Direttive anticipate

Sandro Spinsanti

DIRETTIVE ANTICIPATE

in Consenso informato e direttive anticipate: il contributo della ricerca empirica, Commissione Regionale di Bioetica

 

Servizio Sanitario della Toscana, Firenze 2003

pp. 9-11

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«Molti muoiono troppo tardi, alcuni troppo presto.

Ancora suona strano il precetto: “Muori a tempo opportuno”»

(F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra)

Con intuizione visionaria, Nietzsche ha espresso nell’aforisma che abbiamo posto in esergo un problema che sarebbe diventato attuale un secolo dopo rispetto all’esperienza culturale di cui era figlio. A cavallo tra il XIX e il XX secolo la medicina continuava a essere saldamente ancorata al modello etico che si riferiva a Ippocrate, secondo il quale “la cosa giusta” per il paziente veniva decisa dal medico. Quanti e quali interventi terapeutici fossero opportuni era competenza esclusiva di chi curava il malato. Questi non aveva voce in capitolo, ma era esclusivamente il beneficiario di ciò che veniva intrapreso per il suo bene. E prolungare la vita, strappandone anche un minimo brandello all’azione distruttiva della morte, era considerato indiscutibilmente un bene.

Gli strumenti concettuali per affrontare i problemi etici delle scelte di fine vita non mancavano alla cultura greca. Basti pensare alla distinzione tra due tipi di tempo: il krónos, ovvero il tempo come quantità misurabile, e il kairós, vale a dire il momento propizio. La differenza tra questi due generi di tempo può essere visualizzata immaginando la rappresentazione di kairós che troviamo in alcuni bassorilievi greci. È raffigurato come un giovane in corsa, con ruote alate ai piedi; ha un ciuffo sulla fronte e niente capelli sulla nuca. Si lascia così intendere che lo si può afferrare solo nel momento in cui sfila davanti: appena passato, è definitivamente perduto. Anche per la morte c’è un tempo giusto che non è il krónos, bensì il kairós, equivalente al “momento opportuno” di Nietzsche.

Fino a un’epoca recente non abbiamo avuto bisogno di far ricorso a questo strumentario concettuale, per la buona ragione che la medicina non era in grado di prolungare la vita. Almeno nella misura che costituisce un incubo per molti nostri contemporanei. Dalla preoccupazione che l’arte medica non facesse abbastanza per allontanare la minaccia della morte, che rende precaria ogni vita, siamo passati all’eccesso opposto: al timore che faccia troppo, estendendo cronologicamente la vita oltre il kairós in cui la morte, pur restando un insulto alla persona, non è un’indegna umiliazione della sua umanità. È questa la nicchia culturale in cui va collocata la richiesta di direttive anticipate o analoghe disposizioni relative alle decisioni di fine vita.

Ci siamo resi conto che le preferenze delle persone divergono. Per qualcuno ― molti? pochi? È quanto mai necessario continuare a fare ricerche empiriche per acquisire conoscenze relative al profilo di questa domanda sociale ― è preferibile la rinuncia a trattamenti di sostegno vitale, in nome della coerenza con il modello

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di qualità della vita a cui hanno cercato di orientarsi nella propria esistenza. E preferiscono mantene-re il controllo su queste decisioni, piuttosto che affidarle alla coscienza professionale dei sanitari o alla cura amorosa dei propri familiari.

Che relazione possiamo stabilire tra tali preferenze e le azioni (o “inazioni”) mediche? Nel modello etico tradizionale le preferenze dei pazienti non erano considerate un vincolo che il medico fosse tenuto a rispettare: il medico prendeva le decisioni “per il bene” dei pazienti, come un buon padre o una buona madre decide per il figlio, quale interprete autorizzato del suo migliore interesse (il detto inglese: Doctor knows best si applicava non solo alle conoscenze diagnostiche e terapeutiche, ma anche a quelle etiche, che sostanziano le decisioni sulla quantità e qualità dei trattamenti sul finire della vita). Il timore che rende molti sanitari esitanti di fronte alla prospettiva di modificare il modello di rapporto è quello che le preferenze dei pazienti da insignificanti diventino determinanti per l’azione. Il medico si troverebbe così costretto ad abdicare al ruolo che lo voleva unico responsabile delle decisioni cliniche, per diventare il puro esecutore di ciò che il paziente ha deciso.

Un indicatore della resistenza dei medici a far proprio questo punto di vista si trova nella più recente redazione del Codice deontologico dei medici italiani (1998). Rispetto al problema dell’accondiscendenza del medico alle volontà precedentemente espresse dal malato, il quale si trovi attualmente in condizione di incapacità di esprimere la propria volontà in caso di grave pericolo di vita, il Codice esprime l’imbarazzo attraverso una doppia negazione: «Il medico non può non tenere conto di quanto precedentemente manifestato dal malato» (art. 34). Si evitano così le due posizioni estreme del paternalismo duro (è il medico che decide, in base alla sua “scienza e coscienza”) e dell’autonomismo radicale (è il malato che decide, mentre al medico non rimane che dar seguito alle direttive che nascono dalla volontà del malato). Il comportamento medico delimitato dalla doppia negazione appare come un compromesso tra i due modelli; tuttavia non si può dire che l’indicazione che ne emerge sia chiara.

Più costruttivo appare il Codice deontologico degli infermieri, là dove indica le procedure ideali che scandiscono il rapporto fra il professionista dell’assistenza e il paziente: «L’infermiere ascolta, informa, coinvolge la persona e valuta con la stessa i bisogni assistenziali, anche al fine di esplicitare il livello di assistenza garantito e consentire all’assistito di esprimere le proprie scelte» (art. 4.2). «Nel caso di conflitti determinati da profonde diversità etiche, l’infermiere si impegna a trovare la soluzione attraverso il dialogo. In presenza di volontà profondamente in contrasto con i principi etici della professione e con la coscienza personale, si avvale del diritto all’obiezione di coscienza» (art. 2.5).

Nella proposta del codice infermieristico tra le preferenze e l’azione si collocano i valori. Le divergenze riguardo ai valori ― che possono diventare dei veri e propri conflitti ― si risolvono idealmente con il dialogo, che comincia con l’ascolto dell’altro. Il dialogo, quindi, come alternativa alla prevaricazione (che può esprimersi nelle due direzioni: del sanitario sul paziente, ma anche da parte del paziente sul sanitario).

Il cammino verso la ristrutturazione dei rapporti tra sanitari e persone assistite sul versante della vita che finisce è indubbiamente lungo. Abbiamo ragione di temere le scorciatoie costituite da norme che non nascono da una rielaborazione

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culturale. Sembra destinata al fallimento anche la semplice imposizione di modelli estranei alla nostra tradizione (in questo ambito la contrapposizione tra cultura latina e cultura anglosassone non è pura retorica!). Il cammino più sicuro è quello lungo, che passa attraverso la ricerca empirica ― come quella esemplarmente promossa dalla Commissione regionale di bioetica toscana ―, la formazione del personale sanitario e l’educazione dei cittadini. Nella cultura civica, che la scuola è tenuta a trasmettere ai giovani di oggi, bisognerà prevedere un capitolo in aggiunta alle conoscenze relative alla struttura dello Stato e al funzionamento delle istituzioni: l’insieme dei diritti e dei doveri nei rapporti con i professionisti sanitari. Solo questa cultura partecipativa diffusa permetterà a ogni cittadino di diventare un soggetto responsabile nelle decisioni che riguardano la vita, dalla nascita alla morte.