![Book Cover: Dignità del malato e dignità del medico](https://sandrospinsanti.eu/wp-content/uploads/2019/09/05-c-dignita-del-malato-e-dignita-del-medico-conclusioni-Custom.jpg)
- Interessi plurali, interessi in conflitto nella pratica clinica
- Conflitto di interessi
- L'alleanza terapeutica
- Chi ha potere sul mio corpo?
- Curare e prendersi cura
- Il medico e il paziente, una relazione complessa
- Le mani sulla vita
- Come riconoscere il medico giusto
- Cambiamenti nella relazione tra medico e paziente
- L'educazione come terapia
- «Dottore, sto male» - «Mi racconti»
- Narrative based medicine
- We have a dream
- L'ascolto che guarisce
- La comunicazione medico-paziente
- La gestione dei conflitti in ambito sanitario
- Ripensare la cura nel contesto di una società conflittuale
- La necessità di porre limiti alla medicina
- Parlare o tacere?
- Il rapporto medico-paziente
- Il recupero del soggetto
- Etica della vita e intervento sanitario
- Elogio della indecisione
- Comunicare e informare: quale empowerment per il cittadino?
- L'ascolto che guarisce: conclusioni
- Dignità del malato e dignità del medico
- Aspetti etici della relazione medico-paziente
- La decisione cardiochirurgica: aspetti etici
- Il segreto nel rapporto con il paziente sieropositivo
- Il rapporto medico-paziente: modello in transizione
- La formazione culturale del curante
- Le professioni della salute si incontrano
- Le separazioni nella vita
- Quando inizia l'accanimento diagnostico e terapeutico?
- L'accanimento diagnostico e terapeutico
- La persona è al centro della comunicazione
- Il medico impari a non «scomunicare»
- Ma il malato deve o vuole sapere?
- Il dottor Knock si aggiorna
- Il tempo come cura
- A una donna come me
- La difficile virtù di saper ascoltare
- Dottore, ma l'operazione s'ha proprio da fare?
Sandro Spinsanti
DIGNITÀ DEL MALATO E DIGNITÀ DEL MEDICO. CONCLUSIONI
in Dignità del malato e dignità del medico
Atti del Convegno di Bioetica
Modena, 6-7 maggio 2005
pp. 115-118
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“Rari nantes in gurgite vasto”: è un verso celebre dell’Eneide, con cui Virgilio descrive i pochi superstiti che nuotavano tenendosi a galla in un mare sterminato, dopo un naufragio. Cari “rari nantes”, pochissime parole di conclusione, per non infierire sui pochi sopravvissuti a una lunga giornata di riflessione. Iniziando da un timore che avevo, vedendo il titolo di questo convegno e le articolazioni in cui era suddiviso: pensavo che il convegno avrebbe potuto prendere la via di una esortazione morale (“dignità del medico, dignità del paziente”). Nelle comunicazioni era accuratamente evitato ognuno di quei temi scottanti come la ricerca sugli embrioni, la fecondazione medicalmente assistita, l’eutanasia, che costituiscono quella che Giovanni Berlinguer ha chiamato la “bioetica di frontiera”; l’articolazione del convegno privilegiava chiaramente la “bioetica quotidiana”. Tuttavia la mia paura che tutto si risolvesse in una specie di “moral suasion” (suvvia, rispettiamo i pazienti, siamo buoni con i poveri malati...!), per fortuna non ha preso corpo. È stata in realtà una giornata molto vigorosa, di riflessione più che di appello ai sentimenti, per la quale non sono in grado di fare una sintesi se non in una maniera un po’ inusuale. Ovvero, chiedendomi se quando cerchiamo di mettere insieme queste due grandi realtà, la medicina e l’etica, lo facciamo in maniera attributiva o predicativa.
Questi termini grammaticali si traducono nell'alternativa: stiamo cercando una medicina buona o una buona medicina? Non è una questione retorica, è una pista che ci può aiutare per andare in profondità'nelle questioni che ci stanno a cuore. La posizione attributiva è il buon medico, il buon paziente, mentre in quella predicativa parliamo del medico buono, del paziente buono. Ancor più concretamente, io come malato, vorrei un buon medico o un medico buono? Voi, come medici, cercate dei buoni pazienti o dei pazienti buoni?
Molte iniziative che si presentano come un programma di “umanizzazione della medicina” in realtà hanno questo in mente: il medico buono. Cioè il medico che sa confortare, che presta ascolto, che non si nasconde dietro la tecnica, che accetta di coinvolgersi emotivamente, che esercita l’empatia: tutte queste espressioni si equivalgono nella richiesta di un medico buono. Ma non tutte le situazioni ci inducono a dare la preferenza a questa dimensione. Personalmente, se dovessi scegliere tra un cardiologo buono e un buon cardiologo, non avrei esitazioni, nel caso in cui le due qualità
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non convivessero nella stessa persona. Il cardiologo buono, che magari è molto empatico, ma l’ultima volta che si è aggiornato è stato 15 anni fa, lo escluderei rigorosamente. Che cosa è il buon medico, al quale diamo la preferenza? La buona qualità è sinonimo di competenza professionale: la qualità comincia dalla capacità clinica. Lo abbiamo sentito questa mattina: la cattiva medicina clinica è non etica, la buona medicina presuppone la conoscenza aggiornata: prescrivere la cosa giusta allo stato attuale delle conoscenze. Ancora di più, la buona medicina, come affermava il professore Manenti, è quella che cerca di evitare gli errori: primum non nocere. Se è vero, come era contenuto in una sua diapositiva, che sulla pratica medica c’è il 6% di errori, mi domando chi resterebbe su un aereo quando ci venisse comunicato che c’è il 94% di possibilità di arrivare sani e salvi alla meta e “solo” il 6% di possibilità di errore... Il buon medico è quello che è determinato a cercare gli errori (perché se non li cerchiamo non li troveremo!) ed elabora strategie di gestione degli errori stessi, promuovendo una cultura della sicurezza.
Un secondo elemento fondamentale della buona medicina è che sia evidence based, e cioè che ciò che si prescrive e si fa abbia alle spalle solide prove di efficacia. Nel celebre romanzo Il medico della mutua di G. D’Agata il giovane medico che frequenta un ospedale per fare pratica riceve un consiglio da un collega più anziano: “Ho visto che con questi malati la strofantina funziona di più, ma mi raccomando non nominare mai la strofantina davanti al primario: quelli della clinica universitaria sono per la strofantina, noi siamo per la digitale: siamo due scuole cardiologiche”. Era solo ieri che la medicina ignorava le linee guida, si enfatizzava la libertà di prescrizione terapeutica, c’erano le scuole e la fedeltà ai maestri. Oggi non potremmo chiamare buon medico chi facesse medicina in questo modo. Andiamo alla ricerca dell'evidence, delle linee guida, delle cose provate e richiediamo che le prescrizioni siano basate sulle conoscenze più aggiornate, appunto perché una cattiva clinica è anche non etica. Ma non basta questo primo presupposto per definire il buon medico. Ci sono almeno altre due condizioni, che mi limito solo ad enunciare. Oggi un buon medico, oltre a conoscere la medicina, ovvero a prescrivere la cosa giusta, deve saperlo fare “nel modo giusto”. Il modo non è giusto se non si tratta il malato come una persona autonoma, come un cittadino che ha i suoi diritti, che deve essere informato, coinvolto nelle scelte, dandogli un ruolo attivo. La medicina non funziona più in modo autoritario (il medico che presume di sapere meglio del paziente qual è il suo bene e glielo prescrive, chiedendogli ubbidienza). È quella pratica moderna della medicina dove il consenso informato non diventa una misura di autotutela giuridica del medico, ma esprime un modo di fare medicina che coinvolge il paziente mediante l’informazione. Se un clinico non fa medicina in questo modo, oggi non è un buon medico, anche se conosce benissimo lo stato dell’arte. Fa le cose giuste, ma non nel modo giusto.
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La terza condizione per essere un buon medico è la capacità gestionale. Non basta conoscere la medicina e saperla anche praticare con il paziente nel modo giusto: bisogna saper gestire le risorse e far proprie le dinamiche dell’etica aziendale, di cui abbiamo ascoltato una ampia presentazione. L’etica dell’organizzazione non riguarda solo il Direttore Generale, ma tutti coloro che operano nella sanità. Oggi chi non ha queste capacità non può essere chiamato buon medico. Se il sapere bio-medico resta il presupposto “hard”, deve tuttavia essere completato con le medical humanities: conoscenze soft, ma non per questo secondarie. Tutto questo è necessario per essere un buon medico.
E il buon paziente, come deve essere? Anzitutto come medici preferireste un paziente buono o un buon paziente? Per quanto riguarda il paziente buono, dobbiamo ricordare una caratteristica propria della medicina, che la rende una professione diversa dalle altre: chi esercita la medicina deve sistematicamente ignorare la qualità morale dei pazienti. Dobbiamo fornire gli stessi servizi terapeutici e assistenziali ai pazienti buoni come a quelli cattivi, senza discriminare. Noi gli amici i conoscenti ce li possiamo scegliere sulla base delle preferenze, ma i malati no. Anche il malato antipatico, anche il malato di cui non condividiamo la moralità: non possiamo, non dobbiamo tenere in conto la qualità morale La stessa medicina sia per il santo che per il peccatore, sia per la persona socialmente esemplare come per il peggiore delinquente: a tutti dobbiamo fornire la stessa medicina sulla base dei bisogni, non dei meriti.
Non si tratta di una esortazione enfatica, di natura retorica: dobbiamo renderci conto che si va facendo strada nella nostra società la tendenza a domandarsi se i pazienti “meritano” i servizi sanitari, e soprattutto se siano responsabili o no della loro malattia. In inglese si questo atteggiamento si chiama “victim blaming”, ossia far cadere la colpa sulla vittima. Se tu sei responsabile della tua malattia, allora non hai tutti i diritti: i trattamenti ti possono essere contestati. Il “victim blaming” rischia di diventare in futuro un sistema non di responsabilizzazione ma di colpevolizzazione circa la propria salute. Basterebbe considerare i criteri con cui lo stato americano dell’Oregon aveva stabilito quali prestazioni sanitarie erano a carico dei servizi assicurativi pubblici e quali no. Ad esempio, il trapianto di fegato non veniva fornito se il paziente era cirrotico per alcolismo. Ora in Germania si comincia a ventilare la proposta di far pagare ai pazienti oncologici che non abbaino seguito i programmi di screening fomiti dal servizio pubblico.
Se escludiamo la preferenza per il paziente buono, rimane la bontà in funzione attributiva. Che cosa è il buon paziente? Nel linguaggio delle corsie degli ospedali non è raro che ci si interroghi anche in questo senso. Quando gli infermieri cambiando turno, si domandano tra di loro come è il nuovo paziente: è un buon paziente? E buon paziente, secondo il modello di medicina che noi abbiamo
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ereditato, è il paziente “compliant”, quello che non dà noie, si adegua, segue fedelmente la terapia prescritta. D contrario di questo buon paziente è il rompiscatole (diciamo pure l’”esigente”, quello che vuole sapere tutto e non finisce mai di fare domande). Questo è un punto cruciale del cambiamento. Nel profilo del buon paziente che oggi auspichiamo non c’è la passività, ma un ruolo attivo. Il buon paziente della modernità è quello che assume responsabilmente la gestione della sua salute: fa domande appropriate e arriva, attraverso un rapporto di interlocuzione con il sanitario, ad avere un “empowerment”, cioè un potere su di sé, sulla sua malattia, sulle sue scelte.
Un paziente docile e passivo secondo il modello della nuova etica non è un buon paziente: il buon paziente è quello che ci fa faticare, è quello che chiede, insiste e sceglie, e magari sceglie in modo diverso da quanto il clinico avrebbe desiderato. Al buon cittadino paziente attribuiamo la capacità di esercitare i suoi diritti, ma anche di assumere i suoi doveri; deve essere una persona adulta, responsabile, che sappia prendere le decisioni insieme al medico utilizzando al meglio le capacità relazionali. In questo modello ideale si traduce oggi il rapporto tra il buon medico e il buon paziente.