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Sandro Spinsanti
Guarire «tutto» l’uomo: la medicina antropologica di V. von Weizsäcker
in Medicina e Morale
Fasc. 2/1980, pp. 186-199
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GUARIRE "TUTTO" L’UOMO:
LA MEDICINA ANTROPOLOGICA DI V. VON WEIZSÄCKER
Possa rivivere, attraverso il ricordo di uno dei due protagonisti, un incontro avvenuto nel 1926. Luogo: Vienna, Berggasse 19, un mezzanino non ancora trasformato in museo, abitazione privata e studio di un medico già famoso.
Dramatis personae: Sigmund Freud, fondatore della psicoanalisi e leader indiscusso — qualcuno dice anche autoritario — del movimento psicoanalitico; Viktor von Weizsäcker, di trent’anni più giovane, docente di neurologia ad Heidelberg. Racconta von Weizsäcker nelle sue memorie: «Ho preso io l’iniziativa della visita. Desideravo ringraziare quest’uomo perché attraverso il suo aiuto mi si è spalancata una nuova dimensione nella professione medica, e la mia attività professionale, che minacciava di essere rigida e arida, ha ricevuto un’infusione di vita. Mi riferisco all’apertura alla dimensione psichica del fenomeno vivente. Un passo nient’affatto ovvio, che ha significato anche l’intervento in un ambito privato, personale e vulnerabile, il quale avrebbe fatto tutta la resistenza possibile, anzi si sarebbe vendicato per l’intrusione non desiderata. La medicina di scuola non forniva criteri per stabilire i modi e i limiti di un tale modo di procedere. Si giungeva invece a posizioni di conflitto con autorità come la chiesa, la filosofia o la società. Questo contesto rende comprensibile quel che mi è rimasto nel ricordo di quel colloquio.
Ho spiegato a Freud che non mi sono mai sottoposto personalmente a un’analisi. Non l’ha presa in modo tragico. Gli ho detto che quel po’ di nevrosi che certamente avevo anch’io, potevo anche tenermela. Rispose che non è assolutamente necessario analizzare ogni caso; a molte persone fa bene frequentare un uomo significativo; si
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sa anche che alcune nevrosi si guariscono attraverso una grande felicità o infelicità. Il medico però non le ha a disposizione, per cui deve scegliere un’altra strada.
Si passò poi a parlare di quanto siano ampi i campi di applicazione. Freud riteneva che per la psicoanalisi ci sarebbe stato materiale ancora per una cinquantina d’anni. Ricordò, per esempio, la psicologia delle tribù matriarcali in Africa, presso le quali il complesso di Edipo si rivolge, invece che contro il padre, contro il fratello della madre, perché è questo che rappresenta l’autorità della famiglia.
Alla mia domanda sul conflitto con le autorità vincolanti, in particolare della religione cattolica, mi sembra che con i vincoli posti Freud abbia dato una risposta evasiva. Disse infatti: «noi (cioè gli psicoanalisti) crediamo sempre di aver trovato la strada per rispettare e risparmiare questi ambiti nel malato». «Il futuro di un’illusione» di Freud è apparso solo alcuni anni più tardi, e io non posso credere che le sue idee sul carattere nevrotico e illusorio della religione non si fossero ancora formate. Anche alcuni tentativi epistolari da parte mia di indurlo a parlare di questo argomento non ebbero alcun successo. Invece per un’altra strada ho potuto portarlo là dove si trovava di fronte a problemi che altrimenti teneva nascosti, e forse a dubbi insuperabili. Gli ho domandato cioè se la psicoanalisi sia un processo terminabile o interminabile. Dopo una pausa, disse con esitazione e a bassa voce: «Interminabile credo». Con ciò si diceva certamente di più, che con quell’affermazione discutibile che si poteva sempre risparmiare la religione degli analizzando Mi sembra che nella risposta sia contenuto che la psicoanalisi va oltre la vita temporale della psiche. Ma questo lo fa anche la religione, e allora non si può più sfuggire alla questione se la psicoanalisi non abbia preso il posto della religione. Freud però non fece fatica a lasciare anche questa volta il terreno scottante, dicendomi che voleva comunicarmi in confidenza che alcuni dei suoi scolari, quando sono per così dire nevrotizzati dall’eccessivo materiale analitico ricevuto nel lavoro terapeutico, si sottopongono essi stessi di nuovo all’analisi; ciò avviene ogni certo numero di anni. C’era più benevolenza che rispetto nel modo in cui Freud parlava dei suoi adepti. Nel complesso
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mi sembrò che Freud fosse tediato della sua scuola e non ne avesse più bisogno.
Al momento del commiato divenne chiaro che l’incontro non era del tutto scivolato liscio al di sopra dei sotterranei tempestosi della lotta spirituale. Eravamo già in piedi; e siccome non sempre si trova subito la parola per concludere, interruppi la pausa che si era creata con un’osservazione forse più onestamente sentita che appropriata. Dissi cioè improvvisamente che mi sembrava una coincidenza singolare che la mia visita cadesse proprio nel giorno dei morti (Allerseelentag: letteralmente, in tedesco: «il giorno di tutte le anime»). Era appunto quel giorno. L’esito inatteso fu che Freud stupito domandò: «come?». Io caddi piuttosto in confusione e cercai di chiarire che «come professione secondaria ero anche un po’ mistico». A queste parole si rivolse bruscamente verso di me e mi disse con uno sguardo quasi inorridito: «Ma è terribile!». In modo conciliante dissi: «Voglio dire con ciò che c’è anche qualcosa che noi non sappiamo». Al che egli: «Oh, in ciò io sono più ignorante di lei!». Il suo tono afflitto e la rapida deviazione dal tema hanno dimostrato, credo, che questa volta lo diceva proprio sul serio e forse hanno anche mostrato che un po’ mi voleva bene. Deve aver detto ancora qualcosa sull’intoccabilità della ragione, ma io non l’ho ascoltato e ho dimenticato. Per salutarmi mi ha dato la mano con un ampio movimento di tutto il braccio. Si era creata una simpatia, rimasta immutata anche in seguito» 1.
Viktor von Weizsäcker: chi era costui? Un carneade qualunque nell’area culturale italiana. Non è tradotto; non è letto e citato neppure dai nostri germanisti. Ignorato anche nell’ambiente francofono, che resta per molti italiani il ponte di mediazione linguistica rispetto alle asperità teutoniche. Tuttavia la recente e autorevole «Encyclopaedia universalis» ha mostrato di accorgersi di lui. Nel «Thesaurus» gli dedica una voce, dando rilievo al suo apporto alla elaborazione di una filosofia dell’essere vivente (Teoria del Gestaltkreis) e riconoscendolo come uno dei fondatori della psicologia fenomenologica 2.
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Più notato nell’area linguistica spagnola. Tradotto, citato, ascoltato, ha un posto di rilievo nelle opere di medicina spagnola contemporanea (Laín-Entralgo gli riserva ampie citazioni nel volume «La Historia Clinica»). Nel 1950 è stato invitato a tenere delle lezioni all’Università di Madrid, dove si è conquistato ulteriori discepoli. Ramón Sarró 3 ha introdotto con un saggio su «Weizsäcker en España» la traduzione di «Der kranke Mensch», mettendo in risalto la consonanza dell’antrolopogia medica di v. W. con il pensiero antropologico di M. De Unamuno e J. Ortega y Gasset. Di recente un gruppo di medici e psicoanalisti italiani organizzando un seminario su «L’interpretazione psicoanalitica della malattia somatica nella teoria e nella pratica clinica», affidato a un gruppo di psicoanalisti argentini, ha avuto la sorpresa di venir a sapere che a Buenos Aires esiste un «Centro de Consulta Mèdica Weizsäcker», che ispira la sua originale strategia terapeutica al pensiero del medico tedesco 4.
Poco notato nel resto del mondo, v. Weizsäcker non ha avuto riconoscimento di profeta neppure nella sua patria. I suoi ammiratori sostengono che la sua opera è destinata ad essere notata solo in futuro, quando ci si deciderà ad affrontare le problematiche espistemologiche di fondo 5.
Bisognerà aspettare — ha affermato A. Auersperg — che si rimetta in discussione quel modo di ricercare e di pensare fatto proprio dalle scienze naturali allorché, dopo la famosa disputa tra Goethe
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e Newton, hanno dato la preferenza al secondo, adottando per la conoscenza della natura il modello fisico-matematico. Auersperg ha dedicato un saggio all’opera di v. W. paragonandola con quella di Teilhard de Chardin, come esemplificazioni della ricerca e della filosofia della natura propria di Goethe 6.
La posizione scientifica scelta da v. W. spiega in parte l’insuccesso, dal punto di vista della risonanza, della sua opera. Non essendo pienamente riconducibile né alle scienze della natura, né alle scienze dello spirito, è rimasto un outsider presso entrambe. Così ha interpretato il destino di v. W. nell’ambito accademico tedesco M. von Rad, introducendo un seminario interdisciplinare accademico tenuto nel 1972/73 all’Università di Heidelberg sull’«Antropologia come tema della medicina psicosomatica e della teologia», sulla base appunto del pensiero di v. W. È tutta la struttura della scienza e i suoi presupposti metodologici che crollano, quando ci si interroga sul perché essa abbia «mancato l’umano». V. W. ha condotto questo tentativo di reinterrogazione fino alle ultime conseguenze, almeno per la medicina. «Il rifiuto che ha incontrato — nei circoli medici fu considerato volentieri, ma perfidamente, come importante filosofo, da teologi e filosofi invece come grande medico — questo rifiuto riflette con precisione il problema: determinate scienze permettono solo determinate domande selezionate; la risposta ad esse, qualora non siano risolvibili con le proprie premesse, la rimandano, nei casi migliori, a una disciplina limitrofa, se non la sopprimono del tutto» 7.
Quali sono le questioni scomode che v. W. ha posto alla medicina scientifica? Possiamo darne un’approssimazione attendibile ricorrendo a delle formule. Ne consideriamo tre: «introdurre il soggetto in biologia»; «svolta dalla malattia al malato»; «portare la psicologia nella medicina». In parte queste forme si equivalgono; tutte e tre convergono nell’interesse sommo di v. W. per la questione antropologica. Le presentiamo distintamente perché permettono di mettere a fuoco
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tre diversi ambiti in cui si è estesa l’attività scientifica di v. W.: la ricerca psicofisica sul vivente, la clinica e la psicoanalisi. Citiamo per prima la formula più spesso ripetuta per riassumere il suo pensiero: «introdurre il soggetto nella biologia». Nell’espressione è implicita una protesta contro l’approccio tipico delle scienze della natura, che all’inizio del secolo dominava la ricerca in campo biologico e medico. Il metodo analitico-sperimentale aveva prodotto una concezione meccanicistica anche dell’essere vivente. Von Weiszäcker, che si era formato come internista, aveva seguito negli anni della sua preparazione accademica il cammino segnato dalla patologia fisiologica, ritenuta il fondamento della medicina interna. Aveva studiato fisiologia con von Kries a Friburgo, producendo una ricerca sul muscolo cardiaco delle rane. Si era specializzato con Hill a Cambridge, dedicandosi alla teoria del cuore come macchina muscolare. Frutto di questi studi fu una monografia fisio-patologica pubblicata nel 1920 sulla origine dell’ipertrofia cardiaca. Nel frattempo era avvenuta però la grande frattura costituita dalla prima guerra mondiale. Costretto a uscire dal laboratorio, v. W. non vi sarebbe più rientrato (in un passo dell’autobiografia lascia cadere casualmente l’osservazione che dopo quella guerra non ha più fatto un esperimento sugli animali).
Da studente i suoi dubbi contro il meccanicismo e il materialismo erano stati di natura filosofica 8; l’esperienza brutale della guerra, ma soprattutto la crisi di valori che seguì, lo aiutò a rendersi conto dei limiti intrinseci dell’ideale dell’oggettività scientifica in campo medico 9. La medicina come scienza della natura, con tutto il
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suo apparato tecnico e concettuale, è messa in discussione quando risulta che i suoi presupposti generali sulla natura dell’uomo malato sono, se non falsi, decisamente insufficienti 10. Rivendicare l’introduzione del soggetto nel campo delle scienze biologiche voleva dire sciogliere l’incantesimo dell’oggettività, ritrovare quelle componenti della malattia come fatto dell’essere vivente che sfuggono al microscopio. Il programma dell’introduzione del soggetto ha influenzato anche le originali ricerche di v. W. in biologia e nella fisiologia della percezione, culminate nella teoria del Gestaltkreis 11. Il suo approccio della soggettività spezza il tradizionale rapporto soggetto-oggetto e instaura una concezione della totalità nella quale il soggetto stesso è incluso a titolo di modulatore espressivo.
Si può presentare in modo globale il progetto perseguito da v. W. anche parlando della svolta dalla malattia al malato, che culmina nella «medicina antropologica». Questo movimento riconosce la propria paternità nell’opera clinica e teorica di v. W.; tuttavia gli apporti concettuali che sono confluiti nella «medicina antropologica» provengono da diverse fonti. Nell’insieme presuppongono quella «crisi della medicina» che divide in due versanti la storia della medicina contemporanea. Essa è caratterizzata soprattutto dalla ricerca di un nuovo contatto con la vita dell’uomo, dal rivolgersi all’uomo malato, invece che alla sola ricerca della causa della malattia.
Anche questo era qualcosa di nuovo che aveva fatto irruzione dopo la catastrofe della guerra mondiale. Si trattava di una nuova medicina clinica, che trovava in Ludolf von Krehl la figura di maggior prestigio e nella sua «Pathologische Physiologie» un rispettabile tentativo della medicina nel primo terzo del secolo di armonizzare i risultati della patologia sperimentale con la considerazione della personalità del malato. «Le malattie come tali non esistono; noi conosciamo solo uomini malati. Quel che prendiamo in considerazione
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non è l’uomo in quanto tale (anche questo non esiste), bensì il singolo malato, la singola personalità» 12; questo programma di v. Krehl costituiva un rivoluzionamento di quella clinica che derivava dalla medicina come scienza naturale. V. Krehl aveva assunto nel 1907 la cattedra di clinica medica ad Heidelberg. Quando nel 1920 v. Weizsäcker, abbandonati i lavori di patologia sperimentale, passò all’insegnamento di neurologia nella stessa università, entrò direttamente nell’orbita del grande clinico. Lo stimò e ne fu molto influenzato. Si considerò suo discepolo e si propose come compito della sua vita di coniugare la fedeltà a von Krehl con la fedeltà a Freud. Ha dedicato al maestro un lucido discorso commemorativo, in cui ha messo in evidenza che cosa comportasse per la medicina incamminarsi per la strada antropologica. Voleva dire, tra l’altro, che non è solo la scienza che struttura la malattia: «è il malato che la struttura, perché egli è una libertà, anzi un mondo a sé, dotato di volontà, consegnato alla fede; è una personalità, nel bene e nel male. E il medico struttura la malattia con lui, perché è della stessa materia. E perciò è necessario anche strutturare il medico» 13. Nello stesso bilancio dell’opera di Krehl, v. W. riconosceva due ali nella sua scuola: la prima più incline alla vecchia scienza della natura, la seconda più sensibile alle dimensioni psichico-politiche della malattia. V. W. va situato in quest’ultima. Contribuì validamente a spostare il centro di gravitazione della medicina verso problemi come: psiche e corpo, lavoro e malattia, nevrosi e politica sociale. A tutti questi problemi ha dedicato numerose pubblicazioni. Il principio che ha ispirato a v. W. queste aperture della medicina antropologica ad ambiti che la medicina come scienza della natura si era preclusi era la convinzione che «la malattia dell’uomo non è, come sembrava, il guasto di una macchina, bensì la sua malattia non è altro che lui stesso; o meglio, la sua possibilità di diventare se stesso» 14.
L’opera a cui v. W. ha dedicato la sua vita può essere anche descritta
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con una terza formula: l’introduzione della psicologia in medicina. La psicologia a cui andava il suo interesse non era certo la psicologia di Fechner o lo «strutturalismo» di Wundt, quella psicologia cioè che nasceva con il programma di usare il metodo delle scienze sperimentali per capire la mente. Contro di essa v. W. aveva le stesse riserve che lo avevano portato ad allontanarsi dalla medicina come scienza della natura. La psicologia che destava l’interesse del neurologo di Heidelberg era quella dinamica. Solo questa gli permetteva di rendere giustizia al soggetto e di introdurre la variabile «personalità» nella medicina clinica. In uno scritto autobiografico dal titolo: «Che cosa ho cercato fondamentalmente nella mia vita», v. W. ha fatto le dichiarazioni più esplicite sul posto che intendeva riservare alla psicologia in medicina: «L’impresa di introdurre la psicologia in medicina non consiste solo nello studiare il piccolo gruppo delle malattie psichiche — come l’isteria, la nevrosi ossessiva o le psicosi — dal punto di vista psichico. Questo è stato sempre fatto. Si tratta piuttosto della questione se ogni malattia, quelle della pelle, dei polmoni, del cuore, del fegato o dei reni, non sia anche di natura psichica. Posto che sia così, allora la considerazione esclusivamente natural-scientifica, che è invalsa finora, ha contenuto un errore, che doveva avere anche determinate conseguenze. Se cioè la formazione e il decorso delle malattie sono anche di natura psichica, allora può seguire la supposizione che il processo psichico non è presente solo incidentalmente, bensì si tratta di un processo reale, preminente e decisivo, mentre quello corporeo è solo prodotto secondario del processo psichico. Ma se è così, ne consegue una vera e propria rivoluzione della nostra immagine della natura umana e della sua malattia; perché allora regnano qui le leggi della psicologia — sempre che qui esistano leggi» 15.
Questa e analoghe affermazioni hanno guadagnato a v. W. la fama di rappresentante della medicina psicosomatica. Il mondo accademico ha voluto vedere il suo contributo alla medicina interna nell’aver messo in evidenza l’influsso della psiche sulla malattia.
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V. W. non era d’accordo con questa formulazione 16. La medicina psicosomatica non era ancora il superamento della dicotomia cartesiana in medicina: v. W. la chiamava «medicina prima della crisi». La sua medicina antropologica perseguiva un programma molto più radicale. Con un’altra formula suggestiva, v. W. parla di «introduzione della morale nella conoscenza». Ecco la citazione nel suo contesto, così come la troviamo nello stesso scritto autobiografico: «Se ogni malattia contiene sia un valore che un disvalore autobiografico; se io la mia malattia la ricevo tanto quanto la formo; se la malattia è la soluzione di un conflitto — anche se una cattiva Soluzione —; se, per usare degli esempi, un’angina pectoris, un danno al muscolo cardiaco sono solo una traduzione e una rappresentazione materiale di un fallimento nell’amore, di una angoscia per senso di colpa: se tutto questo è vero, non abbiamo solo introdotto la psicologia nella patologia, ma con la psicologia anche l’oggetto dell’emozione e della libertà, la colpa stessa, l’amore stesso, l’odio stesso e così via: la curiosità, la vergogna, l’astuzia, la ragione, la fioritura e il tramonto delle passioni. La cultura riflessa che si è allontanata dall’ingenuità ha introdotto una specie di scienza anche per la conoscenza delle passioni; il suo nome è: la morale. Con altre parole, il senso della moderna psicologia è l’introduzione della morale nella coscienza» 17.
Da quando è stata fondata la medicina scientifica ad opera dei greci — da quando cioè si è scoperta che nelle cose della malattia vige la stessa oggettività che regola la natura — la medicina ha voltato le spalle alla religione; con la svolta positivistica, ha rinunciato anche all’uomo. «Finché scienza e religione — affermava v. W. — sono separate l’una dall’altra, ci serviamo della psicologia».
Alla psicologia, che introduceva nella scienza medica una densa problematica antropologica, v. W. ha avuto accesso ad opera di Freud. Anch’egli come Lou Andreas Salome, si sentiva in dovere di esprimere il suo «Dank an Freud» (grazie a Freud). È andato a dirglielo di persona, come riferisce nella pagina di autobiografia riportata; lo ha ripetuto a più riprese nei suoi scritti. È universalmente riconosciuto
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a v. W. il merito di essere stato tra i primi rappresentanti della medicina accademica a prendere sul serio la psicoanalisi. Ciò gli ha valso la simpatia degli psicoterapeuti, ma lo ha isolato tra gli internisti. D’altra parte, v. W. non è diventato egli stesso psicoanalista: ha inteso rimuovere la medicina clinica a partire da una base antropologica in cui confluivano anche le conoscenze della psicoanalisi, ma rimanendo egli stesso internista. Introducendo la psicologia nella medicina interna, voleva fondare una patologia generale che non separi le malattie psicosomatiche e organiche, ma le unisca 18.
Era questa la vera novità proposta da v. W.: abbandonare il dualismo cartesiano e lavorare con l’ipotesi dell’unità corpo-psiche. Era possibile una medicina psicofisica sulla base di tale unità? V. W. si è detto convinto che l’indagine psicofisica delle malattie organiche fosse un compito così arduo che aveva bisogno di un genio: «Mancava il Paracelso del nostro tempo; io in ogni caso non avrei potuto diventarlo, sia per mancanza di disposizione, sia per debolezza di convinzione» 19. Però si poteva fare un lavoro preparatorio. V. W. si dedicò con ogni impegno a creare un caso tipico. Lo chiamò «caso A» (con la speranza che sarebbe seguito un «caso B» ecc.). Lo sottopose a Freud, nel 1932. In quella occasione si svolse tra i due un’importante corrispondenza scientifica. Dal padre della psicoanalisi v. W. riceveva l’incoraggiamento a proseguire il cammino che aveva iniziato; tuttavia risultava chiaro che era solo a percorrerlo: la psicoanalisi restava ferma al principio metodologico del «come se», che Freud aveva già stabilito al tempo della corrispondenza con Fliess, quando aveva rinunciato a spiegare le scoperte psicologiche in termini neurologici 20. La psicoanalisi non era disponibile per una medicina psicofisica sulla base dell’unità corpo-psiche, pur non negandola per principio. Freud aveva tenuto lontano gli analisti
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da tali ricerche — spiegava nella lettera a v. W. — per motivi pedagogici: perché dovevano imparare a limitarsi a pensare in modo psicologico, usando cioè postulati, metodi e teorie specificamente psicologici.
Lo studio di v. W. fu pubblicato, dietro invito di Freud, nella «Internationale Zeitschrift für Psychoanalyse», nel 1933 col titolo: Köpergeschehen und Neurose. Il sottotitolo («Studio analitico sulla formazione di sintomi somatici») specifica che non si tratta di una semplice tematica psicoanalitica. Al centro dell’attenzione non sta né la psiche né il soma, bensì la prestazione psicofisica. L’innovazione tecnica rispetto al procedimento psicoanalitico era che anche l’auto-percezione del malato rispetto alle proprie mutazioni organiche veniva inclusa nel rapporto tra medico e paziente. Nel corso del trattamento del «caso A» (che soffriva di disturbi della minzione di natura nevrotica) era sopravvenuta un’angina. Nell’analisi questa risultava il frutto di una crisi «biografica», indispensabile per capire il vissuto personale della malattia. V. W. si auspicava che il suo metodo di indagine globale potesse rispondere alle sue domande che in genere non ricevono una risposta soddisfacente nella patologia delle malattie corporee: «perché proprio ora?», «perché proprio qui?». Quando nel trattamento del suo caso l’angina non fu considerata come un fatto accidentale, ma come un momento della «dinamica psicofisica», risultò una specie di nuova antropologia, in cui erano contenuti i concetti principali della psicoanalisi, ma che oltrepassava la psicologia, perché nel concetto di «uomo» era inclusa essenzialmente la costellazione costituita dall’ambiente e dall’organismo. Nell’abbozzo di questa patologia psicofisica troviamo così, tanto il concetto di «Gestaltkreis», quanto la dimensione biografica di «crisi» caratteristica della medicina antropologica.
Se ritorniamo, concludendo questa sommaria presentazione della figura di v. W., alla pagina autobiografica con cui l’abbiamo iniziata, non possiamo mancar di notare l’«incidente» con cui si è concluso l’incontro con Freud. L’accenno al soprannaturale non era programmato: gli era sfuggito quasi come un «lapsus»... La religione era una realtà molto presente nella vita di v. W. Aveva respirato il cristianesimo evangelico in famiglia: suo nonno Cari Weizsäcker era
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stato un noto professore di esegesi neotestamentaria a Tubinga. Egli stesso nella sua gioventù aveva tenuto discorsi nella Peterskirche di Heidelberg, pronunciandosi per una unione tra fede e scienza: così come altri intellettuali tedeschi del periodo tra le due guerre, vedeva nella caduta del mito dell’oggettività scientifica, che non lasciava alcuno spazio per l’esistenza religiosa, l’emergere di una nuova problematica, in cui la religione fosse non contro l’uomo, ma a suo servizio 21. È l’ambiente culturale che vide la folgorante affermazione di K. Barth e della teologia dialettica.
Negli anni 1926-30 v. W. diede vita, insieme a M. Buber e a J. Wittig — un ebreo, un cattolico e un protestante — a una singolare rivista: «Die Kreatur». Non voleva essere una rivista teologica; si proponeva di «applicare» il fatto della creaturalità, come un orizzonte ermeneutico dell’esistenza umana. V. W. vi collaborò con tre articoli, nei quali la creaturalità era applicata al rapporto tra medico e paziente, al dolore e alla malattia come storia personale del malato 22. Tuttavia v. W. era alieno da qualsiasi facile concordismo o strumentalizzazione apologetica. La religione costituiva, come si è espresso una volta, «la metà nascosta della sua esistenza». Interrogato, in occasione dell’accademia evangelica tenutasi a Bad Boll, sulla sua posizione di fede, v. W. — insignito di un dottorato in teologia «honoris causa» — rispose seccamente: «Io? Io sono ateo!» 23. Schivo e ombroso nelle manifestazioni pubbliche della sua religiosità, v. W. attingeva segretamente nell’antropologia cristiana gli stimoli al rinnovamento della medicina. Aveva fatto suo con entusiasmo ciò che Andreas Lou Salome gli aveva detto in una lettera: che malgrado tutti gli stupefacenti successi della psicoanalisi, le restava l’impressione che il mistero della corporeità fosse ancora maggiore di quello
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dello spirito 24. Nessuno sarebbe forse riuscito a far ammettere a v. W. che ciò equivaleva per lui alla fede nell’incarnazione. Probabilmente perché la sua religiosità era incarnata nella scienza, e rifiutava di parlare un altro linguaggio.
1 V. v. Weizsäcker, Natur und Geist, München 1964, pp. 123-125.
2 Encyclopaedia Universalis, vol. 20, p. 2068.
3 R. Sarró, «Weizsäcker en España», in V. von Weizsäcker, El hombre enfermo, Barcelona 1956, pp. V-XXII.
4 L. Chiozza, «Lo studio patobiografico quale integrazione della conoscenza psicoanalitica con la pratica della medicina generale», negli atti del seminario: L’interpretazione psicoanalitica della malattia somatica nella teoria e nella pratica clinica (organizzato dal Centro psicoanalitico di Roma il 17-18 febbraio 1979), pro manuscripto, pp. 114-124.
5 Nel discorso commemorativo per la morte di v. W. , W. Kütemeyer ha affermato che l’importanza di v. W. si evidenzia solo oggi, in quanto ci troviamo all’inizio di una nuova epoca di sapere scientifico e di agire scientifico: «v. W. ci appare non una grandezza da consegnare al passato, bensì una potenza del futuro. Una forza che libererà la sua piena potenzialità solo nell’avvenire»: W. Kütemeyer, «Viktor von Weizsäcker zum Gedächtnis», in V. von Weizsäcker - D. Wyss, Zwischen Medizin und Philosophie, Göttingen 1957, p. 20.
6 A. Auersperg, Poesie und Forschung: Goethe, Weizsäcker, Teilhard de Chardin, in Beiträge aus der Allgemeinen Medizin 19 (1965).
7 M. von Rad, Anthropologie als Thema von psychosomatischer Medizin und Theologie, Stuttgart 1974, p. 7 s.
8 «Già da studente ero convinto che la vittoria sulla schiavitù del meccanicismo non si potesse ottenere mediante un sistema di filosofia della natura parallelo o sovrapposto, bensì mediante una trasformazione della ricerca», in Natur und Geist, cit., p. 100.
9 In uno scritto sconcertante v. W. svolge delle sorprendenti considerazioni a proposito dei medici che nei campi di concentramento hanno fatto esperimenti sugli esseri umani e hanno eseguito il programma di eutanasia. Essi hanno calpestato le idee dell’umanesimo, ma va detto che è lo stesso orientamento natural-scientifico della medicina, che li educa a vedere nell’uomo solo un oggetto. Se questa circostanza discolpa in parte gli accusati, si risolve in una imputazione contro la medicina che tratta la biologia come una scienza della natura V. von Weizsäcker, Euthanasie und Menschenversuche, in Psyche I, 68 (1948).
10 Natur und Geist, p. 101.
11 V. v. Weizsäcker, Der Gestaltkreis. Tbeorie der Einbeit von Wahrnehmen und Betvegen, Leipzig 1940. È l’aspetto nel pensiero di v. W. che ha più suscitato l’interesse dei ricercatori. Il concetto di «ciclo gestaltico» serve a v. W. per spiegare il processo integrativo del rapporto soggetto-ambiente che si compie nell’azione.
12 L. von Krehl, Krankheitsform und Persönlischkeit, Leipzig 1929, p. 17.
13 V. von Weizsäcker, Ludolf von Krehl. Gedachtnisrede, Leipzig, p. 10.
14 V. von Weizsäcker, Wege psychophysischer Forschung, in Arzt und Kranker I, p. 198.
15 V. von Weizsäcker, Meines Lebens hauptsächliches Bemuhen, in H. Kern, Wegweiser in der Zeitwende, München-Basel 1955, p. 245.
16 V. v. Weizsäcker, Natur und Geist, p. 98.
17 V. v. Weizsäcker, «Meines Lebens...», cit., p. 253.
18 V. v. Weizsäcker, Natur und Geist, p. 103, s.
19 Ivi, p. 138.
20 «In fondo non penso diversamente da come pensi tu: non tendo affatto a conservare l’elemento psicologico senza la base organica. Tuttavia, oltre alla convinzione, non ho nulla, né di teoretico né di terapeutico, su cui fondarmi, e perciò debbo comportarmi come se fossi di fronte solamente a fattori psicologici»; S. Freud, Le origini della psicoanalisi. Lettere a Wilhelm Fliess 1887-1902, Torino 1968 (lettera 96).
21 V. W. ha descritto l'atteggiamento personale e del suo ambiente dopo la crisi della prima guerra mondiale in un altro libro di memorie: Begegnungen und Entscheidungen, Stuttgart 1949.
22 M. Buber, Die Kreatur, in P. Vogel (a cura), Viktor von Weizsäcker. Arzt in Irrsal der Zeit, Göttingen 1946, p. 5 s.
23 H. Ehrenberg, Das Verhältnis des Arztes Weizsäcker zur Theologie und das der Theologie zu Weizsäckers Medizin, in P. Vogel, cit., pp. 7-20.
24 V. Weizsäcker, Begegnungen und Entscheidungen, p. 58.