, di ciò che il clinico deve sapere, in base allo stato attuale delle conoscenze specialistiche. Il paziente riceve un’informazione precisa riguardo alla finalità della procedura diagnostica o

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terapeutica e alla modalità di esecuzione, ai rischi e alle alternative, comprese le conseguenze della non esecuzione dell’indagine o dell’intervento. La firma posta in calce a un modulo, accanto a quella del medico che ha fornito l’informazione, è il momento conclusivo di tutto il processo informativo.

Per quanto riguarda l’impianto di pace-maker, per fare un esempio, è corretto informare il paziente della possibilità, che varia dallo 0,1% allo 0,6%, di complicanze e rischi, ma anche che attualmente non ci sono alternative specifiche al pace-maker, il paziente che rifiuta di sottoporsi all’intervento mantiene, perciò, un alto rischio di mortalità altrimenti non controllabile. Se consideriamo l’angiografia in generale, bisognerà informare il paziente che esistono valide alternative all’angiografia classica, che permettono di acquisire immagini delle cavità cardiache e dei vasi in modo meno invasivo e con minori rischi.

Un esempio impressionante di come la quantità e la qualità dell’informazione fornita al paziente modifichi la disponibilità di quest’ultimo all’intervento, è offerto da una ricerca condotta da G. Domenighetti nel Canton Ticino. Lo studio intendeva valutare se, e quanto, l’informazione riferita alle prove di efficacia cambia la disponibilità delle persone a sottoporsi allo screening per la diagnosi precoce di determinate patologie. A un campione di 1000 persone è stato chiesto se accettavano le procedure di screening per la diagnosi precoce del cancro al pancreas. A un gruppo la domanda è stata posta nel modo seguente: «Durante una visita di routine, il medico le chiede se è disposto ad accettare un test diagnostico (che consiste in un semplice esame del sangue) che è in grado di diagnosticare precocemente se lei ha un cancro al pancreas (ciò vuol dire che la malattia sarà identificata prima che lei avverta qualsiasi sintomo)». Il 60% degli intervistati ha risposto che accettava; solo il 32%

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non accettava il test e l’8% desiderava avere un secondo parere.

A un altro gruppo, oltre all’informazione di base, è stata fornita un’informazione più estesa, che includeva le seguenti precisazioni: 1. il test non è molto accurato: solo il 30% di quelli che risultano positivi al test hanno veramente un cancro al pancreas; 2. di conseguenza, tutte le persone positive devono sottoporsi a esami supplementari per confermare la diagnosi di cancro, che richiedono il ricovero di qualche giorno in ospedale; 3. ogni anno in Svizzera solo 11 persone su 100.000 hanno una diagnosi di cancro pancreatico confermata; 4. il cancro al pancreas praticamente non può essere guarito: di 100 persone diagnosticate, dopo cinque anni solo tre sono ancora in vita. Il gruppo che ha ricevuto un’informazione più accurata ha reagito diversamente rispetto al primo: solo il 13,5% accetta il test, il 72% non accetta, mentre il 14,5% vorrebbe il parere di un altro medico. «Paziente informato... mezzo salvato»? Forse è così. In ogni caso sembra certo che, quando il paziente è informato, risulta molto meno invaso dalla più aggressiva tecnologia medica.

● Il coinvolgimento del paziente nelle scelte terapeutiche.

Ma non siamo ancora all’ultimo scenario del nuovo rapporto tra medico e paziente. Questo non si limita alla situazione in cui esistono alternative terapeutiche con diversa ricaduta sulla quantità e sulla qualità di vita del paziente. La nuova frontiera della relazione terapeutica è la partecipazione attiva della persona a cui le cure sanitarie sono rivolte, in modo che possa essere un soggetto responsabile e coinvolto nelle scelte che lo riguardano.

Il nuovo rapporto non si applica alle sole procedure a rischio; questo scenario è piuttosto quello proprio della medicina nel suo esercizio quotidiano.

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Sempre più spesso, infatti, le scelte terapeutiche si divaricano in diverse direzioni. Per fare un esempio, prendiamo il trattamento del cancro alla mammella. Gli specialisti, ai quali è riconosciuto il maggior credito nella comunità scientifica, riconoscono oggi che la malattia si può aggredire con almeno una dozzina di strategie terapeutiche. Ognuno di questi protocolli di trattamento ha ripercussioni di grande portata sia sulla speranza di vita, sia sulla qualità della vita (in quanto più o meno mutilanti, più o meno invasivi o provanti per l’organismo).

La partecipazione attiva del paziente a scelte di così grande importanza non è un optional: è indispensabile dal punto di vista non di una medicina difensiva, ma di una medicina rispettosa dei valori personali dell’individuo. Per assumere un esempio anche in ambito maschile, pensiamo alla prostatectomia. È vero che l’asportazione chirurgica può essere una decisione clinica indicata, forse anche altamente raccomandata. Tuttavia non sarebbe corretto non informare il paziente che uno degli effetti secondari può essere l’impotenza. Riguardo alla prospettiva di essere privato dell’esercizio della sessualità per il resto della propria vita, le reazioni sono diverse da persona a persona: per qualcuno può essere un prezzo da pagare per una prospettiva di vita più lunga, per qualcun altro no.

Se si vuole assicurare la partecipazione del paziente, in quanto protagonista delle scelte che lo riguardano, il baricentro si sposta sull’informazione, più che sul consenso. Mentre il consenso a un trattamento non è difficile da ottenere  specialmente se il medico sa fare un uso accorto delle emozioni del paziente , dare le informazioni utili e necessarie perché il paziente possa essere il regista delle decisioni che lo riguardano è molto arduo. Ci rendiamo conto che l’esigenza della partecipazione del paziente alle scelte di natura clinica che lo riguardano ci introduce in una strutturazione

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nuova del rapporto tra medico e paziente, che conservi i tratti essenziali di ciò che ci ha trasmesso il passato, ma che sostanzialmente è da inventare.

Il ruolo del medico di medicina generale, affinché si realizzi questa modalità di rapporto che renda il malato attivo e responsabile, è cruciale. Si potrebbe sostenere che i problemi legati alle alternative terapeutiche, che hanno una diversa incidenza sulla speranza di vita e sulla sua qualità, vengono per lo più discussi nell’ambito della medicina specialistica, e non nello studio del medico di medicina generale. Ma la partecipazione attiva del paziente alle decisioni che lo riguardano è un processo, più che un atto isolato. Se il processo non viene ben avviato, attraverso la comunicazione che si instaura con il medico di medicina generale, e ben proseguito, anche dopo l’intervento della medicina ospedaliera e specialistica, è possibile che i problemi di rapporto con il paziente vengano a trovarsi su un binario morto, in una situazione che li rende insolubili.

La comunicazione con il paziente che rende possibile quel modello di medicina in cui la giusta decisione va presa in due, deve incominciare a monte. Essa dipende in modo determinante dal rapporto che si instaura con il medico di fiducia, in una situazione che ha fondamentalmente un valore educativo. Dato che il modello di buona medicina che ci viene richiesto dalla cultura contemporanea è un modello inedito, che nessuno degli interlocutori possiede in proprio, si tratterà di una co-educazione: medico e paziente dovranno educarsi insieme.

3. L'attualità del dibattito sul consenso informato

Il cambiamento che è in atto tra i protagonisti  professionisti sanitari da una parte, cittadini dall’altra ― dei processi di diagnosi e cura delle malattie è sempre

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più frequentemente riassunto, in modo stenografico, nel concetto di «consenso informato». Lo dimostra il numero crescente di pubblicazioni in questo ambito. A carattere internazionale, anzitutto. Prendendo un anno a caso, la ricerca su Medline della produzione scientifica alla voce «Informed consent» dà più di settecento articoli di riviste e libri tra gennaio e settembre 1997. Il problema dell’informazione rivolta al paziente, della comunicazione della diagnosi e del rapporto medico-paziente, a cui si fa riferimento, non è più limitato all’ambito linguistico e culturale anglosassone: troviamo ricerche avvenute in Grecia, nell’Arabia Saudita, in Giappone. In una ricerca promossa dal Dana-Farber Institute di Boston, ad esempio, dal titolo Il bambino con il cancro. Influsso della cultura nel dire la verità e nella cura del paziente, una trentina di Paesi hanno partecipato nel cercare di identificare le variazioni culturali nell’informare della diagnosi, promuovendo, allo stesso tempo, una migliore comunicazione tra gli oncologi a livello internazionale.

Per quanto riguarda la situazione italiana, vanno segnalate almeno due importanti pubblicazioni recenti: Amedeo Santosuosso (a cura di), Il consenso informato. Tra giustificazione per il medico e diritto del paziente, ed. Cortina, Milano 1996, e Sergio Fucci, Informazione e consenso nel rapporto medico-paziente, Masson, Milano 1996.

Il primo volume riflette la convinzione che il consenso informato sia una tipica questione che richiede un approccio multidisciplinare. Almeno tre punti di vista devono essere rappresentati: quello del clinico, quello dello psicologo e quello del giurista. Amedeo Santosuosso ha curato il concerto di voci e competenze diverse che hanno affrontato sia le questioni di principio (le regole specifiche formulate dall’attuale cultura giuridica, le dinamiche psicologiche della relazione medico-paziente, il ruolo dell’informazione per una decisione clinica razionale), sia le diverse situazioni

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in cui il consenso può essere espresso: il paziente inguaribile in età avanzata, i minorenni e le persone incapaci, la sperimentazione clinica.

Il volume di Sergio Fucci riflette la situazione creata dal codice di deontologia medica del 1995, che ha innovato la posizione tradizionale relativa al consenso informato. Il consenso del paziente è sancito come requisito imprescindibile della nuova relazione medico-paziente. Nella ricostruzione del quadro normativo, fatta da Fucci, vi sono i presupposti per riconoscere in un trattamento posto in essere senza la volontà del paziente (esclusione fatta, ovviamente, per i casi in cui il riferimento a tale volontà è impossibile) un trattamento arbitrario, che comporta per il medico responsabilità non solo sotto il profilo civile, ma anche sotto quello penale. Fucci giunge ad auspicare un intervento legislativo che introduca una specifica ipotesi di reato diretta a sanzionare l’intervento medico posto in essere senza il consenso del paziente.

In un articolo dedicato a una valutazione globale della saggistica italiana recente sul consenso informato, l’esperta di diritto Patrizia Borsellino valuta positivamente la maturazione che sta avvenendo nella nostra cultura: «L’esame dei nodi problematici del consenso informato ha condotto a posizioni condivise a cui guardare come a veri e propri punti fermi nella riflessione sul tema, pur nel permanere, rispetto a talune questioni, di opinioni ancora assai diversificate, tra le quali è necessario tenere aperto il confronto e intensificare i tentativi di mediazione» (Borsellino, 1996, p. 115).

In particolare, dall’esame della letteratura sul tema risulta un sostanziale consenso nel superamento dei classici cavalli di battaglia di coloro che non condividono gli entusiasmi dei fautori di una medicina imperniata sul rispetto della volontà del malato, come l’enfatizzazione delle situazioni di urgenza e necessità, che giustificano un intervento senza o anche contro il

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consenso del malato; l’insistenza sulle situazioni in cui gli interventi riguardano soggetti incapaci di manifestare la propria volontà; la drammatizzazione del problema dell’informazione, necessaria perché ci sia una partecipazione consapevole alla decisione clinica; la subordinazione del consenso alla buona prassi clinica, intesa come la prassi più adeguata dal punto di vista dell’etica medica tradizionale, che porta a privilegiare il bene del paziente valutato con parametri biologici, e in ogni caso oggettivi. Tuttavia  osserva ancora P. Borsellino  l’accordo crescente sulle linee di tendenza per risolvere i nodi tradizionali del consenso informato non giustifica alcun ottimismo intempestivo: sull’uso di uno strumento come il consenso informato resta ancora tanto da imparare. E, soprattutto, bisogna evitare una sua mitizzazione, sacrificando valori importanti in nome dell’autonomia.

Tra gli apporti più interessanti della ricerca italiana recente, riferita in modo più o meno diretto al consenso informato, segnaliamo l’indagine antropologica, condotta da Deborah Gordon ed Eugenio Paci in Toscana, circa la pratica di informare o non informare i malati di cancro (Gordon, Paci, 1997). Nello spirito di una ricerca etnografica  che mira a comprendere i comportamenti e le motivazioni che li ispirano a partire dall’ottica dei protagonisti, escludendo ogni intento valutativo o normativo  lo studio mirava a esplorare le pratiche dominanti, i vissuti e i costrutti teorici che le giustificano diffusi tra i professionisti sanitari circa la comunicazione:

a) con i pazienti in generale;

b) con i pazienti affetti da cancro o da altre malattie potenzialmente fatali;

c) con le persone in contesti non sanitari.

Le domande rivolte con questionario rispecchiavano l’ipotesi che le pratiche comunicative riferite al cancro non sono comportamenti isolati, ma rappresentano

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un approccio tipico a problemi di natura analoga. Le pratiche mediche e i vissuti relativi alla malattia e alla cura del paziente (chi prende le decisioni, chi detiene le informazioni, gli assunti relativi a che cosa serve per stare meglio, dove attingere la speranza, il significato da attribuire al cancro, in che cosa consiste una «buona morte») si coagulano in modo coerente intorno a due modelli, che portano l'uno a rivelare al malato il male da cui è affetto, l’altro a nasconderglielo. Le modalità di comunicazione relative al cancro sono costitutive di vissuti e pratiche di portata più ampia.

Gordon e Paci non si sono limitati a contare quanti tra gli operatori sanitari sono per il «dire» e quanti per il «tacere». Hanno studiato, invece, come questi orientamenti sono collegati, in profondità, con le convinzioni che riguardano la vita, la morte e la sofferenza; con il modo di gestire le «cattive notizie» anche in contesti diversi da quello della salute; con i modelli fondamentali di educazione (orientata a promuovere l’autonomia personale oppure a consolidare la dipendenza dai genitori e dalla famiglia); con le modalità che vengono utilizzate preferenzialmente per aiutare qualcuno in difficoltà. A questi modelli globali Gordon e Paci danno il nome di narrazione culturale. Essa dà ragione di ciò che si intende produrre con le proprie azioni (e omissioni). Schematicamente, la narrazione culturale di protezione sociale organizza i comportamenti con l’intento di proteggere il paziente, mentre la narrazione che possiamo chiamare di autonomia-controllo si prefigge di favorire il controllo della situazione da parte dell’individuo.

La narrazione della protezione sociale potrebbe cominciare così: «In principio c’erano Dio e la famiglia, che hanno creato i bambini e proteggono i deboli nei momenti di difficoltà». La vita e le persone sono fondamentalmente fragili e bisognose di protezione. La sofferenza non può essere eliminata, ma può e deve essere ridotta al minimo, in parte attraverso la protezione

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del gruppo sociale: qualsiasi mezzo utilizzato dal gruppo a questo fine è buono, anche inventare storie e mentire. Ai duri colpi della vita si fa fronte mantenendo la continuità della vita quotidiana.

La maturità non è un processo lineare: si rimane bambini per tutta la vita di fronte a Dio, ai genitori, alle persone più anziane. Questo comporta che in caso di malattie ci saranno altri che assumeranno in toto la responsabilità delle cure. Il primo dovere è proteggere gli altri dalla sofferenza, non dare «dispiaceri». Lo stile comunicativo predilige il silenzio, l’ambiguità dei messaggi, la comunicazione indiretta. Il campo sociale è immaginato come un’efficace difesa di fronte a verità che farebbero soffrire (come, appunto, una diagnosi di cancro). Per questo la narrazione della protezione sociale tende a una pratica comunicativa in cui chi detiene le informazioni sulla malattia  il medico e la famiglia  non le trasmette al malato.

La narrazione sottostante alla pratica della comunicazione aperta della diagnosi  che in ambito medico si traduce soprattutto nella promozione del consenso informato  potrebbe iniziare il suo racconto della creazione con: «In principio c’era l’individuo...». Nella narrazione culturale di autonomia-controllo, infatti, l’individuo è sovrano: sulla sua vita, sul suo corpo, sulla sua identità personale. Solo la persona coinvolta sa cosa è meglio per se stessa ed è davvero capace di prendere le decisioni che la riguardano. L’autonomia e l’autodeterminazione sono valori primari e rappresentano diritti fondamentali di ogni essere umano. L’informazione è essenziale per poter scegliere. Per questo è necessaria una comunicazione chiara ed esplicita.

Vista dalla prospettiva della narrazione dell'autonomia e del controllo, la non rivelazione della diagnosi appare come una grossolana negazione dei diritti umani e impedisce il controllo della propria vita, del corpo, della mente. Il medico e la famiglia che sottraggono

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l’informazione appaiono in questo modello oppressivi e paternalistici. In modo schematico, le due narrazioni culturali possono essere rappresentate come segue:

Narrazione culturale:

Autonomia-controllo

Vissuti e pratiche

Narrazione culturale:

Protezione sociale

individuo

Priorità

gruppo sociale

paritario

Natura del mondo sociale

gerarchico

mondo fisico, «oggettività»

Chi o che rosa stabilisce la verità

mondo sociale, autorità

individuo,

esseri umani, scienza,

tecnologia, progresso,

conoscenza e azione

Fonte di speranza

gruppo sociale, Dio, destino,

protezione sociale,

unità/continuità del quotidiano,

«non sapere»

trasferimento di informazioni

Modalità prevalenti

di vivere la comunicazione

parola detta

come capace di evocare

una situazione oltre che

di trasferire informazione

controllo attraverso

la conoscenza,

azione preventiva

Modi prevalenti di affrontare il pericolo

adattamento,

cercare di creare un’altra storia,

protezione sociale

«soluzione del problema»,

oggettività, condivisione

Modi prevalenti di

affrontare la sofferenza

evitare di pensare

e di parlare del problema,

distrarre, proteggere

infinitamente perfettibile

e conoscibile

Natura della vita

misteriosa, imprevedibile,

sempre problematica

L’apporto della ricerca è di dare uno sfondo antropologico-culturale ai problemi del consenso informato, che evidenzia la frattura tra i diversi modi di praticare la medicina e le giustificazioni teoriche che vengono offerte dei comportamenti:

In Italia diventa sempre più chiaro che le pratiche tradizionali devono attraversare un processo di

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cambiamento. Si osserva un’insoddisfazione diffusa nei confronti della comunicazione che si instaura nelle situazioni, ancora relativamente frequenti, in cui non si rivela la diagnosi: diversi pazienti hanno l’impressione che la mancanza di informazione significa «non riconoscerli come persone»; che fornire loro una diagnosi diversa da quella reale significa «mentire» od organizzare una «congiura del silenzio»; la protezione è vissuta come oppressione, potere, atteggiamento difensivo («risparmiare l’altro» vuol dire solo risparmiare se stesso). Molte famiglie continuano a non rivelare la diagnosi al paziente, ma psicologicamente si sentono isolate e senza sostegno; molti medici non se la sentono di continuare a vivere con la menzogna, ma sono costretti a continuare a comportarsi in questo modo sotto la spinta delle famiglie e della propria incertezza. Anche le tensioni che si registrano sono da imputare alla presenza contemporanea, all’interno del sistema, di queste due diverse versioni di narrazioni e pratiche divergenti relativamente alla rivelazione della diagnosi (Gordon, Paci, 1997, p. 97).

Non si tratta di contrapporre semplicisticamente una cultura «americana», basata sull’individuo, l’autonomia, l’informazione, a una cultura europea o ancor più italiana, centrata sulla protezione che il gruppo sociale  in particolar modo la famiglia  offre al singolo. I mondi culturali «locali» sono trasversali a queste distinzioni macroscopiche. Le diverse posizioni riguardo all’informazione dipendono dal mondo esistenziale in cui le persone vivono, anche in aree culturalmente omogenee (come la Toscana, in cui è stata condotta la ricerca).

La pratica del consenso informato dovrà cercare di realizzare un nuovo equilibrio che permetta una maggiore espressione dell’individualità all’interno

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dei rapporti molto avvolgenti della famiglia e di un mondo sanitario protettivo, ma contemperi allo stesso tempo l’individualismo estremo del modello autonomista, preservando l’importanza dell’appartenenza al gruppo sociale.

4. Tribunali e dintorni

Esercitare la professione medica non ha mai comportato l’impunità. Anche se la malevolenza diffusa contro i medici ha con piacere insinuato che questi pretendono di porsi su un piano in cui è difficile chiamarli a rendere conto delle loro azioni, la pratica della medicina si è sostanzialmente sentita vincolata dalla volontà dei medici di mettere tutto il loro sapere a servizio della salute dei pazienti. Così è stata interpretata la «clausola terapeutica», contenuta nel giuramento di Ippocrate, che vincola il medico a prescrivere ai malati «ciò che loro convenga»: dunque, ciò che procura un beneficio alla loro salute. Comunque lo si voglia formulare, questo fondamentale dovere ha tradizionalmente regolato la professione medica.

Sulla griglia di fondo del modello ippocratico, suona come inaudita la conclusione di un processo destinato a segnare per la medicina italiana la fine dell’orientamento, pacifico e consensuale, all'ethos che attribuiva ai medici la responsabilità per le decisioni da prendere nel miglior interesse del malato. Nel 1990 la Corte di Assise di 1° grado di Firenze condannava un chirurgo per il reato di omicidio preterintenzionale con riferimento a un intervento chirurgico conclusosi con la morte della paziente. L’addebito non gli veniva sollevato per uno dei classici motivi di ricorso penale  in quanto cioè il chirurgo avrebbe agito con imperizia, imprudenza o negligenza . La motivazione della condanna introduce temi

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nuovi rispetto alla pratica giuridica e medico-legale del passato (Santosuosso, 1991).

fatti sono noti. Un’anziana signora ultraottantenne era stata ricoverata in ospedale per un intervento di asportazione transanale di un adenoma villoso. Discutendo con il medico prima dell’intervento, ella aveva escluso esplicitamente l’ipotesi di un’amputazione del retto: considerando la propria età e le condizioni generali, rifiutava la prospettiva di dover vivere il resto dei suoi giorni con un ano preternaturale. Durante l’esecuzione dell’intervento, invece, il chirurgo aveva proceduto in questa seconda maniera. La paziente aveva risentito profondamente dell’intervento avvenuto contro la sua volontà; era deceduta poche settimane dopo, in condizioni fisiche e psichiche deplorevoli.

Il chirurgo è stato riconosciuto colpevole  leggiamo nella sentenza di primo grado  per un intervento demolitivo «in completa assenza di necessità e urgenza terapeutiche che giustificassero un tale tipo di intervento e soprattutto senza preventivamente notiziare la paziente o i suoi familiari, che non erano stati interpellati in proposito né minimamente informati dell’entità e dei concreti rischi del più grave atto operatorio che veniva eseguito, e non avendo comunque ricevuto alcuna forma di consenso a intraprendere un trattamento chirurgico di portata così devastante».

La linea di difesa dell’operato del chirurgo, impostata sulla necessità di un intervento finalizzato nelle intenzioni a salvare la vita della malata, è stata esplicitamente rifiutata dal tribunale. La Corte, considerando l’espressa volontà della paziente, che aveva consentito solo a un intervento per via transanale, riconosceva a quest’ultima «il diritto di rifiutare le cure mediche, lasciando che la malattia segua il suo corso anche fino alle estreme conseguenze». Questo atteggiamento non implica il riconoscimento di un diritto positivo al suicidio, ma è invece  sempre secondo la Corte  «la riaffermazione

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che la salute non è un bene che possa essere imposto coattivamente al soggetto interessato dal volere, o peggio dall’arbitrio altrui, ma deve fondarsi esclusivamente sulla volontà dell'avente diritto, trattandosi di una scelta che riguarda la qualità della vita e che, pertanto, lui e lui solo può legittimamente fare».

L’orizzonte di argomentazioni e di valori in cui si muove il tribunale fiorentino  la cui sentenza, peraltro, sarà successivamente convalidata da tutte le istanze superiori di giustizia  diverge notevolmente da quello che ha tradizionalmente regolato la pratica della medicina. Sono intervenuti nella nostra cultura cambiamenti importanti, che hanno spostato sensibilmente l’asse dei diritti e dei doveri.

La giurisprudenza legata all’informazione in medicina si è arricchita di recente di alcune sentenze che si muovono in modo molto deciso verso quella riscrittura dei rapporti medico-paziente che è promossa dalla cultura della modernità. Due sentenze recenti hanno, in particolare, avuto ampia risonanza nei mass media. La prima in ordine di tempo è quella della Corte di Cassazione  sezione III civile  n. 364 (30 aprile 1996-15 gennaio 1997). La Cassazione è intervenuta contro la sentenza del tribunale di Ancona che, in data 17.10.1988, rigettava la richiesta di risarcimento di danni da parte di una signora che, in occasione di un intervento chirurgico, aveva avuto un’anestesia mediante puntura lombare mal eseguita, che le aveva cagionato un’invalidità permanente totale.

Sia il Tribunale che la Corte d’appello di Ancona avevano ritenuto di respingere la richiesta, escludendo l’esistenza di una colpa grave dell’anestesista (attribuendo la patologia insorta a «naturale rischio imponderabile in un’operazione chirurgica») e negando la necessità di un’informazione apposita circa la modalità dell’anestesia praticata («L’anestesia epidurale era

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quella astrattamente più indicata per l’intervento che doveva essere praticato. Doveva ritenersi esistente, quindi, un consenso presunto all’anestesista, la cui scelta era stata astrattamente rispondente alle norme tecniche: non potrebbe pretendersi, del resto, che il medico informi il paziente di ogni remota possibilità di reazione abnorme del corpo umano al recepimento di sostanze chimiche, essendo egli tenuto anche a non spaventarlo rendendolo edotto di tutti i possibili rischi prevenibili»). Nell’impostazione argomentativa del Tribunale si legge con grande chiarezza la concezione tradizionale che ha guidato la pratica della medicina: l’autolegittimazione dell’attività medica e la sufficienza del consenso presunto.

La Cassazione, nell’annullare le due sentenze di primo e secondo grado, si basa su una diversa concettualizzazione della relazione terapeutica. Se la paziente poteva presumere la necessità di essere sottoposta ad anestesia, non altrettanto si può dire per la specifica metodologia adoperata; l’iniezione lombare, infatti, comportava un rischio specifico. Secondo la Cassazione, «la scelta di una delle tre tecniche metodologiche anestetiche, comportando diversi fattori di rischio, avrebbe dovuto ottenere un valido e consapevole consenso della paziente». La formazione del consenso presuppone una specifica informazione su quanto ne forma oggetto.

Nella motivazione della sentenza, la Cassazione approfondisce la dottrina del consenso informato, in particolare nell’ambito degli interventi chirurgici:

«Il dovere di informazione concerne la portata dell’intervento, le inevitabili difficoltà, gli effetti conseguibili e gli eventuali rischi, sì da porre il paziente in condizioni di decidere sull’opportunità di procedervi o di ometterlo, attraverso il bilanciamento di vantaggi e rischi. L’obbligo si estende ai rischi prevedibili e non anche agli esiti anomali, al limite del fortuito, che non

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assumono rilievo secondo l’id quod plerumque accidit, non potendosi disconoscere che l’operatore sanitario deve contemperare l’esigenza di informazione con la necessità di evitare che il paziente, per una qualsiasi remotissima eventualità, eviti di sottoporsi anche ad un banale intervento (...). L’obbligo di informazione si estende, inoltre, ai rischi specifici rispetto a determinate scelte alternative, in modo che il paziente, con l’ausilio tecnico-scientifico del sanitario, possa determinarsi verso l’una o l’altra delle scelte possibili, attraverso una cosciente valutazione dei rischi relativi e dei corrispondenti vantaggi».

Appoggiandosi su tali principi, la Cassazione ritiene che la Corte che ha giudicato il caso non avrebbe potuto riferirsi a un consenso meramente presunto in relazione all’intervento richiesto, ma avrebbe dovuto accertare se i vari metodi anestesiologici comportassero, insieme ai vantaggi, rischi di diversa intensità, e in particolare se l’anestesia epidurale comportasse rischi maggiori. Nel caso discusso, quindi, si sarebbe dovuto richiedere un esplicito consenso: «Se è vero che la richiesta di uno specifico intervento chirurgico avanzata dal paziente può farne presumere il consenso a tutte le operazioni preparatorie e successive che vi sono connesse, ed in particolare al trattamento anestesiologico, allorché più siano  come nel momento presente  le tecniche di esecuzione di quest’ultimo, e le stesse comportino rischi diversi, è dovere del sanitario, cui pur spettano le scelte operative, informarlo dei rischi e dei vantaggi specifici ed operare la scelta in relazione all’assunzione che il paziente ne intenda compiere».

Una seconda sentenza recente che ha suscitato molto scalpore è stata quella con cui la Corte d’appello di Trieste il 21 aprile 1997 ha condannato un ginecologo per non aver informato una paziente che il feto era malformato. I fatti si sono svolti nell’ospedale di

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Sacile, vicino Pordenone, nel 1990. L’ecografia, eseguita nel settimo mese di gravidanza, aveva rivelato che il feto, concepito da una madre portatrice sana di una «traslocazione robertsoniana», era gravemente malformato. Il medico, aiuto di ostetricia e ginecologia, considerando che in ogni caso un aborto terapeutico non avrebbe potuto essere preso in considerazione, per lo stato avanzato della gravidanza, aveva deciso di tacere l’informazione ai genitori. La piccola è nata priva degli avambracci e di una gamba, ha malformazioni a un piede e alla lingua, non è autosufficiente, ma è lucida di mente.

Portato in tribunale con l’imputazione di «omissione di atti d’ufficio», il ginecologo era stato assolto sia in primo grado (Tribunale di Pordenone, 1992) che in appello (Corte di Trieste, nel 1995): secondo i giudici, non essendoci più tempo per interrompere la gravidanza, l’omissione della verità non costituiva reato. Ma nel marzo 1996 la Cassazione aveva disposto un nuovo giudizio, ritenendo non sufficientemente motivata la sentenza. Secondo la VI sezione penale della Cassazione, infatti, «la paziente ha diritto di essere preparata allo specifico parto che l'attende. Tale preparazione è idonea ad incidere sulla salute psichica della gestante, nonché su quella del nascituro, affinché lo stesso possa trovare fin dall’inizio la migliore accoglienza». Da questa ottica deriva il rovesciamento della sentenza, con la condanna del ginecologo da parte della Corte d’appello di Trieste.

Nell’eco che la sentenza ha avuto sulla stampa è stata sottolineata soprattutto la forte accentuazione, a opera della Cassazione, del concetto di salute psicologica. Secondo la Cassazione, infatti, i riferimenti normativi sono la legge 833, che istituisce il Servizio sanitario nazionale (la quale «espressamente tutela la salute psichica della persona»), e la legge 194 che, nel normare l’interruzione volontaria della gravidanza, «ha costantemente

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riguardo alla situazione psichica della paziente in gravidanza». L’informazione era dovuta in quanto «adeguati supporti e terapie psicologiche avrebbero dovuto essere avviati nell’intervallo che separava il parto, onde evitare l’ulteriore complicazione di un’improvvisa e inaspettata rivelazione». È importante notare che il riferimento non è a un diritto del paziente all’informazione, ma alla tutela della salute del paziente  estesa anche alla dimensione psichica  attraverso l’informazione. La sentenza della Cassazione, da questo punto di vista, risulta meno innovativa nel rapporto medico-paziente di quanto appaia a prima vista.

Le sentenze relative all’obbligo dell’informazione devono essere collocate in un contesto più ampio, che vede un aumento del contenzioso giudiziario. Una specie di «epidemiologia giudiziaria» è quella che si può ricavare dall’indagine della Regione Lombardia sui rischi e danni derivati dalle attività nel 1996 (Bertolini, 1997). Pur con qualche limite circa la completezza dei dati  al questionario d’indagine hanno risposto 42 Asl su 44 e 15 aziende ospedaliere su 16  risulta inequivocabilmente che le querele contro medici e servizi sanitari sono un numero considerevole. Al 30 giugno 1996 le Usi e aziende sanitarie lombarde avevano in corso 228 procedimenti penali. La maggioranza riguarda ipotesi di omicidio colposo (art. 589 C.P) e il 20% lesioni personali colpose (art. 590 C.P.).

Di solito la maggior parte dei procedimenti si conclude con assoluzioni di vario grado; tuttavia il 20% di condanne è un dato di notevole entità. Anche la ricaduta economica delle misure assicurative ammontava complessivamente a oltre 32 miliardi; solo per la responsabilità civile, nel 1996, sono stati spesi 20 miliardi, con aumenti previsti per il 1997. Le aziende ospedaliere pagano in premi assicurativi da 1.46 a 14.49 lire per ogni 1000 di spesa per il personale (il che equivale

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da 1 a 13 lire ogni 1000 di ricavo per DRG*). Le Asl pagano da 1 a 10 lire ogni 1000 lire di spesa per il personale (addirittura fino a 65 lire se si considera solo il personale ospedaliero) e da 1.38 a 51 lire per ogni 1000 ricavate da attività ospedaliere.

Le ragioni dell’aumento del contenzioso medico-paziente sono riconducibili sostanzialmente a una maggiore conoscenza dei propri diritti da parte dei malati e dei loro familiari. Sempre più numerose sono le associazioni e gli organismi sorti a tutela dei malati. La diffusione delle Carte dei servizi sanitari ha reso i cittadini più agguerriti. Anche la prospettiva di avere diritto a un rimborso per i danni subiti  ben sostenuta da studi legali che vanno specializzandosi in questo settore  stimola il ricorso alla magistratura.

Secondo la Regione Lombardia, che ha promosso l’indagine, i rimedi proposti ruotano intorno a un dipartimento di prevenzione che controlli le professioni sanitarie e i rischi specifici. Almeno un operatore amministrativo dovrebbe seguire a tempo pieno le cause legali, ricevendo tempestivamente le segnalazioni di casi e fatti che potrebbero comportare la richiesta di risarcimento. Gli eventi da monitorare in via prioritaria sono: i morti entro le prime 24 ore dal ricovero; la mortalità intra e post-operatoria durante il ricovero; gli incidenti gravi intraoperatori; incidenti e complicanze

* DRG (Diagnosis Related Groups): sistema di classificazione della casistica ospedaliera di ricovero fondato sul principio di attribuzione dei pazienti a classi omogenee rispetto a caratteristiche cliniche e assistenziali e, quindi, presumibilmente omogenee rispetto ai profili di trattamento e alle risorse consumate. Il sistema è stato introdotto negli Stati Uniti per valutare il prodotto ospedaliero; attualmente è utilizzato da vari Paesi come strumento per determinare il finanziamento degli ospedali. In Italia i DRG (chiamati ROD: Raggruppamenti Omogenei di Diagnosi) sono stati introdotti dalla riforma sanitaria negli anni 1992-1993. Il sistema individua 489 DRG, collegati ai tariffari regionali, utilizzati per finanziare i ricoveri ospedalieri. In pratica, gli ospedali non sono più pagati in base alle giornate di degenza del paziente, ma al «raggruppamento» diagnostico a cui è ricondotto il caso trattato (un’appendicectomia sarà compensata all’ospedale diversamente da un infarto acuto del miocardio, un parto naturale diversamente da un parto cesareo).

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da vaccinazioni e trasfusioni; la natimortalità e i nati malformati; gli infortuni avvenuti in strutture sanitarie a persone diverse dagli addetti; la mortalità materna per gravidanza e parto; gli indici di qualità dell’assistenza (tassi di infezione ospedaliera, piaghe da decubito, casi di tromboembolia venosa, errori nella somministrazione dei farmaci). Nessuna prevenzione, tuttavia, può sortire un effetto comparabile all’impegno per cambiare la cultura di base nel rapporto tra sanitari e cittadini, promuovendo il superamento di quelle modalità di rapporto che non corrispondono più alla cultura che sta cambiando.

5. La qualità dei servizi sanitari

● Il movimento per l ’umanizzazione in medicina.

Il richiamo alla qualità nell’insieme dei servizi rivolti alla persona, in particolare nella cura delle malattie e nella promozione della salute, ha diverse connotazioni, a seconda del contesto nel quale lo collochiamo. Il contenitore più ampio  ma anche meno differenziato  è quello costituito dal movimento per l’«umanizzazione» della medicina. Il suo humus è costituito dalla diffusa sensazione che nella pratica della medicina sia andato perduto qualcosa di essenziale, che è necessario e urgente reintrodurre, se non si vuole snaturare ciò che tradizionalmente costituisce l’«arte della guarigione» (Voltaggio 1992). Rivendicare la qualità dei trattamenti sanitari equivale, in questa accezione, a un richiamo ai valori che hanno tradizionalmente ispirato la pratica della medicina.

L’accusa di disumanizzazione non colpisce solo il ventaglio di comportamenti  da quelli esplicitamente criminali a quelli semplicemente arroganti o insensibili al vissuto di una persona ammalata  che emergono periodicamente nella rubrica «malasanità». La richiesta

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di umanizzazione non nasce là dove la sanità è allo sfascio, ma proprio dove dà le migliori prove di efficacia ed efficienza. A suscitarla non è soltanto la collera  giustificatissima  di pazienti maltrattati in ospedali-lager o malversati da medici incompetenti o truffaldini, ma il deterioramento dei rapporti che dilaga a ridosso di prestazioni mediche di grande efficacia, quali le generazioni precedenti non avrebbero immaginato neppure nei loro sogni più audaci.

Fino a un passato non molto lontano, il dottore si limitava a tenere la mano di un bambino che moriva di difterite: non poteva far niente per salvargli la vita. Il medico era impotente, ma tutti erano contenti di lui. Oggi, al bambino gravemente ammalato vengono somministrati antibiotici potenti ed efficacissimi, tanto che dopo qualche giorno è di nuovo a giocare con gli altri bambini in cortile. Eppure si è scontenti del dottore. Il contrasto tra le due situazioni, che sono paradigmatiche nonostante la loro schematicità, fotografa il degrado del rapporto tra medico e paziente. A questo degrado, nelle sue varie manifestazioni, il movimento dell’umanizzazione in medicina vuol porre rimedio.

● Salute e cultura moderna dei diritti.

Un secondo ambito nel quale è emerso il discorso della qualità dei servizi di cura della salute è quello della cultura moderna dei diritti. Si è potuto distinguere un susseguirsi storico di diverse concezioni dei diritti applicati alla salute, quasi una sequenza ordinata di «generazioni dei diritti» (Gracia, 1993). I diritti umani di prima generazione  che comprendono il diritto alla vita, alla salute e alla libertà di coscienza  sono stati teorizzati dalle concezioni illuministiche di diritti dell’uomo e introdotti nei costumi dai regimi liberali.

Verso la metà del XIX secolo si è delineata una nuova generazione di diritti, centrati sull’idea di uguaglianza e di giustizia, così come i precedenti lo erano sull’idea

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di libertà. Si è sviluppata così la coscienza del diritto di ogni essere umano all’educazione, all’abitazione, al lavoro, al sussidio di disoccupazione, alla pensione, all’assistenza sanitaria.

La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, promulgata dalle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, nell’art. 2 definisce in questi termini il diritto all’assistenza sanitaria:

Ogni persona ha diritto a un livello di vita adeguato che le assicuri, così come alla sua famiglia, la salute e il benessere, e in particolare il cibo, il vestito, l’abitazione, l’assistenza medica e i servizi sociali necessari; ha anche diritto agli aiuti in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o altri casi di perdita dei mezzi di sussistenza, per circostanze indipendenti dalla sua volontà.

In Italia, l’introduzione del Servizio sanitario nazionale (legge 833/1978) intese rendere effettiva l’idea portante del welfare state: separare la cura della salute dal benessere economico di chi ha bisogno delle cure, rendendole disponibili a tutti (Calamo Specchia 1994). La «riforma della riforma», ovvero il riordino in atto nel nostro servizio sanitario pubblico, noto come processo di aziendalizzazione, avviato agli inizi degli anni ’90, per quanto innovativa, si costruisce sul fondamento dello stato sociale, che continua a rimanere un’acquisizione non rimessa in discussione nei nostri orientamenti di politica sanitaria.

La terza generazione dei diritti riferiti alla salute è quella che registra la possibilità per l’individuo di orientarsi nelle scelte che hanno a che fare con le cure sanitarie in modo sintonico con i propri valori, preferenze e concezioni di vita. La qualità in questo contesto equivale alla capacità di rivendicare un diritto già previsto dalla Dichiarazione americana del 1776, quale uno dei diritti inalienabili che tutti hanno fin dalla nascita:

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il diritto a cercare la felicità (the pursuit of happiness). La vita non è solo un bene sacro, non disponibile né per l’individuo, né per lo Stato: essa ha anche una qualità di fruibilità soggettiva («felicità»), che l’individuo con le sue scelte può promuovere o pregiudicare.

Introdurre questa prospettiva dell’autodeterminazione delle scelte relative alla vita e alla salute significa, secondo lo storico della medicina Diego Gracia, far fare alla medicina la «rivoluzione liberale»  con due secoli di ritardo...!  dopo che attraverso lo stato sociale è stata fatta la rivoluzione sociale: «Nel mondo della salute la rivoluzione sociale ha preceduto in molti casi la riduzione liberale... Il liberalismo è sempre stato il grande “argomento in sospeso” della medicina occidentale» (Gracia, 1993, p. 174).

Un’articolazione più recente, infine, nella nuova cultura dei diritti è quella che vuol rendere operativi i diritti della persona nella concreta erogazione del servizio pubblico. La Carta dei servizi pubblici  direttiva del 27 gennaio 1994, promulgata dal ministro Cassese  stabilisce sia i principi fondamentali che devono essere rispettati da tutti i dipendenti delle pubbliche amministrazioni, sia gli strumenti concreti per promuovere la qualità del servizio (adozioni di standard, informazioni agli utenti, trasparenza nei rapporti e riconoscibilità degli operatori, valutazione della qualità dei servizi). Non è un caso che la prima Carta dei servizi promulgata sia stata quella relativa alla sanità: Carta dei servizi pubblici sanitari (Presidenza del Consiglio dei ministri e Ministero della sanità: 2 maggio 1995).

● La qualità dell’assistenza.

Un terzo ambito da cui la considerazione della qualità irrompe nello scenario della sanità è la ricerca metodica della qualità dell’assistenza erogata da parte dei professionisti stessi. La valutazione dell’assistenza sanitaria non può limitarsi a misurare la quantità delle risorse

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utilizzate: deve anche verificare se queste risorse sono state utilizzate in modo corretto da un punto di vista tecnico-scientifico e di interazione umana. L’obiettivo della valutazione della qualità dell’assistenza è stato così definito dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms): «La valutazione della qualità dell’assistenza tende a far sì che ogni paziente riceva l’insieme di atti diagnostici e terapeutici che portano ai migliori esiti in termini di salute, tenendo conto dello stato attuale delle conoscenze scientifiche, con il minor costo possibile e i minori rischi iatrogeni, ottenendo la sua soddisfazione rispetto agli interventi ricevuti, agli esiti ottenuti e alle interazioni umane avute all'interno del sistema sanitario».

L’Oms ha promosso, con l’autorevolezza che compete a questa istituzione internazionale, la valutazione della qualità dell’assistenza. Nel 1984 il Comitato regionale per l’Europa dell’Oms ha approvato 38 obiettivi nell’ambito del progetto «Salute per tutti, nell’anno 2000». Due obiettivi in particolare, il 31 e il 38, hanno definito l’impegno per gli stati membri ad attivare sistemi di monitoraggio della qualità delle prestazioni sanitarie e a rendere la valutazione parte integrante del lavoro degli operatori sanitari.

Obiettivo 31. Assicurare la qualità delle prestazioni.

Entro il 1990 tutti gli stati membri dovranno aver istituito efficaci meccanismi di controllo della qualità delle cure fornite ai pazienti nel quadro dei vigenti sistemi di assistenza sanitaria. Per raggiungere questo risultato occorrono metodi e procedure di sorveglianza continua e sistematica delle cure prestate ai pazienti e attività permanenti di controllo e valutazione da parte dei professionisti della sanità, mentre tutto il personale sanitario dovrà essere addestrato a garantire la qualità delle prestazioni.

Obiettivo 38. Buon uso delle tecnologie sanitarie. Entro il 1990 tutti gli stati membri dovranno aver istituito

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un meccanismo ufficiale per la valutazione sistematica del corretto impiego delle tecnologie sanitarie e della loro efficacia, efficienza, sicurezza, accettabilità e per stabilire in quale misura esse siano conformi alle politiche nazionali adottate e compatibili con le difficoltà economiche del Paese. Tutto ciò sarà possibile se i governi adotteranno una chiara politica di valutazione sistematica e totale di tutti i nuovi dispositivi tecnici destinati al settore sanitario, e se tale politica sarà adatta alle caratteristiche di ciascun Paese; sarà inoltre necessaria la creazione di un sistema internazionale di scambio delle informazioni relative a tali tecnologie.

La qualità dell’assistenza, intesa come capacità di migliorare lo stato di salute di una popolazione nei limiti concessi dalle tecnologie, dalle risorse disponibili e dalle caratteristiche dell’utenza, nel frattempo ha messo radici anche in Italia. Si è costituita una società italiana di Verifica e revisore della qualità (Vrq) che pubblica un suo periodico e promuove le diverse tecnologie validate a livello internazionale: l’autovalutazione, l’audit (valutazione retrospettiva delle prestazioni attraverso la revisione della documentazione), la verifica e revisione della qualità o QA (Quality assurance), definita da uno dei maggiori esperti del settore come «il rapporto tra i miglioramenti ottenuti nelle condizioni di salute e i miglioramenti massimi raggiungibili sulla base dello stato attuale delle conoscenze, delle tecnologie disponibili e delle condizioni dei pazienti» (Donabedian, 1989), il Cqi (Continuous quality improvement) che applica al sistema sanitario l’approccio della Total Quality adottato nell’industria (Galgano, 1990).

La Vrq si presenta come un mezzo di concreta valutazione della qualità delle prestazioni per migliorarle nell’interesse dei medici e dei cittadini, lontano da ogni aspetto fiscale, disciplinare o comunque sanzionatorio dell’attività dei medici. Una certa ambiguità è

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tuttavia sopravvenuta in Italia per il fatto la Vrq è stata recepita nella normativa precedente gli accordi di lavoro del 1990 per il personale del comparto del Servizio sanitario nazionale. Il Dpr 384 del 28 novembre 1990 ha istituito Commissioni per la verifica e la revisione della qualità dei servizi e delle prestazioni sanitarie a livello di Regioni e Usl, affidando loro compiti precisi. Le Commissioni regionali hanno lo scopo sia di proporre progetti di Vrq alle singole Usl, sia di validare i progetti provenienti da queste.

Nel 1991, infine, è stato istituito presso il Ministero della Sanità un «Comitato nazionale per la valutazione della qualità tecnico-scientifica e umana dei servizi e degli interventi sanitari», con il compito di coordinare le attività del Vrq previste dal contratto di lavoro. La vicenda di questo Comitato, che si è dissolto senza aver prodotto neppure il classico documento da mettere nel cassetto, è istruttiva circa il percorso a ostacoli che l’approccio della qualità deve percorrere all’interno delle istituzioni sanitarie.

● La medicina e la sfida della qualità.

L’enfasi sulla qualità delle prestazioni sanitarie può anche suonare sospetta. Non sempre, infatti, c’è accordo su che cosa vada messo sotto questa etichetta. Qualcuno ha ricordato polemicamente, a questo proposito, le riflessioni sulla qualità contenute in un libro che è stato caro alla cultura «alternativa»: Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, di Robert M. Pirsing. Un manuale scritto «per valutare e migliorare l’assistenza sanitaria» (Bonaldi et al., 1994, p. 23) ha voluto mettere in esergo, ad ammonimento, la seguente citazione di Pirsing:

La qualità... Sappiamo cos’è, eppure non lo sappiamo. Questo è contraddittorio. Alcune cose sono meglio di altre, hanno cioè più qualità. Ma quando provi a dire in che cosa consiste la qualità

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astraendo dalle cose che la posseggono, paff, le parole ti sfuggono. Ma se nessuno sa cos’è, ai fini pratici non esiste per niente. Invece esiste, eccome. Su cos’altro sono basati i voti, se no? Perché mai la gente pagherebbe una fortuna per certe cose, e ne getterebbe altre nella spazzatura? Ovviamente alcune cose sono meglio di altre... Ma in che cosa consiste il «meglio»?

Oltre all’indeterminatezza del concetto stesso di qualità applicata all’ambito sanitario, criticabile è anche la possibile utilizzazione strumentale che ne viene fatta. La retorica sulla qualità può servire a mascherare restrizioni sul versante della quantità: che si tratti di «razionamento occulto» (Collicelli, 1996) o di veri e propri tagli di servizi alla popolazione. I sospetti che accompagnano lo spostamento di attenzione sulla qualità in medicina sono legati inoltre al contesto di competitività tra i diversi erogatori di servizi  competitività tra pubblico e privato, ma anche tra i diversi erogatori pubblici  introdotta dal nuovo disegno normativo conosciuto come «riforma della riforma».

Soprattutto coloro che alla sanità pubblica hanno dato il meglio delle loro energie intellettuali e organizzative fanno resistenza all’introduzione di modelli che sentono estranei, in quanto tradizionalmente caratterizzanti la sanità privata (accento sul comfort, qualità percepita, soddisfazione degli utenti). Per non dire di quei sanitari che recepiscono la logica del «servizio», nel suo riferirsi a criteri di valutazione non esclusivamente autoreferenziali ad opera dei professionisti, come una frattura rispetto allo spirito proprio dell’erogazione delle cure sanitarie, così come è stato formulato e mantenuto vivo per secoli dalla tradizione ippocratica.

È necessario riportare l’attenzione alla qualità entro un contesto più ampio, che consideri le successive riformulazioni degli obiettivi della medicina. Il modello elaborato dalla medicina che si ispira all'ethos ippocratico

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ha identificato come qualità delle prestazioni quella che si traduce in un beneficio tangibile per il paziente. Che non sia un modello anacronistico risulta in modo convincente dall’esposizione che ne hanno fatto Edmund Pellegrino e David Thomasma, Per il bene del paziente (1988, tr. it. 1992), identificando nel principio della «beneficità» il nucleo permanente e irrinunciabile dell’etica medica. In questa prospettiva i conflitti derivanti dalla scarsità delle risorse erano molto marginali e praticamente riservati a situazioni eccezionali, nelle quali era necessario ricorrere al triage. La preoccupazione di fare la cosa migliore per il paziente attingeva ispirazione a una duplice fonte: la coscienza del sanitario e la scienza.

Quanto alla preoccupazione di commisurare il proprio intervento con le esigenze della scienza, dovremo tracciare una parabola che va dall’ammonizione di William Osler: «Per il proprio paziente non si deve fare tutto ciò che è umanamente possibile, ma solo tutto ciò che è scientificamente corretto», al Quality assessment promosso nella seconda metà del nostro secolo dalla epidemiologia clinica (cfr. Liberati, 1996), fino all’attuale interesse per la Evidence based medicine, che ha ripreso e radicalizzato la richiesta di Archie Cochrane di far entrare nella pratica clinica solo i trattamenti sicuri e efficaci, e dopo averne considerato i costi (Cochrane, 1972).

La congiuntura attuale di contrazione delle risorse economiche non ha modificato questo modello, bensì ha dato più risalto alla questione dell’appropriatezza clinica. Proprio perché non possiamo più permetterci di pagare cose inutili, dobbiamo focalizzare maggiormente i nostri sforzi nel discernere ciò che serve veramente al bene del paziente da ciò che va eliminato, perché inefficace o futile.

La tendenza a escludere dalle prestazioni e servizi offerti ai cittadini quelli che non rispondono all’esigenza

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fondamentale della qualità  l’efficacia dimostrata  sembra andare in senso contrario a quella propria della modernità, che promuove il coinvolgimento dei cittadini nelle scelte cliniche che li riguardano. C’è il timore che, di fronte ad alternative, le loro preferenze andrebbero univocamente verso la medicina più costosa, rendendo in tal modo vano ogni sforzo di contenimento delle spese. Ma è vero che i pazienti sono orientati a chiedere qualsiasi intervento che porti loro un beneficio, anche minimo, o addirittura interventi futili, senza alcuna considerazione dei costi associati?

Certo, non è realistico pensare che un paziente rinunci a un trattamento nel quale ripone qualche speranza, in considerazione del fatto che in questo modo sottrae risorse utili ad altri cittadini. Ma, se l’informazione è corretta, è prevedibile che i pazienti mettano in gioco delle considerazioni di natura utilitaristica nelle quali l’orientamento al proprio bene  in questo caso, la qualità della vita  pone un freno ai trattamenti possibili. Questa almeno è la conclusione a cui giunge uno studio condotto da Wennberg, coinvolgendo direttamente i pazienti nella scelta di trattamenti alternativi per la cura dell’ipertrofia prostatica benigna. La conclusione della ricerca suggerisce che:

I livelli correnti di utilizzazione di tecnologie mediche molto sofisticate sono più alti di quelli voluti dai pazienti, perché quando occorre sottoporsi a un rischio per ridurre i sintomi o per migliorare la qualità della vita, i pazienti tendono a essere più riluttanti di quanto lo siano i medici. Se viene loro offerta una possibilità di scelta, i pazienti optano in genere per strategie meno invasive di quanto facciano i medici. Se così è, la libera espressione di preferenze del paziente dovrebbe comportare un abbassamento della domanda. Ciò sembrerebbe vero anche nelle cure rivolte ai pazienti terminali, in quanto di fronte all’inevitabilità della morte

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i pazienti, in molte situazioni, preferiscono che si faccia di meno piuttosto che di più. Una migliore informazione sugli esiti clinici, un migliore dialogo tra pazienti e medici sulle opzioni possibili può, dunque, far diminuire la domanda di trattamenti più costosi (Wennberg, 1990).

La conclusione suona come una illustrazione convincente della possibilità di tradurre in atto le indicazioni del Piano sanitario nazionale 1994-1996, secondo il quale:

«Il più»  nel senso di interventismo terapeutico, di innovazione tecnologica e di investimento economico  non coincide sempre con «il meglio» (...) Se «il più» non equivale al meglio, analogamente «il meno» non corrisponde necessariamente al peggio: molti pazienti riceveranno benefici se la pressione esercitata dal contenimento dei costi limiterà gli interventi non necessari, ridurrà i danni iatrogeni e punterà più sulla qualità della cura, che equivale spesso a un prezzo minore.

A evitare facili trionfalismi sarà bene ricordare che la qualità, anche quella dimensione della qualità che consiste nella partecipazione del paziente alle scelte che lo riguardano, ha i suoi costi. Perché la condivisione delle scelte sia possibile, si richiede che l’accento si sposti dal consenso  non arduo, in fondo, da ottenere: nelle situazioni cliniche il potere è sempre sbilanciato a favore del medico  all’informazione. E l’informazione per essere trasmessa e recepita ha bisogno di un contesto comunicativo, ma soprattutto di tempo. Affinché il paziente abbia effettivamente quel ruolo centrale che il modello moderno gli attribuisce, è necessario attingere in misura abbondante alla risorsa più scarsa e, quindi, più preziosa: il tempo professionale di chi lavora in sanità.

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II.

LA TRAMA DELLE NORME

1. La legge americana sull'Autodeterminazione del paziente

Le norme che regolano il nuovo rapporto tra medico e paziente sono numerose e di natura diversa: legale, amministrativa, deontologica ed etica. Alcune hanno portata nazionale, altre trascendono i limiti geografici. Iniziamo la presentazione di una serie di normative riportando la Legge sull’Autodeterminazione (Self Determination Act) americana. Essa non vincola medici e pazienti italiani; la priorità che le attribuiamo è legata al suo valore esemplare, in quanto fornisce l’illustrazione estrema degli sviluppi della linea teorica che privilegia l’autonomia del paziente.

La legge, entrata in vigore il 10 dicembre 1991, stabilisce che ogni istituzione sanitaria che riceve pazienti assistiti dai due programmi federali Medicare e Medicaid è tenuta a fornire ai pazienti in modo sistematico, al momento della loro ammissione in ospedale, informazioni riguardo alle leggi statali relative alle advance directives (vale a dire le disposizioni previe che la persona impartisce per il caso in cui non sia più in grado di intendere e di volere) e sollecitare l’autodeterminazione del paziente.

Il senatore Dandforth, proponente della legge e suo accanito difensore durante il travagliato iter parlamentare e l’acceso dibattito che l’ha accompagnata, l’ha giustificata sostenendo: «Per la prima volta ai pazienti

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adulti viene fornita la conoscenza dei loro diritti legali per prendere le decisioni relative ai trattamenti sanitari». La legge per l’autodeterminazione obbliga, infatti, gli ospedali e le case di riposo per anziani a istituire dei meccanismi per rendere edotti i pazienti dei loro diritti legali, che prevedono la facoltà di accettare o rifiutare il trattamento medico; qualora diventassero incapaci di prendere le decisioni per sé, sono state approvate dai diversi stati americani procedure giuridiche volte a individuare in modo chiaro chi è autorizzato a parlare in nome del paziente e a prendere le decisioni al posto suo (come il living will  noto in Europa come «testamento biologico»  e le «direttive anticipate»: advance directives, il durable power of attorney, ecc.).

Sullo sfondo della legge americana che obbliga le istituzioni sanitarie a sollecitare l’autodeterminazione del malato sta la necessità di avere indicazioni chiare circa la volontà del paziente, qualora questi non sia più in grado di esprimerla. Il dato con cui bisogna fare i conti è la statistica fornita dall’American Medical Association: negli Stati Uniti ormai il 70 per cento delle morti sopravviene dopo la decisione di rinunciare a un possibile trattamento medico o di interrompere quello in corso. È facile immaginare i dilemmi e le angosce che questo tipo di decisione suscita nei sanitari e nei familiari; nonché i possibili risvolti legali, in un Paese in cui la litigiosità giudiziaria in campo sanitario raggiunge livelli impensabili nella nostra tradizione.

Periodicamente, l’opinione pubblica americana si appassiona o per un caso in cui i familiari vogliono interrompere un trattamento che prolunga la vita, ritenendo di esprimere o di interpretare la volontà del proprio congiunto (famosi i casi di Karen Ann Quinlan e di Nancy Cruzan), o per un caso di segno opposto: lo scontro tra i medici che vorrebbero interrompere un trattamento ormai «futile» (oltre che inutilmente costoso), mentre i congiunti si oppongono, adducendo la

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volontà del congiunto che non si intraprenda niente che potrebbe abbreviare la vita.

La legislazione americana relativa all’autodeterminazione non è solo una risposta alla diffusione di cause per malpractice o una misura per prevenirle: sullo sfondo è chiaramente avvertibile anche una preoccupazione etica. Soprattutto in America, il movimento della bioetica ha operato uno spostamento d’accento dalla prospettiva centrata sulla professione (autorizzata a valutare il «bene del paziente» e a perseguirlo con ogni mezzo appropriato) a una tutela della volontà del malato, dei suoi valori e delle sue preferenze. Da questo punto di vista, la legge dell’Autodeterminazione può essere considerata uno dei frutti tardivi del movimento per i diritti civili, che tante innovazioni ha portato nella vita civile del Paese nelle due decadi precedenti.

Il consenso informato, nella pratica medica, è l’equivalente della libertà nel movimento dei diritti civili. Esso è costituito da tre importanti elementi: l'informazione (con il problema connesso della capacità del soggetto di comprendere l’informazione medica); la libertà da coercizione o da pressioni nelle scelte, con i due corollari dell’autonomia del paziente e del paternalismo professionale dei medici; la capacità del paziente di prendere una decisione in modo competente.

La scelta americana di imporre il consenso informato per legge (con il rinforzo di un meccanismo di sanzione economica: le istituzioni sanitarie non sono rimborsate se non dimostrano di aver ottemperato alle procedure previste dalla legge dell’Autodeterminazione) ha suscitato molti contrasti. L’aspetto più preoccupante è il fatto che l’attenzione alla volontà e ai valori del paziente, in questo modo, slitta dal piano dell’etica ― o magari della «parenetica», cioè dell’esortazione  a quello della legge. Il consenso informato diventa un documento legalmente vincolante. I fautori della legge hanno voluto vedervi il punto di arrivo di due decenni

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di bioetica, tesa a portare dentro la pratica della medicina i valori dell’autonomia e dell’autodeterminazione, in accordo con l’aspirazione, tipicamente americana, a salvaguardare in ogni caso la libertà individuale.

Ma è sufficiente che un’idea sia buona, perché lo diventi anche la legge che la traduce in pratica? Un consenso legalmente valido può non coincidere con uno moralmente valido. Lo strumento legislativo è troppo grossolano per cogliere tutte quelle sfumature intermedie della capacità di intendere e di volere, e quindi di prendere delle decisioni relative alla vita e alla salute, che si collocano tra i due estremi del paziente riconosciuto ufficialmente incapace e di quello nel più pieno possesso delle sue facoltà. I casi quotidiani più numerosi e perplessi con cui è confrontato il medico sono, invece, quelli che prevedono una capacità di autodeterminarsi dubbia o mutevole.

Il rischio peggiore è che il consenso informato imposto per legge si traduca in un ulteriore atto burocratico. È facile fare dell’ironia a proposito. Conosciamo tutti, per averla ripetutamente vista al cinema, la procedura della polizia americana che consiste nel leggere al cittadino che viene arrestato la lista dei suoi diritti. Nel gergo della polizia, l’arrestato viene «mirandizzato» (dal nome della legge Miranda, che ha introdotto la tutela di questo tipo di diritti). Sappiamo che si tratta di una procedura: è importante eseguirla (altrimenti qualsiasi avvocato può contestare l’arresto, per vizio di forma), non che la persona interessata vi prenda parte in modo consapevole. Si può ipotizzare che, in modo analogo, per la burocrazia ospedaliera possa diventare rilevante solo sapere se il paziente è stato debitamente «danforthizzato» (il senatore del Missouri Danfoth ha legato, come abbiamo menzionato, il suo nome alla legge sulla autodeterminazione), senza curarsi del senso e del modo in cui la procedura viene realizzata... Il rischio che si profila è quello di un ulteriore

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impoverimento del tessuto relazionale che costituisce la dimensione umana della professione medica.

2. Il consenso informato nelle leggi italiane

Niente di analogo in Italia. L’attività medica viene tendenzialmente vista come un’area in cui le normative giuridiche sono inappropriate, in quanto la medicina sa regolare i rapporti tra terapeuti e pazienti in modo autonomo. Il contesto è offerto dal rapporto conflittuale tra medicina e diritto, che è stato tratteggiato in modo eloquente da Francesco D’Agostino, filosofo del diritto e già presidente del Comitato nazionale per la bioetica:

I medici non amano i giuristi. I giuristi sospettano dei medici. Il problema del rapporto tra medicina e diritto, che in sé non è mai stato facile, sembra poi essere divenuto particolarmente difficile oggi, per il suo intrecciarsi con le più complesse questioni bioetiche. Il diritto vede nella medicina un’attività benefica sì, ma pericolosamente suscettibile di rovesciarsi in una minaccia per l’uomo: e cerca di approntare tutte le tecniche a sua disposizione per garantire il paziente contro il medico. La medicina, a sua volta, tende a vedere nel diritto un ossessivo e formalistico sistema di norme generali e astratte, incapaci di adattarsi alle molteplici e imprevedibili esigenze dei casi concreti, e che impongono al terapeuta il rispetto di procedure spesso burocratiche e antiquate, e in definitiva irrilevanti per gli interessi dei pazienti (D’Agostino, 1993, p. 51).

Forse a causa di questa tensione di fondo, in Italia l’ambito della pratica medica si è sviluppato senza specifiche normative giuridiche. La legge regola, attualmente, solo alcune poche pratiche tra quelle che creano perplessità etiche e giuridiche. Si tratta della donazione di

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organi (la legge 458/1967 ha disciplinato il prelievo e il trapianto del rene tra vivente; la legge 644/1975 a proposito di espianto di organi da cadavere ha disposto che, in assenza di una esplicita dichiarazione di donazione in vita, il coniuge non separato o i figli maggiorenni possano dissentire all’espianto; la recente legge 91/1999, che riordina la disciplina dei trapianti, instaura la distinzione tra silenzio “informato”  che equivale a un assenso alla donazione  e un silenzio “non informato”  che esprime un rifiuto della donazione ); del transessualismo (legge 164/1982, che permette la modificazione del sesso fenotipico); della sterilizzazione volontaria (che risulta in pratica legalizzata dall’abolizione, da parte della legge 194/1978, degli articoli del codice che la proibivano); dell’interruzione di gravidanza (regolamentata dalla legge 194/1978). In tutte queste leggi c’è una considerazione più o meno rilevante dell’autodeterminazione del cittadino malato, al quale viene riconosciuto il diritto di influenzare con la propria volontà le scelte che vengono fatte in medicina sulla sua salute e sul suo corpo.

Il concetto di consenso informato entra, invece, esplicitamente nella legislazione italiana solo con la legge 107/1990 sulle trasfusioni di sangue. Per la prima volta nelle norme che disciplinano le trasfusioni di sangue umano e dei suoi componenti per la produzione di plasmaderivati viene previsto il consenso informato:

Art. 3: Per donazione di sangue e di emocomponenti si intende l'offerta gratuita di sangue intero o plasma o piastrine o leucociti previo «consenso informato» e la verifica dell’idoneità fisica del donatore.

Il D.M. del 15 gennaio 1991 specifica che il motivo per cui la trasfusione di sangue necessita del consenso informato del ricevente è che costituisce «una pratica terapeutica non esente da rischio». Lo stesso D.M. specifica ulteriormente che il consenso del candidato donatore «deve essere dato per iscritto, dopo che la

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procedura è stata spiegata in modo comprensibile per il donatore, ponendolo in condizioni di fare domande ed eventualmente rifiutare il consenso» (art. 26).

Successivamente il consenso informato è stato previsto, in un decreto del ministro della Sanità finalizzato a disinnescare l’emergenza sangue, prima della trasfusione o del trattamento con emoderivati. Il decreto (Gazzetta Ufficiale n. 240, 13 ottobre 1995) riporta anche un modello previsto per il consenso informato:

Modello per il consenso informato alla trasfusione allegato al decreto ministeriale

Io sottoscritto/a …………………………………………………………………………………

nato/a a …………………………………………… il ……………………………………………

sono stato informato dal dott ……………………………………………………………

che per le mie condizioni cliniche potrebbe essere necessario ricevere trasfusioni di sangue omologo/emocomponenti*, che tale pratica terapeutica non è completamente esente da rischi (inclusa la trasmissione di virus dell’immunodeficienza, dell’epatite, ecc.). Ho ben compreso quanto mi è stato spiegato dal dott ……………………

sia in ordine alle mie condizioni cliniche, sia ai rischi connessi alla trasfusione come a quelli che potrebbero derivarmi se non mi sottoponessi alla trasfusione. Quindi acconsento/non acconsento* a essere sottoposto presso codesta struttura al trattamento trasfusionale necessario per tutto il decorso della mia malattia.

Data …………………………

Firma …………………………………….

* Cancellare quanto non interessa.

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3. Informazione e consenso all’atto medico (Comitato nazionale per la bioetica, 1992)

Passando dal versante della legge a quello dell’etica, troviamo un importante documento prodotto dal Comitato nazionale per la bioetica: Informazione e consenso all’atto medico (20 giugno 1992). Il Comitato affronta il problema del consenso agli atti medici di diagnosi e evira, portando l’attenzione sulla quantità e qualità dell’informazione necessaria affinché il consenso sia moralmente valido. Il documento vero e proprio è accompagnato da un’ampia relazione, che tocca i più diversi aspetti del tema: i modelli di medicina a cui il binomio informazione/consenso può essere riferito; l’esperienza clinica relativa al consenso informato; la giustificazione dell’atto medico dal punto di vista dei fondamenti giuridici; la posizione dei codici deontologici dei vari Paesi circa l’informazione e il consenso; l’applicazione di queste tematiche all’età pediatrica.

Il solido impianto di documentazione sembra essere una tacita manovra di supporto per far passare una concezione del rapporto medico-paziente molto innovativa rispetto a quella trasmessaci dalla tradizione. Il documento constata che, sotto il profilo sociologico, il nuovo contesto culturale, di cui la bioetica è espressione, richiede non tanto l’aggiunta di qualche nuova procedura, quanto la rimessa in discussione dei presupposti stessi dell’atto medico:

Il consenso informato, che si traduce in una più ampia partecipazione del paziente alle decisioni che lo riguardano, è sempre più richiesto nelle nostre società; si ritiene tramontata la stagione del «paternalismo medico» in cui il sanitario si sentiva, in virtù del mandato da esplicare nell’esercizio della professione, legittimato nell’ignorare le scelte

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e le inclinazioni del paziente, e a trasgredirle quando fossero in contrasto con l’indicazione clinica in senso stretto.

L’informazione che il Comitato vuol promuovere «è finalizzata non a colmare l’inevitabile differenza di conoscenze tecniche tra medico e paziente, ma a porre un soggetto (il paziente) nella condizione di esercitare correttamente i suoi diritti e, quindi, di formarsi una volontà che sia effettivamente tale; in altri termini, porlo in condizione di scegliere. Un’informazione corretta è perciò soprattutto chiara nell’indicare i passaggi decisionali fondamentali in una direzione o in un’altra, e cioè le alternative che si presentano: spetterà al curante presentare le ragioni per le quali viene consigliato un determinato provvedimento piuttosto che un altro».

Dai passaggi citati risulta all’evidenza che la proposta del Comitato non si identifica con la sostituzione dell’impianto paternalistico tradizionale, a vantaggio di un modello di rapporto di tipo contrattuale-autonomistico. Al contrario, il documento mette in guardia dalle interpretazioni burocratiche del principio di autonomia applicato al rapporto tra medico e paziente.

Nella ricerca sistematica, e quasi ossessiva, di un’adesione a ogni atto medico si può giungere a un ricorso indiscriminato a «moduli» in cui raccogliere il «consenso informato scritto»: una modulistica del genere, pure se redatta con diligenza, non copre tutte le imprevedibili situazioni della realtà clinica e rischia di burocratizzare e di distorcere il peculiare carattere della fiducia a cui è improntato il rapporto.

Al Comitato sta a cuore la difesa dell’alleanza terapeutica e l’ideale di piena umanizzazione dei rapporti in sanità, cui aspira la società attuale. L’informazione necessaria per garantire al consenso il suo carattere etico, e non soltanto giuridico, è quella che passa attraverso una comunicazione interpersonale («Non

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basta un’informazione fredda e distaccata, pur se legalisticamente precisa»).

Nonostante la continuità sostanziale di quanto proposto dal documento del Comitato per la bioetica, con le esigenze da sempre associate a una «buona medicina», il modello soggiacente a Informazione e consenso all’atto medico si distacca da quello abitualmente coltivato dai medici. La diversità si rivela in alcuni snodi fondamentali, come quello del rapporto con i familiari. Il documento è esplicito al riguardo: «È indiscutibile che un paziente adulto e in condizioni di intendere e di volere sia l’interlocutore vero (e talvolta l’unico) del medico».

Il rapporto con i familiari o fiduciari è importante per acquisire elementi utili a comprendere la psicologia del paziente e a inquadrare la situazione personale; non può essere, invece, il foro dove si prendono le decisioni «per il bene» del malato, a sua insaputa. Quando il medico viene invitato dai familiari a non fornire informazioni veritiere o complete al malato, non deve accedere al loro desiderio. Secondo il Comitato, il medico è tenuto a fornire al paziente le informazioni che lo riguardano, seppur nelle modalità suggerite dalla prudenza: «Notizie esatte ma prive di drammaticità, caratterizzate dal corredo di elementi che facciano intravedere al paziente qualche speranza nel futuro che sarebbe disumano negare».

In occasione della pubblicazione del documento si è espressa una divergenza di vedute tra il presidente del Comitato, Adriano Bompiani, e il presidente della Federazione nazionale che rappresenta gli Ordini dei medici, Danilo Poggiolini, in merito alla competenza del Comitato nazionale per la bioetica a intervenire sul tema.

Il punto centrale della discussione può essere ricondotto alla domanda: l’etica medica è competenza esclusiva degli Ordini professionali, oppure anche altre

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istituzioni sono legittimate a prendere posizione in merito? Il punto di vista del presidente delle Federazione degli Ordini tendeva a proporre l’autonomia della professione, attraverso la deontologia e la medicina legale, e a normare i comportamenti dei sanitari. L’intervento del Comitato in tema di informazione e consenso è stato recepito come una indebita intrusione.

Attraverso il suo presidente, il Comitato nazionale per la bioetica ha ribadito che i pareri del Comitato hanno un valore solo consultivo, non normativo: il rilievo e l’autorevolezza che tali pareri potranno acquisire presso il potere legislativo e in genere nella società civile dipenderanno essenzialmente dal loro rigore e dalla loro coerenza intrinseca. Tuttavia il Comitato non esclude che i suoi interventi, provenendo da un organismo interdisciplinare, possano toccare ambiti limitrofi a quelli della bioetica: questa eventualità deve essere intesa «come riprova e conferma del carattere ultimativamente unitario dei problemi della medicina contemporanea».

4. Codici di deontologia dei medici italiani (1978, 1989, 1995, 1998)

La reazione dei vertici dell’ordine dei medici al documento del Comitato per la bioetica è più comprensibile se si pone la proposta del Comitato in rapporto con le posizioni proprie dei medici, riflesse nei loro codici deontologici. Questi, attraverso successive modifiche, documentano un progressivo avvicinamento al modello di rapporto proprio della concezione moderna di consenso informato. Lo sviluppo ha comportato, parallelamente, un graduale distacco dal modello tradizionale, che viene designato con l’espressione «paternalismo medico».

L’informazione in tale modello è in funzione della finalità propria dell’atto medico, rivolto al bene del

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malato. Il medico deve gestirla tenendo presente la propria valutazione di ciò che reca beneficio o danno al malato, ed eventualmente il giudizio della famiglia su ciò che sia opportuno o inopportuno far sapere al malato; quest’ultimo, in quanto parte in causa  e quindi troppo direttamente ed emotivamente coinvolto  è per lo più ritenuto incapace di valutare quanta e quale informazione sia benefica per il suo stato.

Quando la prognosi è infausta, o senza speranze di guarigione, l’impostazione paternalistica tende a vedere come dovere del medico l'orientamento a fare di tutto per proteggere il malato, impedendo che gli giunga l’informazione circa la diagnosi, le alternative terapeutiche e le prospettive relative alla quantità e qualità di vita residua. È coerente con questa posizione il coinvolgimento della famiglia, chiedendo ai familiari di condividere le decisioni del medico e di dare il consenso alla linea terapeutica proposta.

Troviamo un chiaro rispecchiamento di tale concezione nella sentenza della Corte d’Appello di Milano che in data 16.10.1964 rovesciava la decisione di primo grado del Tribunale di Milano, secondo la quale doveva ritenersi irrilevante, dal punto di vista giuridico, il consenso prestato dal padre di un maggiorenne non interdetto. Secondo la Corte d’Appello, al comportamento del medico rivolto a nascondere la verità può corrispondere un alto valore morale: «Risponde ai criteri di ragionevolezza che devono caratterizzare la valutazione dei fatti umani, oltre l’astrattezza e il formalismo delle norme, che il chirurgo taccia al malato la gravità del suo male e il rischio che un’operazione comporta, criterio sanzionato da una prassi tramandata a noi da tempi antichissimi, e consacrata nei princìpi deontologici, secondo cui il celare all’ammalato la nuda verità è precipuo dovere, forse il più nobile, del medico cui spetta di vagliare ciò che il paziente debba sapere e quanto debba essergli nascosto».

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Non stupisce perciò trovare nel Codice deontologico medico del 1978  fedele, nella sostanza e nella forma, al primo codice elaborato dai medici italiani nel 1954, il cosiddetto «codice Frugoni» , la seguente formulazione delle regole generali di comportamento a cui il medico deve attenersi nei confronti del paziente:

Art. 30: Una prognosi grave o infausta può essere tenuta nascosta al malato, ma non alla famiglia. In ogni caso, la volontà del paziente, liberamente espressa, deve rappresentare per il medico un elemento al quale egli ispirerà il suo comportamento.

Un articolo successivo (art. 39) prevede il consenso del paziente per atti medici che «comportino un rischio». Tale consenso è richiesto in modo personale e non delegabile.

Nella revisione del codice approvata nel 1989 la posizione dei medici italiani relativamente al problema se comunicare una diagnosi infausta al paziente o alla famiglia rimane sostanzialmente immutata. La nuova formulazione suona così:

Il medico potrà valutare l’opportunità di tenere nascosta al malato e di attenuare una prognosi grave o infausta, la quale dovrà essere comunque comunicata ai congiunti.

La seconda parte dell’articolo, relativa alla volontà del paziente come guida all’operato del medico, viene poi ripresa letteralmente. Oltre a un’attenuazione nella forma («il medico potrà valutare»...), l’unica modifica di rilievo è la sostituzione del riferimento alla «famiglia» con quello di «congiunti». Evidentemente anche in Italia l’immagine tradizionale di famiglia, in cui le relazioni esistenti di fatto rispecchiano sostanzialmente ciò che risulta all’anagrafe, cede il passo a situazioni più mobili e irregolari, vale a dire la «famiglia di fatto». La nuova formulazione permette di equiparare

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alla famiglia del malato anche un convivente, ovvero chiunque di fatto abbia un rapporto significativo con il malato. Oltre a questo allargamento degli interlocutori del medico, l’impianto della deontologia resta immutato: il medico è tenuto a rispettare la volontà del malato, ma si riserva la valutazione delle informazioni che è opportuno dare al malato. Sulla base di questa impostazione si giustifica il rifiuto di accettare, nel 1992, le indicazioni del Comitato nazionale per la bioetica, che abbiamo visto sopra, relative al consenso informato e al ruolo che spetta alla famiglia del malato.

La spinta culturale al cambiamento deve essere notevole, se nel giro di poco più di un lustro l’Ordine dei medici ha sentito la necessità di varare una nuova versione del codice di comportamento dei professionisti (giugno 1995). Hanno fatto notizia soprattutto le prese di posizione restrittive dei medici italiani nei confronti delle procedure di riproduzione medicalmente assistita. Molto più carichi di conseguenze nella pratica quotidiana della medicina sono, invece, gli articoli 29-31 dedicati al consenso agli atti medici.

Il principio secondo cui al paziente devono essere date le informazioni necessarie per essere messo in grado di essere il protagonista delle decisioni che lo riguardano è accettato senza esitazioni. La posizione è tanto più meritevole di attenzione, in quanto i medici italiani, nel 1995, si allineano con quanto auspicato dal documento Informazione e consenso all’atto medico, redatto solo tre anni prima, e respinto dai supremi organismi rappresentativi dell’Ordine.

Gli articoli del nuovo codice, relativi a «Informazione e consenso del paziente», sono così riformulati (Capo IV):

Art. 29: Il medico ha il dovere di dare al paziente, tenendo conto del suo livello di cultura e di emotività e delle sue capacità di discernimento, la più serena e idonea informazione sulla diagnosi, la prognosi, le prospettive terapeutiche e le loro conseguenze, nella consapevolezza dei limiti delle conoscenze mediche, al fine di promuovere la migliore adesione alle proposte diagnostiche-terapeutiche.

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Ogni ulteriore richiesta di informazione da parte del paziente deve essere comunque soddisfatta.

Le informazioni relative al programma diagnostico e terapeutico possono essere circoscritte a quegli elementi che cultura e condizione psicologica del paziente sono in grado di recepire e accettare, evitando superflue precisazioni di dati inerenti gli aspetti scientifici.

Le informazioni riguardanti prognosi gravi o infauste o tali da poter procurare preoccupazioni e sofferenze particolari al paziente, devono essere fornite con circospezione, usando terminologie non traumatizzanti senza escludere mai elementi di speranza.

La volontà del paziente, liberamente e attualmente espressa, deve informare il comportamento del medico, entro i limiti della potestà, della dignità e della libertà professionale.

Spetta ai responsabili delle strutture di ricovero stabilire le modalità organizzative per assicurare la corretta informazione ai pazienti in condizione di degenza, in accordo e collaborazione con il medico curante.

Art. 30: Il medico è tenuto a informare i congiunti del paziente che non sia in grado di comprendere le informazioni relative al suo stato di salute o che esprima il desiderio di rendere i suddetti partecipi delle sue condizioni.

Art. 31: Il medico non può intraprendere alcuna attività diagnostica o terapeutica senza il consenso del paziente validamente informato.

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Il consenso informato deve essere documentato in forma scritta in tutti i casi in cui per la particolarità delle prestazioni diagnostiche o terapeutiche o per le possibili conseguenze sulla integrità fisica, si renda opportuna una manifestazione inequivoca della volontà del paziente.

Il procedimento diagnostico e il trattamento terapeutico che possono comportare grave rischio per l’incolumità del paziente, devono essere intrapresi, comunque, solo in caso di estrema necessità e previa informazione sulle possibili conseguenze, cui deve far seguito una opportuna documentazione del consenso.

In ogni caso, in presenza di esplicito rifiuto del paziente capace di intendere e di volere, il medico deve desistere da qualsiasi atto diagnostico e curativo, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà del paziente, ove non ricorrano le condizioni di cui al successivo articolo 33.

La redazione del codice deontologico lascia trapelare la convivenza delle diverse anime etiche che convivono nei comportamenti pratici dei medici. La novità che consiste nell’accettazione del principio liberale del consenso quale legittimazione unica dell’atto medico è registrata con chiarezza nel nuovo codice. Coerentemente, viene accettato l’orientamento a riconoscere l’individuo come il soggetto cui spetta di diritto l’informazione, non la sua famiglia (l’art. 30 autorizza l’informazione alla famiglia solo quando il paziente non è in grado di intendere e di volere, ovvero ha precedentemente autorizzato a fornire informazioni ai congiunti).

Tuttavia sussistono tracce dell’impostazione paternalistica tradizionale. La più esplicita è quella dell’art. 29, dove sembra che il dovere del medico consista nel dare una informazione per promuovere la migliore

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adesione alle proposte diagnostiche-terapeutiche: l’informazione, in altre parole, è presentata come una tattica per ottenere la compliance del paziente. I modelli etici dell’epoca premoderna e moderna  che presenteremo analiticamente più sotto  appaiono giustapposti, più che fusi in una nuova modalità di comportamento.

L’impostazione del Codice deontologico del 1995 è ripresa e confermata nella versione più recente, dell’ottobre 1998, nel quale tutto il corpo IV del capitolo che tratta i nuovi «Rapporti con il cittadino» è dedicato a «Informazione e consenso».

Art. 30: Informazione al cittadino. Il medico deve fornire al paziente la più idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive e le eventuali alternative diagnostico-terapeutiche e sulle prevedibili conseguenze delle scelte operate; il medico nell’informarlo dovrà tenere conto delle sue capacità di comprensione, al fine di promuoverne la massima adesione alle proposte diagnostico-terapeutiche.

Ogni ulteriore richiesta di informazione da parte del paziente deve essere soddisfatta.

Il medico deve, altresì, soddisfare le richieste di informazione del cittadino in tema di prevenzione. Le informazioni riguardanti prognosi gravi o infauste, o tali da poter procurare preoccupazione e sofferenza alla persona, devono essere fornite con prudenza, usando terminologie non traumatizzanti e senza escludere elementi di speranza. La documentata volontà della persona assistita di non essere informata o di delegare ad altro soggetto l’informazione deve essere rispettata.

Art. 31: Informazione a terzi. L’informazione a terzi è ammessa solo con il consenso esplicitamente espresso dal paziente, fatto salvo quanto previsto

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all’art. 9 allorché sia in grave pericolo la salute o la vita di altri.

In caso di paziente ricoverato il medico deve raccogliere gli eventuali nominativi delle persone preliminarmente indicate dallo stesso a ricevere la comunicazione dei dati sensibili.

Art. 32: Acquisizione del consenso. Il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso informato del paziente.

Il consenso, espresso in forma scritta nei casi in cui per la particolarità delle prestazioni diagnostiche e/o terapeutiche o per le possibili conseguenze delle stesse sulla integrità fisica si renda opportuna una manifestazione inequivoca della volontà della persona, è integrativo e non sostitutivo del processo informativo di cui all’art. 30.

Il procedimento diagnostico e/o il trattamento terapeutico che possano comportare grave rischio per l’incolumità della persona, devono essere intrapresi solo in caso di estrema necessità e previa informazione sulle possibili conseguenze, cui deve far seguito una opportuna documentazione del consenso.

In ogni caso, in presenza di documentato rifiuto di persona capace di intendere e di volere, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona, ove non ricorrano le condizioni di cui al successivo articolo 34.

Art. 33: Consenso del legale rappresentante. Allorché si tratti di minore, interdetto o inabilitato, il consenso agli interventi diagnostici e terapeutici, nonché al trattamento dei dati sensibili, deve essere espresso dal rappresentante legale.

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In caso di opposizione da parte del rappresentante legale al trattamento necessario e indifferibile a favore di minori o di incapaci, il medico è tenuto a informare l’autorità giudiziaria.

Art. 34: Autonomia del cittadino. Il medico deve attenersi, nel rispetto della dignità, della libertà e dell’indipendenza professionale, alla volontà di curarsi, liberamente espressa dalla persona.

Il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà in caso di grave pericolo di vita, non può non tenere conto di quanto precedentemente manifestato dallo stesso.

Il medico ha l’obbligo di dare informazioni al minore e di tenere conto della sua volontà, compatibilmente con l’età e con la capacità di comprensione, fermo restando il rispetto dei diritti del legale rappresentante; analogamente deve comportarsi di fronte a un maggiorenne infermo di mente.

Il codice deontologico dei medici dà ormai per acquisita la nuova cultura che presuppone il superamento del paternalismo medico e il riconoscimento dell’autonomia del paziente. Il cambiamento viene evidenziato dall’abbandono del termine stesso «paziente», in quanto suscettibile di evocare un atteggiamento di passività. Il paziente viene promosso a «cittadino»; l’informazione gli è dovuta non solo per poter essere un buon paziente  e quindi partecipare, mediante una decisione consensuale, alle decisioni che lo riguardano  ma per esercitare un suo diritto civile. L’informazione viene estesa anche all’ambito della prevenzione (tema estremamente attuale, dal momento che la medicina va ampliando la sua capacità «predittiva», con il progredire delle conoscenze sul patrimonio genetico degli individui).

Sempre più chiaro risulta nella più recente revisione del codice deontologico che il titolare dell’informazione

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sanitaria è il soggetto. Ai familiari  anche a quelli animati dalle migliori intenzioni di protezione e tutela del malato  non è riconosciuto il diritto di gestire l’informazione. La menzione dei «dati sensibili», tra i quali sono da annoverare le informazioni relative alla salute, dimostra la penetrazione nella deontologia medica della nuova sensibilità sociale che ha prodotto la legge 675 del 1996 sul trattamento dei dati personali (o sulla privacy). Il codice suggerisce che, in caso di ricovero, venga chiesto preventivamente al paziente quali persone sono autorizzate a ricevere le informazioni che lo riguardano.

Da sottolineare ancora che l’art. 32 si limita a richiedere, in caso di trattamenti che possano comportare dei rischi, che il consenso del paziente sia accompagnato da una «opportuna documentazione». La firma in calce a un apposito modulo può rispondere a questa esigenza, senza tuttavia costituire la via unica ed esclusiva.

Il codice contiene, infine, anche un’apertura verso la pratica del «testamento biologico» o (living will). Questo consiste in un’indicazione della volontà del paziente in vista delle decisioni cliniche da prendere quando questi non è in grado di esercitare tale diritto (perché è in coma, per esempio). La redazione del 1995 prevedeva, all’art. 29, che «la volontà del paziente, liberamente e attualmente espressa, deve informare il comportamento medico». La condizione che la volontà del paziente debba essere «attuale» poteva indurre a rifiutare, come irrilevanti, espressioni della volontà precedente allo stato di incapacità in cui il paziente può venirsi a trovare per un aggravamento della sua situazione clinica. Il nuovo codice, senza entrare nei dettagli della delicata disciplina che dovrà accompagnare la pratica, riconosce tuttavia la legittimità di considerare la volontà espressa in precedenza dal paziente. Si tratta di tener conto che il paziente rimane

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persona, anche in assenza della capacità attuale di esercitare le funzioni intellettive e di esprimere la propria volontà.

5. La regolamentazione della ricerca bio-medica

L’ambito della medicina in cui la «globalizzazione» fa sentire più prepotentemente i suoi effetti è quello della sperimentazione di nuovi farmaci. I tre grandi poli mondiali della ricerca  Stati Uniti, Europa e Giappone  sono necessitati a tener conto gli uni degli altri, in quanto il mondo della sperimentazione è di fatto unitario. Ciò vale anche per le regole etiche che devono guidare la ricerca. I grandi trial clinici, condotti per lo più coinvolgendo diversi centri di nazioni diverse, con la sponsorizzazione di potenti multinazionali del farmaco, hanno costituito un forte incentivo ad adottare comportamenti comuni. Per quanto riguarda l’Europa, tali norme molto dettagliate sono note come Good Clinical Practice e sono vincolanti per tutti i Paesi aderenti all’Unione Europea.

Fin dal 1985, la Comunità Economica Europea ha elaborato un documento destinato a essere il naturale punto di riferimento per il mercato unico europeo dei farmaci. Il documento  Norme di buona pratica clinica nei trials su prodotti farmaceutici condotti nella Comunità Europea, in sigla Good Clinical Practice  dopo diverse revisioni, è stato pubblicato nella sua forma definitiva l’11 luglio 1990. Il documento della CEE recepisce gli elementi fondamentali della strategia di protezione dei soggetti umani coinvolti nella sperimentazione, ossia il consenso informato e la revisione dei protocolli sperimentali a opera dei comitati di etica. Inoltre, fornisce una dettagliata concretizzazione dei principi sul piano operativo.

L’Italia ha recepito il documento della CEE con

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un decreto del Ministero della Sanità (27 aprile 1992): Disposizioni sulle documentazioni tecniche da presentare a corredo delle domande di autorizzazione all’ammissione in commercio di specialità medicinali per uso umano, in attuazione della direttiva n. 91/507/CEE.

Il decreto ministeriale fornisce anzitutto alcune definizioni, che dovrebbero entrare nel lessico non solo dei ricercatori, ma anche dei cittadini, per poter essere coinvolti consapevolmente nelle sperimentazioni.

Come Norme di buona pratica clinica si intende lo standard in base al quale gli studi clinici sono programmati, eseguiti e relazionati, in modo che vi sia pubblica garanzia di attendibilità dei dati e di protezione dei diritti, dell'integrità e della confidenzialità dei soggetti.

Per consenso informato si intende l’assenso volontario di un soggetto a partecipare a uno studio e la relativa documentazione. Tale assenso dovrebbe essere richiesto solo dopo aver fornito le informazioni sullo studio che includano i suoi obiettivi, i potenziali benefici, rischi e inconvenienti, nonché i diritti e le responsabilità del soggetto.

Il lessico premesso alle linee-guida ci porta anche a fare la conoscenza di una struttura di recente istituzione nell’ambito bio-medico: il comitato etico. Questo è definito come una struttura indipendente, costituita da medici e non, il cui compito è di verificare che vengano salvaguardati la sicurezza, l’integrità e i diritti umani dei soggetti partecipanti a uno studio, fornendo in questo modo una pubblica garanzia. I comitati etici debbono essere istituiti e operare in modo tale che l’idoneità degli sperimentatori, delle strutture e di protocolli, i criteri di selezione dei gruppi di soggetti per tali studi e l’idoneità delle salvaguardie di riservatezza possano essere obiettivamente e imparzialmente esaminati, indipendentemente dallo sperimentatore, dallo sponsor e dalle autorità coinvolte.

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Dal documento ministeriale con cui sono recepite le norme di buona pratica clinica (G.C.P.) europee appare evidente che queste sono finalizzate soprattutto a fornire salvaguardia ai soggetti che partecipano alle ricerche:

L’integrità personale e il benessere dei soggetti coinvolti in uno studio è responsabilità primaria dello sperimentatore in rapporto allo studio; ma una garanzia indipendente che i soggetti sono tutelati è fornita da un comitato etico e dal consenso informato liberamente ottenuto.

Nessun soggetto può essere obbligato a partecipare a uno studio. Ai soggetti e ai loro parenti o, se necessario, rappresentanti legali deve essere data ampia opportunità di informarsi sui dettagli dello studio. L’informazione deve chiarire che il rifiuto di partecipare allo studio o l’abbandono di esso in qualsiasi momento non andrà a scapito delle successive cure del soggetto. Ai soggetti dovrà essere dato tempo sufficiente per decidere se vogliono o meno partecipare allo studio.

Se un soggetto acconsente a partecipare dopo una completa ed esauriente esposizione dello studio (che includa i suoi scopi, i benefici attesi per i soggetti o altre persone, i trattamenti di confronto/placebo, rischi e inconvenienti e, quando appropriato, una illustrazione della terapia medica alternativa standard riconosciuta), il consenso deve essere registrato in modo appropriato.

Il consenso deve essere documentato o dalla firma datata del soggetto o dalla firma di un testimone indipendente che attesta l’assenso del soggetto.

Il consenso deve sempre essere firmato dal soggetto nel caso di studio non terapeutico, cioè quando non è beneficio clinico diretto per il soggetto.

Le linee-guida dell’Unione Europea riguardanti la Good Clinical Practice sono state aggiornate negli anni

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Novanta; anche la versione più recente è stata recepita dall’Italia, mediante decreto del ministero della Sanità n. 191 del 18 agosto 1997.

L’innovazione di maggior impatto nel controllo etico della sperimentazione è il decentramento dei comitati etici, deliberato con decreto ministeriale del 18 marzo 1998: Linee guida di riferimento per l’istituzione e il funzionamento dei comitati etici. Questi organismi, indipendenti per natura, vengono istituiti in ciascuna azienda sanitaria locale e in ciascuna azienda ospedaliera. La loro composizione deve garantire che all’interno del comitato ci siano globalmente le competenze necessarie per valutare gli aspetti sia etici, sia scientifico-metodologici delle ricerche proposte. È prevista, a questo fine, la presenza di componenti estranei alla professionalità medica e alle professionalità tecniche (compresi anche rappresentanti del volontariato e dell’associazionismo di tutela dei pazienti).

Ai comitati etici passano compiti che prima erano gestiti centralmente dal ministero della Sanità, come il cosiddetto «giudizio di notorietà» relativo a farmaci di non nuova istituzione, per i quali si certifica che si conosce sia la composizione, sia la non nocività. L’orientamento è, quindi, verso un minore impegno autorizzativo centrale, a favore di una maggiore responsabilizzazione delle strutture di controllo locali. Il mandato principale del comitato etico è di valutare gli aspetti etici delle ricerche sottoposte alla sua attenzione:

I soggetti coinvolti a qualunque titolo nella sperimentazione non possono essere sottoposti a indagini o terapie non necessarie per la loro patologia, se tali indagini o terapie arrecano danno, o sofferenza, o espongono a rischi. Essi non possono essere inclusi in una sperimentazione se non avranno dato preliminarmente un consenso informato, ritenuto idoneo dal comitato etico per contenuti informativi e per modalità di richiesta.

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Riusciranno i nuovi comitati a sfuggire al pericolo di diventare commissioni di controllo burocratico? La promessa insita nella loro creazione è quella di stabilire un’effettiva comunicazione tra mondo della ricerca e società, integrando gli aspetti scientifici con quelli etici. Perché ciò avvenga, sarà necessario investire molte risorse nella formazione dei membri dei comitati.

6. La protezione dei dati personali (privacy)

● La via italiana alla privacy.

L’8 maggio 1997 è entrata in vigore la legge 675 del 31 dicembre 1996 relativa alla protezione dei dati personali, nota come legge sulla privacy. La legge  il cui titolo proprio è «Tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali»  disciplina la tutela dei diritti della personalità e protegge il diritto alla riservatezza e all’identità personale. Quest’ultimo diritto  formulato nella tradizione giuridica inglese come the right to be let alone  equivale al diritto di non subire interferenze nella propria vita privata. Il pilastro portante della legge è il divieto di far circolare dati personali senza il consenso degli interessati. Riguarda imprese, aziende, enti di varia natura, tutti gli uffici della pubblica amministrazione, oltre a banche, assicurazioni, ospedali, cliniche private, giornali, associazioni culturali, partiti politici e sindacati.

La recezione della legge ha portato allo scoperto l’impreparazione della cultura diffusa rispetto al cambiamento che la nuova normativa presuppone. L’opinione pubblica si è dimostrata prevalentemente irritata per l’inondazione di moduli da parte di enti e organizzazioni di ogni genere  banche, assicurazioni, professionisti  con richieste di consenso, per lo più astruse, sul trattamento dei dati personali in loro possesso. L’interpretazione più diffusa propendeva per

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qualificarla come un'escalation burocratica, irrilevante per gli interessi del cittadino.

Se consideriamo la realtà italiana, dobbiamo riconoscere che la legge 675 cade in un terreno poco recettivo. «Gli italiani scoprono la privacy, ma pochi sanno bene che cosa sia», titolava senza perifrasi un articolo di Furio Colombo. A suo avviso, nel mondo che discende dal diritto romano il concetto di privacy non esiste e manca persino la parola (Colombo, 1998). La privacy è un bene dell’individuo, ed è un bene valorizzato dove l’individuo è forte e centrale e lo Stato è descritto, per prima cosa, a partire dai limiti che deve avere.

Altre tradizioni culturali e sociali hanno da tempo introdotto norme che tutelano il cittadino come individuo. In una delle prime sentenze emesse sulla tutela della privatezza da una corte inglese, verso la fine degli anni Cinquanta, fu sancito il principio che nessuno aveva il diritto di «violare la cittadella della privacy» di un altro. Secondo la descrizione immaginifica fornita dalla corte, «quando una persona alza il ponte levatoio a difesa della sua vita privata, nessuno può in alcun modo abbassarlo contro la sua volontà».

Nella realtà italiana, il culto della privatezza non si sovrappone alla cultura della privacy cresciuta in tradizioni caratterizzate in senso democratico e liberale, bensì con l’atteggiamento, di basso profilo, di «farsi i fatti propri». Da una parte sussiste l’ambito familiare, nel quale l’individuo si sente protetto e tutelato (il «grembo della famiglia» è anche il terreno di coltura delle piccole e grandi forme di omertà); dall’altro c’è il terreno pubblico, come luogo in cui la persona è indifesa. Fino al]'entrata in vigore della legge, chiunque poteva raccogliere, trattare e anche cedere ad altri informazioni su qualunque persona, senza informare nessuno, neppure i diretti interessati.

In una società di massa e informatizzata, dove accumulare notizie su una persona è facilissimo, la vita

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privata rischia di diventare terreno di conquista di chiunque abbia interesse ad acquisire dei dati. La legge 675/96 intende riparare alla disattenzione verso il diritto dei cittadini di non subire interferenze nella vita privata. Lo fa introducendo i principi del consenso e del controllo: chi vuol elaborare dati che riguardano una persona, deve prima chiederle il permesso. Ognuno, inoltre, ha diritto di sapere quali informazioni sul proprio conto sono contenute in un certo archivio; e di chiederne la correzione o il completamento.

● Il contesto europeo.

Il fatto stesso che per designare la realtà da proteggere si sia costretti a far ricorso a una parola tratta dal lessico inglese  privacy  lascia indovinare quanto pratiche di questo genere siano estranee alla tradizione culturale italiana. Tuttavia, la tutela della vita privata e dell’informazione è perfettamente in linea con la sensibilità ai nuovi valori sui quali si sta costruendo la casa comune europea.

Due documenti forniscono gli orientamenti che dal Consiglio d’Europa sono proposti agli stati membri, affinché questi adeguino ad essi le proprie legislazioni. Il primo è la «Convenzione europea per la protezione dei diritti dell’uomo e la biomedicina», approvata dal Consiglio d’Europa il 19 novembre 1996 e successivamente sottoposta alla firma degli stati membri (torneremo più diffusamente su questo documento per illustrare le sue ricadute nel rapporto tra medico e paziente, per quanto riguarda l’informazione e il consenso).

Il Capitolo III della Convenzione tutela la vita privata e il diritto all ’informazione.

Art. 10:

● Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata allorché si tratta di informazioni relative alla propria salute.

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● Ogni persona ha il diritto di conoscere ogni informazione raccolta sulla propria salute. Tuttavia, la volontà di una persona di non essere informata deve essere rispettata.

● A titolo eccezionale, la legge può prevedere, nell’interesse del paziente, delle restrizioni all’esercizio dei diritti menzionati al paragrafo 2.

Il diritto al rispetto della propria vita privata, per le informazioni relative alla salute, formulato dal primo paragrafo, riafferma il principio contenuto nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo (art. 8) e ripreso nella Convenzione per la protezione delle persone circa il trattamento automatizzato dei dati a carattere personale. Tuttavia alcune restrizioni del rispetto dovuto alla vita privata sono possibili: per esempio, l’autorità giudiziaria potrà ordinare la realizzazione di un test con lo scopo di identificare l’autore di un crimine (eccezione fondata sulla prevenzione delle infrazioni penali) o la ricerca di un legame di filiazione (eccezione fondata sulla protezione dei diritti di altri).

Il secondo paragrafo definisce il diritto di ogni persona di conoscere, se lo desidera, ogni informazione raccolta sulla sua salute: che si tratti di diagnosi, di prognosi o di qualsiasi altro elemento riguardante la salute. È un diritto armonizzabile con l’esercizio del «consenso informato», descritto nell’art. 5 della stessa Convenzione. Parallelamente al diritto di sapere, è formulato il «diritto di non sapere». Per ragioni personali, un paziente può desiderare di non conoscere alcuni elementi relativi alla propria salute. Tale volontà deve essere rispettata. L’esercizio da parte del paziente del suo diritto a non conoscere l’una o l’altra informazione sulla sua salute non è considerata come un ostacolo alla validità del suo consenso a tale intervento; così, ad esempio, potrà validamente consentire all’asportazione di una cisti, anche se ha espresso il desiderio di non conoscerne la natura.

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Sia il diritto di sapere che quello di non sapere possono, in circostanze determinate, subire alcune restrizioni, sia nell’interesse del paziente stesso, sia per proteggere i diritti di un terzo o della collettività. Il terzo paragrafo stabilisce che, a titolo eccezionale, la legge nazionale può prevedere delle restrizioni al diritto di sapere o non sapere nell’interesse della salute del paziente (per esempio una prognosi fatale, la cui comunicazione immediata al paziente potrebbe, in certi casi, nuocere gravemente al suo stato). Si può stabilire un conflitto tra l’obbligo del medico di informare  previsto dall’art. 4 della Convenzione  e gli interessi di salute del paziente. Appartiene al diritto interno delle nazioni membro della Comunità Europea risolvere questo conflitto, tenendo conto del contesto sociale e culturale nel quale si iscrive. La legge può così giustificare che il medico taccia talvolta una parte dell’informazione, o che in ogni caso la trasmetta con precauzione («necessità terapeutica»).

La conoscenza di informazioni raccolte sulla salute di una persona, che ha espresso la volontà di non conoscerle, può rivelarsi di importanza capitale per essa. Per esempio, la conoscenza dell’esistenza della predisposizione a una malattia potrebbe essere il solo mezzo che permette all’interessato di prendere delle misure (preventive) potenzialmente efficaci. In questo caso il dovere del medico di curare  il riferimento è ancora all’art. 4 della Convenzione  potrebbe entrare in contraddizione con il diritto del paziente di non sapere. Può ugualmente essere opportuno informare una persona del suo stato quando sussiste un pericolo non solo per lei, ma anche per terze persone. Anche in questo caso apparterrà al diritto nazionale indicare se il medico può, nelle circostanze specifiche, fare un’eccezione al diritto di non sapere.

Parallelamente, alcune informazioni raccolte sulla salute di una persona che ha espresso la volontà di non

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conoscerle possono rappresentare uno straordinario interesse per terze persone (per esempio, nel caso di un’infezione o di una condizione trasmissibile ad altri). Quando il diritto dell’interessato a non sapere si oppone all’interesse di un’altra persona a essere informata, i loro interessi devono trovare una composizione nella legislazione interna delle nazioni europee.

Il secondo documento d’importanza europea è la «Raccomandazione n. 5», del Comitato dei Ministri agli stati membri, adottata il 13 febbraio 1997, relativa alla protezione dei dati sanitari. La raccomandazione nasce dalla consapevolezza che la crescente diffusione di sistemi informativi per il trattamento automatizzato dei dati sanitari costituisce un pericolo, in quanto se ne potrebbe fare un uso non rispettoso dei diritti e delle libertà fondamentali dell’individuo, in particolare del diritto alla vita privata (privacy).

La raccomandazione si riferisce a «dati di carattere personale» (quelle informazioni che riguardano una persona fisica identificata o identificabile; quando una persona non è identificabile, i dati sono anonimi), «dati sanitari» (dati di carattere personale relativi alla salute di una persona) e «dati genetici» (quelli che riguardano i caratteri ereditari di un individuo o che sono in rapporto con quei caratteri che formano il patrimonio di un gruppo di individui affini).

Tra le numerose e dettagliate indicazioni, per le quali i governi degli stati membri devono preoccuparsi che il loro diritto e le loro normative nazionali siano conformi, segnaliamo le seguenti:

● Rispetto della vita privata.

Il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, in particolare il diritto alla vita privata, deve essere garantito sia nella raccolta che nel trattamento dei dati sanitari.

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I dati sanitari non possono essere raccolti e trattati se non conformemente ad appropriate garanzie, che debbono essere previste dal diritto interno. Di regola, la raccolta e il trattamento di dati sanitari non debbono essere effettuati se non da professionisti della sanità o da persone o organismi che operano per conto di operatori sanitari.

● Raccolta e trattamento di dati sanitari.

La raccolta e il trattamento di dati sanitari devono essere effettuati con mezzi leciti e leali, e soltanto per finalità determinate.

Di regola, i dati sanitari debbono essere raccolti direttamente presso la persona interessata. Essi non possono essere raccolti da altre fonti, se non a condizione che questo sia necessario per realizzare la finalità del trattamento o che la persona interessata non sia in condizione di fornire i dati.

I dati sanitari relativi al nascituro devono essere trattati come dati a carattere personale e godere di una protezione comparabile a quella dei dati sanitari di un minorenne.

● Dati genetici.

I dati genetici raccolti e trattati a fini di prevenzione, di diagnostica o a fini terapeutici nei riguardi della persona interessata o per ricerca scientifica non dovranno essere utilizzati se non per quel fine o per consentire alla persona interessata di prendere una decisione libera e chiara a quel proposito.

Il trattamento di dati genetici per le necessità di un procedimento giudiziario o di un procedimento penale dovrà essere oggetto di una legge specifica che offra garanzie appropriate. I dati dovranno servire esclusivamente a verificare l’esistenza di un collegamento genetico ai fini della raccolta delle prove, della prevenzione di un concreto pericolo o della repressione

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di una specifica infrazione penale. In nessun caso dovranno essere usati per individuare altre informazioni che possano essere collegate geneticamente.

Anche il più recente Codice di deontologia medica (1998) dimostra di aver recepito l’orientamento europeo verso una maggiore tutela della vita privata, anche nella pratica medica. Si muove in questa direzione la regolamentazione delle informazioni rivolta a terze persone, formulata nell’art. 31:

L’informazione a terzi è ammessa solo con il consenso esplicitamente espresso dal paziente, fatto salvo quanto previsto all’art. 9 allorché sia in grave pericolo la salute o la vita di altri.

In caso di paziente ricoverato, il medico deve raccogliere gli eventuali nominativi delle persone preliminarmente indicate dallo stesso a ricevere la comunicazione dei dati sensibili.

I familiari non sono, quindi, legittimati a interporsi  anche con le migliori intenzioni  tra il paziente e i sanitari, per filtrare le informazioni: è il paziente il titolare delle informazioni che riguardano la sua salute.

Anche le regole tradizionali riguardanti il segreto professionale sono state riscritte con attenzione alla salvaguardia della privacy. L’art. 9  a cui rimanda l’art. 31, che norma l’informazione a terzi  include tra le cause che costituiscono «giusta causa di rivelazione» anche «l’urgenza di salvaguardare la vita o la salute di terzi, anche nel caso di diniego dell’interessato»; tuttavia in questo caso è necessaria l’autorizzazione previa del Garante per la protezione dei dati personali.

● Dati sensibili e dati inerenti alla salute.

Secondo la legge italiana sulla privacy, è necessario distinguere tre tipi di informazioni, per le quali è prevista una diversa tutela:

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1. informazioni per cui è libera la raccolta (per es., notizie usate a fini di ricerca);

2. informazioni per le quali occorre il permesso dell’interessato (per es., dati raccolti nello svolgimento di promozioni commerciali) ;

3. informazioni sensibili (religione, opinioni politiche, salute, vita sessuale...), per le quali è necessaria anche l’autorizzazione del Garante.

Il punto nodale della tutela che la legislazione italiana vuol concedere a chi accede ai servizi sanitari è costituito dagli articoli 22 (Dati sensibili) e 23 (Dati inerenti alla salute).

Art. 22 (Dati sensibili)

1. I dati personali idonei a rivelare l’origine razziale e etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati, associazioni e organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale possono essere oggetto di trattamento solo con il consenso scritto dell’interessato e previa autorizzazione del Garante.

2. Il Garante comunica la decisione adottata sulla richiesta di autorizzazione entro 30 giorni, decorsi i quali la mancata pronuncia equivale a rigetto. Con il provvedimento di autorizzazione, ovvero successivamente, anche sulla base di eventuali verifiche, il Garante può prescrivere misure e accorgimenti a garanzia dell’interessato, che il titolare del trattamento è tenuto ad adottare.

3. Il trattamento dei dati indicati al comma 1 da parte di soggetti pubblici, esclusi gli enti pubblici economici, è consentito solo se autorizzato da espressa disposizione di legge nella quale siano specificati i dati che possono essere trattati, le operazioni eseguibili e le rilevanti finalità di interesse pubblico perseguite.

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Art. 23 (Dati inerenti la salute)

1. Gli esercenti le professioni sanitarie e gli organismi sanitari possono, anche senza l’autorizzazione del Garante, trattare i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute, limitatamente ai dati e alle operazioni indispensabili per il perseguimento di finalità di tutela dell’incolumità fisica e della salute dell’interessato. Se le medesime finalità riguardano un terzo o la collettività, in mancanza del consenso dell’interessato, il trattamento può avvenire previa l’autorizzazione del Garante.

2. I dati personali idonei a rivelare lo stato di salute possono essere resi noti all’interessato solo per il tramite di un medico designato dall’interessato o dal titolare.

3. L’autorizzazione di cui al comma 1 è rilasciata, salvi i casi di particolare urgenza, sentito il Consiglio superiore di Sanità. È vietata la comunicazione dei dati ottenuti oltre i limiti fissati con l’autorizzazione.

4. La diffusione dei dati idonei a rivelare lo stato di salute è vietata, salvo nel caso in cui sia necessaria per finalità di prevenzione, accertamento o repressione dei reati, con l’osservanza delle norme che regolano la materia.

L’opinione di numerosi commentatori, per i quali la legge è stata formulata in modo troppo rigoroso e senza considerare la sua effettiva praticabilità, ha trovato riscontro nelle difficoltà che il trattamento dei dati, in modo rispettoso della privacy, ha posto in numerose situazioni. Una quantità di quesiti sono stati posti al Garante (un organo collegiale, che opera in piena autonomia e con indipendenza di giudizio e di valutazione). I quesiti riguardavano situazioni specifiche; per esempio: la banca è autorizzata a verificare se su un determinato conto corrente esistono fondi sufficienti per coprire l’assegno emesso?

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I comunicati del Garante, emessi con una certa frequenza, offrono un vasto campionario di tali quesiti. Nel comunicato del 23.2.1998, il Garante si è dichiarato allarmato dal «persistere di leggende metropolitane e da una certa disinformazione che rischia di disorientare i cittadini». Quali esempi di tali macroscopici fraintendimenti della legge vengono citati:

― «è del tutto falso che la legge preveda sanzioni penali per chi smarrisca un’agendina;

― è del tutto falso che i familiari di un ricoverato in ospedale non possano essere informati del ricovero».

Riguardo a quest’ultimo punto, anche il comunicato del 2.6.1998 precisa:

In alcune strutture sanitarie si sta dando un’attuazione del tutto errata sulla tutela della riservatezza: qualche dirigente ospedaliero, infatti, dà direttive alle strutture a contatto con i visitatori di negare ogni informazione sulla presenza dei degenti nei reparti ospedalieri. Ciò contrasta con la natura del servizio pubblico sanitario, che di norma prevede, entro determinati orari e con precise modalità, la possibilità di parenti, conoscenti e organismi del volontariato di accedere ai reparti per far visita e anche aiutare i degenti. Tutto ciò è anche disciplinato puntualmente nella «Carta dei servizi pubblici sanitari», che prevede solo come eccezione che un degente possa chiedere che la sua presenza non venga resa nota.

La gestione dei dati relativi alla salute ha fatto sorgere anche altri dubbi e perplessità. Forse il caso che ha destato più sensazione è stata l’interpretazione della legge data dall’Ordine dei medici di Pescara, secondo la quale il rispetto della privacy richiederebbe che nelle certificazione sanitarie destinate alle Aziende sanitarie locali sia omessa la diagnosi...

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Dagli Ordini provinciali sono affluiti alla Federazione nazionale degli Ordini dei medici e dagli odontoiatri vari quesiti relativi a un’applicazione letterale di ciò che il dettato della legge sembrava imporre. La Fnomceo ha presentato una serie di quesiti all’Ufficio del Garante per la protezione dei dati personali. In data 30 giugno 1997 il Garante ha dato ufficialmente riscontro ai quesiti relativamente alle modalità applicative della legge 675 ai medici di medicina generale e alla pubblicità degli albi professionali dei medici e degli odontoiatri.

Un quesito specifico riguardava la possibilità che il medico di medicina generale consenta al sostituto l’utilizzo del proprio schedario di pazienti. «Nulla osta  è la risposta del Garante  che in vista delle sostituzioni operate formalmente, specie nei periodi feriali, il paziente esprima un consenso specifico autorizzando al trattamento dei dati che lo riguardano sia il medico di fiducia, sia all’occorrenza i sostituti». Poiché i dati personali comprendono informazioni idonee a rivelare lo stato di salute, il consenso deve essere manifestato necessariamente per iscritto. Il consenso è necessario sia per i dati raccolti successivamente alla data di entrata in vigore della legge 675, sia per le informazioni acquisite anteriormente a tale data, nel caso in cui siano comunicate o diffuse. Per facilitare la raccolta del consenso, la Fnomceo ha proposto sia un modulo di consenso, sia un modello di comunicazione per gli assistiti, da affiggere nella sala d’aspetto dello studio medico.

«In caso di studio associato, come gestire il patrimonio comune di informazioni da parte di tutti i componenti dello studio medesimo?»: era un altro dei quesiti posti al Garante. L’Autorità di tutela nella sua risposta osserva che i professionisti che si associano per l’esercizio della professione medica possono regolare diversamente i propri rapporti per quello che concerne il trattamento di dati personali, realizzando, a seconda dei casi:

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a) una gestione individuale e separata dei dati in possesso di ciascun professionista, il quale assumerà singolarmente la qualità di «titolare» del trattamento;

b) una contitolarità da parte di tutti o di alcuni dei professionisti, i quali condividono a titolo personale le prerogative e le responsabilità del titolare del trattamento dei dati;

c) un’unica attività di elaborazione dei dati personali effettuata nell’ambito di un’associazione o di un organismo che assumerà per se stesso la qualità di titolare del trattamento.

«È evidente», osserva il Garante, «che la scelta fra l’una e l’altra delle soluzioni, oltre a dover corrispondere ai rapporti realmente instaurati, comporta diverse conseguenze per ciò che riguarda i ruoli e le sfere di responsabilità, i rapporti con gli assistiti, le dichiarazioni di consenso e le stesse deroghe che la legge riconosce in favore delle persone fisiche esercenti le professioni sanitarie, anziché delle associazioni o degli organismi da esse create: cfr. art. 23, comma 1».

«Come tutelare le certificazioni, le cartelle cliniche e i referti rilasciati dai laboratori di analisi o da altri organismi sanitari

Secondo il Garante, le certificazioni e le cartelle cliniche possono essere anche ritirate da persone diverse dal diretto interessato, purché sulla base di una delega scritta e mediante la consegna dei documenti in busta chiusa.

La legge 675, nel prevedere che i dati personali siano resi noti all’interessato solo per il tramite di un medico, permette di svolgere questa funzione di intermediazione in vario modo:

a) attraverso la consegna di dati al medico di fiducia, il quale a sua volta li renderà noti all’interessato;

b) attraverso una spiegazione orale da parte di un medico designato dal laboratorio di analisi o dall’organismo

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sanitario titolare del trattamento dei relativi dati personali;

c) un giudizio scritto del medico designato dal laboratorio di analisi o dall’organismo sanitario titolare del trattamento dei relativi dati personali.

Per quanto riguarda i quesiti relativi alla pubblicità degli albi professionali dei medici chirurghi, il Garante ha precisato che, anche dopo l’entrata in vigore della legge 675, per i registri, gli elenchi, gli atti o i documenti da considerare pienamente pubblici, in quanto sono conoscibili da chiunque per espressa disposizione di una legge o di un regolamento, e per quelli la cui conoscibilità sia circoscritta, devono essere osservate le regole che subordinano la pubblicità degli atti a quanto stabilito dalle suddette disposizioni normative. Pertanto la legge 675 non frappone ostacoli alla consegna di dati contenuti negli albi dei medici alle aziende sanitarie locali, ad altri enti pubblici o ad altri Ordini provinciali. Gli Ordini e la Fnomceo possono comunicare e diffondere a privati e a enti pubblici economici i dati personali contenuti negli albi. Quanto alle richieste da parte dei privati di professionisti specializzati, spetta a ciascun Ordine e alla Federazione il compito di valutarne la praticabilità.

● Ulteriori dubbi e quesiti.

Non tutte le questioni sollevate dall’applicazione della legge sulla privacy  in particolare dall’articolo 23 che disciplina il trattamento dei dati inerenti alla salute per gli esercenti le professioni sanitarie  sono state sciolte dall’intervento del Garante. Soprattutto i medici di medicina generale si trovano confrontati con numerosi dilemmi, che sono stati ben individuati dal presidente nazionale della Federazione italiana dei medici di medicina generale (Fimmg) in una richiesta ufficiale di chiarificazione. In attesa che i quesiti siano autorevolmente risolti, merita conto prenderne atto. Li elenchiamo così come sono stati formulati dalla Fimmg:

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Consenso dell'interessato

Il punto nodale riguarda l’applicazione del comma 1, periodo 1° dell’art. 23, cioè la necessità o meno che il paziente rilasci il consenso, in forma specifica e documentato per iscritto, al medico prescelto al quale si rivolge per conoscere la natura dei propri problemi di salute e ottenere le prescrizioni terapeutiche utili per ottenerne la remissione.

Il primo atto che il medico compie è quello di raccogliere l’anamnesi e di compilare una scheda sanitaria del paziente. Tale adempimento è specificamente prescritto per il medico di medicina generale (medici di famiglia) dall’accordo collettivo nazionale (DPR 22.7.1996 n. 484), che regolamenta l’incarico loro conferito dal Servizio sanitario nazionale.

Gli assistiti del Ssn (Servizio sanitario nazionale) hanno il diritto di scegliere liberamente il proprio medico curante, sulla base di una fiducia personale, ed esercitano tale diritto per iscritto presso la propria Azienda sanitaria locale. E, quindi, implicito, nel rapporto di fiducia che si viene a instaurare con il proprio medico curante, il consenso dell’assistito affinché il medico gestisca, ovviamente entro i limiti necessari alla diagnosi e terapia, i suoi dati sanitari e si ponga come unico referente a conoscenza del suo quadro clinico complessivo.

Per questa somma di ragioni si ritiene opportuno suggerire che, a integrazione e a semplificazione pratica della norma in questione (art. 23, comma 1), sia emanato un provvedimento che consenta di derogare, per i medici di famiglia titolari e per i relativi sostituti formalmente incaricati ai sensi del DPR 484/1996, dalla necessità di acquisire il consenso scritto da parte dei pazienti che a lui si rivolgono per loro libera scelta, autorizzandone il trattamento dei dati inerenti la salute «per fini di diagnosi e terapia», rimanendone confermati gli altri vincoli e obblighi previsti dalla legge,

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nonché il vincolo di riservatezza contemplato dal Codice di deontologia medica.

Referti diagnostici

Per quanto riguarda l’applicazione pratica del comma 2 dell’art. 23, l’Autorità garante ha già espresso, con lettera del 30.6.97 diretta alla Federazione nazionale degli Ordini, le opportune indicazioni circa le indicazioni possibili. La Federazione dei medici di medicina generale, nella considerazione che il medico curante rappresenta la figura di riferimento che conosce il quadro clinico complessivo del proprio paziente, ritiene che sarebbe estremamente utile che sui referti rilasciati dai laboratori di analisi o da altre strutture sanitarie, in aggiunta a una breve spiegazione sul significato dei dati, fosse inserita la seguente avvertenza: «la valutazione dei risultati e le conclusioni diagnostiche sono di pertinenza del medico curante, che è a conoscenza del quadro clinico complessivo».

Certificati di incapacità lavorativa

Per i lavoratori dipendenti privati, l’art. 2 L. 29.2.1980 n. 33 prevede che, in caso di malattia comportante incapacità lavorativa, il medico curante rilasci un certificato in duplice copia: una con l’indicazione di diagnosi e prognosi deve essere trasmessa dal lavoratore all’Inps, cui spetta di pagare l’indennità di malattia con la possibilità di effettuare la visita fiscale di controllo; l’altra, con l’indicazione della sola prognosi, deve essere trasmessa dal lavoratore al proprio datore di lavoro. Con tale sistema si persegue il fine della riservatezza della natura della malattia, nei confronti del datore di lavoro, a tutela del lavoratore privato.

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Per i dipendenti pubblici non esiste alcuna prescrizione di legge; la materia risulta regolamentata dai contratti collettivi di lavoro, i quali prevedono l'obbligo di produrre un certificato di malattia senza altre prescrizioni. Il certificato è rilasciato al dipendente pubblico in un unico esemplare, che deve essere inoltrato alla rispettiva amministrazione. Si domanda se, a tutela della riservatezza della malattia nei confronti dell’amministrazione pubblica, il medico curante debba limitarsi a indicare nel certificato soltanto la prognosi, omettendo la diagnosi, in analogia a quanto già previsto a favore dei dipendenti privati.

Certificazioni a richiesta dell’interessato. Al medico curante sono richiesti dai pazienti certificati di malattia, per i fini più diversi (ottenere una dieta particolare presso la mensa aziendale; il venditore con posto fisso nei mercatini per giustificare la mancata presenza e non perdere la piazzola; la mamma, in caso di malattia del figlio minore di tre anni, per ottenere il permesso di assentarsi dal lavoro, ecc.). Al curante, in tali casi, è consentito indicare sul certificato la diagnosi o deve limitarsi ad attestare uno stato generico di malattia?

Soggetti anziani affetti da patologie cerebrali

È di frequente ricorrenza il caso di soggetti anziani, formalmente in possesso della capacità di agire ma sostanzialmente incapaci di intendere e di manifestare liberamente la propria volontà a causa di patologie cerebrali. Per varie ragioni di ordine sociale, rarissimamente è fatto luogo all’interdizione; quindi tali soggetti occupano una sorta di zona grigia nella quale, per la legge, sono capaci di intendere e di volere, mentre di fatto sono privi di tale facoltà, con tutte le conseguenze

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sulle decisioni ai fini delle terapie da seguire, sui ricoveri in ospedale o in residenze socio-assistenziali, ecc.

Spesso può farsi luogo da parte delle autorità sanitarie al riconoscimento dell’invalidità assoluta del soggetto per patologia cerebrale, con tutti i benefici conseguenti, rimanendo giuridicamente invariata, però, la capacità di intendere e di volere. In tali casi si determinano situazioni non certamente lineari riguardo ai vari atti da compiere, con perplessità e chiare difficoltà sia da parte dei medici, sia di altri soggetti coinvolti nell’interesse di tali persone.

● Tutela della privacy: i nuovi obblighi per i sanitari.

L’utente che si rivolge al medico, all’ospedale o all’ambulatorio consegna una serie di dati di varia importanza, che richiedono un trattamento diversificato: ad esempio, risultati di precedenti esami, cartelle cliniche di altri ricoveri, pareri medici antecedenti, giudizi conseguenti e consulti non possono essere trattati alla stregua di informazioni quali dati anagrafici, residenza e professione. Analoga considerazione va fatta per la conservazione dei dati: quelli sensibili godono di maggior tutela e devono essere conservati in modo che non siano accessibili a tutti.

Il primo livello di tutela della privacy previsto dalla legge 675 riguarda i dati personali, ovvero quelle informazioni che permettono di rendere una persona identificata o identificabile. Tali informazioni in possesso di una struttura sanitaria sono:

nome

― indirizzo (dimora, residenza, domicilio)

― dichiarazione di stato civile

― data e luogo di nascita

― recapito telefonico

― professione

― cittadinanza

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― dichiarazioni di natura fiscale (esenzioni dalla partecipazione alla spesa sanitaria non solo in base alle patologie interessate, ma anche alla situazione del nucleo familiare e delle condizioni di reddito).

Una tutela di maggior livello richiedono i dati sensibili, ovvero quelle informazioni che possono offrire occasione per discriminare le persone. A questa categoria appartengono eminentemente i dati personali idonei a rilevare lo stato di salute e la vita sessuale. Questi dati possono essere oggetto di trattamento solo con il consenso scritto dell’interessato e previa autorizzazione del Garante.

Professionisti sanitari e strutture pubbliche possono trattare i dati personali riferiti alla salute soltanto allo scopo di tutelare la salute del paziente. Tali dati possono essere resi noti all’interessato solo per il tramite di un medico designato dal titolare. La diffusione di dati sensibili è vietata, salvo quando sia necessaria a scopo di prevenzione o per la repressione di reati.

Gli erogatori di servizi sanitari sono così soggetti a nuovi obblighi:

― informare il soggetto, cui i dati si riferiscono, sulle finalità e modalità del trattamento; dare notizia all’interessato della natura obbligatoria o facoltativa della comunicazione dei dati; richiedere il consenso per il trattamento dei dati personali;

― utilizzare i dati sensibili solo esclusivamente con il consenso scritto dell’interessato e con l’autorizzazione del Garante;

― adottare, a tutela dei dati trattati, cautele e precauzioni di carattere organizzativo (istruzione del personale, procedure di conservazione, ecc.), precauzioni di tipo procedurale, misure di sicurezza termica.

Il percorso dell’utente nelle strutture sanitarie  con relativi obblighi di tutela dei dati da parte dei sanitari  può essere così tratteggiato: quando l’utente entra in rapporto con la struttura (pubblica o privata)

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alla quale richiede una prestazione, l’incaricato richiede all’interessato i dati personali indispensabili per la registrazione e chiede il consenso per la registrazione degli stessi. Il consenso può essere fornito in senso orale o mediante modulo sottoscritto.

Se l’interessato consegna anche una documentazione  visite precedenti, accertamenti, esami  questa rientra tra i dati sensibili, soggetti a particolari condizioni di trattamento. La consegna di risultati di analisi, esami, radiografie, certificati deve essere effettuata in busta chiusa direttamente all’interessato o a persona munita di delega.

Le informazioni sullo stato di salute del ricoverato devono essere fornite all’interessato  direttamente o per il tramite del medico di fiducia  oppure a persona espressamente delegata.

La dichiarazione attestante la visita, Tesarne o il ricovero effettuato deve essere formulata in modo tale che estranei non possano derivarne informazioni sullo stato di salute della persona interessata: ad esempio, l’attestato di visita effettuata presso un ospedale o un ambulatorio, da presentarsi quale giustificazione per assenza dal lavoro, non deve recare il tipo di esame effettuato, ma riportare genericamente il termine «visita».

Gli archivi che contengono i dati personali del paziente possono essere utilizzati solo dagli addetti delle strutture stesse per le finalità che i compiti di lavoro impongono; non possono essere trasferiti all’esterno, se non sulla base di precise disposizioni normative e organizzative.

Il medico di medicina generale può, in caso di sostituzione, consentire al sostituto l’utilizzo del proprio schedario di pazienti, ma vi deve essere un consenso specifico del paziente per il trattamento dei dati che lo riguardano.

In caso di studio associato, il patrimonio comune di informazioni può essere gestito dai componenti

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dello studio secondo una delle tre modalità indicate dal Garante: gestione individuale e separata dei dati, contitolarità di tutti i professionisti, attività unificata di elaborazione dei dati personali.

Le certificazioni (ad esempio, cartelle cliniche) rilasciate dagli organismi sanitari possono essere ritirate anche da persone diverse degli interessati, sulla base di una delega scritta e con inclusione dei documenti in busta chiusa.

Anche per i dipendenti di una struttura sanitaria esiste la tutela della privacy, che deve essere garantita. I dati personali e sensibili (come l’iscrizione ai sindacati, ai fini dell’effettuazioni delle trattenute; i dati inseriti nelle certificazioni mediche, ai fini dell’attitudine a determinati lavori; i dati relativi all’appartenenza a organismi religiosi, ai fini della verifica di permessi per festività) potranno essere comunicati o diffusi a terzi, solo previo espresso consenso dei dipendenti.

7. Gli accordi europei sulle nuove regole in bioetica

● Regole comuni per l'Europa.

L’informazione e il consenso trovano anche un’esplicita collocazione nelle normative che l’Europa, che si va faticosamente costruendo come realtà culturale e politica omogenea, si è data in materia di bioetica. Il cammino per portare l’Europa ad adottare, nell’ambito della biologia e della medicina, normative vincolanti per tutti i Paesi che la costituiscono è lungo e travagliato. Ancor prima che i più recenti progressi nella biologia e nella medicina richiamassero l’attenzione sulle possibilità di abusi e di azioni contrarie alla dignità umana, l’Europa ha dovuto confrontarsi con scandalose violazioni del «minimo morale», avvenute sotto il segno delle politiche eugenetiche e delle sperimentazioni con esseri umani di marca nazista.

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Una delle barriere innalzate per prevenire quelle ricadute nella barbarie è stata la Convenzione europea sui diritti dell’uomo, approvata nel 1950 dai 23 stati membri del Consiglio d’Europa.

La Convenzione vuol essere una garanzia collettiva sul piano europeo di alcuni dei princìpi enunciati dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, rafforzata da un controllo internazionale giudiziario, le cui decisioni devono essere rispettate da tutti gli Stati. Gli organi di controllo sono la Commissione europea dei diritti dell’uomo e il Tribunale europeo dei diritti dell’uomo, che hanno la loro sede a Strasburgo.

Tuttavia, le nuove pratiche biomediche rischiano di infrangere tali diritti, pur senza superare il livello di guardia costituito dalla Convenzione. Il Tribunale europeo dei diritti dell’uomo è stato chiamato, negli ultimi anni, a intervenire su questioni che esulano completamente dal quadro problematico per il quale è stato istituito e per le quali i suoi strumenti giuridici appaiono quantomeno inadeguati. Per esemplificare: una signora danese, nel 1983, è ricorsa al tribunale dichiarando di essere stata sottoposta a «tortura», perché l’uso di un nuovo strumento, in una operazione volontaria di sterilizzazione che non aveva avuto successo, aveva costituito un esperimento senza il suo consenso. Un altro caso riguarda il ricorso al Tribunale per la condanna, da parte del governo francese, delle organizzazioni che aiutino le coppie a cercare madri «gestazionali» (altrimenti dette «uteri in affitto»). Il Tribunale è stato chiamato anche a deliberare circa i diritti di un donatore di seme olandese, il quale chiedeva che gli fosse concesso il diritto di visita nei confronti di un bambino nato dalla sua donazione.

Dalla metà degli anni Ottanta si è incominciato a sentire in maniera acuta, in Europa, la carenza di una riflessione adeguata nell’ambito bioetico, come supporto per normative omogenee. Nel 1985, i ministri

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della Giustizia del Consiglio d’Europa si dichiaravano per un fronte comune, affermando che le leggi nazionali sarebbero state inefficaci se non ci fosse stato un allineamento dei Paesi vicini. Il diffondersi delle nuove pratiche scuote la società nelle sue convinzioni più profonde. Chi non è turbato dalle questioni metafisiche o dai dubbi etici, non può non vedere almeno la dimensione economica dei problemi. In Europa ci stiamo avvicinando a passi inesorabili al «grande mercato», che fa seguito al progressivo smantellamento delle barriere nazionali.

Poiché la pratiche biomediche hanno una ricaduta economica di enorme importanza, quando gli investimenti privati hanno la possibilità di circolare liberamente si rischia di vederli risucchiati da Paesi con una legislazione più tollerante, a danno di quelli che pongono ai propri ricercatori limitazioni più severe in nome della sicurezza e dell’etica. È una prospettiva che diventa inquietante quando si prende in considerazione la commercializzazione del corpo umano.

Le iniziative per creare una legislazione comune in materia di bioetica hanno dovuto affrontare il dibattito se, il linea di principio, tale unificazione sia possibile o auspicabile. Coloro che sono contrari a una legiferazione in questo ambito adducono come argomento l’insufficiente consenso che esiste attualmente su alcune questioni antropologiche cruciali, come l’inizio e la fine della vita, lo status giuridico dell’embrione, l’impatto delle tecnologie riproduttive e della genetica. L’impegno comune, per esempio, a rispettare la vita umana ha poco senso quando gli Stati divergono radicalmente in questioni come l’aborto o l’uso di embrioni nella ricerca.

Coloro, peraltro, che invece sollecitano misure di regolazione giuridica, considerano i benefici di una legislazione a diversi livelli. La legge da sola non rende morale la gente; tuttavia, essa influenza il comportamento

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morale. Non avere nessuna legge equivale all’anarchia. Tra una legge inefficace e un’abdicazione alla responsabilità da parte dello Stato, è meglio correre il rischio di un’eventuale inefficacia. Una legislazione anche imperfetta, inoltre, avrebbe effetti contagiosi positivi su altri Paesi, che potrebbero ispirarvisi e migliorarla.

● La Convenzione europea di bioetica.

In un mondo che va facendosi sempre più piccolo e transitabile in tutte le direzioni; in un’Europa che punta ormai a una completa integrazione culturale, oltre che economica e politica, non è accettabile che in tema di bioetica si possa continuare a procedere in ordine sparso. Da questa convinzione è nato il progetto di una «convenzione» europea in tema di biomedicina, che orienti lo sviluppo futuro del diritto sanitario, oltre che della deontologia. Dopo quasi cinque anni di lavoro e animati dibattiti  avvenuti, per la verità, più all’estero che in Italia  il Comitato direttivo per la bioetica del Consiglio d’Europa (CDBI) ha proposto un testo di convenzione che è stato approvato dal Consiglio dei ministri il 19 novembre 1996 e successivamente sottoposto alla firma degli Stati membri del Consiglio d’Europa. Si tratta dei 38 articoli della «Convenzione per la protezione dei diritti dell’uomo e la dignità dell’essere umano riguardo alle applicazioni della biologia e della medicina», più semplicemente indicata come «Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina».

Una metà circa dei 40 Paesi dell’Unione europea ha sottoscritto la Convenzione. Successivamente, il documento dovrà essere ratificato dai parlamenti degli Stati firmatari. Rispetto, infatti, alle «Raccomandazioni» del Consiglio d’Europa e ai «Trattati», che si limitano all’enunciazione di princìpi, lo strumento della «Convenzione» trae la sua forza dal fatto che diviene vincolante per gli Stati che la ratificano, obbligandoli all’applicazione delle sue norme all'interno dei singoli

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ordinamenti nazionali. Il significato della Convenzione non è, dunque, «esortativo» per gli Stati che la sottoscrivono, bensì normativo.

Dopo le disposizioni generali di apertura, la Convenzione propone subito due grandi temi rilevanti per il nuovo rapporto tra sanitari e cittadini nell’ambito sanitario: il consenso agli atti diagnostici e terapeutici e vita privata e diritto all’informazione:

Capitolo II: Consenso

● Art. 5: Regola generale  Un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato.

Questa persona riceve innanzi tutto una informazione adeguata sullo scopo e sulla natura dell’intervento e sulle sue conseguenze e i suoi rischi.

La persona interessata può, in qualsiasi momento, liberamente ritirare il proprio consenso.

● Art. 6: Proiezione delle persone che non hanno la capacità di dare consenso  Un intervento non può essere effettuato su una persona che non ha capacità di dare il consenso, se non per un diretto beneficio della stessa.

Quando, secondo la legge, un minore non ha la capacità di dare il consenso a un intervento, questo non può essere effettuato senza l’autorizzazione del suo rappresentante, di un’autorità o di una persona o di un organo designato dalla legge.

Il parere di un minore è preso in considerazione come un fattore sempre più determinante, in funzione della sua età e del suo grado di maturità.

Allorquando, secondo la legge, un maggiorenne, a causa di un handicap mentale, di una malattia o per un motivo similare, non ha la capacità di

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dare il consenso a un intervento, questo non può essere effettuato senza l’autorizzazione del suo rappresentante, di un’autorità o di una persona o di un organo designato dalla legge.

La persona interessata deve, nei limiti del possibile, essere associata alla procedura di autorizzazione.

Il rappresentante, l’autorità, la persona o l’organo menzionati ai paragrafi 2 e 3 ricevono, alle stesse condizioni, l’informazione menzionata all’art. 5.

L’autorizzazione menzionata ai paragrafi 2 e 3 può, in qualsiasi momento, essere ritirata nell’interesse della persona interessata.

Art. 7: Tutela delle persone che soffrono di un disturbo mentale  La persona che soffre di un disturbo mentale grave non può essere sottoposta, senza il proprio consenso, a un intervento avente per oggetto il trattamento di questo disturbo se non quando l’assenza di un tale trattamento rischia di essere gravemente pregiudizievole alla sua salute e sotto riserva delle condizioni di protezione previste dalla legge comprendenti le procedure di sorveglianza e di controllo e le vie di ricorso.

Art. 8: Situazioni d’urgenza  Allorquando, in ragione di una situazione d’urgenza, il consenso appropriato non può essere ottenuto, si potrà procedere immediatamente a qualsiasi intervento medico indispensabile per il beneficio della salute della persona interessata.

Art. 9: Desideri precedentemente espressi ― I desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà saranno tenuti in considerazione.

Art. 10: Vita privata e diritto all’informazione  Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita

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privata, allorché si tratta di informazioni relative alla propria salute.

Ogni persona ha il diritto di conoscere ogni informazione raccolta sulla propria salute. Tuttavia, la volontà di una persona di non essere informata deve essere rispettata.

A titolo eccezionale, la legge può prevedere, nell’interesse del paziente, delle restrizioni all’esercizio dei diritti menzionati al paragrafo 2.

Un commento essenziale a queste indicazioni autorevoli della Convenzione ci porta a osservare che con l’art. 5 è consacrata, sul piano internazionale, una regola ormai ben chiara: nessun intervento può, in linea di principio, essere imposto a una persona, senza il suo consenso. L’individuo deve dunque poter liberamente dare o rifiutare il proprio consenso a qualsiasi «intervento» (inteso nell’accezione più ampia, vale a dire ogni atto medico con finalità di prevenzione, di diagnosi, di terapia, di rieducazione o di ricerca). È la regola fondamentale che nasce dal riconoscimento dell’autonomia del paziente, nel rapporto con i professionisti sanitari.

Il consenso del paziente può essere libero e informato solo se è dato facendo seguito a un’informazione oggettiva fornita dai sanitari responsabili relativamente alla natura e alle conseguenze possibili dell’intervento previsto o alle alternative. Il secondo paragrafo menziona gli elementi più importanti relativi all’informazione che deve precedere l’intervento. I pazienti devono essere informati in particolare sui miglioramenti che possono risultare dal trattamento, sui rischi che comporta (natura e grado di probabilità), nonché del suo costo. Quanto ai rischi dell’intervento o delle sue alternative, l’informazione dovrebbe riguardare non solo i rischi inerenti al tipo di intervento previsto, ma anche i rischi riferiti alle caratteristiche individuali di ogni persona

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(come l’età o la presenza di altre patologie). Si deve rispondere in maniera adeguata alle richieste di informazione complementare formulate dai pazienti.

L’informazione deve essere fornita in un linguaggio comprensibile alla persona che subisce l’intervento medico. Il paziente deve essere messo in grado di misurare, mediante un linguaggio che sia alla sua portata, l’obiettivo e le modalità dell’intervento quanto alla sua necessità o alla semplice utilità, confrontandolo con i rischi, con i disagi o con le sofferenze provocate.

Il consenso può rivestire forme diverse: può essere esplicito o implicito, verbale o in forma scritta. L’art. 5 della Convenzione ha una portata generale e vuol abbracciare situazioni molto diverse tra loro, per cui non esige una forma particolare. Questa dipenderà dalla natura dell’intervento. È generalmente condiviso che il consenso esplicito sarebbe inappropriato per i molteplici interventi della medicina quotidiana. Questo consenso è dunque spesso implicito, purché l’interessato sia sufficientemente informato. Tuttavia in certi casi  per esempio quando si tratta di interventi diagnostici o terapeutici invasivi  si può esigere un consenso espresso. Per quanto riguarda la ricerca, l’art. 16 della stessa Convenzione richiede che ci sia sempre un consenso espresso e specifico (la persona che si presta a una ricerca deve essere «informata dei suoi diritti e delle garanzie previste dalla legge per la sua protezione»).

Il terzo paragrafo dell’art. 5 esplicita che la libertà di consenso implica la possibilità per l’interessato in qualsiasi momento di ritirare il suo consenso. La casistica medica può prevedere situazioni in cui il ritiro del consenso del paziente nel caso di un’operazione potrebbe non essere rispettato, se ciò comportasse un grave pericolo per la salute dell’interessato (in questi casi prevalgono le norme e gli obblighi professionali). Inoltre bisogna considerare l’art. 7 (Protezione delle persone che non hanno la capacità di dare il consenso), l’art. 8

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(Situazioni d’urgenza) e l’art. 9, che definiscono ipotesi nelle quali l’esercizio dei diritti contenuti nella Convenzione, compresa la necessità del consenso, può subire una restrizione.

L’informazione è un diritto del paziente, ma  come prevede l’art. 10  la sua eventuale volontà di non essere informato deve essere rispettata. Ciò non dispensa, tuttavia, dalla necessità di ricercare il consenso all’intervento proposto al paziente.

● Gli sviluppi auspicabili.

Sulla trama di queste osservazioni di contenuto va inserita qualche annotazione di merito. È anzitutto notevole il fatto che un accordo di fondo di questo genere sia stato realizzato. Non tutti sono d’accordo con la portata stessa della Convenzione, in particolare coloro che avrebbero desiderato delle prese di posizione più marcate su problemi molto dibattuti, come l’ambito della procreazione medicalmente assistita, la clonazione degli embrioni o l’ingegneria genetica. Ma un consenso europeo su una base così ampia di principi, ai quali devono ispirarsi le legislazioni nazionali, è indice di una notevole maturazione nell’ambito della bioetica. Come ha osservato Carlos De Sola, segretario del CDBI: «A causa delle difficoltà di trovare un ampio accordo su questa questione molto complessa, l’esistenza stessa della Convenzione è un successo. Alcuni possono trovare questo testo insufficiente. Diciamolo chiaramente: è vero che è incompleto su molti aspetti. Tuttavia, contiene una serie di principi e di regole (come la preminenza della persona sulla scienza, il rispetto dell’autonomia della persona, la protezione della sua integrità e della sua dignità, la confidenzialità dell’informazione medica e genetica, la non-commercializzazione del corpo umano...) che costituiscono un corpus giuridico coerente, vero diritto comune europeo della bioetica».

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Se è vero che la Convenzione merita l’appunto che suoi contenuti sono stati stabiliti per sottrazione, affidando i punti più controversi a protocolli addizionali  sono già in preparazione protocolli relativi alla ricerca medica, al trapianto di organi, alla protezione degli embrioni e di feti umani, alla genetica  è ancor più evidenziato il valore della base su cui si è trovato un consenso. Il ruolo attribuito all’informazione da dare al paziente e alla sua partecipazione attiva al processo clinico fa parte appunto di questo nucleo. Nel corso dell’elaborazione della Convenzione  e soprattutto nei dibattiti di assemblea parlamentare  è stato sollevato il dubbio che l’enfasi posta sul diritto di autodeterminazione, che implica la libertà decisionale del paziente, mettesse in ombra la libertà professionale e di coscienza del medico. Il concetto di «obiezione di coscienza» (o clausola di coscienza) in termini giuridici non è stato espressamente accolto nell’articolato, nel timore che l’appello a tale clausola potesse essere abusato dal medico per sottrarsi indiscriminatamente a obblighi assistenziali gravosi, anche al di fuori del genuino «caso di coscienza». L’obiezione di coscienza è stata ritenuta implicita nello schema «contrattualistico» che domina l’orientamento prevalente della medicina contemporanea (cfr. Bompiani, 1998).

Concorda con questa interpretazione la valutazione della Convenzione europea fatta dal nostro Comitato nazionale per la bioetica in un parere datato 21 febbraio 1997. In precedenza il Comitato si era espresso in modo molto critico sulle versioni iniziali del testo. Il giudizio globale sulla stesura sottoposta alla ratifica è positivo, in particolare per quanto riguarda il ruolo attribuito al soggetto:

«Il CNB valuta positivamente la notevole sottolineatura data al principio della doverosità dell’informazione e del consenso, come base giustificativa dell’esercizio della medicina, affermato dalla Convenzione

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nella linea dell’ormai consolidata dimensione etica dei rapporti medico-paziente e delle elaborazioni contenute nei vari Codici deontologici nazionali. Valuta, inoltre, positivamente il fatto che sia stato affermato il principio che ogni persona, come ha diritto ad essere informata e ad esprimersi liberamente in merito alla tutela della salute del proprio corpo, così ha il diritto di revocare il proprio consenso all’intervento medico qualora lo ritenga opportuno (art. 5 comma 3)».

Come già previsto dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, gli Stati possono, al momento della ratifica, formulare riserve su un tema particolare della Convenzione, nel caso in cui una legge in vigore nel proprio territorio non sia conforme alle disposizioni della Convenzione. Realizzando il proprio compito istituzionale, il CNB si chiede perciò quali disposizioni legislative italiane potrebbero essere in contrasto con lo strumento internazionale. Il Comitato non individua nessun contrasto né per quanto riguarda il consenso informato, così come è stato tratteggiato nel nuovo Codice deontologico dei medici del 1995, né rispetto alla tutela della privacy. Riguardo a questa, così si esprime il CNB:

Il diritto alla protezione della vita privata e alla riservatezza della protezione dati (art. 10), già sancito a livello internazionale dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (art. 8), ripreso nella Convenzione sulla protezione dell ’individuo riguardo alla elaborazione dei dati personali del 1981 (art. 6), è in linea con la nuova normativa italiana approvata dalla Camera il 18.12.1996 sulla tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali. La recente legge protegge la privacy informatica assicurando la riservatezza nel trattamento dei dati, richiede il consenso dell’interessato prima di procedere alla raccolta dei suoi dati personali, specifica i

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diritti e i limiti all’esercizio degli stessi, mentre per i dati particolari, quelli c.d. sensibili (idonei cioè a rilevare lo stato di salute e la vita sessuale) prevede non solo il consenso scritto dell’interessato ma la previa autorizzazione del Garante per il trattamento e la diffusione di tali dati.

Il dibattito bioetico ha il compito di chiarire nell’immediato futuro le modalità di applicazione dei principi sui quali si è trovato un accordo. Citiamo, a titolo esemplificativo, l’indicazione dell’art. 9 relativa alla considerazione in cui dovranno essere tenuti i desideri, precedentemente espressi, relativi all’estensione delle cure nella fase terminale della vita. Siccome questo è un tema in cui non sussiste un fondamentale dissidio tra vari orientamenti della bioetica  in particolare, sia quelli che si ispirano a una visione dell’uomo religiosa, sia quelli di indirizzo laico sono favorevoli al rispetto della volontà della persona nel determinare la misura delle cure in armonia con i propri valori  sarà relativamente facile trovare strumenti che possano rendere operativo un diritto proclamato in astratto dalla Convenzione.

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III.

MODELLI ETICI PER LA NUOVA MEDICINA

1. Stagioni dell’etica in medicina

Dall’etica ci aspettiamo che sappia identificare il comportamento ideale rispetto ai valori condivisi (il comportamento buono, corretto, giusto...) e che fornisca la spinta motivazionale che induce a tradurlo in atto. Ciò vale per l’assistenza sanitaria, non meno che per altre attività umane. Meno attenzione dedichiamo generalmente al fatto che l’etica stessa in medicina è soggetta a cambiamenti.

La nostra idea di ciò che corrisponde a buona o cattiva medicina è cambiata, così come sono cambiate le nostre attese nei confronti di un ospedale o del servizio sanitario pubblico. Più precisamente, possiamo dire che ci troviamo presi in un processo storico che ha visto il susseguirsi di almeno tre grandi modelli di buona medicina, ognuno dei quali prospetta in modo coerente come si devono comportare i diversi protagonisti del sistema delle cure: i medici, i malati, le varie professioni sanitarie, la società nel suo insieme. Ogni modello che si sussegue nel tempo ci obbliga a ripensare ogni volta la medicina intera sotto una diversa luce di qualità. In modo sintetico, possiamo dire che i tre modelli rappresentano tre diverse stagioni dell’etica in medicina.

Per illustrare i cambiamenti di tutto ciò che associamo all’idea di «buona» medicina, ci serviremo di

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uno schema. Come ogni schema, introduce una certa semplificazione nella realtà delle cose, ma ha il vantaggio di concentrare l’attenzione sui punti nevralgici del cambiamento.

STAGIONI DELL'ETICA IN MEDICINA

Epoca pre-moderna

Etica medica

Epoca moderna

Bioetica

Epoca post-moderna

Etica

dell'organizzazione

La buona

medicina

Quale trattamento

porta maggior

beneficio al paziente?

Quale trattamento

rispetta il malato nei

suoi valori e

nell’autonomia

delle sue scelte

Quale trattamento

ottimizza l’uso delle

risorse e produce un

paziente/cliente

soddisfatto?

L’ideale

medico

Paternalismo benevolo

(scienza e coscienza)

Autorità

democraticamente condivisa

Leadership

morale, scientifica,

organizzativa

Il buon

paziente

Obbediente

(compliance)

Partecipante

(consenso informato)

Cliente giustamente

soddisfatto e consolidato

Il buon

rapporto

Alleanza terapeutica

(il dottore

con il suo paziente)

Partnership

(professionista-utente)

Stewardship

(fornitore di servizi-cliente)

Contratto di assistenza:

Azienda/popolazione

Chi prende

le decisioni

Il medico,

in "scienza e coscienza

Il medico e il malato

insieme:

(decisione

consensuale)

La direzione aziendale

insieme ai dirigenti

delle unità operative

(negoziazione)

Principio

guida

Beneficità

Autonomia

Giustizia

Il primo modello presentato dallo schema può essere chiamato pre-moderno. Ha caratteristiche di grande antichità e di forte tenuta nel tempo. La sua antichità è indiscussa, in quanto in Occidente risale almeno a Ippocrate. Ma anche la sua forza è notevole,

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in quanto non esiste in tutta la tradizione occidentale un modello culturale che abbia resistito tanto a lungo. L’Occidente ha cambiato una quantità di cose nell’organizzazione sociale  l’economia, la famiglia, la religione, il diritto, la politica  dall’antichità greco-romana a oggi. La medicina stessa si è profondamente modificata nel corso del tempo, sia nei modelli teorici, sia nel modo di fornire aiuto ai malati. Tra il medico seguace di Galeno  che interpreta le malattie secondo la teoria degli umori  il medico scienziato dell’ottocento ― che ricorre al metodo della scienza sperimentale per spiegare come funziona l’organismo sano o malato  e il medico della nostra epoca , che è capace di ricondurre le malattie a un difetto del corredo genetico ed è in grado di prevederne l’insorgenza con anni di anticipo  le differenze sono enormi. La stessa cosa si può dire riguardo al ricorso di salassi, ai vaccini e all’ingegneria genetica. La diversità fra questi mezzi terapeutici, quanto a efficacia ed efficienza, è incolmabile.

Per l’etica, invece, non è avvenuto così. Le convinzioni su ciò che è bene o male fare in medicina, sui comportamenti giusti o ingiusti nei confronti del malato sono rimaste relativamente stabili per secoli. Praticamente si tratta di una tradizione ininterrotta che in Occidente è durata per più di 25 secoli, dall’epoca di Ippocrate fino ai nostri giorni: in tutto questo tempo non abbiamo mai sentito il bisogno di modificare il concetto, condiviso dai medici e dai pazienti, di quelle pratiche di cura della salute a cui attribuire un valore morale positivo.

Ci possiamo riferire a quest’epoca come alla stagione premoderna dell’etica in medicina. Sinteticamente la denominiamo etica medica. L’aggettivo è giustificato. L’etica a cui ci riferiamo, infatti, è sostanzialmente l’etica «del medico». È il medico che la determina e la professione medica che se ne fa garante. In questa etica sono prescritti comportamenti per i malati, per i familiari,

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per le professioni che collaborano con il medico; tutti svolgono, tuttavia, funzioni subordinate e sono chiamati a modellarsi sulle richieste che provengono dai medici, i quali hanno un ruolo decisivo nello stabilire che cosa sia buona medicina, sia in senso clinico, sia in senso etico. La qualifica di «paramedici» data a coloro che esercitano professioni sanitarie non mediche rispecchia bene questa situazione di centralità del medico. Anche l’etica dei non medici in questa stagione è un’etica «paramedica».

La domanda fondamentale a cui risponde la medicina di qualità dell’epoca pre-moderna è: «Quale trattamento porta maggior beneficio al paziente?». Troviamo questa preoccupazione già nel giuramento di Ippocrate, nella cosiddetta clausola terapeutica:

«Prescriverò agli infermi la dieta opportuna che loro convenga per quanto mi sarà permesso dalle mie cognizioni e li difenderò da ogni cosa ingiusta e dannosa».

Tutta l’azione del medico è diretta a procurare un beneficio al paziente, in quanto mira a risolvere i problemi posti dalla patologia. Le risorse che il medico utilizzerà sono ovviamente quelle che la scienza del tempo gli mette a disposizione: per il medico dell’antichità era la «dieta» (cioè il regime terapeutico che tendeva a ristabilire nella vita del malato l’equilibrio turbato); per il medico dei nostri giorni, i trattamenti appropriati saranno gli antibiotici o i trapianti di organo. Qualunque sia la scienza di riferimento, il modello rimane tuttavia lo stesso: il medico si impegna a fare il bene del paziente.

Questa accentuazione è presente anche in altre tradizioni mediche che afferiscono al filone ippocratico. Pensiamo, ad esempio, alla medicina omeopatica. Il libro fondamentale di Samuel Hahnemann, l'Organon dell’arte di guarire, inizia con una frase programmatica, che circoscrive il dovere del medico in un perimetro molto preciso: il compito unico del medico è guarire

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presto, dolcemente, durevolmente. Tutto il resto dell’opera è dedicato al «come» ottenere la guarigione, vale a dire ai rimedi appropriati alle patologie:

Scopo principale e unico del medico è di rendere sani i malati, ossia di guarirli. La guarigione ideale è la restaurazione rapida, dolce, duratura della salute, ossia la rimozione del male nella sua totalità nel modo più rapido, più sicuro e innocuo (Hahnemann, 1993, p. 15).

La prima frase compendia il fondamento etico di tutta l’impresa terapeutica, ricondotta alla volontà di procurare la guarigione del paziente. Finché un medico può rispondere alla domanda sul perché agisce in un determinato modo, affermando che lo fa per il bene del paziente, sa che ha dietro di sé il sostegno dell’etica medica a legittimare il proprio operato.

I principi fondamentali di questa etica, riconducibili all’imperativo di procurare un beneficio alla salute del paziente, presuppongono un modello ideale del medico fondamentalmente paternalista: il medico è colui che sa qual è il bene del paziente e vuole realizzarlo, mettendovi tutto il proprio impegno e tutta la dedizione. È la scienza in continuo progresso che lo guida nel percorso della terapia, mentre la coscienza gli impedisce di trarre profitto dalla debolezza del paziente (per esempio, strumentalizzandolo ai fini di ingiusto lucro o di fama). Questa duplice guida è riassunta da una formuletta, molto amata e citata dai medici, quando rivendicano a se stessi l’obbligo di prendere le decisioni «in scienza e coscienza». Nel linguaggio della bioetica americana, si parla a questo proposito di una medicina ispirata al principio della beneficence, ovvero di «beneficità».

Il malato contribuisce alla buona medicina impegnandosi a essere docile e osservante delle prescrizioni, in un rapporto di affidamento fiduciale. Egli non

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ha, di per sé, nulla da dire in merito all’atto terapeutico, che rimane affidato a quanto il medico stabilisce per il suo bene. Tutto quello che il malato ha da fare, è di diventare «paziente», in tutti i significati del termine (anche in senso morale, in quanto la pazienza è la principale virtù che è chiamato a esercitare). Il buon paziente è quello «osservante». A lui si richiede di entrare nel trattamento mediante la compliance. Come affermava l’illustre medico spagnolo Gregorio Marañon, che ha rappresentato nella prima metà del secolo il permanere dell’ideale ippocratico: «Il malato che non sa essere paziente diminuisce le sue possibilità di guarire. Obbedire al medico è incominciare a guarire».

In questo modello il buon rapporto è l'alleanza terapeutica tra colui che si dedica all’opera della guarigione e chi riceve questo servizio. Il termine «alleanza», come abbiamo già sottolineato, fa parte della tradizione religiosa. Il rapporto medico-paziente ha, di fatto, una connotazione fortemente religiosa in senso ampio, in quanto, allo stesso modo dell’alleanza che è il pilastro centrale della religione ebraico-cristiana, mette in relazione due fondamentali diseguaglianze.

Nell’alleanza religiosa si tratta del legame che si instaura tra la potenza della divinità, in quanto fonte della potenza che produce la salvezza, e la situazione di necessità propria del popolo che ha bisogno di redenzione. L’unione dei due, mediante l’alleanza, salva dalla condizione di bisogno (schiavitù, peccato, ecc.). Analogamente, la guarigione in medicina, nel modello tradizionale, si ottiene mediante l’unione tra la scienza-coscienza del medico (che include il suo sapere, la filantropia, la volontà di fare il bene del paziente) e la volontà del paziente di mantenersi dentro questo rapporto di alleanza. Questo modello continua ancora a strutturare i nostri comportamenti sociali, sia come medici, sia come pazienti. Soltanto quando diventiamo «moderni» il modello entra in crisi.

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L’osservanza della prescrizione medica è la condizione essenziale perché l’alleanza possa esplicare i suoi effetti benefici, e quindi procurare la guarigione. Il contraente dell’alleanza, che è il malato, si deve affidare e accettare le condizioni che gli vengono poste per la guarigione; il medico, che concede l’alleanza, lo guida verso il suo proprio bene. Dai collaboratori del medico, in quanto «paramedici», ci si attende che collaborino anche a indurre i malati a essere «osservanti». Questo modello riconduce la qualità etica dell’atto medico a un unico parametro: quello costituito da un vettore che visualizza la maggiore o minore rispondenza di ciò che si fa al paziente a ciò che gli porta un beneficio, in quanto è clinicamente indicato. Graficamente lo possiamo rappresentare in questo modo:

Modello

premoderno

I valori che indicano il beneficio da procurare al paziente sono rappresentati in maniera scalare per alludere al fatto che il bene procurato al paziente può essere maggiore o minore (e anche, nei casi estremi, nullo o addirittura costituire un fatto nocivo; per questo l’etica medica ippocratica ha messo come guardiano di tutto l’edificio costituito dai doveri del medico l’imperativo fondamentale: Primum non nocere).

● La stagione della bioetica.

Quando comincia l’epoca moderna? I manuali di filosofia e di storia generalmente fanno iniziare la modernità con l’illuminismo, nel XVIII secolo. Essi affermano

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che nella cultura dell’occidente è avvenuto un cambiamento profondo, una di quelle fratture che hanno ripercussioni generalizzate su tutta la struttura dell’esistenza. L’Illuminismo ha progressivamente modificato l’insieme della vita politica e sociale; solo in un ambito non è entrato: in medicina.

Nei rapporti sociali che si stringono attorno a chi somministra e a chi riceve le cure sanitarie, l’epoca moderna non è incominciata fino a pochissimo tempo fa. Soltanto da una ventina di anni sono diventati visibili i segni di una frattura che indica che la medicina è entrata nell’epoca moderna. Di conseguenza, cambiano tutti i parametri che costituiscono il modello di buona medicina caratteristico dell’epoca premoderna. Indichiamo la transizione come il passaggio dall’epoca dell’«etica medica» a quello della «bioetica».

Lo schema al quale ci stiamo riferendo ci aiuta a mettere delle parole chiave attorno a questi cambiamenti. Lo scopo generale della medicina non è più soltanto quello di portare il maggior beneficio al paziente: perché un trattamento medico abbia un carattere di qualità, ci dobbiamo anche domandare se tratta il malato da adulto, rispettandolo nei suoi valori e nell’autonomia delle sue scelte. Nell’epoca moderna, infatti, il malato va fondamentalmente considerato come una persona autonoma, capace di autodeterminare le proprie scelte.

L’autonomia della persona è fondamentale nell’epoca moderna. Così lo ha espresso Immanuel Kant nel famoso saggio Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo? L’Illuminismo comincia quando si decide di uscire dallo stato di minorità dovuta all’uomo stesso, intendendo per minorità «l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro». Il primo paragrafo dello scritto, che sintetizza il programma di vita dell’uomo moderno, termina con l’esortazione: «Sapere aude»: abbi il coraggio di servirti dell’intelletto come guida. L’epoca moderna comincia, in medicina,

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quando il programma generale dell’emancipazione si estende anche a quella «minorità non dovuta» che vige tra il medico e il paziente.

Il malato dell’epoca moderna è quello che ha la capacità e il coraggio di non farsi trattare come una persona eterodeterminata, ma assume il peso e la responsabilità delle decisioni che lo riguardano. Ciò mette in crisi il modello secondo cui  nella medicina tradizionale  il malato è per definizione uno che non può determinare da solo i propri fini e i mezzi per conseguirli. Riconosciamo l’influenza di concezioni antiche, come quelle che ha espresso Aristotele quando ha affermato che il malato, proprio per la sua condizione, non è capace di dare giudizi razionali, in quanto è turbato dalle passioni, come ad esempio la paura per la propria vita; nello stato di malattia deve, quindi, subentrare la struttura paternalistica di contenimento: qualcun altro prende le decisioni per il bene del malato, dal momento che questi non lo può fare. Dire che la medicina entra nell’epoca moderna significa, prima di tutto, rimettere in discussione questo paradigma profondo, che presuppone una fondamentale diseguaglianza tra le persone autonome e quelle che non lo sono (le scelte di queste ultime essendo determinate dalle prime).

Nell’epoca moderna i valori del malato, intesi come quadro di riferimento che guida l’autonomia delle sue scelte, diventano un momento fondamentale di un’attività sanitaria eticamente giustificabile. La potente ed efficace medicina che la scienza, abbinata alla tecnologia, ci mette oggi a disposizione si apre su scenari diversi. L’arsenale medico è potente e vario, e ci mette di fronte ad alternative create dai valori soggettivi. A seconda del concetto soggettivo di buona vita  ovvero di ciò che vogliamo fare della nostra vita  un intervento medico può essere appropriato o inappropriato.

Perché si abbia buona medicina non ci si può limitare a rispondere all’interrogativo: «Questo intervento

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porta oggettivamente un beneficio al paziente?». Non basta stabilire, per esempio, che l’atto medico ha di fatto prolungato la vita del paziente. Se quanto il medico intraprende va contro i valori e le sue decisioni dell’ammalato, non possiamo giustificare eticamente l’intervento, anche se è rivolto a tutelare il bene della salute o della vita stessa. L'autodeterminazione del paziente, in quanto articolazione fondamentale dei suoi diritti (per capire la differenza del paradigma, basti pensare che nel modello tradizionale si parla solo di doveri del medico e non di diritti del paziente) diventa un criterio di qualità. L’intervento sanitario non può essere più deciso unilateralmente dal medico, che si basa sul sapere della sua professione, ma dev’essere individuato insieme con il paziente, spesso attraverso un faticoso processo di contrattazione.

Superato il paternalismo benevolo, l’ideale medico in questo modello diventa un’autorità democraticamente condivisa; il buon paziente è un paziente partecipante alla decisione. Il cardine di questa strutturazione concettuale è il consenso informato, secondo la terza delle diverse accezioni che abbiamo esaminato precedentemente. L’idea di qualità dell’atto medico si arricchisce di una nuova componente: è buono l’intervento sanitario che ha anche una correttezza formale, vale a dire il rispetto delle procedure volte a far partecipare il paziente alle scelte diagnostiche e terapeutiche che lo riguardano. Questa specificazione ci permette di dissociarci dall’uso del consenso informato che si va diffondendo anche in Italia, concepito per lo più in funzione difensiva del medico, non finalizzato a promuovere l’autonomia del paziente.

Nella prospettiva che abbiamo adottato, il paziente non ha più solo diritti ma anche dei doveri. La sua posizione non è solo di privilegio, ma anche di scomoda responsabilità, in quanto deve partecipare al processo decisionale. Non possiamo escludere che, talvolta, il paziente potrebbe preferire piuttosto di delegare

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la decisione e di demandarla al medico («Faccia quello che è necessario: il dottore è lei, non io!»). Il paziente partecipante nelle scelte ha il compito di essere un «buon paziente». Per diventarlo non basta che si limiti a non far storie, non porre troppe domande, essere docile e seguire le prescrizioni mediche; il buon paziente ha anche un compito etico: deve accettare il coinvolgimento nelle scelte che lo riguardano, condividendo l’orizzonte di incertezza che è proprio delle decisioni cliniche. Il buon rapporto è una partnership, che si instaura tra professionista e utente.

Il termine «utente» può suscitare delle associazioni che sembrano fuori luogo in sanità. Per ricondurlo entro l’ambito appropriato, basta pensare al senso etimologico della parola. L’utente è colui che «usa» la competenza del medico; in quanto utente, ha il dovere di usarla bene, responsabilmente, per fare insieme al professionista le scelte appropriate.

L’idea di qualità, dunque, include il concetto di partecipazione. Il termine bioetica, che usiamo per designare questo modello di qualità dell’atto medico, è un neologismo, adatto a un modello di qualità in medicina veramente inedito. È la buona medicina appropriata per la stagione dell’etica in medicina che abbiamo chiamato «moderna» (non nel senso di maggiore attualità, ma con riferimento alla modificazione culturale promossa dalla cultura del liberalismo).

Sentiamo il bisogno di cambiare etichetta anche perché non ci troviamo più nell’ambito dell’etica medica, cioè del medico, concentrata sul medico, elaborata dalla professione medica a beneficio anche del malato. La bioetica implica uno spostamento dell’accento, per cui la qualità non è più determinata in maniera unica ed esclusiva dal sapere e dal potere del medico, ma viene stabilita in modo dialogico, insieme al paziente, il quale deve partecipare alle decisioni con i suoi valori, nell’ambito del consenso sociale. Quindi nella bioetica

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entra la società, l’etica civile, l’accordo ottenuto trasversalmente alle diverse comunità morali di appartenenza, includendo anche gli «stranieri morali».

Questo modello di qualità, che nella nostra cultura non abbiamo nemmeno ben cominciato ad articolare, si diffonde con estrema difficoltà. Lo contrasta una profonda resistenza, sia da parte del mondo medico, sia da parte dei cittadini. Si avverte che è necessario accrescere le conoscenze e mobilitare tutte le energie concettuali e morali, al fine di entrare in questo modello. Tanto i professionisti della sanità, quanto i pazienti sono obbligati a cambiare modelli di riferimento che hanno una lunghissima tradizione. È un passaggio epocale; spostandosi da un modello all’altro i valori si modificano, tanto che possiamo affermare che stiamo assistendo all’inaugurazione di una nuova epoca della qualità e dell’etica nella medicina.

Per evitare facili equivoci e smantellare almeno alcune riserve  quelle che nascono dal timore che si intenda liberarsi dell’etica medica tradizionale  è necessario sottolineare che i due modelli non sono diacronici, ma sincronici. In altre parole, non si susseguono nel tempo, sostituendo con il modello moderno i valori tradizionali, ma sono chiamati a convivere. Le scelte in medicina si collocano su un piano a due dimensioni: la contrattazione tra l’indicazione clinica e le preferenze del paziente.

Piano della contrattazione beneficio-preferenze

Modello moderno

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● Quando la sanità si organizza come un’azienda di servizi.

Mentre proviamo ancora tanta difficoltà a entrare nella stagione della medicina moderna, forti spinte ci stanno già indirizzando verso l'epoca post-moderna. Ci stiamo muovendo, infatti, secondo quanto prescrivono sia lo spirito che la lettera della più recente riforma sanitaria, verso l’introduzione dello «stile azienda» in sanità. Il modello di qualità comporta un rapporto nuovo con il paziente. Sommariamente possiamo dire che non solo deve essere informato e responsabilizzato per partecipare in modo autonomo alle decisioni terapeutiche, ma deve essere considerato come un «cliente». Oltre ad avere diritti da rivendicare, vuole anche essere soddisfatto.

Questa prospettiva caratterizza quel tipo di organizzazione sanitaria che è stata messa in moto con il riordino del Servizio sanitario nazionale e che si sintetizza nel concetto di azienda sanitaria. Soddisfare i pazienti diventa un’esigenza strategica per la sopravvivenza dell’azienda stessa. Il paziente, infatti, spostandosi da una struttura all'altra, porta dietro la sua capacità di spesa, rappresentata dalla sua quota capitaria. Quindi è importante una gestione oculata dell’azienda: se perde i pazienti, perché questi preferiscono un’altra struttura, l’azienda esce dal mercato. Se i sanitari non trattano bene i pazienti per la ragione che è loro diritto in quanto cittadini avere una buona assistenza, devono farlo almeno per interesse dell’azienda (e, in ultima analisi, della loro stessa possibilità di lavoro).

Il modello di qualità postmoderno comporta variazioni anche in tutte le altre articolazioni fondamentali del sistema di rapporti entro cui si svolge l'azione sanitaria. Innanzi tutto l’interrogativo fondamentale che dovrà porsi chiunque abbia responsabilità nelle scelte ruoterà intorno a elementi della qualità di carattere gestionale: quale trattamento ottimizzerà l’uso delle risorse e produrrà un paziente-cliente soddisfatto? La fisionomia stessa dell’interrogativo etico viene modificata.

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Nell’etica medica il registro per valutare la qualità è quello della bontà (l’azione è buona in quanto porta il beneficio della guarigione o lenisce i sintomi dolorosi); la bioetica si colloca entro la tradizione etica coltivata nel mondo anglosassone, che valuta se l’azione sia giusta o ingiusta, in rapporto ai diritti e nel rispetto delle procedure; la nuova stagione che si è aperta ci obbliga a interrogarci se l’azione sia appropriata rispetto ai fini da conseguire, che comportano sia una più acuta sensibilità per il bene comune e l’equità sociale, sia l’acquisizione di un atteggiamento che abbini la soddisfazione del cittadino/cliente con l’attenzione agli interessi dell’azienda.

La qualità, che include il valore etico di un intervento sanitario, oggi è molto più complessa. I criteri più recenti non devono sostituire quelli precedenti, ma integrarsi con essi. La «buona» medicina è sempre quella che  per rifarci alla formulazione incisiva di Hahnemann  deve mirare a guarire in maniera rapida, efficace e duratura. Questo continua a essere l’obiettivo della medicina e il criterio con cui valutare la sua qualità; tuttavia non è più sufficiente: la medicina per essere buona deve anche preoccuparsi di essere «giusta», rispettando i diritti del malato e promuovendo la sua autonomia. A queste considerazioni si aggiungono, nell’ottica dell’organizzazione efficiente della sanità, anche quelle relative a ciò che si dimostra appropriato nell’orizzonte della giustizia, in considerazione dell’accesso ai servizi e dell’equa distribuzione delle risorse.

La buona medicina, quella dotata di qualità, è quella che nasce dall’integrazione cumulativa delle esigenze, che nascono dall'etica medica, dalla bioetica e dalle esigenze, infine, di quella nuova stagione dell’etica in medicina che sentiamo incombere, sotto la spinta delle nuove condizioni sociali e della pressione dell’economia, e che possiamo chiamare etica dell'organizzazione.

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Per la precisione, da tutt’e tre contemporaneamente. Le stagioni dell’etica in medicina, con le rispettive esigenze riguardo a ciò che è giusto e appropriato nell’assistenza sanitaria, non vanno viste come modelli conclusi che si succedono nel tempo, ma come esigenze contemporanee e contestuali. Lo schema seguente, che pone le scelte in uno spazio tridimensionale, può visualizzare la complessità della situazione attuale:

Spazio della contrattazione beneficio-preferenze-appropriatezza

Modello postmoderno

(Idea grafica di patrizio Pasqualetti)

Lo schema si costruisce mediante la sovrapposizione di dimensioni che si aggiungono le une alle altre. La prima dimensione è quella del bene del paziente, propria dell’etica medica tradizionale. Finché la qualità dell’intervento sanitario sul paziente si misurava esclusivamente con il metro del beneficio del paziente (epoca premoderna), maggiore era il beneficio  nello schema viene indicato simbolicamente con una retta numerata da 0 a 15  che il malato riceveva da quello che si poteva fare per lui, maggiore era la qualità, anche etica, dell’atto medico.

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La modernità, con l’introduzione dell’autonomia del paziente, ha aggiunto un altro parametro, indicato nello schema come asse delle preferenze. La buona scelta medica dovrà tener conto temporaneamente di due fattori: il beneficio da procurare al paziente e il suo consenso a ciò che il malato ha individuato e scelto come suo bene. La scelta si realizza sul piano orizzontale di una contrattazione, che non di rado produce un compromesso (non è detto, infatti, che ciò che costituisce dal punto di vista clinico il maggior beneficio per il paziente corrisponda alle sue preferenze; o inversamente: ciò che il paziente informato vuole per sé può non coincidere con quanto la medicina sarebbe in grado di fare per lui).

A queste due dimensioni oggi dobbiamo aggiungere una terza, così che la decisione clinica ci appare collocata in uno spazio tridimensionale. Dobbiamo considerare, infatti, anche l’appropriatezza sociale degli interventi sanitari, in una prospettiva di uso ottimale di risorse limitate, solidarietà con i più fragili ed equità. Quello che possiamo fare per un malato, anche se valutabile con un punteggio alto sul parametro dell’appropriatezza clinica e su quello delle preferenze personali, potrebbe collocarsi molto in basso rispetto al criterio del buon uso delle risorse.

La buona medicina ci appare così come il frutto di una «contrattazione» molteplice, che deve tener conto di tre diversi parametri: l’indicazione clinica (il bene del paziente), le preferenze e i valori soggettivi del paziente (il consenso informato) e infine l’appropriatezza sociale. L’assistenza sanitaria, dovendo conciliare nelle sue scelte esigenze diverse e talvolta contrastanti, senza minimamente rinunciare ai requisiti di scientificità, ci appare più che mai un’arte.

L’ideale medico dell’epoca post-moderna è una leadership morale. Il modello paternalista non funziona più là dove si assume lo stile dell’azienda post-moderna:

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è necessario dotarlo di autorevolezza. Non ci possiamo più basare su una divisione dei compiti di tipo burocratico. Soltanto chi ha quella che la cultura del management chiama la vision, cioè la visione strategica degli obiettivi e dei mezzi, sviluppa una forza morale capace di trascinare gli altri membri dell’équipe.

Il buon paziente è il cliente soddisfatto e consolidato; ma bisogna subito aggiungere che il nostro obiettivo non è il cliente in qualsiasi modo soddisfatto e consolidato, bensì il cliente giustamente soddisfatto. Considereremo più sotto quali elementi caratterizzano la giusta soddisfazione, differenziandola da quella ingiusta. Il buon rapporto è la stewardship, che implica un atteggiamento non centrato sul professionista, ma sugli standard di qualità del servizio, in un raffronto costante con la qualità offerta da altri erogatori (bench-marking).

2. La ricerca di una buona medicina

● Sotto il segno dell’alleanza terapeutica.

Ognuna delle epoche che lo sviluppo dell’etica in medicina ha attraversato comporta problemi particolari nei confronti del rapporto medico-paziente. Nel modello tradizionale, che abbiamo chiamato pre-moderno, l’informazione al paziente e la sua partecipazione attiva nelle decisioni cliniche che lo riguardano non avevano né una collocazione teorica, né un’espressione pratica. Tutto quello che si richiedeva era l’assenso del paziente, che si traduceva nell'obbediente esecuzione delle prescrizioni mediche.

Non sarebbe giusto valutare l’etica medica del passato a partire da ciò che in essa troviamo di carente. Essa è stata caratterizzata, invece, da grandi valori ideali, in un orizzonte di filantropia. La pratica della medicina si è sostanzialmente sentita vincolata dalla volontà dei medici di mettere tutto il loro sapere a servizio

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della salute dei pazienti, promuovendo il loro miglior interesse. Comunque lo si voglia formulare, questo fondamentale dovere ha tradizionalmente regolato la professione medica.

Per verificare la sostanziale tenuta nei secoli di tale impegno, possiamo confrontare la «clausola terapeutica» del Giuramento di Ippocrate, sopra riportata, con una delle più recenti formulazioni dell’etica ippocratica. Essa risale al 1988. In tale data, il tradizionale incontro scientifico-commerciale di Milano-Medicina è stato inaugurato da un simbolico «processo a Ippocrate»: intellettuali e studiosi di diverse discipline sono stati mobilitati per un’analisi in profondità del celebre Giuramento e dell’etica medica che esso rappresenta. Valutati i pro e i contro di uno dei documenti fondamentali della tradizione dell’Occidente, considerate tutte le riserve, le condanne sommarie e le apologie d’ufficio, si è optato alla fine per la redazione di un nuovo testo del Giuramento, elaborato da un comitato di esperti del Corriere medico.

Se raffrontiamo la nuova versione della clausola terapeutica con l’antica, possiamo constatare che lo spirito dello storico Giuramento resta immutato:

Accoglierò con umanità e sensibilità coloro che a me si affidano perché li curi, e parteciperò loro la mia dottrina affinché possano da uomini liberi trarre conforto e aiuto dall’arte medica, in salute e in malattia. E sarà mio impegno stare sempre vicino al paziente con pazienza pari alla sua. E stare sempre dalla sua parte, e soltanto dalla sua, con passione tutta mia.

Eserciterò la mia arte secondo un sapere che mi impegno ad accrescere costantemente, e prescriverò farmaci secondo un giudizio che manterrò puro e retto, e che sempre mi guiderà nello scegliere quei rimedi che sicuramente si siano dimostrati

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giovevoli. Non farò della mia arte ingiusto lucro, né anteporrò alcun interesse a quello del malato, nemmeno se richiesto dal potere di chi amministra e governa la cosa pubblica.

Sotto gli aggiornamenti, i raffinamenti stilistici e gli ampliamenti retorici, è facilmente riconoscibile in filigrana l’antico testo. L’atteggiamento di fondo che ispira l’etica medica è lo stesso: si tratta di un dovere del medico, al quale non fa riscontro, però, un diritto giuridicamente rivendicabile da parte del malato.

L’elevatezza morale del modello a cui il medico cerca di adeguare il suo comportamento dà ancora più rilievo all’essenziale asimmetria del rapporto con il paziente. Il professionista sanitario è colui che sa qual è il bene del malato e mette tutto il suo impegno a realizzarlo.

Le resistenze dei medici, cresciuti all’interno di questo modello, ad abbandonarlo hanno dalla loro parte delle buone ragioni. Intanto la constatazione quotidiana di quanto sia illusorio un rapporto simmetrico tra sanitario e paziente: lo stato di malattia comporta naturalmente una condizione di bisogno, e quindi di fondamentale disparità. Qualcuno arriva a pensare che parlare di rapporto simmetrico tra chi fornisce le cure e chi le riceve sia un discorso puramente demagogico.

Per le nozioni di interazioni complementari o simmetriche dobbiamo rifarci alla «pragmatica della comunicazione umana». Secondo la descrizione che fa Watzlawick della relazione complementare, le posizioni che assumono i due partner si rispecchiano l’una nell’altra. Un partner assume la posizione superiore o primaria (detta in inglese one-up), mentre l’altro tiene la posizione inferiore o secondaria corrispondente (one-down). È quanto si realizza nelle relazioni madre-figlio, medico-paziente, insegnante-allievo. «Un partner

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non impone all’altro una relazione complementare, ma piuttosto ciascuno si comporta in un modo che presuppone il comportamento dell’altro, mentre al tempo stesso gliene fornisce le ragioni» (Watzlawick et al., 1971, p. 61 s.). Certo, l’autonomia del paziente non può essere data per scontata. È più il risultato finale di un’educazione e di una crescita che un pacifico punto di partenza.

Ma c’è anche una ragione di più alto profilo nell’aderire agli ideali veicolati per secoli dalla medicina ippocratica: il mondo non anglosassone, specialmente quello di tradizione latina, si trova più a suo agio in una formulazione dell’etica che non sia centrata sull’individuo autonomo e rivolto alla difesa dei propri diritti, ma si orienti piuttosto verso il «prendersi cura» reciproco, come struttura primordiale dell’esistenza umana (cfr. Rodotà, 1995).

La prospettiva è molto familiare alle professioni sanitarie, che in genere sentono come estraneo il linguaggio della bioetica elaborato a partire dalla prospettiva dei diritti individuali, della privacy, dell’autonomia. Nel mondo culturale latino è più familiare l’etica della virtù, rispetto a quella dei diritti (Gracia, 1993); dall’etica ci si aspetta che guidi l’azione verso la qualità eccellente, piuttosto che si ponga a tutela dell’individuo, vigilando perché non sia violato nella sua autodeterminazione autonoma.

Ogni medico coscienzioso sa, ad esempio, che sarebbe irresponsabile da parte sua limitarsi a registrare richieste e rifiuti da parte dei pazienti. Le decisioni spesso sono prese sotto l’influenza di stati d’animo turbati. Un medico consapevole dei suoi doveri, e «alleato» con il paziente nella ricerca del suo miglior interesse, non può rinunciare a esercitare l’arte della persuasione. Per esempio: un intervento demolitivo  specie se devastante per l’immagine corporea, come la mastectomia per una donna  potrebbe essere rifiutato

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di primo acchito, mentre la bilancia potrebbe, in un altro momento, pendere della parte del beneficio procurato da tale scelta.

Il paternalismo non può essere rifiutato in blocco, quasi fosse uno stigma vergognoso di tutta la medicina premoderna. C’è ancora e ci sarà sempre nella pratica della medicina un ampio spazio dove il medico può espletare quella funzione di sostegno che nella vita normale si identifica con ciò che fa un buon padre o una buona madre. È opportuno che il medico difenda, anche per la medicina del futuro, la convinzione che la buona cura comincia con il prendersi cura.

● Cure sanitarie e diritti della persona.

Il cambiamento nel rapporto tra medico e paziente che nello schema generale di evoluzione dell’etica in medicina abbiamo sintetizzato come processo di «modernizzazione» (nel preciso senso culturale di passaggio all’epoca «moderna», sinonimo di democrazia politica e di liberalismo economico, che ha progressivamente modificato tutte le aree della vita sociale) comporta una trasformazione che si può paragonare al cambiamento delle regole del gioco. Queste sono una cosa importante nella convivenza umana: che si tratti di sport o di sanità, di elezioni politiche o di accesso alle prestazioni erogate del Servizio sanitario nazionale.

Chi ha a cuore che i cambiamenti avvengano in modo da non pregiudicare il pacifico svolgimento della vita sociale deve dare una priorità assoluta alle regole. Le modifiche delle regole vanno notificate a tutti, per tempo, ripetutamente, verificando che l’informazione arrivi a ognuna delle persone coinvolte e che ci sia un adeguato consenso al cambiamento.

Ebbene, in medicina, il passaggio all’epoca moderna comporta un cambiamento delle regole. Il primo sospetto che ci assale è che la trasformazione non sia accompagnata da un’informazione accurata, scrupolosa

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e capillare, come certamente faremmo se cambiassero le regole del gioco del calcio. Di solito, al cambiamento delle regole viene opposta resistenza. I comportamenti umani, infatti, sono vischiosi: tendono a resistere al cambiamento, in particolare quando la perseverazione è favorita da una coesione omogenea di tutto un gruppo professionale.

Nel caso particolare della professione medica, si tratta di comportamenti motivati in senso altamente etico e umanitario. I medici hanno di se stessi una comprensione centrata sul beneficio da arrecare alla salute dei pazienti; l’azione medica vuol essere intesa come rivolta al miglior interesse del malato. Dall’interno del mondo medico si sviluppa perciò una forte resistenza al cambiamento delle regole, proprio perché quelle precedentemente in vigore appaiono ispirate ai più alti ideali.

Le cure sanitarie, oggi, si devono armonizzare con il rispetto dei diritti della persona. Questa formulazione sintetica del cambiamento che comporta l’epoca moderna acquista contenuto concreto quando consideriamo analiticamente tali diritti. Proviamo a prendere come punto di riferimento una delle formulazioni più note dei diritti umani: la dichiarazione di indipendenza degli Stati americani redatta da Thomas Jefferson nel 1776. Tra le verità che non hanno bisogno di essere dimostrate, in quello storico documento è citato il fatto che tutti gli uomini sono per natura liberi e indipendenti e che sono dotati di certi diritti innati, dei quali non possono essere privati a nessun patto: come il «diritto alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità (the pursuit of happiness)».

Gli sviluppi bio-medici più recenti costringono la società a confrontarsi anche con il diritto alla vita, come limite invalicabile. Le sicurezze che ci hanno accompagnato per secoli si incrinano di fronte a fatti nuovi. Chi va protetto, in nome del suo irrinunciabile

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diritto alla vita? Questo diritto si estende al feto, e a partire da quale fase dello sviluppo embrionale? È un diritto esclusivo degli esseri umani o si estende anche ad altre forme di vita animale? E ancora: fino a che punto va protetto il diritto alla vita? Il diritto alla vita va tutelato anche quando una vita ha perduto le qualità umane più fondamentali? Sono altrettanti capitoli scottanti della bioetica contemporanea.

A noi, qui, interessa soprattutto analizzare il nuovo rapporto con il secondo dei diritti dell’uomo menzionati nella dichiarazione di indipendenza americana: il diritto alla libertà. In termini sociali, tale diritto è stato fatto equivalere all’autonomia, intesa come capacità dell’individuo di autodeterminarsi nelle scelte. Comprese quelle che avvengono nell’ambito delle cure sanitarie. Nel modello tradizionale, le regole del gioco prevedevano una specie di sospensione dell’autonomia, quando l’individuo veniva a trovarsi nello stato di malattia: il medico  spesso in collaborazione con la famiglia del malato  è autorizzato a valutare quali informazioni fornirgli, a scegliere il trattamento appropriato e i percorsi da fargli seguire nell’accidentato cammino verso la salute (e ancor più in quello verso la morte).

Il diritto alla libertà, nella sua versione di diritto a scelte autonome, è apparso nello scenario della sanità come un diritto di seconda generazione, rispetto ai diritti fondamentali che costituiscono il tessuto delle società democratiche e per i quali sono state fatte le rivoluzioni liberali dell’epoca moderna. Secondo lo storico della medicina Diego Gracia, fino agli anni più recenti la rivoluzione liberale e democratica ha stentato a imporsi in medicina, così come invece ha modificato altri ambiti della vita sociale.

La pratica del diritto alla libertà in medicina è stata coltivata soprattutto negli Stati Uniti, anche per la propensione degli americani a risolvere i conflitti per via

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giudiziaria. L’impatto della prospettiva dei diritti sul modello tradizionalmente vigente in sanità, centrato sull’ideale umanitario e sul dovere del medico di orientare la sua azione al bene del malato, è stato dirompente.

Una delle prime formulazioni del diritto del paziente al rispetto della propria autonomia anche in ambito sanitario è quella del giudice Benjamin Cardozo, in una sentenza del 1914: «Ogni essere umano adulto e capace di intendere e di volere ha diritto di decidere che cosa viene fatto al suo corpo» (Faden, Beauchamp, 1986). Come l’albero del seme, in questa frase è contenuto tutto lo sviluppo, avvenuto negli ultimi due decenni, verso la regolamentazione del consenso informato e la tutela sempre più minuziosa del diritto del paziente a essere coinvolto nelle decisioni cliniche che lo riguardano. La legge dell’Autodeterminazione del 1991, che abbiamo analizzato nei riferimenti normativi, può essere considerata come il punto di arrivo finale dell’intera parabola del diritto alla libertà applicato alla sanità.

Nonostante la sorda resistenza dei medici formati in una tradizione più ispirata al principio di beneficità e al paternalismo che al rispetto dell’autonomia, il movimento della «modernizzazione» della pratica medica si è esteso a tutti i Paesi dell’area occidentale. L’informazione del paziente e l’acquisizione abituale del consenso non è più un optional: tende a diventare un obbligo deontologico, e in alcuni casi anche legale.

Questi sviluppi dell’autonomia del paziente e del suo diritto all’informazione potrebbero procedere anche verso uno scenario infausto. È possibile immaginare che lo spostamento di accento dalla beneficità all’autonomia del paziente avvenga in un clima avvelenato dalla diffidenza e dal risentimento per il potere perduto, col triste risultato che il diritto alla libertà si tramuti nella sua caricatura: cioè nel «diritto» a essere lasciato solo, proprio nel momento in cui il malato

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ha maggior bisogno della presenza benevola ed efficace di un sanitario che lo assista, non solo con quanto la scienza gli mette a disposizione, ma anche con la sua completa umanità. Lo sviluppo della richiesta di un consenso informato  magari redatto su un modulo apposito per fini burocratici  potrebbe risultare come un espediente per rifilare al malato la responsabilità per decisioni che andrebbero invece condivise.

L’integrazione del diritto all’informazione e del rispetto dell’autonomia personale nella pratica della medicina, dovrebbe avvenire senza rinuncia ai valori impliciti nella medicina, ispirata al bene del paziente. Se qualcosa deve finire, non sono gli ideali della medicina ippocratica, bensì la pratica della «medicina del silenzio», ovvero di quella medicina come muta ars (questa efficace definizione della medicina si trova nell'Eneide di Virgilio), che ritiene di poter fare a meno del dialogo col paziente. Perché i veri benefici per il malato, quelli che rispettano i suoi valori e le sue scelte di vita  quel beneficio che presuppone una intelligente negoziazione tra le enormi potenzialità della medicina di oggi e le aspirazioni qualitative che reggono la vita di una persona  non si possono individuare senza una vera comunicazione.

La formulazione dei diritti umani dalla quale abbiamo preso le mosse menzionava, tra le «verità che non hanno bisogno di essere dimostrate», anche il diritto innato dell’uomo alla «ricerca della felicità». Nei confronti di quest’ultimo diritto, noi europei siamo stati sempre piuttosto scettici. La «ricerca della felicità» l’abbiamo lasciata all’iniziativa individuale del cittadino, chiedendo allo Stato di occuparsi solo dei primi due diritti: la protezione della vita e la tutela della libertà. La ricerca della felicità non l’abbiamo scritta tra i diritti costituzionali, e tanto meno abbiamo considerato un possibile legame tra questa e la pratica

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della medicina. Eppure niente sembra più attuale di questa nuova frontiera di diritti, che potremmo chiamare «diritti di terza generazione». Essi emergono insieme a una nuova richiesta di salute, non più limitata alla lotta contro la malattia, ma identificata con il pieno benessere: fisico, psichico, sociale e spirituale.

Quella che si profila è una diversa fisionomia globale della medicina, per la quale è stata coniata l’espressione «medicina del desiderio». Il modellamento del corpo sul desiderio diventa l’elemento trainante della ricerca di salute nella società ad alto sviluppo economico. Il ventaglio degli interventi richiesti a questo tipo di medicina è molto ampio. Comprende  tanto per nominarne alcuni  i trattamenti antistress ed estetici; la regolazione della fertilità oltre, e talvolta contro, i limiti posti dalla natura (fecondazione in vitro, gravidanza dopo la menopausa, programmazione del sesso del nascituro, modifiche dell’eredità genetica); la determinazione da parte del soggetto della quantità e qualità delle cure che determinano la lunghezza della vita giunta al termine.

Il nodo etico di questo tipo di domanda di salute, radicata nella personale «ricerca della felicità» concepita come un diritto, si stringe intorno all’espropriazione della decisione  che era insieme di natura clinica ed etica  che tradizionalmente era di competenza del medico. In una medicina di questo profilo, al sanitario sembra sottratta qualsiasi facoltà di intervenire con un proprio giudizio etico sull’azione appropriata. Quello che ci si attende da lui è solo una prestazione d’opera, finalizzata a realizzare obiettivi che gli sono imposti da un paziente promosso ormai a «utente», quando non addirittura a «cliente».

L’obiezione di coscienza rimane un’estrema barriera contro l’avanzata del desiderio in medicina, che minaccia di travolgere il tradizionale modello di rapporto medico-paziente. Questa possibilità ha avuto un

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esplicito riconoscimento nel caso dell’interruzione di gravidanza (legge 194 del 1978). Le più recenti revisioni del codice deontologico dei medici italiani (1995 e 1998) hanno innalzato una barriera contro le pratiche di fecondazione medicalmente assistita che più si allontanano dal profilo di aiuto medico a un problema di sterilità della coppia. Viene ribadita inoltre l’indisponibilità del medico alla richiesta di mettere fine alla vita del paziente o di affrettare l’esito inevitabile. È forse opportuno prendere in considerazione la possibilità che la non disponibilità del medico, per ragioni di coscienza, possa essere invocata anche in altre circostanze create dalla medicina del desiderio, per garantire al sanitario il pieno rispetto dell’autonomia della sua decisione etica, che gli spetta come soggetto.

● La responsabilità per la propria salute.

Nello scenario culturale che abbiamo visto come tipico dell’epoca moderna cambiano correlativamente sia i diritti, sia i doveri del medico e del paziente. L’altra faccia del diritto del paziente a entrare attivamente nel processo decisionale che lo porterà, insieme al medico, alle scelte terapeutiche che meglio esprimono i suoi valori personali, è costituita dal suo dovere di rendersi responsabile per la propria salute e per la qualità della propria vita. La prima conseguenza concreta è che il paziente diventa compartecipe dell’incertezza del medico.

Nessuno ha contribuito in misura maggiore della sociologa americana Renée Fox a mettere a fuoco il posto che occupa l’incertezza nel sapere medico. Da più di un trentennio, la studiosa si dedica a esplorare il ruolo che ha l’incertezza nella formazione dello studente di medicina, nella socializzazione del medico e nella condizione umana dei professionisti della salute; l’incertezza è il filo rosso che lega le sue ricerche, il

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suo insegnamento, i suoi scritti. L’insieme della sua opera ci permette di registrare i profondi cambiamenti che il problema della certezza in medicina ha subito nel giro di una generazione.

Discepola del sociologo Talcott Parsons, Renée Fox ha cominciato a occuparsi, fin dagli anni Cinquanta, del modo in cui gli studenti di medicina vengono socializzati nella professione. Nel saggio che raccoglieva la sua prima ricerca  intitolato Training for uncertainty, Fox, 1957  giungeva alla conclusione che ciò che è specifico della formazione medica è di essere un itinerario finalizzato a fornire la capacità di gestire l’incertezza.

Durante il lungo allenamento, il medico in formazione è confrontato con tre tipi fondamentali di incertezza. Il primo è quello che deriva da un dominio incompleto o imperfetto del sapere disponibile: nessuno è in grado di possedere tutte le qualificazioni e tutte le conoscenze del sapere medico. Il secondo tipo di incertezza dipende dai limiti propri della conoscenza medica attuale (esistono immensi problemi ai quali nessun medico, per quanto esperto, può dare ancora una risposta, anche se è legittimo sperare che lo si possa fare in futuro). Una terza causa di incertezza è quella che consiste nella difficoltà di distinguere l’ignoranza o l’incapacità personale dai limiti specifici della conoscenza medica attuale; ovvero, in parole semplici, se l’eventuale fallimento vada imputato all’ignoranza del medico o a quella della scienza.

All’occhio dello studioso dei comportamenti sociali risulta agevole stabilire un rapporto tra l’incertezza del sapere medico e quella intrinseca alla condizione umana, nella quale i fatti relativi a salute, malattia, benessere, morte, sofferenza sono sempre problemi critici di significato. Ma il sociologo è in grado di distinguere anche i meccanismi attraverso i quali gli studenti di medicina in formazione riescono ad adattarsi all’incertezza. Al termine dell’«allenamento all’incertezza»,

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gli studenti diventano capaci di accettare l’incertezza come inerente alla pratica professionale della medicina, di distinguere i limiti propri da quelli della scienza, di affrontare l’incertezza con un certo candore e una positiva filosofia venata di scetticismo.

Studiando l’evoluzione dell’incertezza medica, Renée Fox ha notato una marcata differenza tra quella degli studenti in medicina degli anni Cinquanta e l’incertezza tipica dei decenni successivi (Fox, 1974 e 1980). La nuova e più forte sensibilizzazione all’incertezza medica, i cui inizi si possono far risalire alla metà degli anni Settanta, presuppone l’affermarsi della nuova biomedicina e di quella riflessione critica che ha preso il nome di bioetica. Il contesto sociale è cambiato, e quindi anche il profilo dell’incertezza. Questa non si situa più solo all’interno della scienza medica, ma piuttosto alla frontiera tra la medicina, la politica e l’etica.

Le problematiche bioetiche danno all’incertezza connotazioni molto più ampie. Un significato emblematico assume in questo senso la perplessità relativa alla ricerca con manipolazione del DNA. Il presentimento che la capacità di manipolare i geni potrebbe alla fine provocare una catastrofe si abbina a dubbi circa i limiti delle regolamentazioni relative alla ricerca scientifica («Chi decide, a chi competono le decisioni?»). Un discorso analogo si può fare circa gli effetti nocivi di prodotti chimici e di farmaci sull’ambiente e sulla salute dell’uomo (prodotti cancerogeni o mutageni). La stessa metodologia della ricerca  per esempio, la validità dei test di sostanze cancerogene fatti sull’animale  crea problemi notevoli di incertezza. La pratica di prescrivere delle norme e di tormentarsi su questa prescrizione (vedi il ricorso alle «moratorie» in vari ambiti: ingegneria genetica, trapianti sperimentali di organi, ricerca sull’embrione) lascia emergere una figura inedita di incertezza che potremmo chiamare «incertezza di secondo livello», ovvero «incertezza dell’incertezza».

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La maggior parte dei problemi posti attualmente dall’incertezza e dal rischio non si può comprimere entro il quadro analitico di una sola disciplina o di una singola professione. Le incertezze associate ai progressi scientifici e tecnici più recenti (come il trapianto di organi, il depistaggio di malattie genetiche e la diagnosi prenatale, la chemioterapia per il cancro) sono legate a metaproblemi che eccedono l’ambito dell’incertezza medica. Sia che si parli dei rischi potenziali paragonati ai vantaggi eventuali, delle conseguenze aleatorie che determinati interventi terapeutici possono comportare per la salute e la sopravvivenza, di capacità predittiva di test diagnostici, oppure della qualità della vita, inevitabilmente incontriamo problemi fondamentali della società e della stessa condizione umana (cfr. Spinsanti, 1991).

Dall’analisi dell’evoluzione dell’incertezza medica nel corso di un trentennio, Renée Fox giunge alla conclusione che «esiste almeno una coscienza collettiva latente del fatto che le nostre istanze politiche, legislative e professionali attuali non possono inglobare completamente, né risolvere convenientemente il senso profondo delle nostre questioni morali e metafisiche riguardanti l’incertezza relativa alla salute e alla medicina» (Fox, 1980).

Nella medicina attuale sembra giunta all’estrema maturazione quell’incertezza che già il primo, e il più celebre, degli Aforismi attribuiti a Ippocrate considerava come l’orizzonte naturale in cui si esercita l’arte medica:

La vita è breve,

l’arte lunga,

l’occasione fuggevole,

l’esperienza fallace,

il giudizio difficile.

L’incertezza è, dunque, l’orizzonte connaturale alla decisione clinica, con gli aspetti etici connessi. Il delicato equilibrio del sapere medico, perpetuamente oscillante

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tra la certezza e l’incertezza (ivi comprese le certezze autentiche e quelle ideologiche, che presuppongono una semplificazione deformante della realtà, le incertezze paralizzanti e quelle creative, perché si aprono su orizzonti di senso più ampio) è dovuto al fatto che oggetto della medicina non sono propriamente le malattie, ma uomini malati. È il soggetto umano il centro di gravitazione del sapere medico. Ogni sapere relativo alla patologia che, per diventare certo, escluda il soggetto, si condanna con ciò stesso a fallire il suo obiettivo.

Senza il soggetto, non si capisce la malattia; senza il soggetto, non si realizza la guarigione. Forse si può avere la guarigione in senso riduttivo, intesa come restaurazione di uno status quo ante. La guarigione in senso antropologico pieno differisce dal recupero dello stato di salute previo all’irrompere della malattia e comprende variabili quali l’aumento della consapevolezza, il cambiamento dello stile di vita, l’acquisizione di una conoscenza di sé che includa quella parte di ombra che probabilmente gioca un certo ruolo nella creazione della malattia. Una guarigione con questo spessore non può darsi senza la partecipazione del soggetto.

Quello che osserviamo nella prassi medica quotidiana è, invece, proprio la sistematica esclusione del soggetto, inteso come momento fondamentale unificatore, in cui il biologico, lo psichico e il sociale si riuniscono sotto la categoria del biografico. Quando si pretende di dar ragione della malattia, evacuando il soggetto, si produce una dipendenza, che è allo stesso tempo psicologica e istituzionale, dall’apparato sanitario, cui corrisponde un’implicita delega agli «esperti» di attuare la guarigione.

Questo abbandonarsi passivo trova, spesso, riscontro nella volontà esplicita di coloro che rappresentano il sapere medico di escludere le complicazioni che derivano da un coinvolgimento del soggetto. Il messaggio: «Tu non c’entri per niente con la tua malattia»,

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trasmesso almeno implicitamente attraverso una gestione del tutto impersonale del fatto morboso, produce un irreparabile impoverimento antropologico della malattia, ma anche una semplificazione del processo terapeutico che può risultare allettante tanto per il sanitario, quanto per il malato.

La guarigione, intesa come evento sostanziale più pregnante, più globale del semplice recupero della salute, cioè come una possibilità di riappropriarsi di se stesso, non può avvenire soltanto adattandosi alle regole di comportamento che i rituali sanitari stabiliscono per il «buon» paziente. Nessuno può sapere al posto del soggetto qual è il cammino verso la guarigione, nel suo equilibrio assolutamente singolare di resistenza e resa, di male da combattere e male da accettare.

La resistenza dei sanitari ad accettare la partecipazione del soggetto  e quindi, come antropologia implicita, il significato personale della malattia e della guarigione nell'insieme del processo terapeutico  è solo una parte della verità. L’altra metà del fallimento del programma di dare spessore antropologico alla medicina va attribuita ai malati stessi. Sono essi che vogliono semplicemente liberarsi di un sintomo e non scendere fino alle radici della malattia, là dove si incontra la propria partecipazione al fatto di essere malato e dove si è chiamati ad assumere la propria responsabilità per la guarigione.

Un approccio etico positivo, che rispetti il senso soggettivo della malattia e della guarigione e non deresponsabilizzi il malato ma lo guidi, piuttosto, a riprendersi la responsabilità della sua vita proprio attraverso la vicenda patologica che sta attraversando, ha un difficile compito davanti a sé. Il principale ostacolo è costituito dalla contrapposizione corrente tra due atteggiamenti di fondo nei confronti del sintomo morboso: comprendere ed eliminare.

L’approccio psicoterapeutico ha fatto proprio il primo. Per lo psicoterapeuta il sintomo va interrogato,

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affinché lasci trapelare il suo senso; la guarigione viene fatta coincidere non con la semplice eliminazione del sintomo, ma con l’appropriazione del suo significato da parte del soggetto. Questa concezione si è estesa tutt’al più alle somatizzazioni nevrotiche, ma non al resto della malattie somatiche di competenza della medicina. La pratica terapeutica di quest’ultima si è sempre più identificata con l’approccio che si propone di eliminare il sintomo.

La clinica si può rinnovare solo se, senza ratificare questa contrapposizione tra il comprendere e l’eliminare, instaura una pace tra queste due dimensioni o concezioni dell’atto terapeutico. È necessario abolire la distinzione artificiale, o soltanto di comodo, tra clinica delle malattie somatiche e clinica della patologia di tipo psicologico, che si basa su un dualismo che la medicina cosiddetta psicosomatica ha solo sfumato, senza riuscire ad abolirlo.

Il mettere pace inizia con il dissipare gli equivoci: coloro che sono tutti tesi verso la strategia dell’eliminazione sospettano coloro che inclinano verso il comprendere, quasi fossero alleati della malattia, conniventi con il male; per contro, coloro che si collocano sul versante del comprendere accusano pesantemente i sanitari che identificano il proprio compito con l’eliminazione della patologia di praticare una specie di veterinaria applicata all’uomo, riducendo il proprio ruolo a quello di meccanici dell’organismo. Queste due modalità non vanno contrapposte, ma integrate.

Quando alla malattia si dà il permesso di parlare fino in fondo e si esercita verso di essa un ascolto totale, si può realizzare la chiusura del circolo ermeneutico, mediante un comprendere che non è antitetico ma complementare all’eliminare. Solo questo è un processo terapeutico completo, che comporta l’esigenza di dare alla malattia dell’uomo tutto lo spessore soggettivo che le compete.

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● La soddisfazione è l ’anima della nuova medicina.

Prendiamo le mosse per le nostre considerazioni da un caso esemplare: l’organizzazione di un centro per la cura del diabete.

Il servizio di diabetologia di un ospedale di provincia ha un numero di prestazioni che eccede la pur notevole disponibilità personale dei medici e delle infermiere che vi lavorano. Le richieste aumentano e il personale non riesce a farvi fronte. Volendo modellarsi su un ideale di massima accessibilità, gli operatori non hanno voluto introdurre né filtri, né sistemi di prenotazione: chiunque può recarsi nell’ambulatorio e richiedere la visita. La sala di attesa è sempre affollata. Sono per lo più persone anziane, per le quali qualche ora di attesa non è pesante; anzi, utilizzano il tempo per chiacchierare con altri pazienti, scambiare racconti di malattia, interagire con le infermiere. Nell’insieme i pazienti diabetici che frequentano il servizio sono soddisfatti; ma si può dire che siano giustamente soddisfatti?

L’interrogativo sorge quanto l’analisi della distribuzione delle visite nel corso di un anno  resa facile dal fatto che tutta la documentazione dell’attività del servizio è informatizzata  mostra che il numero maggiore delle visite, assoluto e percentuale, è dedicato ai pazienti nella fascia di età compresa tra 60 e 80 anni. Questi pazienti ricevono in media 4 visite per anno. La stessa percentuale di visite per anno tocca ai pazienti più giovani, ventenni e trentenni. Ma i pazienti giovani, affetti da diabete di tipo I e trattati con insulina, dovrebbero avere  secondo i protocolli di buona pratica clinica  almeno 6 visite l’anno, mentre per gli anziani, con diabete di tipo II e non insulinodipendenti, viene assunto un fabbisogno medio di due visite l’anno (cfr. linee-guida riportate dalla rivista Il diabete, vol. 6, Suppl. al n. 1, marzo 1994).

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Secondo queste linee-guida, dunque, nel servizio di diabetologia in questione gli anziani sono sovratrattati e i giovani sottotrattati. Le condizioni in cui viene offerto il servizio incidono sulla diversità di accesso: l’assenza di prenotazione, infatti, dissuade i giovani  con attività lavorativa  a fare le numerosi ore di attesa, che sono invece gradite agli anziani. Considerando l'indicazione clinica (ovvero la risposta alla domanda: «Qual è il miglior beneficio per il paziente?») e l'appropriatezza sociale («Come ottimizzare l’uso delle risorse?»), la soddisfazione/insoddisfazione dei vari gruppi di pazienti riceve una diversa connotazione morale: i pazienti sovratrattati, per quanto soddisfatti, lo sono «ingiustamente» (in quanto utilizzano a proprio vantaggio in misura eccessiva la risorsa scarsa costituita dal tempo professionale dei sanitari); i pazienti sottotrattati, se sono soddisfatti  magari perché non informati correttamente del numero di visite necessario per seguire in modo appropriato il decorso della malattia  sono «ingiustamente» soddisfatti; se sono invece insoddisfatti, perché l’organizzazione del servizio non rende loro agevole usufruirne senza sacrificare troppo tempo nell’attesa di una visita, lo sono giustamente.

La soddisfazione/insoddisfazione degli utenti del servizio  considerati in questo caso come «clienti» , qualora sia correlata con la preoccupazione di fare «la cosa giusta», diventa lo stimolo a introdurre dei cambiamenti che migliorino la qualità del servizio.

Da «pazienti» a «utenti»: l’innovazione linguistica è stata introdotta dalla Carta dei servizi pubblici sanitari (1995), dove si indica «la tutela dei diritti degli utenti» quale obiettivo della Carta dei servizi e si individua la mission del servizio pubblico: «fornire un servizio di buona qualità ai cittadini-utenti». Il percorso da paziente a utente  già preparato dai decreti di riordino del Ssn, che parlano di «diritti» dei cittadini e

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orientano verso indicatori della qualità del servizio che ricevono, dal punto di vista di tali diritti: D.L. 517/1993, art. 14  implica il superamento del rapporto tradizionale tra sanitari e malati, in cui questi sono considerati esclusivamente come «pazienti».

Da utenti a «clienti», il passo è breve. Anche se la dizione non appare nei documenti ufficiali che definiscono il profilo della nuova sanità, è il modo sempre più frequente di qualificare i rapporti tra coloro che erogano i servizi sanitari e coloro che li ricevono. Il manuale di J. Ovretveit: La qualità del servizio sanitario, EdiSES, Napoli, 1996, tanto per fare un esempio, parla senza esitazione della qualità valutata «dal punto di vista del cliente».

Nel mondo sanitario si registra un’esplicita avversione ad adottare la nuova terminologia. Il rifiuto è motivato dall’oscura percezione di una profonda trasformazione che verrebbe introdotta nel rapporto tra professionista sanitario e malato. Bisogna riconoscere, tuttavia, che il cambiamento che ciò implica non è uguale per tutti. Chi pratica la medicina su base privatistica  lo specialista nel suo studio privato o la clinica convenzionata  sa già bene che il paziente va trattato come un cliente, della cui soddisfazione si deve tener conto: un paziente insoddisfatto è un cliente perso (e una pessima pubblicità per la propria struttura).

Completamente diversa è la posizione di chi offre servizi in un regime di monopolio, o comunque nell’ambito di un servizio pubblico al quale, fino alla recente «riforma della riforma», non veniva richiesta l'efficienza e il suo correlato, vale a dire il consolidamento dell’utente e la sua fedeltà alla struttura; a queste condizioni la soddisfazione di colui che riceve il servizio è un optional, lasciato per lo più alla sensibilità dell’operatore e ai suoi sentimenti umanitari.

In una posizione intermedia si collocano i medici di medicina generale. Non possono permettersi di ignorare la soddisfazione/insoddisfazione dei loro iscritti, per

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la buona ragione che questi hanno la facoltà di cambiare medico. La discussione tra medici di medicina generale, avviata in un sito di Internet, relativa alla misura di compiacenza tollerabile nei confronti di un paziente, che chiede giorni di malattia non giustificati dal suo stato clinico riflette con esattezza tale posizione.

Considerare il paziente come un cliente  con il corollario inevitabile di prendere a cuore la sua soddisfazione  comporta indubbiamente un cambiamento nella pratica della medicina. I timori relativi al pericolo che in questo passaggio possano andar persi dei valori tradizionali e si introducano elementi deformanti non sono ingiustificati. Prima, tuttavia, di considerare tale via non percorribile, proviamo a vedere quale scenario si apre se introduciamo il correttivo della «giusta» soddisfazione.

Scopo della medicina non è di ottenere una qualsiasi soddisfazione da parte del paziente/utente/cliente, ma solo quella soddisfazione che possa essere qualificata come «giusta». Possiamo prendere come punto di partenza una fenomenologia della soddisfazione che, coniugata con ciò che la rende giusta o ingiusta, dà luogo a quattro posizioni di base:

IL QUADRILATERO DELLA SODDISFAZIONE

giustamente soddisfatto

giustamente insoddisfatto

ingiustamente soddisfatto

ingiustamente insoddisfatto

Lo schema può avere un’utilizzazione di tipo intuitivo. Visualizza, infatti, un ridimensionamento della soddisfazione o insoddisfazione del paziente, da considerare non come l’ultimo criterio della qualità, ma come il penultimo. Invita a riferirsi a dei valori che possono rendere

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tanto la soddisfazione quanto l’insoddisfazione giusta o ingiusta. Soddisfazione e insoddisfazione devono, in altre parole, misurarsi con le esigenze dell’etica.

La soddisfazione del paziente non può diventare un assoluto, ma va confrontata con alcune esigenze imprescindibili. I modi di ottenere una soddisfazione ingiusta possono essere molti: alcuni a danno del paziente (si può arrivare anche a dargli delle informazioni inesatte, fino al vero e proprio imbroglio), altri a danno di terzi (è chiaro che il paziente a cui faccio, per un privilegio o un favoritismo, saltare la lista d’attesa è soddisfatto; ma è ingiustamente soddisfatto in rapporto con le esigenze dell’equità, la quale richiede che tutti siano trattati con uguale considerazione e rispetto).

Non mancano neppure situazioni nelle quali, intuitivamente, possiamo catalogare come ingiusta l’insoddisfazione eventualmente espressa dal paziente. È il caso, ad esempio, del paziente che va dal medico con la sua richiesta di un farmaco (magari quello che ha fatto tanto bene al suo vicino di casa o di cui ha sentito la pubblicità...) e che si vede respinta la sua richiesta; oppure vuole un trattamento di compiacenza, come un certificato falso di malattia.

Per essere pienamente apprezzato, lo schema richiede che si passi da una impressione sulla giusta/ingiusta soddisfazione elaborata in maniera intuitiva a un giudizio argomentato, riferito a dei modelli espliciti di etica. O piuttosto di etiche, al plurale. Perché nell’ambito delle decisioni di natura sanitaria possiamo riconoscere la presenza dei tre modelli etici, che abbiamo presentato sistematicamente più sopra. Secondo il modello paternalista, che ha sostanziato l’etica medica di stampo ippocratico, buona medicina è quella che procura il maggior beneficio al paziente. Si assume implicitamente che il paziente si affidi al medico, lasciando a lui il compito di scegliere  «in scienza e coscienza»  la via diagnostica e gli interventi terapeutici che vanno a suo vantaggio.

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Il modello etico della modernità, diffuso ai nostri giorni soprattutto dalla bioetica, ha invece come valore centrale l’autonomia del paziente e la sua partecipazione alle decisioni che lo riguardano, facendo valere i suoi diritti e orientando la scelta secondo i valori che danno forma alla sua vita. Secondo questo modello, non si può fare il bene del paziente «contro» le sue preferenze o ignorando tutte quelle procedure informative che possono metterlo in grado di essere protagonista del processo di cura.

Il terzo modello di buona medicina è quello che nasce nell’orizzonte di una sanità che si confronta seriamente con l’era dei limiti che è la nostra. Il valore dominante è quello dell’uso ottimale di risorse limitate, che permetta una vera solidarietà con i soggetti più fragili e una ripartizione equa di oneri e benefici. Quello che possiamo fare per un malato, anche se valutabile con un punteggio alto sul parametro dell’appropriatezza clinica e su quello delle preferenze personali, potrebbe collocarsi molto in basso rispetto al criterio del buon uso delle risorse.

La qualità dell’intervento sanitario sta nella sua capacità di integrare i tre elementi rispetto ai quali va valutato: ciò che la scienza medica ritiene provato  Evidence based medicine  e raccomandabile (da questo punto di vista non si potrà mai accettare in medicina una logica del «cliente che ha sempre ragione»...); la conciliabilità con le esigenze dei diritti umani e con l’autodeterminazione del paziente; la sostenibilità dell’intervento con le esigenze di efficienza e di ottimizzazione delle risorse.

Infine, vale la pena di sottolineare che il «quadrilatero della soddisfazione» ci propone una visione dinamica dell’etica. Troppo spesso l’etica è identificata con una istanza che giudica i comportamenti  buono o cattivo, giusto o ingiusto, appropriato o non appropriato  ma meno adatta a ottenere trasformazioni significative

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dei comportamenti. La prospettiva cambia se, tenendo in mente il quadrilatero, ci domandiamo: quale intervento dobbiamo mettere in atto affinché un paziente, che nel grafico si trova in un quadrante inferiore, passi a uno superiore? L’obiettivo ideale è che si collochi nel primo a sinistra, tra coloro che sono giustamente soddisfatti; ma se ciò non è possibile, almeno nel secondo, vale a dire che il paziente sia almeno giustamente insoddisfatto. Quest’ultima possibilità ― di una insoddisfazione insanabile  ci libera da un complesso di onnipotenza: non possiamo far sì che tutti siano soddisfatti, ma possiamo evitare almeno che lo siano ingiustamente.

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IV.

INFORMAZIONE, COMUNICAZIONE, CONSENSO

1. Comunicare senza informare

La scena di un vecchio film ci permette di visualizzare, grazie a una situazione tipica, in che modo si realizza una comunicazione senza informazione. Si tratta del film Vivere di Akira Kurosawa, del 1952, un classico della storia del cinema. Il protagonista, un umile capoufficio del catasto di Tokyo, va a farsi visitare da un medico per persistenti dolori allo stomaco. In sala di attesa ha un colloquio informale con un veterano degli ambulatori medici. Dapprima il paziente gli descrive esattamente i sintomi del cancro dello stomaco; poi passa a predire il comportamento del medico: se questi, guardando la radiografia, minimizza, nega risolutamente che si tratta di cancro, scherza e gli dice che può mangiare tutto quello che vuole, si può essere certi: la diagnosi di cancro è confermata! Al malato restano solo pochi mesi di vita. È proprio in questo modo indiretto il nostro capoufficio verrà a conoscere la sentenza che lo riguarda. Anche in assenza di un’informazione veritiera, la comunicazione relativa al suo stato di salute è giunta fino a lui.

Il problema della comunicazione è diventato centrale nella medicina attuale. Questo fatto non depone a favore della comunicazione stessa. Quando, infatti, nei rapporti interpersonali la comunicazione si fa centrale, ci sentiamo legittimati a dedurne che siamo di fronte a

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un indice di relazione «malata». Lo conferma autorevolmente Paul Waztlawick, uno dei maggiori esperti della comunicazione umana: «Quanto più una relazione è spontanea e “sana”, tanto più l’aspetto relazionale della comunicazione recede sullo sfondo. Viceversa, le relazioni “malate” sono caratterizzate da una lotta costante per definire la natura della relazione, mentre l’aspetto di contenuto della comunicazione diventa sempre meno importante» (Watzlawick, 1971). È quanto possiamo verificare empiricamente nelle relazioni amorose: le coppie in crisi, invece di fare l’amore, imbastiscono eterni discorsi per definire il loro rapporto... Quando la comunicazione è inceppata, ci si accorge di essa, in quanto diventa un sintomo dolorante.

Qualcosa di analogo succede oggi in medicina. Si parla molto di comunicazione, perché abbiamo l’impressione che siano sempre più frequenti e dolorosi i nodi della comunicazione. In particolare, la comunicazione si ingorga quando si decide, per motivi di diversa natura  per ragioni di tempo e di opportunità, o anche per motivi etici  di saltare il momento dell’informazione, andando direttamente all’azione terapeutica. L’enfasi posta sul fare, piuttosto che sul parlare informativo, danneggia il processo della guarigione e si traduce in un saldo negativo sul piano della comunicazione.

Se la comunicazione non fluisce in modo sano, ristagna patologicamente. Poiché, in ogni caso, non si può non comunicare. Questo è il primo assioma stabilito da Watzlawick nella sua Pragmatica della comunicazione umana. La comunicazione, infatti, è un comportamento; e non esiste l’opposto del comportamento. Chi, per esempio, in una situazione di vicinanza fisica, si chiude nel mutismo, comunica che non vuol comunicare. Le parole e il silenzio, l’attività e l’inattività: tutto, nell’interazione, ha il valore di messaggio. La questione, quindi, diventa: che cosa comunica il comportamento del medico, quando rifiuta di informare il

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malato? (evidentemente quello che crea problemi è la comunicazione di una prognosi infausta: dare buone notizie è, invece, una delle opportunità più piacevoli che la vita ci riserva, dentro e fuori la medicina).

Una risposta alla domanda possiamo ricavarla dalla descrizione seguente, in cui l’oncologo francese Léon Schwarzenberg tratteggia la situazione che si crea quando l’ambiente che circonda il malato opta per la congiura del silenzio:

È raro che i malati ripongano assoluta fiducia nel loro medico. Molti di essi credono che in questa valle di lacrime non esista bugiardo più grosso e patentato del medico, e che del resto egli eserciti l’unica professione nella quale la menzogna è d’obbligo. Inutile dire che, a volte, costoro hanno ragione. Ma dubbi e sospetti possono travalicare il medico stesso. Vi sono alcuni che sospettano un complotto tra i loro stessi familiari, da parte dei loro amici. E, ancora una volta, spesso hanno ragione. La moglie o il marito, a volte il figlio maggiore, che svolge il ruolo di capofamiglia, ha deciso che “non bisogna dirglielo. Non possiamo farlo. Significherebbe ammazzarlo”. E il medico, dal canto suo, non osa spingersi più in là e, a sua volta, si inchina alla volontà della famiglia. Purtroppo, però, accade che la maggior parte di noi medici si sia attori da quattro soldi, bugiardi da poco.

Il malato avverte perfettamente che non tutti coloro che lo circondano sono sinceri con lui, lo legge loro in faccia, lo coglie dai loro silenzi più ancora che dalle loro parole, lo capisce dai loro errori, dai lapsus, dagli impappinamenti, si sente al centro degli argomenti che non vengono mai abbordati. Tutti recitano male, mentono peggio. Il malato, questo lo sa; e il medico ha il sospetto che il malato sappia. Ed ecco così istituirsi quel rapporto convenzionale,

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di perfetta cortesia: il malato sa che il medico sa, ma non ne parla (Schwartzenberg, Vianson-Ponté, 1975).

In pratica, contesti comunicativi di questo genere trasmettono  al di là della volontà di coloro che decidono, magari per motivazioni umanitarie molto nobili e generose, di sottrarre l’informazione al malato  la «morte sociale» di questi. L’essere umano non è solo un organismo animato, ma è anche essenzialmente un membro della società. Quando viene reciso il legame vitale con la comunità, muore come essere umano. Questo tipo di morte non ricalca esattamente la morte fisica: può avvenire prima o dopo, rispetto alla cessazione della vita organica. Ci sono tribù in Africa che considerano morta una persona solo quando non si parla più di essa (Thomas, 1982): è un esempio estremo che illustra la divaricazione possibile, anche in altri contesti culturali, tra morte sociale e morte organica.

La morte sociale, inoltre, non è un avvenimento «puntuale»: si verifica a gradi. Attraversa vari stadi; come la malattia stessa, può essere leggera, grave, fatale, oppure reversibile. La progressione nella morte sociale è favorita dal fatto che la morte, nel modo in cui si verifica abitualmente, si prolunga nel tempo. Nel lungo periodo che la persona impiega a morire, si verifica gradualmente la sua morte sociale. I .'ospedale è un osservatorio eccellente per rilevare in che modo si passa dal regno dei vivi a quello dei morti. Con il progredire della malattia, cessano le cure infermieristiche usuali, l’interesse medico si affievolisce fino a scomparire (a meno che non si tratti di un «caso interessante», in un ospedale che abbia anche finalità didattica e di ricerca), i morenti sono separati dai familiari, talvolta ricevono già i trattamenti riservati alle salme... (cfr. Sudnow, 1970).

Nell’esperienza dei più, la morte sociale comincia quando si cessa di essere considerati soggetti che possono

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prendere decisioni responsabili sul proprio destino. La preoccupazione di evitare alla persona che non può guarire lo shock di conoscere la propria situazione porta coloro che sanno  i sanitari e i familiari  a farsi carico della gestione della parte finale della vita del malato, sottraendogli le informazioni. In questo modo lo si è già condannato a morte come soggetto, ancor prima che la patologia fisica porti a compimento il suo assalto all’organismo.

Sia le parole che il silenzio hanno il loro lato tragico. Volendo evitare il dramma dell’informazione, si precipita in quello della mancanza di verità. Il silenzio, che può essere un salutare correttivo della retorica banalizzante delle parole e può, talvolta, offrire la solida consolazione derivante dalla muta solidarietà, in queste condizioni è solo un vuoto di parole. Comunica al malato inguaribile che non è più qualcuno con cui si possa comunicare. Gli comunica, cioè, che socialmente può già considerarsi morto.

Ma i pazienti inguaribili, avviati verso la morte, vogliono sapere della loro situazione? Questo interrogativo continua a offrire lo spunto per innumerevoli dibattiti. L’abituale mancanza di informazioni al malato sulla prognosi infausta può essere letta in diversi modi. Qualcuno fa responsabile della «congiura del silenzio» i medici e i familiari: sono loro che non vogliono parlare, o per malinteso paternalismo, o per risparmiarsi il peso di dover sostenere emotivamente un paziente confrontato con una prospettiva tragica. Altri, invece, attribuiscono la volontà di non sapere ai pazienti: siccome essi rifiutano la verità, i sanitari si adeguano allo loro volontà e li preservano dal trauma di un’informazione non desiderata. O forse i malati fanno finta di non sapere, perché i medici e i familiari non vogliono parlare... Dove sta il torto e la ragione in questo scenario cangiante?

La pragmatica della comunicazione umana ci ha insegnato a sbrogliare matasse di questo genere riferendoci

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alla «punteggiatura» delle sequenze di eventi (cfr. Watzlawick, 1971). Quando in un rapporto comunicativo si creano delle catene che tendono a prolungarsi all’infinito (l’esempio più tipico è quello di una coppia che litiga: lei brontola, lui si chiude in se stesso; lei brontola perché lui si chiude, lui si chiude perché lei brontola; allora lei brontola ancora di più, mentre lui risponde chiudendosi ancora di più: teoricamente, questa catena non ha fine...), ambedue i modi di punteggiare sono possibili e corretti. Non si tratta di dare ragione all’uno o all’altro, adottando la sua punteggiatura degli eventi, ma di trovare un modo di spezzare la catena.

Uno di questi modi sono le ricerche empiriche. Il tema del consenso informato ha stimolato una quantità di indagini, dalle quali risulta che la falsa attribuzione del desiderio di informazione è uno degli errori più comuni nella pratica clinica. Tra ciò che i pazienti desiderano conoscere e quello che i medici pensano che essi vogliono conoscere esistono discrepanze rilevanti.

In una ricerca americana, ad esempio, condotta da Waitzkin e Stoeckle, sono stati registrati 336 incontri tra medici e pazienti in diversi contesti clinici, compresa la pratica privata e gli ambulatori ospedalieri. Si è chiesto ai medici di indovinare il desiderio dei pazienti di essere informati e l’utilità dell’informazione per il paziente. Anche ai pazienti si è domandato di fornire l’autovalutazione. La maggioranza dei pazienti desiderava conoscere quasi tutto e pensava che l’informazione sarebbe stata loro utile. Ma nel 65 per cento degli incontri, i medici sottovalutavano il desiderio di informazione e l’utilità clinica dell’informazione stessa (Waitzkin, Stoeckle, 1976).

La stessa ricerca fornisce un altro dato importante. I ricercatori domandarono anche ai medici quanto tempo pensavano di aver dedicato a informare. Confrontando questa percezione soggettiva con il tempo oggettivamente risultante dalla registrazione degli incontri,

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risultò che in media i medici stimavano il tempo dedicato all’informazione nove volte di più del reale!

Ai risultati prosaici, ma istruttivi, di questo tipo di ricerche empiriche sui comportamenti bisogna aggiungere l’esperienza di chi ha infranto la barriera del silenzio e si è messo, senza preconcetti, a parlare con i malati, anche quelli inguaribili e avviati verso la morte, sulla loro situazione. Fa ormai parte irrinunciabile del patrimonio di esperienza acquistata, nell’accompagnamento dei morenti, la convinzione che si muore meglio quando è possibile esprimere le proprie emozioni, comunicarle a qualcuno, condividere i propri stati d’animo.

Da quando Elisabeth Kübler-Ross ha cominciato a disobbedire alla consegna del silenzio con i morenti, dominante negli ambienti ospedalieri, si è aperto un capitolo nuovo di conoscenze dell’animo umano e dei suoi bisogni nel momento in cui si avvicina alla soglia estrema della vita. Quanto sappiamo sugli stadi del morire, sull’organizzazione della speranza e sulle modalità simboliche della comunicazione fa parte ormai della medicina moderna, allo stesso modo della chimica dei neurotrasmettitori o delle reazioni immunologiche (Kübler-Ross, 1984).

2. Informare senza comunicare

I fautori del modello «autonomista»  espressione tipica di una medicina che si è aperta alla modernità  si fanno spesso promotori di un’informazione a oltranza del malato, senza considerare la ripercussione che certe notizie possono avere nel malato stesso. Più che una carenza di sensibilità umana, in questi casi entra in gioco una concezione superficiale della comunicazione stessa. Non si considera a sufficienza, infatti, che la comunicazione non è costituita solo dagli aspetti verbali.

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Il linguaggio ha sicuramente un’importanza unica per la specie umana, che da esso viene caratterizzata. Ma non è l’unico canale attraverso cui comunichiamo. Nella comunicazione umana si hanno due fondamentali possibilità di far riferimento a contenuti informativi: o rappresentandoli con un’immagine (come quando si disegna), oppure dando loro un nome. Tecnicamente si parla di comunicazione analogica, nel primo caso, e di comunicazione numerica, nel secondo. Comunicazione analogica è praticamente ogni comunicazione non verbale. Include le posizioni del corpo, i gesti, l’espressione del volto, le inflessioni della voce, la sequenza, il ritmo e la cadenza delle parole stesse, come pure i segni di comunicazione immancabilmente presenti in ogni contesto in cui ha luogo un’interazione.

Il linguaggio numerico ha un’importanza particolare per gli esseri umani, perché serve a scambiare informazioni sugli oggetti e perché ha la funzione di trasmettere la conoscenza di epoca in epoca. C’è però tutto un settore in cui facciamo affidamento, quasi esclusivamente, sulla comunicazione analogica, spesso discostandoci assai poco dall’eredità che ci hanno trasmesso i nostri antenati mammiferi. Quando ci avviciniamo ai segmenti estremi della vita  la nascita e la morte  scopriamo con sorpresa quanto abbiamo ancora in comune con gli animali.

Le vocalizzazioni, i movimenti di intenzione e i segni di umore degli animali sono comunicazione analogica, mediante la quale definiscono la natura delle loro relazioni, in mancanza della capacità di fare asserzioni denotative sugli oggetti. Ciò che gli animali capiscono non è certo il significato delle parole, ma la ricchezza della comunicazione analogica che accompagna il discorso. Ogni volta che la relazione è il problema centrale della comunicazione, il linguaggio numerico cede il primato alla comunicazione analogica.

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È un fenomeno che non si verifica solo tra gli animali, ma in molte circostanze della vita umana, come quando si corteggia o si combatte. E anche quando si reca aiuto a una persona in stato di necessità. Per questo la comunicazione analogica, che è molto più ricca dell’informazione verbale, è centrale nel rapporto tra sanitari  medici e infermieri  e pazienti.

Lo stato di malattia, specie quando è grave ed è percepito come una minaccia alla vita, provoca una regressione che ci fa diventare, come i bambini e come gli animali, sommamente recettivi alla comunicazione analogica che accompagna il discorso. E anche se le parole si organizzano abilmente per sostenere delle menzogne  comprese quelle «pietose» e a fin di bene  i comportamenti tradiscono la verità. Perché è facile dichiarare qualcosa verbalmente, ma è difficile sostenere una bugia nel regno dell’analogico. Sembra un paradosso: le intenzioni più sublimi che possiamo attribuire agli esseri umani  la solidarietà, l’amore, il prendersi cura  passano attraverso il canale povero dei gesti e della comunicazione non verbale. Gli atti di cura corporea e il contatto fisico sono destinati a portare un peso metafisico che sembra quasi sproporzionato. Attraverso gli umili gesti della «carne comune» (per usare l’espressione coniata dal filosofo Maurice Merleau-Ponty) si esprime il mistero della reciprocità delle coscienze.

Questa percezione più acuta delle esigenze connesse con la comunicazione nell’ambito delle cure sanitarie, che eccede di molto i contenuti informativi che si possono trasmettere con le parole, ci permette di affrontare in modo più differenziato la questione inevitabile: bisogna comunicare o tacere una diagnosi infausta? La questione è diventata un luogo classico di dibattito, in cui possiamo assistere allo scontro tra modelli di comportamento che aspirano ugualmente a realizzare un valore morale, ma nella pratica si scoprono come inconciliabili.

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Di fatto, il confronto assomiglia di più a un dialogo tra sordi, in quanto si confrontano certezze profonde non disposte a farsi rimettere in discussione dagli argomenti contrari. Chi è convinto che una prognosi che si affaccia sulla morte non vada condivisa con il malato  tutt’al più con i suoi familiari  motiva questo comportamento con alti motivi ideali. È per risparmiare al malato un evento emotivamente catastrofico che si deve fare ogni sforzo per tenere lontano dal suo sguardo l’orrore della morte certa. Ma anche chi difende la posizione contraria, orientata a informare il malato della propria situazione, si giustifica con motivi ideali, che ruotano attorno al rispetto del malato e tendono a prevenire un altro tipo di sofferenze psicologiche: quelle che si aggrumano attorno al sistema di menzogne necessario per mantenere il malato nell’ignoranza della sua situazione.

L’incomprensione tra i partigiani delle due posizioni può raggiungere punte paradossali. Coloro che optano per la comunicazione della diagnosi si sentono accusati di «crudeltà» nei confronti del malato; chi sceglie la menzogna pietosa, in nome della compassione, si trova sospettato di essere solo un piccolo egoista, che vuol risparmiarsi le situazioni più ingrate, con lo sforzo che la comunicazione di questo genere di notizie comporta. I tentativi di guadagnare l’altro alla propria posizione per lo più naufragano clamorosamente. Ciò non dipende dalla debolezza delle argomentazioni, ma dal fatto che gli atteggiamenti di fondo si nutrono di motivi che non sono solo razionali. La condivisione di determinati modelli culturali che privilegiano, rispettivamente, la famiglia e l’individuo, la coesione del gruppo o il controllo sulla propria vita da parte della persona (si veda la ricerca antropologica di D. Gordon ed E. Paci, alla quale ci siamo già riferiti) può determinare in modo decisivo i comportamenti.

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3. Come utlizzare il consenso scritto

Sembra che qualcuno, in America, abbia avuto l’idea di mettere in circolazione dei formulari rivolti a ottenere, dal possibile partner, una esplicita dichiarazione, firmata, di consenso al rapporto sessuale. Perché  ironizza l’autore della trovata  un rapporto sessuale è un fatto pericoloso: dalla piacevolezza del talamo vi potreste trovare in tribunale, accusati di violenza! Basti pensare ai processi che hanno avuto per mesi l’onore delle cronache (dal giovane Kennedy al pugile Tyson), per rendersi conto dell’entità del pericolo. Meglio, dunque, tutelarsi raccogliendo le prove inequivocabili della volontà non ambigua del partner!

Può sembrare una provocazione accostare i goliardici formulari per il consenso al rapporto sessuale alle procedure per ottenere il consenso informato nel contesto sanitario. Il parallelo stabilito tra lo scherzo di un buontempone e una delle pratiche a cui sembra arridere più successo, nell’ambito delle nuove regole che stanno ridisegnando i rapporti tra sanitari e cittadini, non vuol essere irriverente. Un effetto di «straniamento» si produce nell’uno come nell’altro caso, per il fatto che si applicano nell’ambito dell’intimità le procedure che valgono tra estranei. Non ci sorprende che una transazione commerciale o l’atto di compravendita di un immobile debbano obbedire a precise procedure amministrative: in questi casi tutti ci consideriamo degli estranei, anche all’interno di una stessa famiglia. Una parola di promessa può avere un significato morale e creare obblighi profondi, ma non ha alcuna rilevanza giuridica. L’atto di un notaio è una garanzia per tutti, proprio perché ci tratta come estranei, anche se siamo consanguinei.

Ci troviamo, invece, completamente spiazzati quando le regole che valgono tra estranei vengono trasposte all’ambito dell’intimità. È impossibile fissare, in un formulario

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da sottoscrivere, la complessità di un rapporto amoroso: il consenso scritto appare come una caricatura del consenso che nasce in un intenso rapporto interpersonale. Chi argomenta contro le procedure giudiziarie per stabilire se ci sia stato o no il consenso a un rapporto sessuale è in grado di produrre buone ragioni, attinte dall'esperienza vissuta, dove l’assenso ci si presenta nella sua fondamentale ambiguità (conosciamo anche dei «no» che volgono per un «sì» o per un «forse»...). Soprattutto sappiamo che la comunicazione non verbale svolge una funzione interpretativa determinante: i «sì» o i «no» sono detti più dagli occhi o dal tono muscolare che dalle parole. Dobbiamo dire la stessa cosa del consenso scritto a un atto medico?

In parte sì. Quello che si realizza tra il medico e il paziente che gli si affida va ricondotto al paradigma dell’intimità, piuttosto che a quello dell’estraneità. Il consenso prende forma in un contesto imbevuto di emozioni molto forti: speranza, paura, fiducia, diffidenza, angoscia. Spesso si tratta di decisioni di vita o di morte; sempre, comunque, di scelte che coinvolgono il benessere e la qualità della vita.

Il consenso inoltre è un processo che si modifica nel tempo. Il malato può cambiare idea, sulla base di ulteriori informazioni che è riuscito ad assimilare o del vissuto della malattia: il rifiuto di ieri può diventare una richiesta di oggi, o viceversa. C’è ancora un’ulteriore analogia con il consenso amoroso: quello che si realizza tra medico e paziente passa anche attraverso la comunicazione non verbale, i silenzi, gli atteggiamenti. Che cosa diventa tutto ciò, ricondotto entro il quadro rigido di un formulario di consenso da espletare come una procedura amministrativa?

Se il parallelo tra l’assenso a un atto amoroso e il consenso a un atto medico può sembrare troppo leggero, possiamo fare un rimando di ineccepibile spessore filosofico. In una pagina delle sue Ricerche filosofiche,

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Ludwig Wittgenstein mette in evidenza la necessità di utilizzare l’esperienza vissuta come chiave interpretativa di un comportamento, quale può essere l’esperienza di essere guidati:

Pensiamo all’esperienza vissuta dell’essere guidati! Domandiamoci: In che cosa consiste quest’esperienza, quando per esempio, siamo guidati per una stradai Immagina questi casi:

Sei in un campo sportivo, magari con gli occhi bendati, e qualcuno ti conduce per mano, ora a sinistra ora a destra; tu devi sempre essere in attesa degli strattoni della sua mano e devi anche stare attento a non inciampare a uno strattone inaspettato.

Oppure: qualcuno ti conduce per mano, con forza, dove non vuoi.

O anche: il tuo compagno di ballo ti guida nella danza; tu ti rendi quanto più possibile recettivo, per poter indovinare la sua intenzione a seguire anche la più lieve pressione.

Oppure: qualcuno ti conduce a fare una passeggiata; camminando conversate, e dove va lui vai anche tu.

O ancora: stai camminando per un viottolo di campagna e lasci che ti guidi.

Tutte queste situazioni sono simili l’una all’altra; ma che cosa è comune a tutte le esperienze vissute? (Wittgenstein, 1974, p. 94s.).

Senza nessuna forzatura, possiamo applicare questa descrizione fenomenologica, così differenziata, all’essere guidati da un medico verso una decisione terapeutica. Inevitabilmente ci domandiamo: come può un formulario scritto rispecchiare la differenza sostanziale che esiste tra l’essere guidati mediante strattoni e il lasciarsi portare insieme dal ritmo della danza?

Con tutte queste riserve sulla possibile deriva burocratica di un uso generalizzato dei formulari per raccogliere

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il consenso informato, dobbiamo tuttavia riconoscere che è giunta l’epoca in cui la medicina deve trovare linguaggio e gesti per coniugare la pratica terapeutica con il nuovo clima culturale che attribuisce grande valore all’autodeterminazione dell’individuo. In un articolo dedicato a Gli sviluppi del diritto alla salute in Italia, Amedeo Santosuosso ricostruisce il percorso che ha portato, all’inizio degli anni Novanta, all’esplicito e pieno riconoscimento del diritto alla salute, come regola interna del rapporto medico-paziente e come cardine del processo decisionale. Benché sia diventata evidente  a suo dire  la distanza «tra la vecchia rivendicazione dei medici di procurare “il bene” del paziente (anche senza la sua volontà) e il riconoscimento che il paziente è arbitro della valutazione della qualità della propria vita e che il medico non può sostituire la propria concezione della qualità della vita a quella del paziente» (Santosuosso, 1994, p. 71), è possibile pensare a un’evoluzione, piuttosto che alla sostituzione di un modello con un altro, previa una dolorosa lacerazione.

La questione, in definitiva, diventa quella dell’uso che si vorrà fare del consenso informato. Non è auspicabile che l’adozione di questa procedura sia svuotata della sua sostanza etica e ridotta a un espletamento formale, come un atto a carattere burocratico.

Al consenso informato, quale momento cruciale del rapporto che si instaura tra il professionista sanitario e il malato, non possiamo più sottrarci. E non perché ci siamo messi in testa di scimmiottare l’America: il consenso informato ci è richiesto dalla nuova cultura che sta unificando l’Europa, come indica in modo inequivocabile la Convenzione europea per la bioetica. Ma se vogliamo che l’unifichi per il meglio, non dovremmo dimenticare quella formulazione dell’etica orientata al reciproco «prendersi cura», come struttura primordiale dell’esistenza umana. Ci possiamo realizzare

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come essere liberi e autonomi, perché l’etica delle cure reciproche fa sì che qualcuno si prenda cura di noi, mentre noi ci occupiamo, in una circolarità delle cure, di coloro che hanno bisogno di noi. Nella salute e nella malattia. Ma soprattutto nella malattia.

Per la pratica della medicina dell’epoca moderna ― quella che ha interiorizzato il principio del rispetto delle decisioni che nascono dall’autonomia dell’individuo, ma nello stesso tempo non abbandona il valore tradizionale costituito dal legame di una particolare alleanza che si stabilisce tra chi offre le cure e chi le riceve  il consenso informato è uno strumento. Senza mitizzarlo, è opportuno trattarlo in quanto tale, continuando a domandarci a quale modello di medicina vogliamo farlo servire. E soprattutto bisognerà convincerci che sull’uso del consenso informato abbiamo ancora tanto da imparare. Una medicina preoccupata della dimensione umanistica e interpersonale dovrà farne un tema privilegiato di ricerca.

4. Consenso e formazione del personale sanitario

Una legge non è mai stata sufficiente per cambiare i comportamenti. Ciò vale anche per le normative ― sia deontologiche che amministrative: vedi gli indicatori per la qualità dei servizi sanitari dalla parte dell’utente  relative al consenso informato. Tanto più che in questo caso si tratta di modificare dei comportamenti che hanno alle spalle una lunghissima storia culturale. Per molti medici la gestione paternalistica delle informazioni non merita neppure di essere presa in considerazione: «si è fatto sempre così»; non vedono perché un modello che ha funzionato per 25 secoli debba essere rimesso in discussione. Considerando queste resistenze, possiamo affermare che l’informazione e il coinvolgimento dei

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pazienti entrerà nella prassi sanitaria attraverso un’opera profonda e capillare di formazione.

La formazione del personale sanitario ha una funzione strategica nel passaggio alla nuova sanità. Presentando al parlamento inglese il programma del suo nuovo governo, il premier Tony Blair ha esordito dicendo che tutto il programma si poteva riassumere in tre parole: «Education, education, education». Possiamo applicare tranquillamente questa figura retorica anche alla sanità italiana: tutto quello di cui ha bisogno è la formazione del personale.

Non mancano, d’altra parte, autorevoli indicazioni ufficiali in questo senso. Un documento di indirizzo come il Piano sanitario nazionale per il triennio 1994-1996 dedica tutto il cap. 7 alla formazione del personale. Una fonte importante dei riferimenti normativi è costituita dai Piani sanitari regionali. Molte politiche regionali si dichiarano sensibili al fatto che, in linea generale, la formazione e l’aggiornamento costituiscono uno strumento strategico per lo sviluppo delle aziende sanitarie. Tutti i piani sanitari regionali contengono un capitolo, talvolta molto ampio, relativo alla formazione del personale. La tematica è abitualmente suddivisa in diverse aree:

● la formazione di base dei profili professionali di interesse del sistema sanitario regionale, gestita con azione integrata (protocolli regionali di intesa e specifici accordi tra aziende Usi e aziende ospedaliere e università, IRCCS ed enti di ricerca) ;

● la formazione permanente del personale, come aggiornamento tecnico-scientifico delle diverse professionalità e formazione per lo sviluppo dei servizi;

● l’educazione sanitaria (programmi di educazione alla salute connessi alle specificità locali);

● area manageriale (formazione degli operatori apicali con responsabilità dirigenziale nei diversi

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servizi sanitari e amministrativi delle aziende sanitarie e ospedaliere).

Una grande opportunità di formazione è collegata al processo di «aziendalizzazione» della sanità che è in corso. Purtroppo, il termine «azienda», anche quando è riferito alla sanità, evoca per lo più una ricerca di profitti a ogni costo. Avviene molto raramente, invece, che l’aziendalizzazione applicata all’organizzazione del servizio sanitario, invece che rimandare al profitto e all’interesse della proprietà, induca associazioni mentali positive, quali: una sana attenzione ai vincoli economici, che porti a identificare ed eliminare gli sprechi; un senso di appartenenza tra tutti coloro che operano nell’azienda, nato dalla consapevolezza che l’obiettivo (in questo caso: servizi alla salute efficaci, che producano dei pazienti/clienti soddisfatti) richiede l’interdipendenza di tutti coloro che lavorano nell’azienda; lo sviluppo di una mission comune (quella che la Carta dei servizi pubblici sanitari formula come: «fornire un servizio di buona qualità ai cittadini-utenti»); una nuova cultura organizzativa, che premi la creatività nella ricerca di soluzioni che abbinino economia ed etica, efficacia, efficienza e qualità percepita; nuove regole tra strutture che erogano servizi sanitari e popolazione, tra professionisti e dirigenza; un nuovo equilibrio, in breve, tra diritti e doveri di tutti. Finché l’evocazione dell’azienda non ci porterà ad associare questi obiettivi al lavoro che si svolge intorno al malato, l’aziendalizzazione della sanità sarà osteggiata da coloro che vedono nel progetto una minaccia per i valori sui quali la medicina tradizionalmente si regge.

Il cambiamento della cultura medica che ciò implica non è di poco conto. La «produttività»  termine bandito dall’orizzonte delle preoccupazioni dei sanitari, perché considerato contrario al rispetto dovuto al malato  dovrà entrare nel linguaggio quotidiano di

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chi lavora in sanità. Anche l’etica, intesa come rispetto per la soggettività del paziente e come, attenzione per la qualità del servizio prestato e per la soddisfazione del paziente, deve avere nella pratica quotidiana della medicina uno spazio non marginale. E di tale etica i sanitari devono essere i soggetti attivi: non darla semplicemente in appalto a filosofi, teologi, bioeticisti ed altri esperti, per limitarsi al consumo di prescrizioni comportamentali elaborate da altri.

Vogliamo fornire un’indicazione concreta delle potenzialità che può sviluppare la formazione al nuovo rapporto tra sanitari e cittadini malati portando l’esempio della programmazione regionale della Toscana. Il Consiglio regionale ha deciso la costituzione di una Commissione regionale di bioetica (L.R. n. 37, 13 agosto 1992), con il compito di promuovere la trattazione di tematiche bioetiche nel servizio sanitario in modo da «sviluppare la diffusione dei valori, legati al concetto di piena autonomia e autodeterminazione dell’utente del Servizio sanitario, basato sull’instaurarsi di idonei livelli di informazione, consapevolezza e di assenso personali nei trattamenti delle cure mediche». Uno dei primi atti della Commissione è stata la formulazione di un documento: Il consenso informato nei trattamenti sanitari, approvato nell’ottobre 1994. Il Consiglio regionale, con una delibera, ha fatto propri gli indirizzi concernenti l’introduzione di procedure per l’acquisizione del consenso informato nei trattamenti sanitari.

Coerentemente con questa impostazione, la regione Toscana ha individuato le tematiche bioetiche tra le attività di formazione permanente del personale dipendente del Ssn per l’anno 1996/97. In questo ambito è stato valutato di particolare importanza approfondire gli aspetti legati all’informazione e al consenso nell’ambito delle procedure diagnostiche e terapeutiche.

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Ma su quale realtà si inserisce un intervento formativo? Per rispondere a questo interrogativo  di grande importanza per contestualizzare la formazione  è stata condotta un’indagine preliminare, volta a conoscere le modalità di acquisizione del consenso in un grande policlinico come l’ospedale di Careggi, a Firenze. L’indagine è stata condotta mediante un questionario indirizzato a 116 Unità operative dell’ospedale, delle quali hanno risposto 93 unità, pari al 92%, e rileva la situazione in atto nel periodo ottobre 1996  febbraio 1997.

Il questionario raccoglieva informazioni sulla utilizzazione di un modulo scritto di consenso informato e sulla fonte dalla quale i moduli adottati erano tratti; sollecitava anche l’opinione dei clinici sul significato e l’utilità dei moduli e sul ricorso a altre forme di informazione (opuscoli, informazione orale, con o senza figure di testimoni).

Commentando le risposte, Alfredo Zuppiroli e Gianni Meucci, autori della ricerca, rilevano che circa due terzi degli intervistati dichiara di utilizzare un modulo da oltre due anni; nella metà dei reparti considerati, il modulo è lo stesso per qualsiasi procedura, mentre nell’altra metà si usano moduli diversificati. Coloro che hanno dichiarato di aver deliberatamente scelto di non usare mai alcun modulo sostengono che questo costituisce un rischio di allontanamento tra medico e paziente, perché accentuerebbe il significato legalistico, generando sospetti e indebolendo la qualità della relazione in atto.

L’ottica giuridica sembra prevalente. Infatti più della metà degli intervistati ritiene che il modulo possa avere un ruolo di «protezione» legale per il medico, mentre poca attenzione viene posta alla qualità dell’informazione (oltre la metà considera il modulo di per sé sufficiente a garantire l’informazione). Alla domanda relativa a chi spetti di informare il paziente e ottenerne il consenso, il 97% risponde che spetta al

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medico, mentre solo il 74% individua nel medico colui che deve consegnare e ritirare la modulistica: ciò lascia apparire un altro aspetto della deriva burocratica che minaccia la pratica del consenso informato (Zuppiroli, Meucci, 1997).

Non è infondato pensare che la situazione rispecchiata dalla ricerca, condotta nel grande ospedale fiorentino, pur con tutte le sue carenze, sia da considerare come molto progredita, se raffrontata alla realtà sanitaria di molte altre zone del Paese. Ciò conferma la necessità che, se si intende far evolvere i comportamenti  e non si vuole che questi cambino sotto la spinta delle azioni giudiziarie!  i responsabili della sanità si convincano della priorità che spetta agli investimenti per la formazione degli operatori.

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V.

LE DECISIONI SULLA FINE DELLA VITA

1. Il ruolo della famiglia in prossimità della morte

● «Anche i vivi hanno i loro diritti».

Le decisioni cliniche, con i loro inevitabili risvolti etici, non hanno come protagonisti solo il medico e il malato: coinvolgono anche, come terza parte, la famiglia di quest’ultimo. Ciò avviene in uno scenario che spesso assume il carattere di «scelte tragiche» quando si avvicina la fine della vita. La dimensione familiare dell’etica clinica è emersa in modo clamoroso attraverso casi giudiziari nei quali i familiari del paziente intendevano prendere decisioni, nell’interesse di questi, in contrasto con l’opinione dei medici e delle amministrazioni ospedaliere: i casi Quinlan, Baby Doe e Nancy Cruzan  per riferirci alla cronaca americana  sono punti di riferimento che hanno fatto epoca nella breve ma molto movimentata storia della bioetica. Non si tratta, però, di una novità assoluta nell’etica medica.

Per prendere un riferimento letterario, possiamo attingere al romanzo La montagna incantata di Thomas Mann (1924). Lo scenario è quello del Berghof, un sanatorio dove sono curati i malati di tubercolosi: date le limitate capacità terapeutiche dell’epoca, spesso l’esito della malattia è il decesso. Uno di coloro che sono arrivati al capolinea è un gentiluomo austriaco. Un’infermiera spiega a due altri ospiti del sanatorio la situazione:

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Da un pezzo aveva dato prova di essere un gentiluomo tenace, ma negli ultimi tempi nessuno riusciva a capire con che cosa respirasse; vero che da qualche giorno si teneva su con enormi quantità di ossigeno e solo nelle ultime ventiquattro ore aveva consumato la bellezza di quaranta bombole da sei franchi l’una. Era una grossa spesa, come i signori potevano calcolare, senza dire che la moglie, tra le cui braccia era deceduto, era assolutamente priva di mezzi.

Questa scelta suscitava la vivace disapprovazione di uno dei malati:

A che scopo prolungare la tortura e quella costosa vita artificiale in un caso del tutto disperato? Certo, non c’era da prendersela con lui se aveva consumato alla cieca il prezioso gas vitale, considerando che glielo avevano imposto. I curanti avrebbero invece dovuto essere più ragionevoli e lasciarlo andare in santa pace per il suo inevitabile cammino, prescindendo dalle condizioni finanziarie o anzi tenendone conto. Anche i vivi hanno i loro diritti.

In notevole anticipo sui tempi, il romanziere coglie un conflitto di interessi tra le parti in causa nell’allocazione delle risorse che avrebbe reso sempre più difficile le decisioni cliniche sul finire del secolo. La decisione clinica va collocata, concretamente, in un contesto fatto di rapporti affettivi, legami, conflitti; il bene del malato non può essere isolato dal bene della famiglia e  essendo spesso il malato incapace di prendere le decisioni per se stesso  dalle interpretazioni che i familiari sono costretti a fare del suo bene.

Per dare concretezza al tema con un altro esempio ― non letterario, questo, né ricavato dai casi esemplari che costellano la letteratura della bioetica, ma tratto dalla quotidianità della vita ospedaliera , riporterò in dettaglio un caso riferitomi da un medico.

«Il signor M., di 70 anni, era ricoverato nel nostro

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ospedale (una clinica specializzata in pneumologia). Da una broncoscopia risultò un tumore polmonare in stato avanzato, che aveva già raggiunto i due bronchi e la trachea. La forte dispnea aveva reso necessario l’immediato ricorso a una laserterapia, con un leggero e provvisorio miglioramento della dispnea. Quattro giorni dopo il ricovero, il signor M. stava peggio e la sua morte era imminente.

La famiglia era stata informata della prognosi infausta. Resomi conto della situazione critica, feci chiamare subito la famiglia. Questa era composta dalla moglie, due figli verso la quarantina, con rispettive mogli, e una figlia di circa 30 anni.

Il figlio più grande mi parlò per primo e volle sapere come si fosse arrivati allo stato attuale. Gli spiegai che, come già sapeva, il padre soffriva di un tumore maligno progressivo. Ciò fu fortemente contestato dal figlio: affermò che nessuno glielo aveva detto. Mi informai presso l’infermiera, la quale mi disse di essere stata presente al colloquio con cui erano stati informati i figli. Cercai di spiegare la situazione ancora una volta al figlio; gli dissi che il padre soffriva di un tumore progressivo dei bronchi e che le nostre possibilità terapeutiche erano giunte al termine. La morte sarebbe probabilmente sopravvenuta entro poche ore. Il figlio rimase interdetto. Disse più volte che questo non poteva essere: la settimana prima il padre stava seduto in giardino; poteva ben essere un tumore maligno, ma una morte così rapida non era possibile. Mi supplicò di fare tutto il possibile per suo padre: la medicina è oggi così progredita che deve essere in grado di fare ancora qualcosa; avremmo potuto applicare ancora la laserterapia, ricorrere alla respirazione artificiale o alla macchina cuore-polmoni: per suo padre doveva essere tentato tutto il possibile. Anche l’altro figlio era d’accordo con il fratello: si doveva tentare ogni trattamento, anche il più aggressivo.

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Un colloquio con il primario, che discusse di nuovo la situazione con i due figli del paziente, non li soddisfece. Nell’équipe medica discutemmo se non era ancora possibile un intervento con il laser. Ci appariva rischioso e, anche se fosse riuscito, avrebbe assicurato al paziente solo una breve sopravvivenza molto dolorosa, in estrema dispnea e senza la possibilità di essere dimesso dall'ospedale. La nostra conclusione era che gli svantaggi sarebbero stati maggiori dei benefici. Tutti noi medici eravamo d’accordo che non avremmo dato il consenso per un tale trattamento, nel caso in cui si fosse trattato di nostro padre.

Nel frattempo il signor M. era entrato in coma. Discutemmo la situazione ancora una volta al letto del malato, dicendo in parole semplici a tutta la famiglia ciò che prima avevamo deliberato tra di noi. Il primario ripeté ancora che l’intervento comportava un altissimo rischio e che egli perciò lo sconsigliava. Chiese poi all’infermiera, che era presente, quale fosse la sua opinione. Questa disse spontaneamente che lei avrebbe lasciato la decisione alla famiglia.

Il primario tracciò ancora una volta i due scenari: da una parte il paziente in uno stato di assopimento, verosimilmente senza dolori, vicino alla morte che incombe circondato dalla sua famiglia (diventata nel frattempo ancora più numerosa); dall’altra, un intervento medico aggressivo, che potrebbe portare alla morte sul tavolo della broncoscopia, molto probabilmente senza alcuna possibilità di tornare ancora una volta a casa sua. La sua opinione era che il “non fare” era la migliore via da seguire: ma in ogni caso era pronto a eseguire l’intervento, se la famiglia proprio lo voleva.

La famiglia si consultò per circa mezz’oretta; dopo di che, ci comunicò che non voleva nessun altro intervento. La moglie e la figlia ci fecero capire chiaramente che erano d’accordo con noi, mentre per i figli fu più difficile accettare il “non volere fare qualcosa”.

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Il signor M. morì un’ora più tardi. La famiglia ci ringraziò; lasciò l’ospedale in grande cordoglio, ma senza collera».

● Le regole elaborate dalla deontologia medica.

Che posto occupa la famiglia in quel processo deliberativo attraverso il quale i curanti cercano di fare della buona medicina? Il racconto del caso clinico  assolutamente non eccezionale, nel quale potremmo trovare realizzato un modello diffuso di pratica medica consapevole  ci ha parlato di un’attenzione rivolta alla famiglia del malato. Questa è stata coinvolta nel processo di decisione circa il corso dell’azione, con rallentamenti, esitazioni, discussioni, esercizio dell’arte della persuasione. Alla fine la decisione solo apparentemente era la stessa proposta inizialmente dall’équipe curante. In realtà, il processo che ha coinvolto tutti li ha anche modificati.

Rispetto alla complessità e ricchezza dei rapporti vissuti nel concreto della decisione clinica, sorprende che i codici deontologici che esprimono le regole di comportamento ufficiali passino relativamente sotto silenzio il ruolo della famiglia. Uno dei primi tentativi di dare ai sanitari europei un codice di comportamento omogeneo, la Guida europea di etica medica, approvata da una Conferenza degli Ordini dei medici della CEE nel 1987, non fa alcun riferimento alla famiglia del malato. La guida presuppone, dal punto di vista teorico, una concezione assolutamente individuale del rapporto medico-paziente. I valori centrali, che devono guidare la deliberazione dal punto di vista etico, sono il beneficio del paziente e l’indipendenza professionale del medico (cfr. artt. 5, 24-5). Questa indipendenza rende il medico impermeabile a qualsiasi tentativo di regolazione sociale della pratica sanitaria (in modo del tutto coerente con quest’ottica, diventano del tutto irrilevanti i problemi che derivano dai costi della salute).

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D’altro lato, la forte accentuazione del criterio costituito dal beneficio del paziente presuppone una concezione antropologica che della persona sottolinea più l’individualità che la relazionalità. Il rapporto medico-paziente che ispira la Guida europea è concepito come un contratto tra due individualità radicali, delle quali una ha assunto l’impegno di procurare beneficio alla salute dell’altro (è la «clausola terapeutica» del Giuramento di Ippocrate). Completamente estranea a tale prospettiva è la concezione dell’essere umano come persona relazionale, che si costituisce, dalla nascita alla morte, in una rete di rapporti, dei quali la famiglia è il referente simbolico.

Nell’ambito culturale mediterraneo sembra, a prima vista, che la famiglia occupi uno spazio maggiore di quello che gli concede la Guida europea. Abbiamo visto, seguendo l’evoluzione del Codice deontologico dei medici italiani nelle quattro diverse redazioni che si sono susseguite in vent’anni, che della famiglia è stata fatta sempre menzione in quella particolare situazione che per un medico di cultura latina costituisce il dilemma etico per antonomasia: si deve o no comunicare una diagnosi a prognosi infausta a un paziente?

La graduale accettazione dell’autodeterminazione, come un valore da difendere e promuovere, ha portato al superamento sia del paternalismo medico (in forza del quale si presuppone che il medico sappia meglio del paziente che cos’è la cosa migliore per lui...) sia del «familismo», che immerge la volontà del singolo in un gruppo che la ingloba in un modo indistinto 1. Ormai anche le regole professionali elaborate

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da una cultura che ha sempre attribuito un primato alla famiglia si sono adeguate a un orientamento generale: la famiglia non è autorizzata a decidere al posto della persona malata.

● Prendersi cura e rispettare la giustizia: due orientamenti etici?

Possiamo, a questo punto, ipotizzare due modelli ideali nelle decisioni cliniche riferite alla fine della vita, dando all’uno e all’altro la funzione che la sociologia chiama di “tipo ideale” (Idealtypus): uno è centrato sull’individuo ed è rivolto a tutelare la sua autonomia; l’altro è orientato alla persona nella sua dimensione relazionale e si preoccupa di promuovere la solidarietà. Come spesso avviene nella riflessione etica, il nostro primo sforzo deve essere rivolto a evitare quella forma di dualismo che induce a collocare il bene e il male tutto da una parte. E neppure dobbiamo cedere alla tentazione di considerare un modello come segno della modernità, svalutando l’altro come permanenza di una tradizione antiquata, destinata a cedere il passo a una concezione più progressista.

Oggi è diventato corrente, nella riflessione bioetica internazionale, denunciare i limiti di un’«etica della giustizia», centrata sul rispetto dell’autonomia personale, che non sappia integrare un’«etica del prendersi cura» (ethics of care, nella teorizzazione di Carol Gilligan, 1987). Quest’etica della giustizia, finalizzata a rendere operante il principio dell’autonomia, non porta a rafforzare i vincoli interpersonali (famiglia, comunità), ma piuttosto a formare fragili relazioni basate sui motivi di utilità. L’etica del prendersi cura, invece, parte dall’assunzione che le persone sono dinamicamente interconnesse e che ogni situazione richiede una valutazione contestuale delle interrelazioni. Non basta, quindi, il consenso su ciò che è «giusto» (fairness): il consenso deve tendere a salvare le relazioni. Il

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giudizio morale non può accontentarsi di un metodo razionale; deve includere anche un metodo relazionale.

Qualunque sia il credito che si voglia dare all’etica del prendersi cura, quale correttivo dell’unilateralità dell’etica della giustizia e dell’autonomia, non bisogna mai spingersi fino a gettare su quest’ultima l’ombra del discredito. L’autonomia è un valore importante e va promossa, soprattutto in quelle culture nelle quali l’etica medica tende ancora a regolarsi secondo criteri paternalistici. Dobbiamo riconoscere che in Italia la considerazione del paziente come soggetto, e quindi come agente autonomo, non è ancora parte della buona medicina; è piuttosto una scelta preferenziale, legata all’orientamento personale del medico.

In un’altra direzione ancora è utile promuovere l’autonomia: non solo per porre un limite al paternalismo medico, ma per proteggere l’individuo dalle intrusioni della famiglia. Questa rischia di essere una realtà agglutinante, che si sovrappone all’individuo. Il consenso che il medico, in questo contesto, consegue con la famiglia, può acquistare piuttosto i tratti di una collusione, consapevole o inconsapevole, ai danni del paziente. Quando parliamo di collusione non dobbiamo pensare solo a situazioni in cui i familiari prendono accordi criminosi con il medico, relativamente all’una o all’altra strategia terapeutica che abbia incidenza sulla sopravvivenza del malato, per interessi che possono essere tanto concreti quanto un testamento o un’eredità. Questi sono casi che interessano il codice civile e il giudice, piuttosto che l’etica. Mi riferisco, invece, a situazioni in cui la collusione con la famiglia ha aspetti molto più sottili e motivazioni attinte dalle più alte idealità etiche.

Un esempio convincente è offerto da un approfondito studio antropologico condotto da Deborah Gordon sulla comunicazione della diagnosi a donne affette da cancro alla mammella in Italia. La ricerca è stata

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svolta a Firenze, ma i suoi risultati possono essere ritenuti indicativi per la cultura del Paese in generale. Anche nel caso del cancro alla mammella l’antropologa ha trovato confermato quanto già emergeva da altre ricerche relative a pazienti affetti in generale da neoplasie: la diagnosi non viene comunicata al paziente (oppure quanto viene comunicato non è degno di essere chiamato corretta informazione, perché è fatto di eufemismi e reticenze, quando non addirittura di menzogne), ma alla famiglia; invariabilmente è la famiglia che sceglie, d’accordo con il medico, di sottrarre l’informazione al paziente.

Tutto ciò avviene con l’esplicita finalità di tutelare il paziente dallo shock: «per il suo bene». Il contributo della ricerca è quello di aver analizzato a fondo i meccanismi culturali sottostanti a questa scelta, che prima facie si presenta ispirata da motivi irreprensibili di solidarietà. Nella cultura italiana, dove esiste ancora una forte associazione del cancro con la morte, con la sofferenza e con la mancanza di speranza, la non comunicazione della diagnosi equivale a un meccanismo rivolto a mantenere il «condannato» nel mondo sociale, lasciando la morte e la sofferenza nell’«altro». Quello che domina è la realtà sociale; informare un paziente della diagnosi viene sentito come equivalente alla morte sociale. Osserva Deborah Gordon:

La pratica di non informare accresce per molti pazienti l’esperienza di un mondo diviso. In molti modi il cancro è una malattia di divisione, di disunione, di estraneità. La malattia stessa è spesso vissuta come «altro», allo stesso modo della persona che ha il cancro. Sia il linguaggio medico che il modo popolare di esprimersi la presentano come una battaglia tra il «bene» e il «male», tra una realtà «benigna» e una «maligna», riaffermando così quella concezione del mondo ordinata e dicotomica che il cancro, in realtà, rimette in discussione.

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Se questa interpretazione può essere confermata  se, in altre parole, la pratica di non comunicare la diagnosi può essere vista come l’eliminazione dal tessuto comunitario dell’«altro», inteso come simbolo della morte che minaccia il corpo sociale , allora l’apparente modello solidaristico in cui il medico cerca il consenso della famiglia per proteggere il paziente dall’angoscia di morte mostra tutta la sua ambiguità: quell’alleanza è in realtà una collusione, che costerà al paziente una maggiore angoscia e un più radicale isolamento 2.

Questa «etica del prendersi cura» avrebbe bisogno, in realtà, di una buona iniezione di «autonomia» come correttivo. E il medico, invece di cercare il consenso della famiglia, dovrebbe osare di affrontare la disapprovazione di questa, per tutelare il diritto del malato a gestire la propria vita. Il processo di acquisizione del consenso con la famiglia, invece di essere sempre e ovunque una garanzia di una medicina ad alto profilo etico, rischia di costituire una prevaricazione.

● Prendere la famiglia sul serio.

È importante a questo punto notare che, mentre l’etica clinica di stampo tradizionale, che è ancora la più diffusa in Europa, si sente pungolata dal dibattito bioetico in corso a riconoscere l’autonomia della persona come modulatore delle decisioni cliniche, la bioetica americana comincia un percorso che la sta portando a rivalorizzare la famiglia. Nel discorso bioetico è stato messo in evidenza che alcune pratiche biomediche contemporanee hanno un forte impatto sulla famiglia. È diventato, per esempio, quasi un luogo comune ripetere che le tecnologie riproduttive scardinano punti di riferimento antropologici che si ritenevano

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saldamente fondati sulla biologia (identità del padre e della madre, linea delle generazioni).

Anche la diffusione delle tecniche di diagnosi prenatale può modificare l’atteggiamento di fondo dei genitori verso il bambino, promuovendo un orientamento da consumatori che scelgono il prodotto desiderato secondo il proprio standard di qualità, invece dell’accettazione di una nuova vita come un dono (e l’assunzione delle incertezze e dei rischi connessi). L’attenzione, pur legittima, rivolta a queste pratiche ha distolto dal considerare l’impatto sulla famiglia che hanno anche le decisioni cliniche quotidiane, non riconducibili agli interventi che modificano in modo così vistoso i processi naturali della nascita e della morte.

Di fatto, la medicina e la famiglia sono due grandi sistemi che tendono a funzionare autonomamente e fanno ricorso l’uno all’altro solo quando si scontrano con i propri limiti. È vero che, in misura crescente, l’organizzazione sociale dell’erogazione delle cure ha tolto alla famiglia questo compito, affidandolo alle istituzioni deputate (e ben lo avvertono i familiari, che sentono di essere una presenza estranea in ospedale, solo tollerata entro ambiti di tempo e di spazio ben delimitati). Ma la famiglia espropriata rischia di essere investita di nuovo, e in modo pesante, del compito di cura e assistenza quando la medicina pubblica istituzionale fa fatica a far fronte ai suoi impegni. Si parla allora di coinvolgimento della famiglia per la cura dei malati cronici e per l’assistenza di malati in fase terminale.

Alla famiglia dobbiamo riconoscere solo un valore strumentale, oppure le spetta un ruolo di soggetto, con propri valori e preferenze che vanno considerate nelle decisioni cliniche? Nella pratica della medicina l’attenzione va abitualmente agli interessi individuali del paziente: la sua vita e la sua salute in primo luogo; eventualmente anche le scelte dipendenti dalla sua

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concezione di qualità della vita. L’individuo è per lo più considerato in uno splendido isolamento e i legami con coloro che condividono la sua vita e le sue scelte sono passati sotto silenzio, come irrilevanti. Ora, nelle altre scelte che costituiscono il tessuto quotidiano dell’esistenza non è così: non si sceglie un lavoro, e neppure una semplice vacanza, indipendentemente dal «sistema famiglia», che ne subisce i contraccolpi. Non si capisce perché dovrebbe essere altrimenti nelle scelte che riguardano le cure sanitarie.

Sono interrogativi che cominciano ad essere posti nella bioetica americana (Hardwing, 1990; Lindemann Nelson, 1992). Quello che dà loro rilievo sono gli aspetti economici delle decisioni cliniche, in quanto la cura della salute in un sistema sanitario che non è totalmente socializzato ricade pesantemente sul bilancio della famiglia. Un calcolo al rene, per fare un esempio, può essere rimosso con un’operazione chirurgica oppure con la moderna procedura di dissoluzione dei calcoli mediante litotritore. La seconda opzione può essere preferibile per molti motivi: non richiede anestesia, non provoca dolore ed è più veloce. Ma è molto più costosa ed è abbastanza probabile che non sia rimborsabile dalla maggior parte delle assicurazioni.

In un caso di questo genere, è legittimo  si domandano gli studiosi di bioetica in America  tenere in considerazione solo gli interessi individuali del paziente e non anche quelli della sua famiglia? Non dovremmo, piuttosto, pensare che il processo decisionale dovrà coinvolgere considerazioni che esulano da una valutazione puramente clinica? Gli interessi della famiglia: quelli economici («I diritti dei viventi» di cui parlava Thomas Mann), ma anche quelli di altro profilo. Nel caso clinico che ha fornito l’avvio alle nostre considerazioni si trattava di problemi emotivi, come l’elaborazione del distacco e la sensazione di «aver fatto tutto il possibile». Anche questi problemi non sono

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irrilevanti in medicina; si deve prestare loro attenzione e tenerli nella debita considerazione.

Non siamo in grado di indicare una formula risolutiva che abbia validità universale. Non possiamo dire, semplicisticamente, che il coinvolgimento della famiglia e il suo consenso nelle decisioni cliniche sia un di più facoltativo, come sembra lasciar intendere la bioetica centrata sull’autonomia dell’individuo. Ma non possiamo neppure affermare che la considerazione prioritaria della famiglia e dei suoi interessi salvaguardi sempre le esigenze dell’etica: potrebbe, al contrario, essere uno strumento di prevaricazione.

2. Quando comincia l ’accanimento diagnostico e terapeutico?

Tra i comportamenti medici che nell’opinione pubblica esprimono con più forza il malessere dei cittadini, uno dei primi posti spetta all’accanimento terapeutico. Se ne parla molto, e con molta passione. Ciò non significa che se ne parli con appropriatezza. Anzi, a ben vedere l’uso corrente dell’espressione è viziato da un prevalere di pathos, che ne fa uno dei cavalli di battaglia di chi accusa la medicina di «disumanizzazione».

In pratica, quando gli sforzi di salvare la vita a un malato non hanno risultato, vengono bollati come accanimento terapeutico e sui medici viene gettato il sospetto di comportarsi come tecnici disumani, che prolungano un’azione inutile mirando a fini personali, più che al bene del malato. Se, invece, l’intervento medico ha successo, i sanitari vengono lodati per la loro perizia e dedizione alla causa della guarigione del malato, vista come fine unico della medicina. Si tratta, quindi, di un giudizio ex post, e non di un’accurata descrizione del delicato processo di decisione clinica, dove al medico è richiesto di trovare ex ante la giusta misura per il suo intervento, in un precario equilibrio tra l’eccesso e la carenza, tra il «troppo» e il «troppo poco», tra l’ostinazione cieca e l’abbandono

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prematuro del paziente, in quella condizione di incertezza che è intrinseca a ogni decisione medica.

È comprensibile che i medici reagiscano per lo più con irritazione all’accusa approssimativa di accanimento terapeutico. Soprattutto quando viene filtrata da un’informazione vorace e spettacolare, che deforma il contesto in cui vengono prese le decisioni. È sufficiente ricordare  per fissare in un episodio una scenografia ripetitiva  la ridda di insinuazioni e accuse rivolte ai medici che hanno assistito Fellini negli ultimi giorni di vita.

La facile etichettatura di accanimento terapeutico ferisce inoltre i medici che lottano per tenere in vita i malati, perché misconosce il fatto che i risultati positivi in medicina sono il frutto di molta tenacia. Se, dopo aver mobilitato tutte le energie della mente e del corpo per contrastare la morte, il medico si sente rivolgere l’accusa di aver indulto all’accanimento terapeutico, è molto probabile che possa lasciarsi prendere dallo sconforto. E quella alleanza tacita tra il terapeuta e il paziente, che costituisce tradizionalmente lo scheletro dell’arte medica, viene ulteriormente scossa.

L’accanimento terapeutico è, dunque, solo il frutto di malintesi? Dipende esclusivamente dall’incompetenza degli informatori e dei cittadini, che equivocano sul significato degli sforzi medici per prolungare la vita dei malati? L’accanimento terapeutico va accantonato come un falso problema? Prima delle dovute risposte a questi interrogativi, esaminiamo che cosa avviene, sempre nell’ambito generico dell’opinione pubblica, circa l’accanimento diagnostico. Qui lo scenario è completamente diverso. Non c’è mobilitazione dei media, scambi di accuse e difese; l’argomento non viene problematizzato sotto la spinta di forti emozioni. Raramente capita che qualcuno si lamenti per troppe indagini diagnostiche. Semmai la categoria invocata per valutare eventuali abusi è quella dello spreco delle risorse, non quella dell’accanimento. Visto dalla parte del paziente,

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l’eccesso diagnostico non sembra un pericolo per la salute: meglio un test in più che uno in meno...

Registrate le differenze tra i due ordini di problemi e l’inadeguatezza del termine «accanimento» a indicarli  anche per la connotazione moralistica che l’accompagna e le reazioni che suscita in chi viene fatto oggetto di accusa  resta tuttavia l’interesse a cercare una possibile convergenza tra la ricerca della giusta misura tanto nell’ambito della terapia quanto in quello della diagnosi.

Un cambiamento strategico in questa direzione consiste nell’introduzione in medicina di un punto di vista che abitualmente non era tenuto in considerazione: quello del paziente stesso. Tradizionalmente, finché l’unico criterio sul quale doveva misurarsi la qualità morale dell’atto medico era la sua capacità di realizzare il «bene del paziente», questo veniva praticamente a coincidere con l’ambito delle possibilità stesse della medicina (le quali, per altro, erano molto più limitate di quanto i medici amassero concedere e far sapere ai pazienti...). La prima seria divaricazione tra il possibile e l’auspicabile è avvenuta con l’acquisizione della possibilità di mantenere in vita un paziente mediante le tecniche di respirazione artificiale, verso la metà del nostro secolo.

Già nell’ambito dell’etica medica si sono registrati i primi tentativi di introdurre delle distinzioni che fossero d’aiuto ai medici nelle decisioni che erano costretti a prendere. Negli anni Cinquanta fu molto apprezzata la distinzione, proposta dal magistero pontificio di Pio XII, tra «mezzi ordinari» e «mezzi straordinari». Secondo tale criterio, gli sforzi rivolti a salvare la vita o a prolungare uno stato di particolare sofferenza possono essere lecitamente tralasciati quando hanno un carattere di straordinarietà. La distinzione ha avuto molto successo ed è stata ampiamente adottata anche dall’etica sviluppatasi senza riferimenti religiosi. Mira a

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individuare gli interventi medici ritenuti obbligatori  identificati con quelli ordinari  distinguendoli da quelli che possono essere omessi senza colpa morale.

Nella pratica sanitaria, il criterio della straordinarietà dei mezzi è di difficile utilizzazione, a meno che non sia abbinato a qualche altro criterio; per esempio: valutare se l’intervento terapeutico previsto prolunghi la vita o soltanto il processo del morire. Progressivamente nell’ambito dell’etica medica si è avvertita l’inadeguatezza della distinzione tra mezzi ordinari e mezzi straordinari a guidare le decisioni in situazioni di conflitto. Nella stessa morale cattolica si è sentito il bisogno di un superamento di quella distinzione. La Dichiarazione sull’eutanasia della pontificia Commissione per la dottrina della fede (1980) ha registrato e ratificato il cambiamento di parametro di valutazione:

Finora i moralisti rispondevano che non si è mai obbligati all’uso di mezzi «straordinari». Oggi però tale risposta, sebbene valida in linea di principio, può forse sembrare meno chiara, sia per l’imprecisione del termine che per i rapidi progressi della terapia. Perciò alcuni preferiscono parlare di mezzi «proporzionati» e «sproporzionati».

L’idea di proporzionalità rimanda necessariamente a un fine, a una gerarchia soggettiva di valori, a una valutazione del tipo di vita che la persona considera conciliabile o inconciliabile con il proprio modello di «buona vita». Siamo così rinviati a un giudizio di qualità di vita, che non può essere posto al di fuori dei valori di riferimento del soggetto. Quando ci muoviamo in questo orizzonte, siamo entrati nella prospettiva etica che abbiamo identificato come propria dell’epoca moderna, in quanto integra il valore dell’autonomia individuale nel disegnare ciò che è appropriato all’ideale personale del singolo. L’autodeterminazione del paziente entra a far parte costitutivamente di quella ricerca

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della giusta misura  nel delicato equilibrio tra il troppo e il troppo poco  che determina la qualità dell’atto medico.

In questa prospettiva diventa più comprensibile il fantasma dell’accanimento terapeutico, che turba tanti nostri contemporanei. Esso nasce dal timore che il proprio metro di valutazione dei trattamenti possibili venga disatteso da un mondo di professionisti sanitari sintonizzati unicamente sui valori del prolungamento della vita. Non è necessario immaginare chissà quale disumano infierire su un corpo incapace di difendersi per attivare la fantasia dell’accanimento: basta la preoccupazione di una decisione presa su di noi, invece che con noi. Conseguentemente, la risposta positiva alla possibile deriva della pratica medica, verso questa violazione della persona e del rispetto che le è dovuto, non si restringe a delle limitazioni nell’impiego dell’intero arsenale terapeutico quando il malato ha iniziato il processo irreversibile del morire. La risposta adeguata inizia prima, mediante l’accettazione della prospettiva teorica e pratica proposta dalle «cure palliative».

Ciò implica la pari dignità tra la medicina finalizzata a invertire il corso della malattia, o a contrastare la morte, e quella che ha come obiettivo il prendersi cura del paziente e accompagnarlo nel cammino inevitabile, lenendo i sintomi e rendendo possibile la «buona morte». La filosofia sottostante alle cure palliative è l’antidoto appropriato a quelle forme di abuso alle quali ci si riferisce quando si parla di accanimento terapeutico.

L’orizzonte generale della bioetica ci è d’ausilio anche nel collocare i problemi posti dal cosiddetto accanimento diagnostico. L’imputato qui non può essere il clinico nella sua volontà di stabilire una diagnosi. Questo resta il primo e ineliminabile passo per una corretta procedura medica. L’etica medica tradizionale

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ha anche curato che l’intenzione diagnostica fosse guidata dalla volontà di procurare il bene del malato. Nei confronti di questi, infatti, non è giustificabile un sapere per il sapere, ma solo quello che si apre su una operatività terapeutica. Non è un buon diagnosta il clinico incompetente, che copre la propria ignoranza in fatto di diagnosi differenziale scandagliando alla cieca e moltiplicando indagini diagnostiche a tappeto.

La ricerca della «giusta misura» richiede un ruolo più attivo del paziente, in tutto l’arco delle decisioni sia diagnostiche, sia terapeutiche. Un’indicazione importante in questo senso viene dalla promozione del «secondo parere» e, in generale, dagli strumenti conoscitivi che permettono al paziente di rivolgere al medico le domande appropriate.

Sul versante delle preferenze del paziente coinvolto, mediante l’informazione appropriata, nelle scelte diagnostiche è istruttiva la recente ricerca condotta da Gianfranco Domenighetti nel Canton Ticino. A due campioni di popolazione è stato richiesto se desideravano essere sottoposti a uno screening per individuare un cancro al pancreas precocemente, quando è ancora asintomatico.

A un gruppo di intervistati è stata fornita l’informazione di base («Durante una visita medica abituale il suo medico le domanda se lei è disposto a sottoporsi a un test  che consiste in un semplice esame del sangue  in grado di identificare precocemente se lei ha un cancro al pancreas; il che significa che la malattia sarà identificata prima che lei si accorga di qualsiasi sintomo»); a un altro gruppo, invece, oltre all’informazione di base, è stato aggiunto che:

● il test non è molto preciso: solo il 30% di coloro che risultano positivi all’esame hanno un cancro al pancreas;

● di conseguenza tutti coloro che sono positivi dovranno sottoporsi a ulteriori indagini, compresa una

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risonanza magnetica nucleare, al fine di confermare la diagnosi;

● ogni anno in Svizzera solo 11 persone su 100.000 hanno una diagnosi confermata di cancro al pancreas;

● il cancro al pancreas è poco curabile (su cento persone con cancro al pancreas, solo tre sono ancora in vita dopo cinque anni).

Le persone interrogate potevano scegliere di sottoporsi o no al test, oppure decidere di chiedere un «secondo parere». Solo il 13,5% di coloro che hanno ricevuto l’informazione estesa ha dichiarato la propria disponibilità di sottoporsi al test, contro il 60% di coloro ai quali era stata fornita solo l’informazione di base (Domenighetti, 1999).

È interessante la conseguenza di politica sanitaria che il Canton Ticino ha tratto da ricerche di questo genere. Al fine di promuovere la partecipazione più attiva possibile dei cittadini, il Dipartimento Opere sociali, da cui dipende il sistema sanitario, ha distribuito a tutti gli abitanti un libretto Sì e no per la salute, presentato come «una piccola guida per capire e per decidersi», che invita la popolazione ad atteggiamenti più critici nei confronti di quanto la medicina può offrire, sia sul versante diagnostico che terapeutico. Sono state esplicitate, tra l’altro, le domande che il paziente dovrebbe porre al medico. Le riportiamo, a vantaggio anche dei pazienti italiani:

In generale:

● Perché questo trattamento (questa procedura) è necessario?

● Quali sono i benefici attesi e i rischi potenziali?

● Cosa mi capiterebbe e (con quale probabilità) se questo trattamento non fosse eseguito?

● Esistono uno o più trattamenti alternativi? Se sì, quali sono i rischi e i benefici in rapporto a quello proposto?

● Il trattamento (la procedura) è scientificamente fondato (evidence-based)?

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● Al mio posto lei si sarebbe sottoposto al medesimo trattamento? L’avrebbe proposto ai suoi familiari? Se no, per quale motivo?

Per prestazioni diagnostiche e di screening:

● Che malattia lei può diagnosticare con l’esame (il test) che mi propone?

● Qual è la precisione del test? Qual è la probabilità di avere risultati «falsi positivi» e «falsi negativi»?

● La malattia che lei intende diagnosticare potrà poi essere curata? E con quali probabilità di successo?

Quando siamo guidati dalla preoccupazione di promuovere un ruolo attivo del cittadino, e di coinvolgerlo nelle decisioni che lo riguardano, abbiamo fatto la transizione dall’etica medica tradizionale alla bioetica. Entriamo nell’ordine problematico che è tipico della sanità contemporanea, quando chiediamo al medico di farsi carico anche della preoccupazione per l’efficienza dei servizi sanitari e del contenimento delle spese per la salute sostenute dal sistema sanitario. Oltre che il tradizionale principio della beneficità e quello moderno dell’autodeterminazione del paziente, sancito dal consenso informato, oggi il sanitario è chiamato in modo crescente a tener presente nelle sue scelte cliniche l’esigenza di ottimizzare l’uso delle risorse, che diventano sempre più scarse con il crescere della domanda.

Il medico in epoca di sviluppo della medicina  e di espansione economica  poteva immaginare di lasciarsi guidare dalla domanda: «Che cosa posso fare di più per il malato che ho in cura?». Oggi sarebbe irresponsabile se ragionasse ancora in questi termini. Deve invece chiedersi: «Di che cosa posso fare a meno, pur ottenendo lo stesso risultato di qualità, nella cura del paziente?». In altre parole, il criterio dell’economicità nell’uso delle risorse, a cominciare da quelle diagnostiche, deve entrare nel perimetro dei principi che circoscrivono

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la «buona medicina». Anche l’intenzione diagnostica deve proporsi la giusta misura: quella che si colloca dopo il «troppo poco» e prima del «troppo».

3. Sacralità della vita, qualità della vita: due criteri da conciliare

● Quando la vita umana ha «qualità»?

Nel dibattito contemporaneo l’espressione «qualità della vita» ha progressivamente acquisito una semantica peculiare, che si discosta da significati più tradizionali. Siamo lontani, in particolare, da quella ricerca della qualità che è quasi sinonimo di consistenza e omogeneità di un progetto etico, nell’uso del termine accreditato dal grande romanzo di Robert Musil L’uomo senza qualità. Ulrich, il protagonista del romanzo, ha singole qualità, ma non ha «la» qualità; Musil lo assume perciò a simbolo dell’uomo del Novecento, che ha subito la perdita del centro e, di conseguenza, la direzione finalistica del suo progetto esistenziale («Con meravigliosa acutezza egli vedeva in sé  ad eccezione del saper guadagnare denaro, che non gli occorreva  tutte le capacità e qualità che il suo tempo apprezzava di più, ma aveva perduto la possibilità di applicarle»).

La ricerca della qualità percorre oggi altre strade. «Qualità della vita» ha assunto, in senso descrittivo, un significato che fa equivalere l’espressione a un sinonimo di vita umana. L’interrogativo che essa veicola è quello relativo alla presenza della qualitas umana nelle diverse espressioni della vita. Specialmente all’inizio e alla fine del segmento dell’esistenza, si creano sempre più frequentemente situazioni-limite. Solo per riferirci a quelle che ricorrono con più frequenza: si può parlare ancora di vita umana in stati di coma apallico, quando le funzioni cerebrali sono

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compromesse in modo irreversibile e quelle vitali possono essere prolungate solo artificialmente? È già presente la qualità umana nelle primissime fasi di sviluppo di un embrione derivante da fecondazione dei gameti in vitro?

La difficoltà di trovare un consenso su questi problemi non deriva solo dal pluralismo delle antropologie. La principale responsabilità va attribuita al fatto che il linguaggio relativo alla qualitas umana della vita solo apparentemente è descrittivo: in realtà implicitamente è valutativo, e quindi veicola una funzione prescrittiva.

Il linguaggio prescrittivo è quello di cui si serve l’etica, nel suo intento di determinare la qualità morale delle azioni. I verbi che esso usa non sono coniugati all’indicativo, ma all’imperativo. La «qualità di vita» in questo senso è intesa come norma di moralità e criterio per l’azione. Indica che cosa va fatto o omesso in determinate situazioni conflittuali.

Per esemplificare alcune di tali situazioni, possiamo riferirci al prolungamento di cure rianimative a pazienti in coma irreversibile, o che si avvicinano ai criteri clinici della morte cerebrale; oppure all’omissione di interventi terapeutici a neonati con gravissime malformazioni. Notevole clamore ha suscitato, in questo senso, la proposta di un gruppo francese  che si è attribuito la denominazione di «Associazione per la prevenzione dell’infanzia handicappata»  di sopprimere, o lasciar morire, i bambini più gravi entro i primi tre giorni di vita, nei casi in cui «il bambino presenti una infermità inguaribile e tale da far prevedere che non potrà mai avere una vita degna di essere vissuta». È chiaro che in questo caso il criterio di qualità della vita viene equiparato a quello della fruibilità della vita stessa.

L’equivalenza del criterio della qualità della vita con la desiderabilità del nascituro si riscontra praticamente nel ricorso all’aborto selettivo, in caso di embrioni geneticamente alterati o di feti con gravi malformazioni.

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La decisione di interrompere la gravidanza, in questi casi, è abitualmente motivata con la bassa qualità di vita che si prevede per il nascituro. Anche il dettato della legge italiana 194 del 1978, relativa all’interruzione volontaria della gravidanza  la quale prevede la possibilità di intervento abortivo «quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazione del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute psichica o fisica della donna»  è per lo più interpretato, in pratica, come fondante un diritto ad avere un figlio sano.

Possiamo rilevare che, a rigore, questo tipo di interruzione della gravidanza solo impropriamente può essere chiamato «aborto terapeutico». La legge stessa, infatti, riserva questa denominazione agli interventi abortivi effettuati dopo i primi 90 giorni di gravidanza in presenza di «imminenza di un pericolo di vita» della donna (art. 7). Resta il fatto che la diffusione di interruzione della gravidanza nel caso in cui la diagnosi prenatale rilevi anomalie del feto, anche in assenza di pericolo di vita per la madre, viene correntemente motivata con il ricorso al criterio di qualità della vita.

Lo stesso argomento ricorre frequentemente come motivazione per proposte di introdurre la legalizzazione della cosiddetta eutanasia passiva, che prevede in determinati casi la rinuncia al proseguimento degli interventi che tengono in vita una persona in fase terminale. Anche qui il criterio decisivo che si è soliti addurre è quello della povera qualità della vita, che rende il continuare a vivere non più desiderabile.

Tra i cultori dell’etica bio-medica c’è una diffusa diffidenza nei confronti della qualità della vita, invocata come criterio per prendere delle decisioni anche in campo sanitario. Tale criterio appare come inaffidabile, impreciso nei suoi contenuti e connivente con il lassismo morale della civiltà consumista che è la nostra. Ad esso viene contrapposto, soprattutto a opera

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dei moralisti cattolici, il criterio della santità della vita. Questo ricorso non è esclusivo della morale religiosa; può essere condiviso dai sistemi etici a fondazione deontologica, piuttosto che utilitaristica.

Il criterio della santità della vita può essere ricondotto al principio secondo il quale è bene tutto quello che va a favore della vita, male ciò che la mette in pericolo. Nel modo più stringato, così P. Giacomo Perico formula il criterio: «la vita umana, per se stessa, indipendentemente cioè dai suoi livelli di qualità, resta il valore più alto». I moralisti di ispirazione religiosa tendono a far coincidere il principio con il rispetto della vita in quanto dono di Dio, sottratta alla disponibilità dell’uomo, quale bene al quale non è lecito attentare.

● Criteri per guidare le scelte in medicina.

Cercando di passare dalla considerazione generica del valore sacro della vita a un criterio operativo, nell’orientamento ispirato alla santità della vita possiamo individuare i seguenti elementi:

1. la vita è un bene prezioso;

2. deve essere rispettata e protetta;

3. di ogni essere umano vivente si presume che abbia diritto alla vita;

4. nessuno ne deve essere privato senza adeguata giustificazione.

Su tali valori è facile trovare un consenso: difficile è invece tradurli in regole di comportamento. A un esame più ravvicinato, infatti, il criterio della santità della vita si dimostra molto meno operativo di quanto promette di essere. La vita è un valore conflittuale. La volontà di proteggerla e affermarla può scontrarsi con valori etici (come l’altruismo e la solidarietà: è considerata virtù aiutare chi ha bisogno, anche a rischio della propria vita) e con valori sociali (a esempio la tutela della collettività: con questi argomenti si

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è tradizionalmente trovata una giustificazione dal punto di vista morale sia alla pena di morte, sia alla guerra giusta).

La religione, inoltre, apre un altro fronte che può anch’esso entrare in collisione con la tutela della vita. La Chiesa, ad esempio, venera come martiri coloro che non esitano a rinunciare alla vita per non venir meno all’adorazione di Dio. Ancor più, essa considera la stessa difesa di certe qualità  come la verginità  un valore superiore, a cui può essere subordinata la vita fisica.

Anche in ambito medico, il principio della sanità della vita è potuto diventare un criterio per le concrete scelte morali solo grazie a una decisiva mitigazione delle sue pretese assolute. La dottrina che distingue tra mezzi ordinari e straordinari è servita per un lungo periodo egregiamente a tale scopo. Quando si tratta di mettere in atto interventi medici che prolungano la vita, solo i primi sono obbligatori, mentre i secondi sono facoltativi.

Nelle condizioni attuali dello sviluppo della medicina, che ha elaborato la capacità di prolungare quasi indefinitamente le funzioni vitali dell’organismo, anche quando le funzionalità corticale e la vita relazionale sono definitivamente compromesse, il criterio della santità della vita può facilmente degradarsi, se non è opportunamente mitigato. Se fosse spinto all’estremo, ne deriverebbe un vitalismo riduttivo, ovvero una celebrazione della vita ricondotta ai soli parametri biologici. Ciò risulta contrario sia allo spirito dell’umanesimo, sia alla stessa visione cristiana dell’uomo.

Sarebbe paradossale che il cristianesimo, dopo aver per secoli tradizionalmente mostrato una certa indifferenza verso la vita terrena (pensiamo solo alle schiere di giovanissime educande e religiose che, fin verso i primi decenni del nostro secolo, andavano gioiosamente verso una morte prematura, dispensando

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parole di conforto ai genitori, che restavano in un mondo da esse percepito come estraneo allo spirito: questo anelito alla vita oltre il corpo era considerato un modello di esemplare virtù cristiana), diventasse ora un difensore a oltranza del prolungamento incondizionato della vita fisica. Più che un’evoluzione della morale cristiana, dovremmo vedere, in un simile cambiamento di fronte, una frattura profonda con la tradizione.

● Alla ricerca di decisioni «ragionevoli»,

Per rendere la qualità della vita un criterio praticabile anche per chi si orienta verso una concezione etica di tipo deontologico, o si muove in un ambito segnato dall’esperienza religiosa della vita come un dono, bisogna demarcarlo da interpretazioni riduttive. Una di queste è quella che mette il criterio al servizio di un utilitarismo egoista. Tanto più pericoloso, quando non è il soggetto stesso, ma altri a decidere per lui se, nelle concrete circostanze e considerata la proporzione tra costi e benefici, la sua vita conservi ancora la qualità che la rende degna di essere vissuta.

Lo stesso linguaggio costi/benefici, per quanto possa sembrare raggelante al primo impatto a un umanista, è passibile di un’interpretazione non riduttiva. Basta considerare tra i «benefici» non solo quelli economici, ma quelli di natura simbolica. Per un gruppo sociale, infatti, l’impiego anche di grandi risorse umane e tecnologiche per salvare una vita umana o prolungare un’esistenza può essere passivo dal punto di vista economico, ma molto produttivo rispetto a valori di cui la società ha bisogno per la propria coesione, quali l’altruismo, l’abnegazione e la solidarietà.

Per salvare il criterio della qualità della vita dai rischi di utilizzazione a servizio dell’egoismo, basta ricorrere a un riferimento antropologico più ampio, che consideri anche gli elementi di cui l’approccio

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esclusivamente biologico-medico non tiene conto. Può essere utile, a tal fine, la formula proposta da Antony Shaw: QVi = CN (F+S).

La qualità della vita (QVi) non è funzione esclusiva delle capacità naturali (CN) dell’individuo. Bisogna tener conto anche di due altri elementi: famiglia (F) e società (S). Se, per ipotesi, le capacità naturali fossero uguali a zero (come nel caso di un bambino anencefalo), la qualità della vita sarà sempre nulla, per quanto grande sia l’impegno della famiglia e della società (Shaw, 1977).

Questi due fattori influiscono sulle capacità naturali, tanto negativamente quanto positivamente. Un bambino, pur dotato del migliore corredo genetico e salute fisica, ma che non abbia il minimo supporto familiare (nasca, per esempio, nel ghetto urbano di una grande metropoli da una madre minorenne, non sposata, dedita agli stupefacenti...), possiamo prevedere che avrà una bassissima qualità di vita. Secondo la formula, se la famiglia è zero, la somma sarà zero. A meno che la società non supplisca alle carenze della famiglia, prendendosi cura del bambino. Questa variabile può ancora modificare positivamente la futura qualità di vita dell’individuo, conferendo valori più alti alla formula di equazione.

Come si può rilevare, la prospettiva della qualità della vita ha esiti contraddittori. Può condurre a una svalutazione dell’esistenza di una persona, qualora come punto di riferimento per valutare la qualità di vita si assuma il criterio dello standard sociale, escludendo il punto di vista soggettivo della persona, oppure quello delle capacità naturali, prescindendo dalla famiglia e dalla società. Per contro, la preoccupazione per la qualità può produrre esiti indiscutibilmente positivi per il soggetto.

È quanto si può riscontrare, ad esempio, nell’indirizzo che ha portato allo sviluppo delle cure palliative per

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malati per i quali non si può più prevedere una guarigione. Questa pratica si basa su una visione antropologica che dà la priorità alla qualità rispetto alla quantità («Quando il problema principale non è la quantità, ma la qualità»: è il motto programmatico della Società italiana di cure palliative).

È vero che l’approccio della qualità della vita può essere soggetto ad abusi. Lo stesso può avvenire, però, con l’adozione del principio della santità della vita. Sarà pur sempre necessario tracciare una linea tra mezzi ordinari e straordinari (o proporzionati e sproporzionati); e la linea può passare troppo al di qua o troppo al di là del giusto confine.

La contrapposizione tra il criterio della qualità e quello della santità della vita è, in ultima analisi, artificiale. Ognuno dei due è inadeguato, da solo, a offrirci indicazioni valide per risolvere i dilemmi etici che incontriamo; se condotto all’estremo, senza gli aggiustamenti correttivi che vengono dall’altro criterio, provoca scelte etiche in violento contrasto con il senso comune. L’esortazione del moralista cattolico Richard McCormick a considerare i due criteri come complementari è, perciò, quanto mai opportuna:

Il criterio della qualità della vita si deve considerare a partire dalla riverenza e dal rispetto per la vita, come un’estensione del rispetto stesso per la santità della vita. Tuttavia, ci sono occasioni in cui preservare la vita di colui che si trova incapacitato, per gli aspetti della vita che consideriamo umani, è una violazione della santità stessa della vita. Pertanto, separare i due aspetti e chiamare uno santità della vita e l’altro qualità della vita è una falsa spaccatura intellettuale e molto facilmente suggerisce che il termine «santità della vita» sia usato in forma esortativa.

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Si tratta, in altre parole, di fare un giudizio di qualità della vita in modo tale che esso esprima e rinforzi il nostro interesse per la santità della vita. Concretamente, bisogna cercare di tracciare la linea che demarca l’impegno a proteggere la vita in modo che esso non tradisca la vita stessa, né per eccesso, né per difetto. Ciò avverrà secondo un criterio sintetico, che potremmo approssimativamente chiamare «criterio di ragionevolezza». Stabilito questo orientamento generale, bisognerà, volta a volta, esplicitare i parametri che le persone ragionevoli usano per prendere le decisioni. E, anzitutto, distinguere tra le decisioni che riguardano il soggetto stesso e quelle, invece, che concernono altre persone.

Le prime sono relativamente più semplici. Se consideriamo, ad esempio, la decisione del soggetto relativa a quel prolungamento di cure, essenziali a mantenere in vita, che possa essere ritenuto ragionevole, ci accorgiamo quanto variano da persona a persona le opzioni moralmente accettabili. Tre valori fondamentali vanno presi in considerazione: la preservazione della vita, la libertà umana e l’assenza di dolore.

Nel suo ruolo di protagonista del proprio morire, il soggetto può modulare i valori in conflitto in modi diversi. Tra la difesa della propria libertà e la lotta al dolore, qualcuno potrà scegliere di massimalizzare la libertà, rifiutando il ricorso ad analgesici che deprimono la vigilanza cosciente, anche a costo di sopportare dolore; qualcun altro, invece, opterà per minimizzare il dolore a prezzo della riduzione del grado di libertà che si esprime nella consapevolezza, e magari anche di un abbreviamento della durata della vita.

Per alcuni il prolungamento della vita, anche solo di pochi giorni, è l’obiettivo supremo; altri, invece, preferiscono una vita di minore durata, ma di cui possano essere fino alla fine gli artefici orchestranti. Il mondo soggettivo si dispiega con tutta la sua poliedrica

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varietà, con motivazioni di ordine spirituale (la fede in un’altra vita può essere una variabile importante), psicologico e affettivo (il desiderio di abbreviare la durata della propria fine può nutrirsi di intenzioni altamente altruistiche, come il desiderio di non gravare sui propri cari o non trascinarli alla rovina economica con spese sanitarie insensate).

Quando lasciamo emergere la soggettività, il bene del paziente non può essere stabilito a priori e in modo esterno al suo mondo di valori, sulla base di parametri esclusivamente organici. Questo confronto con il soggetto è una sfida per l ’approccio medico tradizionale. L’azione medica è chiamata a tutelare e favorire l’autodeterminazione del paziente, evitando quel paternalismo che consiste nel decidere al posto dell’altro ciò che costituisce il suo miglior beneficio.

Il rispetto dell’«autonomia» del soggetto diventa un’impresa di enorme difficoltà, quando la persona non è in grado di decidere per se stessa. È il caso dei malati in coma, o ridotti a una condizione di degrado psichico che li rende incapaci di prendere delle decisioni su se stessi. Ciò avviene, regolarmente, quando medici e genitori devono prendere decisioni circa la vita di neonati o bambini. Se per gli adulti, anche se incapaci di intendere e di volere, possiamo ancora basarci su una volontà precedentemente espressa o sul trattamento che presumibilmente la maggior parte delle persone desidererebbe per sé, se si trovasse in quelle condizioni, nel caso dei bambini mancano anche questi punti di riferimento.

Il criterio sintetico della ragionevolezza non può qui assumere la funzione di una formula matematica da applicare meccanicamente. La duplice considerazione della qualità e della santità della vita fa assomigliare la decisione morale a un’opera di creatività spirituale, dalla quale, tuttavia, non si può sempre escludere una parte di male necessario.

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4. Quale etica per le cure palliative ?

La pratica medica che si occupa dei malati che non vanno verso la guarigione, bensì verso la fine della vita, è intensamente pervasa di dibattiti etici. L’etica coinvolta non è solo quella protesa a difendere valori e a promuovere stabili disposizioni interiori verso il bene («etica delle virtù»). Con le decisioni che nascono sull’estrema soglia della vita si confronta anche l’etica correlata con la difesa dei diritti, a partire da quello fondamentale di dare forma e contenuto al bene morale soggettivamente inteso. In questo senso, parlare di «etica delle scelte e delle decisioni» è più che una tautologia (se non c’è scelta, siamo nel dominio della necessità e quindi non nell’ambito dell’etica). Se sul fatto di morire non abbiamo controllo, e quindi capacità di decidere, possiamo però intervenire ampiamente sul quando (anticipare o ritardare la morte), sul dove (in ospedale, a casa, in un hospice...; perfino davanti all’occhio della televisione, per un programma «educativo» destinato alla BBC!) e, soprattutto, sul come (quanto medicalizzare la morte o riservarsi spazi per gestire anche la fine della vita, secondo propri valori e preferenze).

Collocarsi risolutamente nell’ambito delle scelte e delle decisioni ha delle implicazioni anche per i sanitari che praticano le cure palliative. Vuol dire riconoscere, implicitamente, che i propri comportamenti nei confronti dei malati che vanno verso la morte sono influenzati, abitualmente, più da altre forze che da quell’attività di pensiero razionale e dialogico (nel senso canonico attribuito al dialogo da Socrate: come risposta a domande che scompigliano luoghi comuni) che chiamiamo etica. Un modo concreto per fondare i propri comportamenti sull’etica  piuttosto che sui costumi e le mode sociali o sulla retorica, che non risparmia neppure le cure palliative  può essere quello

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di confrontarli con i principi proposti dalla bioetica contemporanea, che si è imposta come lingua franca nel dibattito sulle scelte e le decisioni che hanno a che fare con la vita e la morte.

Accogliendo l’impostazione teorica proposta da Diego Gracia, i principi con cui confrontare i comportamenti non vanno semplicemente allineati l’uno accanto all’altro, decidendo di privilegiare quello più in sintonia con le proprie preferenze (Gracia, 1993). I principi vanno piuttosto disposti su due livelli, che tutelano rispettivamente il «minimo morale» e il «massimo morale». I minima moralia identificano  per riprendere la formulazione di Th. W. Adorno  quel livello di moralità al di sotto del quale regna l’immortalità, anche se nella società fosse accettato per consenso generale. I principi di «non maleficità» e di «giustizia» tutelano questo minimo morale. È una dimensione non negoziabile, dove l’etica può e deve mostrare i muscoli, formulando  quando è il caso  dei no decisi.

Il principio della non nocività — il classico primum non nocere— tradizionalmente è stato fatto equivalere al rifiuto di utilizzare la medicina per dare la morte. Questa posizione costante dell’etica medica lega, ad esempio, il giuramento di Ippocrate con la revisione più recente del codice deontologico dei medici italiani (ottobre 1998). Il giuramento che precede il codice ― un giuramento «laico», fatto davanti alla propria coscienza e senza invocazione di alcuna divinità  elenca tra gli impegni presi solennemente quello di «non compiere mai atti idonei a provocare deliberatamente la morte di un paziente». Il nuovo giuramento professionale apre però la porta a una novità, proponendo al medico di giurare «di astenersi dall'accanimento diagnostico e terapeutico».

Si è fatta strada nel frattempo la consapevolezza che si può nuocere al paziente non solo privandolo della vita, ma anche con un eccesso di diagnosi e cure,

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che costringono la persona a prolungare una vita in condizioni innaturali, contro la sua volontà e il suo miglior interesse (in questo caso il filologo potrebbe rispolverare il significato che la parola «paziente» aveva originariamente: nel francese medievale il termine «patient» era riservato al condannato a morte che, prima dell’esecuzione, veniva torturato...!)

Il secondo principio che presidia il minimo morale è quello della giustizia. Esso richiede che a ogni persona, in una società giusta, sia attribuita uguale considerazione e uguale rispetto. L’essere più vicino alla morte non può essere una discriminante accettabile rispetto alla tutela che spetta a ogni cittadino. Sarebbe al di sotto del livello morale minimo una società che decidesse di sottrarre le cure necessarie a qualcuno, anche se la decisione fosse presa in maniera democratica, con il consenso di tutti, addirittura all’unanimità. Oggi il pericolo si presenta sotto forma di un economicismo a oltranza, che riduca il valore della vita a parametri esclusivamente economici.

Un preoccupante segnale d’allarme in questo senso è fornito dall’indagine, fatta da un economista sanitario e pubblicata sul New England Journal of Medicine (16 luglio 1998), sul «potenziale risparmio in termini economici che deriva dalla legalizzazione del suicidio assistito». La conclusione potrebbe suonare rassicurante (la stima parla di 627 milioni di dollari, pari a meno dello 0,07 per cento della spesa totale degli Stati Uniti per la sanità: «il risparmio che seguirebbe dalla legalizzazione del suicidio medicalmente assistito rappresenta una frazione molto piccola della spesa sanitaria»); profondamente inquietante è, invece, il fatto stesso che una rivista così prestigiosa e autorevole ospiti studi di questo genere.

L’opinione pubblica si è molto allarmata quando è sembrato che, nel caso divulgato dalla stampa come «Child B», a una bambina inglese di dieci anni, affetta

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da leucemia, fosse stato negato un secondo trapianto di midollo perché il costo del trattamento non era proporzionato alle scarse possibilità di esito positivo. È un indice che ancora il razionamento delle risorse sanitarie, a danno delle persone che hanno minori possibilità di cavarsela, è percepito come lesivo della giustizia. Cominceremmo a preoccuparci seriamente qualora fatti di questo genere suscitassero reazioni scandalizzate.

Perché il livello minimo di giustizia sia garantito, non bastano le condanne e le esortazioni: è necessaria un’efficace politica sanitaria che privilegi la tutela dei soggetti deboli. Il Piano sanitario nazionale per il triennio 1998-2000 presenta, per la prima volta nella storia della sanità italiana, un impegno in questa direzione. L’assistenza alle persone nella fase terminale della vita fa parte integrante del «patto di solidarietà per la salute» con cui lo stato si impegna a offrire l’assistenza per i deboli. È quasi un luogo comune affibbiare al Piano sanitario nazionale la qualifica di «libro dei sogni». In questo caso, se alla proclamazione non seguisse impegno adeguato, l’accusa sarebbe pienamente giustificata.

I principi che presiedono al «massimo morale» hanno la caratteristica di richiedere la partecipazione attiva a coloro il cui bene e i cui interessi devono essere tutelati (e in questo caso la qualifica di «pazienti» è quanto mai appropriata, se il termine connota, oltre al pathos che affligge chi è malato, anche un ruolo passivo). Questi principi sono riconducibili al classico orientamento dell’azione medica al «bene del paziente» e al rispetto dell’«autonomia» del malato, inteso come soggetto che ha diritto di prendere le decisioni che lo riguardano.

La situazione clinica di cui si occupano le cure palliative non sospende l’imperativo a procurare un beneficio al malato, con cui l’intervento dei sanitari si deve misurare; tuttavia, il fatto che, per definizione, parliamo

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di patologie per le quali non esistono rimedi curativi e di soggetti che, in tempi più o meno lunghi, si stanno avviando alla morte, costituisce un cambiamento di scenario con rilevanti implicazioni etiche.

Come nelle figure ambigue, rese celebri dalla corrente psicologica della Gestalt, l’inversione del rapporto figura/sfondo cambia ciò che si percepisce, allo stesso modo lo scenario della situazione clinica inguaribile modifica ciò che si percepisce come figura (leggi: priorità clinica) e ciò che invece retrocede sullo sfondo. Quando la malattia può essere debellata, la priorità spetta alla cura, mentre il «prendersi cura» sta sullo sfondo (anche se nessuno, che non sia in malafede, oserà sostenere che gli aspetti relazionali, intesi con il «prendersi cura», non siano importanti anche per il malato che si trovi in una condizione di patologia reversibile).

Il contrario avviene quando prevale il momento della palliazione. Non intendo dire con questo che le cure palliative debbano identificarsi con l'high touch, abbandonando completamente la sponda dell'high teck. l’uso della terapia appropriata, anche molto sofisticata, può essere richiesto per un trattamento efficace dei sintomi. Ma è chiaro che nel decorso di un programma di cure palliative gli interventi aggressivi, con ampio ricorso alla tecnologia, sono chiamati a lasciare progressivamente la scena per ricoprire un ruolo di sfondo, a vantaggio di interventi nei quali protagonisti principali sono i cinque sensi, in uno stretto rapporto interpersonale (cfr. Gallucci, 1998).

In questo cambiamento del rapporto figura/sfondo, nell’identificazione del bene del paziente collochiamo anche il progressivo spostamento dell’attenzione sui sintomi, a cominciare dal più importante: il controllo del dolore. Finché prevale l’atteggiamento curativo, la preoccupazione per i sintomi può passare in secondo piano (benché anche qui sia necessario ripetere

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l’osservazione precedente: non può essere chiamata buona medicina quella che è talmente concentrata sul progetto curativo da trascurare sistematicamente le sofferenze del malato). Quando però si annuncia la condizione di terminalità, combattere i sintomi diventa l’imperativo prioritario. Queste scelte richiedono l’ascolto del malato e una continua negoziazione, per trovare il punto di equilibro tra ciò che la medicina può fare per il malato e ciò che questi trova appropriato, in quanto congruente con il proprio concetto di qualità di vita.

È proprio questo ruolo attivo e propositivo della persona malata che il principio di autonomia vuol promuovere. Nella pratica il passaggio alla cultura della modernità e dei diritti in medicina viene fatto corrispondere con un prevalere di aspetti giuridico-formali (vedi l’uso burocratico e difensivistico del «consenso informato», fatto sottoscrivere al paziente come una liberatoria per il medico...). Nell’ambito delle cure palliative un ruolo di questo genere rischiano di ricoprire le «direttive anticipate» (living will), se non sono l’espressione di un diverso modo di concepire il rapporto tra medico e paziente e non presuppongono un cambiamento culturale. La cultura del consenso informato nelle cure palliative dovrebbe tendere a rendere possibile ciò che Rilke, in termini poetici, chiedeva a Dio nel suo Libro d’ore:

Signore, dà a ciascuno la sua morte

la morte che da quella vita viene

in cui ebbe amore, anima, angoscia.

Perché noi siamo solo guscio e foglia.

La grande morte che ciascuno ha in sé

è il frutto attorno a cui tutto si volge.

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epilogo

TRA MEDICO E PAZIENTE, NUOVI DIRITTI NUOVI DOVERI

Il nuovo profilo della pratica medica che abbiamo tracciato non richiede solo un sanitario diverso, ma anche la formazione di un paziente più consapevole del compito che incombe su di lui nel cercare la giusta risposta ai problemi di salute in collaborazione con il sanitario. Affinché queste considerazioni abbiano il tono della concretezza, presentiamo in conclusione un elenco di consigli al paziente.

Il «buon paziente» dei nostri tempi non è solo colui che tace, si sottomette e segue alla lettera le prescrizioni. Essere un buon paziente oggi richiede intelligenza, volontà e un certo numero di virtù. Per questo, quando si è malati, occorre ricordare che:

● un buon medico non esiste senza un buon paziente. Si può fare molto, in quanto pazienti, per migliorare lo stato della medicina, cominciando a disporsi a essere un buon paziente. Gli orientali dicono: «Quando il discepolo è pronto, arriva il maestro»;

● il buon paziente non è quello che sopporta e tace. Parlare della propria malattia non è soltanto un diritto, ma un dovere;

● non lasciarsi intimidire dalle apparecchiature diagnostiche e dalle macchine. Anche il medico più orientato in senso tecnologico ha bisogno del racconto del paziente per capire che cosa la malattia significa per lui;

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● il medico non è né il padrone, né il robot. Lui non può esigere un atteggiamento servile; il paziente non deve cercare di ridurlo a un puro esecutore dei suoi desideri;

● non fare del medico il proprio complice per piccole frodi (certificati compiacenti, ricette «facili» ecc.): quello che si potrebbe guadagnare su un piano, lo si perderebbe su quello della stima reciproca e della qualità del rapporto;

● la medicina, oggi, può fare molto. Qualche volta può fare perfino troppo, per esempio prolungando la vita in condizioni che il paziente considera indegne. Per prevenire queste situazioni, far conoscere al medico qual è il proprio confine accettabile tra la buona terapia e l’accanimento terapeutico;

● tra il paziente e il medico ci possono essere divergenze insanabili in materia di scelte etiche. Il medico non deve fare violenza alla coscienza del paziente, ma neppure quest’ultimo deve farla alla coscienza del medico. Esaurite tutte le possibilità di dialogo, non resta che cambiare medico.

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1 L'ethos di quella struttura familiare che la ricerca antropologica sulla famiglia meridionale ha chiamato “familismo” (ctr. E.C. BanfieldLe basi morali di una società arretrata, traci, it. Il Mulino, Bologna 1976) comporta meccanismi di controllo sociale che orientano le scelte degli individui e dei gruppi familiari: A. De SpiritoAntropologia della famiglia meridionale, Janua, Roma 1983.

2 Una eloquente documentazione a conferma delle ricerche antropologiche di Deborah Gordon è offerta dalla pubblicazione Donna e salute. Dall'esperienza di malattia a una diversa cultura, Firenze 1989, che raccoglie inchieste svolte tra donne affette da cancro al seno.

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