La difficile virtù di saper ascoltare

Book Cover: La difficile virtù di saper ascoltare
Parte di Rapporto professionista-malato series:

Sandro Bajini

LA DIFFICILE VIRTÙ DI SAPER ASCOLTARE

in Attive come prima

anno VII, n. 2, pp. 28-29

28

Saper ascoltare è una facoltà, o forse una virtù, piuttosto rara. Gente che abbia voglia di parlare ce n’è a bizzeffe, molto più esigua è la schiera di coloro che sono disposti ad ascoltare gli altri.

Ascoltare significa innanzi tutto aprirsi al prossimo, ammettere che tutti possano avere qualcosa da dirci e che da chiunque si possa imparare; significa rispettare il nostro simile, concedergli non solo il diritto di parola ma anche quello di essere preso in considerazione.

Non si tratta infatti di “lasciar parlare” anche gli altri — cosa, questa, che molti sono disposti a concedere — ma di interessarsi a una visione delle cose che ci può essere estranea, di concedere fiducia a chi è diverso da noi, e proprio perché è diverso da noi.

Saper ascoltare non è dunque una questione di gentilezza, ma il fondamento dell’autentica tolleranza.

Ma una tolleranza che è basata su questi presupposti che cos’è in definitiva? È amore del prossimo, è fratellanza. Per questo, saper ascoltare non è soltanto una virtù civile ma anche una virtù cristiana. Che cosa fa il sacerdote nella confessione? sa ascoltare. Che cosa facciamo quando un amico ci rivela le sue pene e noi partecipiamo ad esse come se fossero le nostre? sappiamo ascoltare.

Saper ascoltare è, o dovrebbe essere, anche il fondamento di alcune professioni, in particolare quella del medico e dello psicologo. Nel novembre del 1988 si è tenuto addirittura un convegno, ad Assisi, sul tema “L’ascolto che guarisce”. In che senso il medico deve “saper ascoltare”? Nessuno meglio del professor Sandro Spinsanti, docente di bioetica all'Università di Firenze, poteva rispondere a questa domanda. Il professor Spinsanti, che del convegno di Assisi è stato l’animatore, ha come oggetto dei propri studi proprio i problemi morali e in senso lato filosofici che scaturiscono, oggi più che mai, dal complesso delle scienze biologiche e psicologiche di cui le professioni sanitarie sono un’applicazione pratica.

Perché il sanitario che “ascolta” il malato, lo guarisce? “Intanto — risponde il professore — bisogna che lo ascolti davvero. Ci sono diversi modi di ascoltare. Chi ascolta per pura cortesia, non ascolta affatto. I malati hanno spesso l’impressione di essere traditi da coloro dai quali si aspettano di essere ascoltati. Quel che si rimprovera spesso alla medicina oggi, è una pratica in cui il rapporto di parola viene sempre più schiacciato dall’importanza della tecnologia. I malati sono assistiti quasi esclusivamente attraverso la richiesta di analisi e la prescrizione di farmaci. Molte analisi e molti farmaci tuttavia non costituiscono, da soli, una vera terapia”.

Naturalmente, non tutti i medici e non tutti gli psicologi sono cattivi ascoltatori. Molti di essi anche oggi, nella fretta e nella frenesia che ci sommergono, offrono un aiuto vero: un orecchio che comprende e partecipa, e non soltanto una mano che compila ricette. E il disagio non è nella medicina soltanto, è in tutta la società. Ricorda il professor Spinsanti: “In un suo libro, Il mondo del silenzio, Max Picard definisce l’uomo moderno una appendice del rumore. La scuola stessa è finalizzata a renderci professori della parola ma analfabeti dell’ascolto”.

C’è spesso, nella società, una sorta di ribellione all’ascolto, un evidente rifiuto di ascoltare, come se la gente ne avesse paura. “In realtà — dice il professore — aprirsi davvero agli altri significa spendere molto in termini di energia psichica. La mancanza di ascolto non è soltanto frutto di cattiva volontà e di debolezza morale. Esiste anche una resistenza inconscia di fronte all’incontro con una persona, che viene sicuramente percepito come una minaccia al nostro equilibrio e alla nostra integrità”.

Non è dunque facile saper ascoltare ed è troppo facile accusare gli altri di carenze che sono anche nostre. Ma il rifiuto di ascoltare, quando è esplicito, costituisce una forma grossolana di “non ascolto”. Ferisce per il suo cinismo ma si denuncia nello stesso tempo per la sua ingenuità. Molto peggiori sono le forme mascherate o subdole. Si può ad esempio dare ascolto proprio per non ascoltare, ossia accondiscendere a una domanda di aiuto per evitare di mettere in luce una realtà assai più importante, che è quella vera per il malato e quella più imbarazzante per l’operatore sanitario.

Che cosa fa il terapeuta in questo caso? Usa la propria competenza per “tenere a distanza” ciò che è veramente importante e troppo coinvolgente. Invece, sostiene Spinsanti, “la guarigione totale in cui consiste l’autorealizzazione della

29

persona attraverso i percorsi tortuosi della malattia e della salute richiede che si ascolti non soltanto quello che preme per essere ascoltato (spesso i sintomi sono un paravento per occultare la vera causa del malessere) ma anche e soprattutto quello che è stato ‘scomunicato’, cioè sottratto alla comunicazione”.

Questi modi di “non ascoltare” sono molto più insidiosi del rifiuto aperto. E c’è un altro modo di evitare un impegno vero, ed è quando il terapeuta si limita ad adeguare ciò che il malato gli riferisce agli schemi di conoscenza che la formazione universitaria gli ha dato.

“Ascoltare l’altro significa allora riferirlo mentalmente alla teoria, modellando su di essa, escludere come non significativo tutto quello che è in eccedenza. La teoria — protocolli clinici o modelli di intervento psicoterapeutico — accontenta l’operatore che si trova così sollevato dal compito gravoso e pericoloso di colmare la propria ignoranza mediante un ascolto dell’altro nella sua concretezza e unicità personale. La teoria, dando l’impressione di poter capire gli altri in anticipo, adempie in realtà la funzione di tenere lontano da sé le loro pretese più esigenti”.

Come è dunque possibile operare nella società con l’intendimento di giovare a chi ne ha bisogno? “Essendo così forti le ragioni che ci dissuadono dal prestare ascolto, a causa della carica eversiva che esso può avere per la nostra stabilità; essendo così raffinati i sistemi che, individualmente e con l’aiuto di quella che viene riconosciuta come una buona formazione professionale, siamo in grado di mettere in atto per difenderci dall’ascolto, c’è motivo piuttosto di stupirsi che qualche volta l’ascolto avvenga”.

Pessimismo? No, piuttosto il rendersi conto che l’ascolto “non è il risultato programmato della buona disposizione della volontà e delle metodiche di educazione ad esso. Nel suo senso più pregnante, l’ascolto è semplicemente qualcosa che succede. Ha legami più profondi con lo stupore, da cui secondo Platone ha origine l’attività filosofica, piuttosto che con la benevola compiacenza o con la filantropia tradizionalmente richieste a chi esercita una professione sanitaria”.

C’è dunque da sperare che questo ascolto che “succede” debba succedere spesso. E del resto — ed è questa la novità che apre il cuore alla speranza — ascoltare fa bene anche a chi ascolta. Anche il terapeuta, in un certo senso, guarisce ascoltando, perché un po’ malato è sempre anche lui: “Un ascolto pieno presuppone che si sia in qualche modo passati attraverso il grande deserto, assumendo la distanza infinita che separa una persona dall’altra. O piuttosto: l’ascolto avviene nel deserto, perché quella distanza non sarà mai abolita, malgrado ogni occasionale balenìo di reciprocità delle coscienze.

Quell’ascolto pieno rivela il suo lato benefico non solo per chi è ascoltato, ma anche per l’operatore che lo esercita. Ascoltando l’altro, egli si apre alla propria realtà umana in pienezza, compresa la sua inevitabile parte di ombra”.

“Esercitare una professione di aiuto, qualunque essa sia, è una via a un modo più completo di essere uomini — conclude il professor Spinsanti. — Come d’altra parte, il solo aiuto efficace che possiamo offrire a qualcun altro, dentro e fuori l’esercizio di una professione sanitaria, è quello di vivere davanti a lui e con lui il nostro essere uomini”.

Sandro Bajini