Etica e management

Book Cover: Etica e management
Parte di Sistemi sanitari series:

Sandro Spinsanti

ETICA E MANAGEMENT

in Qualità in sanità: etica e management

Atti XII Congresso FARE

Viterbo, 9-12 ottobre 1996

pp. 8-15

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1. Il processo di cambiamento nella sanità italiana: rischi e opportunità.

Per la sanità italiana è suonata l’ora del cambiamento. Un cambiamento reso inevitabile dal collasso economico del Servizio Sanitario Nazionale; ma anche auspicabile per invertire la tendenza alla disaffezione verso un sistema pubblico ormai correntemente etichettato come “malasanità”. Oltre che, come una dolorosa necessità, il cambiamento, che la crisi rende necessario, può anche essere visto come un’occasione da sfruttare con intelligenza, per cambiare il volto della nostra sanità. Questa è la prospettiva, del resto, fatta propria dal Piano Sanitario Nazionale per il triennio 1994/1996. Tra gli obiettivi del piano, infatti, troviamo proprio l’indicazione di una opportunità di cambiamento radicale: “la necessità di ripensare a fondo il profilo stesso di un programma sanitario per il Paese si presenta come una straordinaria opportunità per ridefinire il progetto di civiltà, che è l’obiettivo di una politica della salute. Per anni si è pensato che la promozione della salute richiedesse solo nuovi investimenti in tecnologie, strutture e personale sanitario, nella fiducia di ottenere solo da tale impegno un migliore livello di salute. L’inversione di rotta, cui il momento attuale costringe, punta a un miglioramento che si sviluppa sotto il segno della quantità. La pressione della scarsità delle risorse orienta a immaginare un servizio alla salute che accetti in senso positivo la sfida dell’autolimitazione. Gli slogan che riassumono presso il grande pubblico il riordino in atto nel nostro sistema sanitario ruotano intorno alla aziendalizzazione e al ruolo attivo svolto dai manager nella condizione delle aziende sanitarie. Ospedali-aziende e medici-manager: due fantasmi più adatti a creare equivoci che a ricondurre il progetto di riordino a quella solida progettazione normativa che sta alla sua base. La conduzione aziendale delle istituzioni che erogano servizi sanitari viene così associata a una ricerca di profitti a ogni costo. È naturale sollevare obiezioni in nome dell’etica: la salute non può essere trattata come una merce, né i servizi sanitari sottoposti alle leggi del mercato, regolato dalla

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domanda e dall’offerta.

Avviene molto raramente, invece, che il termine “azienda” applicato all’organizzazione del servizio sanitario, invece che al profitto e all’interesse della proprietà, induca associazioni mentali positive, quali:

●  una sana attenzione ai vincoli economici, che porti a identificare ed eliminare gli sprechi;

●un senso di appartenenza tra tutti coloro che operano nell’azienda, nato dalla consapevolezza che l’obiettivo (in questo caso: servizi alla salute efficaci, che producano dei pazienti/clienti soddisfatti) richiede l’interdipendenza di tutti coloro che lavorano nell’azienda;

● lo sviluppo di una “mission” comune (quella che la Carta dei servizi pubblici sanitari formula come: “fornire un servizio di buona qualità ai cittadini-utenti”);

● una nuova cultura organizzativa, che premi la creatività nella ricerca di soluzioni che abbinino economia ed etica, efficacia, efficienza e qualità percepita;

● nuove regole fra strutture che erogano servizi sanitari e popolazione, tra professionisti e dirigenza, un nuovo equilibrio ― in breve ― tra diritti e doveri di tutti.

●Finché l’evocazione dell’azienda non ci porterà ad associare questi obiettivi, l’aziendalizzazione della sanità sarà osteggiata da coloro che vedano nel progetto una minaccia per i valori sui quali la medicina tradizionalmente si regge.

Non minori sono gli equivoci generati dal termine manager. A cominciare da quelli semantici. Come ci ricorda Beppe Severgnini, un “italiano con la valigia” che viaggiando ha imparato a conoscere gli strani destini delle parole: “Manager non vuol dire alto dirigente” (che si dice executive); in Inghilterra si può essere manager di un negozio di bottoni” (Severgnini, 1992, p. 22). Ma in Italia il manager, identificato come il non plus ultra del sapere organizzativo, viene perlopiù sentito come lontano dal livello decisionale di chi, come medico, sta in prima linea sul fronte operativo.

La sanità in mano ai manager suona come un’ulteriore espropriazione, mentre il senso del riordino in atto nella sanità è proprio il contrario: riportare l’accento sulla centralità dei decisori finali nelle scelte, per avere un sistema sanitario che garantisca non solo efficacia e qualità, ma anche efficienza ed equità distributiva.

Bisogna riconoscere che i fraintendimenti sono favoriti da espressioni poco meditate. Quando, ad esempio, capita di imbattersi in frasi quali: “Obiettivo fondamentale del progetto “medico-manager” deve essere quello di mettere il primario in condizione di gestire il proprio “business”; oppure: “Il primo passo da compiere è quello di costruire un modello di riferimento ― basato su componenti sia di efficienza sociosanitaria sia di efficienza economica ― il cui obiettivo sia rappresentato dall’equilibrio socio-economico” (Benardon, 1994, p. 52), la reazione di rifiuto dei medici più consapevoli del loro mandato ― “Medico-manager? No, grazie” ― appare pienamente giustificata. Se invece di lasciarci guidare dagli slogan cercassimo di ricostruire i grandi tratti della congiuntura culturale in cui nasce il progetto di riordino della nostra sanità, individueremo in primo luogo la necessità di rendere più europea la nostra amministrazione, ponendo gli uffici pubblici al servizio degli utenti. Secondo l’analisi autorevole di Sabino Cassese, il ministro della funzione pubblica che nel governo Ciampi ha coraggiosamente affrontato la questione amministrativa, “la sfiducia nelle istituzioni che ha aperto la quinta fase costituzionale dell’Italia unita, dopo quella oligarchica (dall’unità alla fine del secolo scorso), quella liberaldemocratica

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(dall’inizio del secolo al 1922), quella fascista (1922-1943) e quella democratica (1943-1994), non si deve solo ai pessimi voti raccolti dai partiti che sono scomparsi, ma anche alla brutta pagella dell’amministrazione italiana” (Cassese, 1994, p. 275). La questione amministrativa, fino all’aprile 1993, attirava scarsa attenzione. Non che l’inefficienza dell’amministrazione non fosse percepita dal pubblico, ma la politica mostrava disinteresse verso l’amministrazione: “Come tutto ciò che non interessa, il funzionamento dell’amministrazione rimaneva affidato alla buona volontà di poche persone. Si può dire che l’amministrazione era lasciata esistere(...). Proprio perché staccata dalla società, l’amministrazione era introflessa, poco attenta a quello che accadeva intorno, alle esigenze degli utenti”. (Cassese, ibi). L’inversione di tendenza consisteva nel puntare a un’amministrazione al servizio del cittadino e degli utenti, consumer oriented, operante non solo nell’interesse pubblico, ma nell’interesse del pubblico. L’impulso che il breve ma deciso ministero di Sabino Cassese imprimeva alla amministrazione pubblica in Italia intendeva far allineare il nostro paese con le riforme amministrative già in atto negli stati Uniti d’America (decisivo è stato, a questo proposito, il rapporto a cui è stato attribuito il programmatico “Reinventare il governo. In che modo lo spirito aziendale sta trasformando il settore pubblico”: Osborne, Gaebler, 1992), nel Regno Unito (in particolare con i controlli di efficienza e la “Carta dei cittadini”) e in Francia (Cassese, 1994 b). L’operazione di ridare sovranità agli utenti non poteva coinvolgere in modo prioritario la sanità, uno dei pubblici servizi erogati dallo stato di maggiore importanza nella lista delle priorità.

Un secondo tratto del rivolgimento culturale nel quale va collocato il riordino della sanità in atto nella nostra società è la fine, voluta e prevista, di quella vistosa degenerazione che il sistema pubblico di erogazione delle cure ha subito progressivamente, dopo l’introduzione della riforma sanitaria della 833 nel 1978, ad opera dei partiti politici. Gli osservatori della sanità non avevano difficoltà a denunciare senza mezzi termini la situazione come patologica: “La politica ha prestato alla sanità i suoi uomini, il simbolismo della sua parola ― nella versione più fatua, quella caratterizzata da logorrea e vacuità ― e, purtroppo, il più importante dei suoi vizi: il clientelismo” (Di Michele, 1993, p. 116). Il progetto originario sottostante alla riforma sanitaria e all’introduzione del Ssn è stato deviato, dando origine alla sanità dei partiti.

L’invasione dei politici sulla scena della sanità è stata qualificata da voci autorevoli come una colonizzazione. Il processo correttivo per riportare la sanità alla sua originaria vocazione equivale, quindi, a una “decolonizzazione”. Il senso metaforico di questa parola esprime con sufficiente chiarezza il bisogno di fare piazza pulita con personaggi che nella sanità si sono comportati come funzionari coloniali nelle terre occupate. Ma il riferimento alla decolonizzazione, intesa come un processo culturale, può essere interpretato in modo molto più proprio di quanto è concesso a una metafora. Sulla decolonizzazione si è dovuto riflettere intensamente quando, circa tre decenni fa, sono giunti al tramonto degli ultimi regimi coloniali. Agli inizi degli anni sessanta il libro di Frantz Fanon, i dannati della terra costituiva la lettura d’obbligo degli intellettuali progressisti. Fanon, psichiatra e politico, era arrivato alla conclusione che la colonizzazione non cessa automaticamente il giorno in cui si dichiara l’indipendenza politica

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di un paese. Cambia il regime, ma le strutture più profonde che reggono il modo di pensare e di comportarsi rimangono le stesse. Con la sua solita abilità a fornire formule trasparenti, Jean Paul Sartre riconduceva il tema della decolonizzazione a una questione psicopatologica: “L’indigenato è una nevrosi introdotta e mantenuta dal colono nei colonizzati con il loro consenso” (Fanon, 1962, p. XVII).

Non sembri sproporzionato mettere in rapporto questi processi con quello che avviene nella sanità in Italia. Se è vero che il sistema sanitario è stato colonizzato dal lato peggiore della politica, è ipotizzabile che nei sanitari si riscontrino le deformazioni tipiche dei coloni. Come tratti caratteristici della nevrosi del colonizzato si possono menzionare la propensione al lamento sterile, l’autodenigrazione, le recriminazioni velleitarie e l’impressione di essere straniero a casa propria.

● La decolonizzazione è effettiva solo quando i coloni si liberano dalle strutture mentali che hanno interiorizzato. Per i professionisti sanitari ciò implica l’abbandono di quella impotenza consensuale ― anche se opera a livello inconscio, come tutte le nevrosi ― che porta ad attendere la soluzione dei problemi dal di fuori: dai politici e dagli amministratori. La quintessenza di questo processo di decolonizzazione è la rinuncia da parte di chi lavora professionalmente in medicina alla condizione psicologica di indigeno e la riapprovazione del ruolo che gli compete nella gestione quotidiana del sistema di somministrazione delle cure. Questa è, ricondotta all’istanza di fondo che la regge, la svolta verso la managerialità con cui si intende rispondere ai mali della nostra sanità.

La terza dimensione del cambiamento generale che giustifica l’adozione dello stile “azienda” in sanità è quella relativa all’etica. La somministrazione di cure sanitarie si è sempre ispirata al rispetto di alcuni valori, comprendendosi quindi come attività eminentemente etica.

Ma i valori di riferimento si sono modificati. Il modo tradizionale di concepire il ruolo del medico correlava la sua attività unicamente al valore della salute da riconquistare o da promuovere. Il sanitario nelle sue decisioni aveva un solo vincolo: lasciarsi guidare dalla considerazione del bene del malato. Al medico del cancelliere Bismarck è stata attribuita la frase che sintetizzava quell’ideale: “Quando io curo un malato, siamo io e lui soli su un’isola deserta”. Fare tutto il possibile per guarire il malato che aveva davanti: gli obblighi morali del medico erano circoscritti da questo imperativo dell’etica medica. Anche nell’altra scuola che si è sviluppata dal ceppo della tradizione ippocratica, la medicina omeopatica, i doveri del medico sono stati modulati unicamente sull’attività terapeutica. Il primo paragrafo dell’Organon dell’arte di guarire di Hahnemann (1993) si apre con la dichiarazione perentoria: “L’unico compito del medico guarire presto, dolcemente, durevolmente”. L’estraneità del medico a considerazioni di ordine sociale ed economico, come il contenimento dei costi e l’eliminazione degli sprechi, è stata ulteriormente aggravata dalla socializzazione delle cure sanitarie nell’ambito dei vari programmi di welfare state. La presenza di un terzo pagante ― la mutua, il Servizio sanitario nazionale ― ha dispensato sempre più il medico dal gestire le risorse secondo criteri di economicità e di equità. L’innovazione culturale in corso ci dice che quell’epoca deve essere considerata come definitivamente tramontata. L’adozione dello stile azienda non abolisce i vincoli tradizionali dell’etica e dell’attività del medico: semplicemente, ne allarga l’orizzonte,

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includendovi altri riferimenti.

La qualità etica e quella economica nell’erogazione delle cure sanitarie si implicano reciprocamente. Chi teme che l’interesse a soddisfare ( e quindi a conservarsi) il paziente-cliente dell’azienda sanitaria possa svuotare di contenuto morale la pratica della medicina, può tranquillizzarsi. Anche le imprese che pur tendono ai profitti devono fare i conti con le esigenze dell’etica (è nata anche una rivista specifica “Etica e affari”, epigona di altre da tempo fiorenti in ambiente anglosassone). Il confronto con l’etica è tanto più necessario per aziende di servizio, e di servizio pubblico. La soddisfazione del cliente, ottenuta in qualsiasi modo, non può essere un imperativo assoluto. Prima di tutto, perché un paziente soddisfatto, ma imbrogliato, si vendica. In sanità le bugie hanno le gambe particolarmente corte e sarà sempre più difficile, con la maggiore informazione in materia di salute, aver pazienti soddisfatti se quello che è stato offerto non ha risposto alle loro legittime attese. Inoltre in medicina ci sono obblighi morali che vincolano comunque, indipendentemente dalla soddisfazione del paziente.

Questi obblighi morali, che nella tradizione filosofica dell’occidente costituiscono l’“etica del minimo”,"sono principalmente due: non procurare danno a nessuno (il “primum non nocere” ippocratico) e trattare tutte le persone con uguale considerazione e rispetto. L’etica dovrà vigilare affinché la soddisfazione del paziente vada di pari passo con le esigenze morali minime, che tutti riconoscono come inderogabili. Nei tempi lunghi, quindi, il successo sarà di chi ha come obiettivo non il paziente a ogni costo soddisfatto, ma il paziente “giustamente” soddisfatto.

2. Qualità, soddisfazione ed etica

Le tematiche attuali relative alla qualità delle prestazioni sanitarie, così come è percepita dal paziente, che è il loro destinatario, sono in parte nuove e in parte tradizionali. La novità risalta soprattutto se i confrontiamo i diversi contesti in cui tali tematiche si collocano. Tradizionalmente la preoccupazione per la qualità è stata legata al dibattito sulla centralità del paziente nel sistema delle cure. Un sinonimo di tale prospettiva era l’"umanizzazione” della medicina. Fino a poco tempo fa l’umanizzazione dell’ospedale e della sanità è stata una tematica prevalentemente religiosa. Nasceva dalla preoccupazione di riversare nel sistema delle cure quel coinvolgimento profondo tra due esseri umani che è proprio di chi vede nell’assistenza al fratello malato una delle realizzazioni più trasparenti dell’ideale evangelico. In questa prospettiva le cure più umanizzate erano quelle che maggiormente si avvicinavano al modello del “buon samaritano”.

Ma l’ispirazione religiosa non era esclusiva. Anche la medicina sviluppatasi nel solco della tradizione ippocratica conosceva e intendeva promuovere una “alleanza terapeutica” tra medico e paziente. Il significato dei richiami all’umanizzazione della medicina nati in questo orizzonte era soprattutto quello di opporre una barriera alla spersonalizzazione dei rapporti, al prevalere della dimensione tecnica e burocratica, a scapito della calda corrente di sentimenti tra professionisti dell’arte terapeutica e i pazienti. Rimaneva, tuttavia, proprio di questa impostazione un riferimento alle intenzioni e motivazioni dell’operatore sanitario, quale caratteristica di una medicina “umanizzata”.

Al momento attuale il discorso sull’umanizzazione in sanità è al centro del dibattito, ma promosso da altre istanze.

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Intanto, c’è da segnalare che per la prima volta il disegno normativo dello Stato ha introdotto esplicitamente “la personalizzazione e l’umanizzazione dell’assistenza”, nonché il diritto all’informazione e alle prestazioni alberghiere, tra gli obiettivi del servizio sanitario offerto ai cittadini (cfr. D.L. 517/1993, art. 14).

Negli ultimi anni è andata inoltre crescendo l’attenzione al fatto che i servizi sanitari si iscrivono dentro la logica di un servizio pubblico e devono perciò essere ispirati ai valori che sono costitutivi della buona amministrazione. L’inversione di tendenza consiste nel puntare ad una amministrazione che sia al servizio del cittadino e degli utenti (consumer oriented), operante non solo nell’interesse pubblico, ma orientata all’interesse del pubblico. È significativo che il primo documento ufficiale di questa nuova stagione del servizio pubblico sia proprio la “Carta dei servizi pubblici sanitari”.

Destinata a tracciare le nuove regole per i rapporti tra i cittadini e le amministrazioni. L’idea ispiratrice è che i servizi sanitari, se vogliono orientare la loro attività verso la “missione” che è loro propria ― fornire, cioè, un servizio di buona qualità ai cittadini utenti ― devono assegnare un ruolo forte ai cittadini nell’orientare le loro scelte. La qualità ― in altre parole ― presuppone l’ascolto del paziente, in modo che questi sia messo in grado di partecipare alle decisioni medico-sanitarie che lo riguardano non solo in base ai suoi bisogni somatici, ma i anche delle sue aspettative, preferenze morali, orientamenti di vita. L’attenzione alla qualità così come la percepisce e la valuta il paziente si modifica passando dal contesto dell’umanizzazione a quello della buona gestione. Da mobilitazione di buoni sentimenti o mozione degli affetti diventa una strategia gestionale che la sanità deve adottare, se vuole assumere lo “stile” di un’azienda (cfr. L’arco di Giano, n. 7, 1995: “Lo stile azienda in sanità”).

Se il malato, in una concezione moderna della sanità, è un cittadino che rivendica l’assistenza in forza di diritti acquisiti, e non in nome della carità o della filantropia degli operatori, nell’epoca post-moderna deve essere considerato come un “cliente”. Oltre ad avere diritti da rivendicare, vuole anche essere soddisfatto. Soddisfare i pazienti diventa un’esigenza strategica per la sopravvivenza dell’azienda sanitaria. Il paziente, infatti, spostandosi da una struttura all’altra, si porta dietro la sua capacità di spesa, rappresentata dalla sua quota capitaria. Quindi è importante una gestione oculata dell’azienda: se perde i pazienti, perché questi preferiscono un’ altra struttura, l’azienda esce dal mercato. Se i sanitari non trattano bene i pazienti per la ragione che è loro diritto in quanto cittadini avere poi una buona assistenza, devono farlo almeno per interesse dell’azienda (che viene poi a coincidere con l’interesse a conservare il proprio posto di lavoro...).

Il modello della qualità della prestazione medica che si impone in epoca di ottimizzazione nell’uso delle risorse proprio di una sanità che si prefigge uno stile “aziendale”, è particolarmente insidioso. Quando portiamo nella sanità lo stile azienda e consideriamo il rapporto con il paziente come cliente dobbiamo essere consapevoli che abbiamo anche messo le premesse per affossare valori importantissimi che ci sono stati trasmessi in 25 secoli di medicina, come l’orientamento del bene del paziente. Promuovendo il paziente-cliente, non dobbiamo dimenticare che la soddisfazione del paziente non è un imperativo assoluto, sciolto cioè

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da vincoli morali. Qualsiasi azienda, ma soprattutto l’azienda sanitaria, deve essere sottoposta alle esigenze dell’etica. Il paziente non va soddisfatto in qualsiasi modo, ma solo in modo giusto. Un supporto sistematico per visualizzare i problemi della soddisfazione in rapporto con le esigenze dell’etica può essere fornito da uno schema: Il quadrilatero della soddisfazione

GIUSTAMENTE

SODDISFATTO

GIUSTAMENTE

INSODDISFATTO

INGIUSTAMENTE

SODDISFATTO

INGIUSTAMENTE

INSODDISFATTO

Le ragioni dell’insoddisfazione possono avere diverso significato e diverso peso. È ovviamente insoddisfatto il paziente a cui, per incuria o incompetenza, non sia stato diagnosticato e trattato il suo male: egli ha diritto che, secondo il modello dell’etica medica, sia messo in atto tutto ciò che gli procura il beneficio che è autorizzato ad aspettarsi. Ma sarà insoddisfatto anche il paziente diabetico ― per fare un esempio ― che venga “messo a insulina” d’autorità, senza che gli sia spiegato il significato e la necessità della decisione terapeutica, i vantaggi che ne ricava e le esigenze di “compliance”.

Lo stile autoritario o paternalistico non è più accettabile in epoca moderna e lascia i malati insoddisfatti, quand’anche le decisioni prese mirassero al loro bene. La soddisfazione del paziente non può diventare un assoluto, ma va confrontata con alcune esigenze imprescindibili, in base alle quali possiamo dire che il paziente è giustamente soddisfatto. La prima e più fondamentale condizione per stabilire se la soddisfazione soggettiva del paziente sia giusta o ingiusta è che questa sia giustificabile dal punto di vista del sapere che è proprio del professionista. La soddisfazione del paziente si deve misurare, se vogliamo che si realizzi una giusta soddisfazione, con i criteri della scientificità. La coscienza del sanitario deve vigilare perché sia rispettato il primo imperativo etico dell’arte medica: “Primum non nocere”. Non si può e non si deve arrecare un danno, anche se questo, paradossalmente, comportasse la soddisfazione del paziente.

I modi di ottenere una soddisfazione ingiusta possono essere molti. Alcuni a danno del paziente (si può arrivare anche a dargli delle informazioni inesatte, fino al vero e proprio imbroglio), altri a danno di terzi. È chiaro che il paziente a cui, per privilegio, si fa saltare la lista d’attesa è soddisfatto, ma è ingiustamente soddisfatto se consideriamo le esigenze di equità. In questo caso è danneggiato chi è in lista d’attesa per ottenere la stessa prestazione sanitaria. Ma il danno può ricadere su tutta la comunità: pensiamo, per esempio, ai falsi certificati di invalidità (che pure hanno prodotto molta soddisfazione in coloro che li hanno ricevuti....).

Se la soddisfazione non è l’ultimo criterio di qualità, ma va piuttosto misurata con le esigenze dell’etica, la stessa cosa possiamo dire dell’insoddisfazione. Ci sono casi in cui il paziente è ingiustamente insoddisfatto. Questo è il caso del paziente che va dal medico

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di medicina generale con la sua richiesta di un farmaco (magari quello che ha fatto tanto bene al vicino o di cui si parla di più), oppure vuole un trattamento di compiacenza. Se questo paziente non viene soddisfatto, cioè gli si nega ciò che richiede in modo illegittimo, allora è ingiustamente insoddisfatto.

La prospettiva interessante che apre il “quadrilatero della soddisfazione” è quella di proporre una visione dinamica dell’etica. Troppo spesso identifichiamo l’etica con una istanza che giudica i comportamenti. Il nostro modo di vedere l’etica cambia se, tenendo a mente il quadrilatero della soddisfazione, ci domandiamo: quale intervento dobbiamo mettere in atto affinché un paziente,che nel grafico si trova in un quadrante inferiore, passi in uno superiore? L’obiettivo ideale è che si collochi nel primo a sinistra, tra coloro che sono giustamente soddisfatti. Ma se ciò non è possibile, almeno nel secondo, vale a dire che il paziente sia giustamente insoddisfatto (questa possibilità di una soddisfazione insanabile ci libera da un complesso di onnipotenza: non possiamo far sì che tutti siano soddisfatti, ma possiamo evitare almeno che lo siano ingiustamente...).

L’etica ci appare così uno strumento operativo: ci stimola a fare qualcosa per modificare una situazione. L’etica è essenzialmente un insieme di interventi dinamici, tesi a un risultato. La qualità dell’intervento sanitario, infine, sta nella sua capacità di integrare i diversi elementi: ciò che la scienza medica ritiene assodato e raccomandabile (da questo punto di vista non si potrà mai accettare in medicina una logica del cliente che ha sempre ragione...), ciò che è conciliabile con le esigenze dei diritti umani e con l’autodeterminazione del paziente, e infine ciò che promana dall’orizzonte dell’ottimizzazione delle risorse che inaugura l’era delle aziende sanitarie.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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