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Sandro Spinsanti
MORTE CEREBRALE, DONAZIONE E PRELIEVO DI ORGANI:
L'APPROCCIO BIOETICO
in Condividere la vita. Donazione e trapianto di organi e tessuti: conoscenze, opinioni, vissuti psicologici, a cura di Gaetano Trabucci e Giuseppe Verlato
Edizioni Libreria Cortina, Verona 2005
pp. 91-96
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5.1.1 Il confine tra la vita e la morte
La linea di confine tra la vita e la morte non è sempre facile da tracciare. Fino a non molto tempo fa la morte veniva determinata in modo empirico, in base alla cessazione del battito cardiaco e all'arresto della respirazione. Anche se il riconoscimento della morte spettava al medico, per gli adempimenti medico-legali, chiunque era in grado, passando uno specchio davanti alla bocca e alle narici del deceduto, di verificare se c'erano o no segni di vita: se lo specchio non si appannava, o se la fiamma della candela non tremolava, si poteva concludere che la vita era cessata. Nel giro di un paio di generazioni questi indicatori per stabilire il decesso sono diventati preistorici.
L'elemento determinante è stato lo sviluppo in medicina delle tecnologie di rianimazione. La respirazione e circolazione sanguigna artificiali suppliscono l'autoregolazione dell'organismo umano quando la persona è in coma. La frontiera tra la vita e la morte si è spostata: non risiede più nella capacità di respirare autonomamente, ma nell'assenza di danni cerebrali irreversibili, che annullano la possibilità di vita sensitiva e cognitiva. Uno strumento per rilevare se il cervello è morto o vivo è l'elettroencefalogramma, che misura l'attività delle cellule cerebrali. Se l'elettroencefalogramma è "piatto" ― vale a dire le cellule cerebrali non esercitano più la loro attività elettrica ― e questa situazione si prolunga per un certo periodo di tempo, il coma sarà irreversibile: la persona in coma, cioè, non tornerà più ad uno stato di coscienza e ad una vita di relazione.
È legittimo a questo punto comportarsi come se la persona avesse superato la soglia che divide i vivi dai morti? L'interrogativo apre una serie di questioni.
Antropologiche, in primo luogo: si può far coincidere la vita umana con la vita vegetativa? Si può continuare a considerare come un essere umano un organismo sprofondato irreversibilmente nel buio della coscienza che fa seguito alla distruzione del sistema nervoso?
Un'altra forte spinta a ridefinire il momento della morte viene dalla medicina stessa, più precisamente dalla pratica dei trapianti d'organo. Dal momento che gli organi da utilizzare devono essere prelevati dal cadavere in un tempo non troppo lontano dalla morte, è importante decidere quando la persona sia già morta, malgrado il proseguimento di qualche forma di vita vegetativa.
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Non sorprende, che la necessità di fornire indicazioni chiare su un argomento così centrale nelle concezioni socialmente condivise sulla vita, abbia indotto il Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB) a dedicare uno dei suoi primi documenti alla Definizione e accertamento della morte dell'uomo (15 febbraio 1991).
L'intento dichiarato del CNB è quello di «offrire una base d'approfondimento rigorosamente scientifica, muovendo sempre dall'esigenza esclusiva del rispetto e della tutela della vita umana», per rispondere allo sconcerto che si diffonde nella popolazione circa la definizione esatta della morte e del momento in cui essa si verifica. La frequente mancanza di chiarezza nella divulgazione del dibattito scientifico ha, infatti, «contribuito a suscitare o perpetuare paure e pregiudizi nei confronti di una corretta diagnosi di morte».
In una prima parte teorica il documento procede a definire la morte; la seconda parte dà indicazioni pratiche sull'accertamento della morte stessa.
La morte è identificata con la «perdita totale e irreversibile della capacità dell'organismo di mantenere autonomamente la propria unità funzionale».
Il problema cruciale riguarda i criteri d'accertamento, in particolare il passaggio dai problemi cardiaci a quelli neurologici, incentrati sul concetto di morte cerebrale. Questa è intesa come «danno cerebrale organico, irreparabile, sviluppatosi acutamente, che ha provocato uno stato di coma irreversibile, dove il supporto artificiale è avvenuto in tempo a prevenire o trattare l'arresto cardiaco anossico».
Il Comitato sceglie, dal punto di vista terminologico ― sulla base di una precisa opzione antropologica ― una definizione unitaria della morte, rifiutando la morte "aggettivata". Parlare, infatti, di morte clinica, morte cardiaca, morte cerebrale, morte corticale ecc. genera confusione e disorientamento, in quanto fa intendere che esistono molte morti e modi diversi di morire. Nella prospettiva adottata, la morte avviene quando l'organismo cessa di "essere tutto", mentre il processo del morire termina quando "tutto l'organismo" è giunto alla completa necrosi.
Quando si parla di morte cardiaca, in realtà ci si riferisce ai criteri cardiocircolatori per la diagnosi di morte dell'intero organismo; analogamente, quando si parla di morte cerebrale, s'intendono i criteri neurologici per accertare la morte nella sua totalità.
Il CNB suggerisce, al fine di evitare equivoci, di non usare le espressioni abbreviate di morte cardiaca e morte cerebrale, anche se ormai d'uso comune.
Una conseguenza rilevante di questa impostazione è il rifiuto del criterio di morte costituito dalla necrosi della sola area corticale del sistema nervoso centrale, pur rimanendo integre e funzionanti le strutture tronco-encefaliche (la cosiddetta morte corticale). Se questo criterio di accertamento venisse accettato, i malati che si trovano in stato vegetativo cronico potrebbero essere dichiarati morti.
L'operatività della definizione adottata dal Comitato ha dato buona prova di sé, quando in Italia è scoppiato il caso Valentina (marzo 1992), una neonata anencefala, che i genitori e alcuni medici volevano dichiarare disponibile per l'asportazione d'organi a fini di trapianto. I criteri adottati dal Comitato Nazionale non autorizzavano la diagnosi di morte; hanno quindi giudicato la scelta di rispettare la vita della neonata e di rinunciare al trapianto d'organi.
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Per quanto riguarda l'accertamento della morte, essendo i criteri anatomici (morte per devastazione) e i criteri cardiocircolatori (morte cardiaca) comunemente accettati, il CNB dedica la sua attenzione esclusivamente agli aspetti controversi dei criteri neurologici (morte cerebrale). In presenza di una lesione cerebrale organica, che induce il sospetto di una morte cerebrale, il rianimatore deve ricercare tutti i fattori che possano fornire la certezza del l'avvenuta morte cerebrale. Il tempo d'osservazione attualmente prescritto (6 ore) può essere ridotto con l'impiego di alcuni esami strumentali che consentono di confermare la diagnosi di morte cerebrale ottenuta attraverso il rilievo di un EEG piatto.
Per l'accertamento della morte in età pediatrica e nel neonato devono essere adottati altri criteri, che prevedono un periodo d'osservazione più lungo. L'accertamento della morte è un dovere del medico indipendentemente dalla finalità di trapianto e impone, comunque, la sospensione delle terapie.
La morte clinica, tuttavia, non ci autorizza a pretendere di sapere che cosa avviene negli estremi momenti di vita di un individuo. I racconti di persone che si sono risvegliate da un coma profondo bastano a inquietarci, in quanto testimoniano la permanenza di una sensibilità e di un vissuto di immagini e di emozioni, quando tutti attorno a loro li consideravano morti. Non sappiamo che cosa comporti, nella profondità della psiche, e soprattutto nella dimensione spirituale dell'essere umano, il processo del morire. Il sapere scientifico deve dichiarare il suo limite; ci soccorre, invece, la sapienza delle tradizioni religiose, che domanda un rispetto del morente nella morte e oltre. Anche il cadavere, infatti, continua a partecipare alla qualità umana della persona a cui ha appartenuto.
5.1.2 La cultura del dono
Il dibattito intorno ai trapianti d'organo ha avuto il merito di portare in piena evidenza i valori positivi sottesi a questa pratica. L'incapacità dell'etica medica tradizionale di giustificare, con i suoi principi, il prelievo di un organo da donatore vivente ha provocato un ampliamento d'orizzonte. L'intervento chirurgico era ipotizzato in passato solo a favore di colui che lo affrontava, e giustificato in ragione del vantaggio per la salute che ne riceveva. Sempre in questa prospettiva, era considerata lecita anche una mutilazione, purché ne risultasse un beneficio per l'individuo come totalità psico-organica. In questo caso non è più considerato un arbitrario atto dispositivo del proprio corpo, ma acquista un valore terapeutico.
Che valenza terapeutica può avere il prelievo di un proprio rene sano, a beneficio di un congiunto che ha i propri irrimediabilmente malati? L'esitazione dei moralisti ad accettare la legittimità del dono da un vivente di un organo doppio ― quella di un organo dispari, essenziale per la vita o per la salute, non è stata mai presa in considerazione, perché presupporrebbe il suicidio del donatore ―, non è senza fondamento. Per l'etica medica tradizionale la cura dell'integrità della propria vita fisica impone che non si disponga del proprio corredo biologico in modo autolesionistico, provocando un danno grave o una deformazione indelebile al
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proprio corpo (riserve di questo genere non esistono ovviamente per il dono del sangue, che si rigenera). Perché la rinuncia ad un organo prezioso come il rene implicante una limitazione irreversibile in colui che se ne priva, possa essere giustificata, bisogna andare oltre il principio dell'integrità personale e accedere a una dimensione in cui l'orientamento al bene dell'altro determina la moralità dell'azione. In questo caso al principio della difesa della propria integrità si sostituisce il principio di carità, come ispiratore di un comportamento nobile e altruista.
Affinché il trapianto d'organi avvenga in un contesto di alta ispirazione ideale, bisogna che la pratica sia preservata da ciò che può inquinarne la nobiltà; è necessario inoltre, positivamente, che sia promossa una cultura del dono.
Riguardo al primo aspetto, l'imperativo fondamentale è quello di evitare ogni commercia-lizzazione degli organi. È un problema che non si pone nel nostro Paese, dove la legge vieta una tale compravendita. La legge n. 458 del 1967, relativa ai trapianti di rene da vivente, cita esplicitamente come condizione che avvenga «a titolo gratuito». In altri Paesi, come negli Stati Uniti, in assenza di una norma legislativa di questo tenore, avvengono domande e offerte relative a organi da trapiantare, nonché al sangue per le trasfusioni. Un commercio di questo genere appare turpe alla nostra sensibilità, in quanto necessariamente fondato sullo sfruttamento della miseria abbinata alla disperazione.
La clausola della gratuità è moralmente obbligante anche nel caso di trapianto da cadavere. Le associazioni finalizzate a promuovere una cultura della donazione ― prima tra tutte in Italia l'Aido: Associazione Italiana Donatori d'Organi ― mettono esplicitamente in evidenza il senso di solidarietà a favore dei malati che hanno bisogno di organi da cadavere per poter sopravvivere. Debitamente informate ed educate, molte persone si rendono conto dell'utilità del proprio organismo, o di sue parti, anche dopo la morte. Anche genitori straziati per la morte di un figlio trovano una qualche consolazione nella prospettiva che almeno un suo organo sia determinante per la vita di un'altra persona.
5.1.3 Deontologia ed etica a tutela dei trapianti
Nei codici deontologici dei professionisti sanitari la pratica dei trapianti è considerata positivamente. È previsto l'impegno sia dei medici sia degli infermieri in questa direzione. Alcune norme deontologiche che accompagnano la pratica dei trapianti meritano una segnalazione. Indichiamo in primo luogo quella contenuta nel documento dell'Associazione Medica Mondiale dedicato alla determinazione del momento della morte [Sydney 1968]: «Qualora il trapianto d'organi sia possibile, la decisione che la morte è presente dovrà essere presa da due o più medici, e costoro non dovranno essere gli stessi medici che eseguiranno l'operazione di trapianto». La finalità di questa indicazione comportamentale è sia di tutelare l'emotività del medico, sia di salvaguardare la reputazione sociale dei trapianti. Se il chirurgo che effettua il trapianto fosse lo stesso che partecipa alla decisione di staccare il respiratore, sarebbe esposto ad un notevole stress emotivo; ma soprattutto
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gli nuocerebbe l'inevitabile immagine di "avvoltoio" che si aggira attorno al donatore moribondo auspicando, o magari anticipando, il momento di poter entrare in azione. Un'immagine, frutto di fantasie contorte, certamente; ma compito delle misure deontologiche è quello di reagire non solo agli abusi attuali e possibili nel corso della pratica medica, ma anche a quelli immaginati, sottraendo la materia da cui prendono corpo i fantasmi. La divisione delle due équipe non è dunque una formalità a servizio dell'ipocrisia, ma una misura prudenziale e protettiva.
Una pratica dei trapianti, condotta con senso di responsabilità professionale, porrà la debita attenzione al problema del consenso tanto al prelievo quanto all'impianto dell'organo. Non solo per una correttezza formale, che evita di incappare nella legge, ma ancor più per assicurare l'esito globale del delicato procedimento. La decisione di un trapianto d'organo o dell'innesto di un organo artificiale deve essere presa insieme dal medico e dal paziente. Si può ipotizzare che questi rifiuti con tutta lucidità l'intervento proposto, perché a suo giudizio i costi, compresi quelli psicologici ed emotivi, eccedono i benefici. In questo caso la decisione va ratificata e sostenuta da parte del medico, senza che il rifiuto di un intervento così straordinario sia fatto equivalere ad un suicidio.
Altri malati hanno bisogno di tempo per maturare la loro decisione. Già la proposta del trapianto può essere in sé uno shock, in quanto fa prendere loro coscienza per la prima volta della gravità della malattia. Avranno bisogno di essere illuminati gradualmente sui rischi e benefici, sulle limitazioni alla libertà e sulla qualità della vita che si possono aspettare, perché il loro consenso sia veramente informato. Altrimenti il medico può cadere sotto il sospetto di imporre surrettiziamente al malato la propria decisione, non collimante però con quanto questi ritiene essere il proprio bene.
Una norma deontologica vivamente auspicata da molti è quella della copertura della pratica dei trapianti con il segreto professionale. I proiettori dei mass media puntati sui donatori e sui loro familiari, sui riceventi, sui chirurghi e su quanti partecipano in qualche modo ai trapianti, hanno un effetto devastante per lo stile che dovrebbe accompagnare un'attività medica. È indicativo, come segno dell'estremo a cui può giungere il malcostume, che i malati americani che stanno per essere sottoposti a un trapianto cardiaco sono invitati a sottoscrivere una dichiarazione, in cui dicono di essere a conoscenza che tra i rischi a cui vanno incontro, oltre alle complicazioni possibili di tipo clinico, c'è anche quello di «essere perseguitati dalla stampa per il resto della loro vita».
Alcune volte è possibile intravedere come i chirurghi che si offrono al sensazionalismo dei mass media lo facciano non esclusivamente a servizio del proprio narcisismo, ma come mezzo di pressione politico-sociale, per ottenere le misure legislative ed economiche necessarie per la promozione di questo tipo di medicina. Tuttavia resta l'impressione di una stridente dissonanza con la norma deontologica del segreto medico, una norma pensata a vantaggio sia del paziente che della professione medica stessa.
Un'altra norma deontologica consigliabile è quella di tutelare l'anonimato di coloro
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che ricevono gli organi. È una misura comportamentale che non sempre viene rispettata, anzi talvolta è stata violata in modo clamoroso. La vicenda del bambino americano Nicolas Green, ucciso dai rapinatori in Calabria, i cui genitori hanno disposto la donazione di tutti i suoi organi trapiantabili, si è svolta sotto i riflettori della stampa. È stato dato grande risalto ai destinatari degli organi, anche con incontri pubblici con i genitori di Nicolas. L'intenzione era quella di incentivare la cultura delle donazioni. In pratica, si vengono così a creare due registri: quello dei donatori ― e riceventi ― celebri e quello degli anonimi. La regola dell'anonimato ― esplicitamente prevista dalla nuova legge sui trapianti n. 91/1999, art.18 comma 2: «Il personale sanitario ed amministrativo impegnato nelle attività di prelievo e di trapianto è tenuto a garantire l'anonimato dei dati relativi al donatore e al ricevente» ― suggerita dalla volontà di proteggere i sopravvissuti da fenomeni psicologici che sono stati descritti come "sindrome del segugio" (genitori in cerca del ricevente il cuore del proprio figlio deceduto, per alimentare l'illusione di sentire ancora battere il cuore del figlio...). Ovviamente il segreto protegge anche i riceventi da comportamenti che possono sviluppare un carattere persecutorio.