Il rapporto medico-paziente: modello in transizione

Book Cover: Il rapporto medico-paziente: modello in transizione
Parte di Rapporto professionista-malato series:

Sandro Spinsanti

IL RAPPORTO MEDICO-PAZIENTE: MODELLO IN TRANSIZIONE

in Diciotto

anno 5, suppl. al n. 19, febbraio 2000, p. 22-24

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Il giubileo evoca, secondo la tradizione biblica, un periodo di più intensa comunicazione tra i membri della comunità: vengono rimessi in libertà gli schiavi, condonati i debiti, appianate le divergenze. Possiamo applicare questo modello all’ambito delle cure sanitarie e ai rapporti che intercorrono tra professionisti e cittadini malati? Per quanto audace possa sembrare l’ipotesi, ci sentiamo autorizzati a proporre un “giubileo sanitario”, considerato il grande malessere che si sta diffondendo

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a macchia d’olio nella nostra società tra medici e cittadini.

Per illustrare la situazione con due soli esempi, possiamo riferirci al libro-denuncia Camici e pigiami (Laterza, 1999), a cui ha arriso un grande successo di pubblico, tanto da moltiplicare in poco tempo le edizioni e da diventare una rubrica fissa nel supplemento settimanale dedicato alla salute di un diffuso quotidiano. La contrapposizione tra camici e pigiami è sottolineata dalla grafica della copertina: medici e pazienti sono rappresentati come lupi e agnelli, in una lotta continua (mors tua, vita mea...). Speculare a quest’opera di aggressione ai medici riscontriamo il consolidarsi di una loro reazione di difesa. Dall’editoriale della rivista Toscana medica (ottobre/novembre 1999), intitolato programmaticamente “È ora di difendersi”, ricaviamo la sensazione che per molti medici la misura sia colma: “Quando gli attacchi sono continui e mettono sullo stesso piano i ― pochi per fortuna ― pessimi medici con tutti coloro che quotidianamente cercano di fare del loro meglio in un campo sempre più difficile e ostico, allora per difendere la buona medicina occorre scendere in campo per tutelare chi la pratica, cioè i medici. Ormai lo sport della colpevolizzazione del medico ha raggiunto vertici impensati”.

Pochi spiriti profetici hanno avvertito che il rapporto tra medici e pazienti, così consolidato che è potuto passare indenne attraverso i tanti cambiamenti della cultura e della società, avrebbe potuto andare incontro a un mutamento brusco e radicale. Tra questi possiamo annoverare il medico e filosofo tedesco Victor von Weizsäcker (1886-1957), teorico della “medicina antropologica”. Era consapevole che il modello di medicina che si era andato elaborando nella prima metà del nostro secolo avrebbe potuto portare a una svolta drammatica nel rapporto tra i medici e i cittadini malati. I medici sono soliti richiedere ai pazienti una fiducia incondizionata. Non prendono neppure in considerazione che si possa dubitare della loro volontà di fare il bene del malato ― della loro “coscienza”, quindi ―, e che abbiano le capacità necessarie per farlo: quelle riassunte nella “scienza”. Tradizionalmente il rapporto medico-paziente è stato interamente rappresentato da questo modello: scienza e coscienza da parte del medico, fiducia e docilità da parte del malato.

Quando questo rapporto entra in crisi ― nel senso, per esempio, che il malato si accinge a ritirare la sua fiducia ― i medici sono soliti adottare una strategia di difesa, trincerandosi per lo più dietro l’autorità della scienza, concepita come una grandezza impersonale di cui essi sono i servitori. Ma attenzione, ammoniva von Weizsäcker nel suo libro Pathosophie, pubblicato nel 1956: se i medici si comportano come una corporazione, chiudendosi in una posizione difensiva, un giorno l’intera corporazione può essere oggetto di una seria reazione: “Se si va avanti così per un certo tempo, potrà succedere un giorno che un’intera corporazione, la corporazione dei medici e degli scienziati, diventerà l’oggetto di una grave aggressione; non mi meraviglierei se, come la rivoluzione francese ha ucciso gli aristocratici e i preti, un giorno fossero uccisi medici e professori, e non benché si siano irrigiditi cercando riparo dietro alla scienza impersonale, bensì proprio per questo motivo”. Anche i medici rischiano di fare la fine di tutti i poteri assoluti e di essere spazzati via da una rivoluzione! La fosca previsione rivoluzionaria non si è avverata. Per fortuna. La medicina sta entrando nella sua epoca moderna in modo incruento; non però senza traumi e contrapposizioni frontali, che sconvolgono i rapporti che intercorrono tra chi eroga servizi sanitari e chi li riceve.

Il modello paternalista di esercizio della medicina è rimesso in discussione da una cultura che ha cambiato i presupposti di fondo. Il paziente non è un “povero cristo” da trattare benevolmente, magari abbinando all’efficacia dei trattamenti anche una dose di “umanizzazione”, ma un cittadino che esercita il diritto di ricevere un trattamento. Un cittadino colto, informato, consapevole delle sue scelte; e, qualora non lo fosse, ha diritto che chi esercita la medicina si prenda il tempo e la cura di informarlo, per farlo accedere alla condizione in cui ricevere un trattamento non equivale a essere oggetto di un atto di benevolenza, bensì un esercizio di libertà civile e di responsabilità.

Il malato di oggi non vuole più essere trattato

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come un Pinocchio recalcitrante, che una materna fatina deve convincere, con modi seducenti, a mandar giù la medicina. Non vuol essere un bambino, e tanto meno un burattino, ma un adulto che sa coniugare i suoi diritti con le responsabilità che ne derivano. Ne consegue che, anche senza i sommovimenti di una rivoluzione, il clima che regna oggi tra il professionista che offre le cure e colui che le riceve è profondamente diverso dal passato. L’innovazione è in corso e richiede di cambiare comportamenti che si sono consolidati nei secoli.

L’esame degli aspetti concreti del cambiamento ci presenta in primo luogo la formazione di un binomio indiscutibile tra medicina ed etica. Più che la frequenza dei riferimenti all’etica, sono nuovi i contenuti. Tradizionalmente il richiamo all’etica in medicina faceva riferimento ― per lo più implicitamente ― allo spirito che doveva animare chi, a diverso titolo di professionalità, era coinvolto nell’erogazione di cure sanitarie. L’etica rimandava allo spirito con cui questo lavoro va fatto: con altruismo, abnegazione, mettendo gli interessi legittimi di chi riceve i servizi prima degli interessi dei professionisti. Etica ― in altre parole ― richiamava l’esigenza per chi si occupa della salute altrui di esercitare le attività di cura in modo coinvolto, prendendosi cura delle persone malate. Per dirlo con un’immagine profondamente radicata nella tradizione religiosa, chi si occupa dei malati deve ispirarsi al modello del “buon Samaritano”.

L’etica in medicina che è diventata l’oggetto dei nostri discorsi si riferisce al “che cosa fare”, più ancora che allo spirito con il quale farlo. Nei due decenni che abbiamo alle spalle i principali problemi che si sono posti alla riflessione sono quelli relativi a “dare le cose efficaci” (escludendo i trattamenti dannosi o inutili), “nel modo giusto” (rinunciando all’atteggiamento paternalista tradizionalmente assunto dai sanitari), “a tutti quelli che ne hanno diritto e bisogno” (contrastando le sperequazioni e le inequità nell’accesso ai servizi). Per rispondere a queste domande l’etica è invocata a soccorso.

Non basta fornire i servizi di provata efficacia: bisogna anche che sia fatto “nel modo giusto”. È quanto esige il pilastro centrale della cultura della modernità, vale a dire il rispetto dei valori soggettivi del paziente, la promozione della sua autonomia, la tutela della diversità culturale, intesa come un diritto da rivendicare. Rispetto a un passato molto recente, in cui la medicina era organizzata in modo autoritario e gestita con stile paternalistico, oggi si richiede un coinvolgimento attivo del paziente nelle decisioni che lo riguardano. Buona medicina è quella che, oltre all’appropriatezza clinica, valutata dal professionista sanitario, considera auspicabile e rende possibile che il paziente partecipi alle decisioni che si ripercuotono sul suo benessere.

Il richiamo all’etica in sanità rimanda, infine, ai problemi dell’allocazione delle risorse e ai cambiamenti necessari affinché il principio solidaristico che sta alla base dei sistemi di welfare sia tradotto in pratica. Dopo aver disegnato, con generosità e una buona dose di utopia, lo stato sociale che si occupi della salute di tutti i cittadini, indipendentemente dal ruolo sociale e dalle capacità economiche, ora l’imperativo etico è di riformarlo senza deflettere dal patto di solidarietà che l’ha ispirato. Sanità fa rima con equità: anche questa è diventata un’emergenza etica degli ultimi anni.