Narrative based medicine

Book Cover: Narrative based medicine
Parte di Rapporto professionista-malato series:

Sandro Spinsanti

NARRATIVE BASED MEDICINE

in Medicina narrativa in Terapia Intensiva. Storie di malattie e di cura, a cura di Stefania Polvani e Armando Sarti

FrancoAngeli, Milano 2013

pp. 116-120

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D. Il movimento della NBM è originale o ha analogie con altre proposte di intervento per migliorare la pratica della medicina?

R. Il calco linguistico indica con chiarezza che il movimento nasce segnato da un antagonismo dialettico rispetto alla Evidence Based Medicine. Sotto traccia leggiamo l’accusa rivolta alla medicina che si radica più risolutamente nelle “prove di efficacia” di allontanarsi dalla retta via del risanamento necessario della pratica medica. La polemica non è rivolta alla dimensione di “scientificità” alla quale i medici si appellano, esigendo un rigore ancora maggiore rispetto al passato nel ricorrere solo a ciò che è scientificamente corretto. In questione è piuttosto il prezzo da pagare per questa medicina più scientifica: un allontanamento crescente dalla “personalizzazione” delle cure.

D. La “depersonalizzazione” della medicina è sovrapponibile all’accusa di “disumanizzazione”?

R. No. Per lo più coloro che attribuiscono alla medicina tratti disumanizzati fanno riferimento all’atteggiamento interiore dei curanti. La disumanizzazione è intesa come sinonimo di disinteresse, distacco emotivo, mancanza di empatia, burocratizzazione delle procedure. Sono certamente mali riscontrabili nella pratica quotidiana della medicina. Ma la depersonalizzazione che ci interessa non è quella riconducibile a carenze morali dei professionisti della cura, bensì quell’atteggiamento che dobbiamo riconoscere come “necessario” per la pratica stessa della medicina. Per poter procedere alla diagnosi e alla cura, infatti, la medicina costruisce il suo sapere mediante dei riduzionismi metodologici. La medicina utilizza un sapere bio-logico, prescindendo dalle conoscenze mutuate dalle scienze antropologiche

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come la psicologia, la sociologia, l’antropologia culturale, la linguistica, il diritto ecc.); ha un approccio de-personalizzato alla malattia, considerandola non come è vissuta dalla persona (in inglese: illness), ma come risulta a uno sguardo oggettivante (in inglese: disease). A fronte di un approccio di tipo biografico, o centrato sulla persona, ne adotta uno centrato sui sintomi.

Una efficace descrizione di come possono vivere i malati questo riduzionismo costitutivo della medicina è offerta da Tiziano Terzani nella sua benevola polemica con i medici “aggiustatori”, dediti a riparare il suo male staccandolo dalla sua persona: “Io ero un corpo, un corpo ammalato da guarire. E avevo un bel dire: ma io sono anche una mente, forse anche uno spirito e certo sono un cumulo di storie, di esperienze, di sentimenti, di pensieri ed emozioni che con la mia malattia hanno probabilmente avuto un sacco a che fare! Nessuno sembrava volerne o poterne tenere conto. Quel che veniva attaccato era il cancro, un cancro ben descritto nei manuali, con le sue statistiche di incidenza e di sopravvivenza, il cancro che può essere di tutti. Ma non il mio! (...) A me come persona i bravi medici-aggiustatori chiedevano poco o nulla. Bastava che il mio corpo fosse presente agli appuntamenti che loro gli fissavano per sottoporlo ai vari ‘trattamenti’” (Tiziano Terzani, Un altro giro di giostra, Longanesi 2004).

D. Quindi non stiamo parlando necessariamente di “cattiva” medicina. Anche la medicina di più alto profilo scientifico e tecnologico ha delle carenze.

R. Non ci muoviamo nell’ambito della cosiddetta “malasanità”. Le carenze che sono oggetto della nostra attenzione non dipendono dalla cattiva volontà dei professionisti, ma dallo statuto epistemologico della medicina, ovvero da ciò che la medicina deve necessariamente lasciar cadere se si vuol strutturare come scienza. Insieme a molte altre proposte ― penso al movimento delle Medical Humanities, alle proposte della bioetica e più recentemente a quelle della Slow Medicine ― la Narrative B.M. vuol costituire un correttivo proprio della migliore medicina, reintroducendo quanto questa è costretta a mettere tra parentesi.

D. Se così è, l’approccio narrativo non costituisce una novità, ma è piuttosto una rivitalizzazione di quanto la medicina tradizionale conosceva molto bene.

R. Un critico molto autorevole della medicina dei nostri giorni, il sociologo Ivan Illich ― l’autore di Nemesi medica, Mondadori 1977 ― ha potuto affermare, paragonando vecchie e nuove pratiche della medicina, che “tutti i medici tradizionali credevano nelle persone e i pazienti parlavano della propria vita. Prima della medicina moderna quello che i medici facevano era ascoltare il paziente” (Ivan Illich, Perversione del cristianesimo, Quodlibet 2008). La narrazione e l’ascolto hanno dunque fatto parte costitutiva della medicina da sempre.

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D. Quali benefici comporta lasciare spazio alla narrazione in medicina?

R. Il primo è sicuramente un senso di benessere per la persona trattata, che non si sente ridotta a sintomo da interpretare e curare. E una risposta alla de-personalizzazione. Il medico scrittore Lisa Sanders offre una descrizione di ciò che significa depersonalizzare quando dice, telegraficamente: “La raffinata insegnante in pensione, che ha affascinato generazioni di studenti con le storie del l'impero di Roma, spingendole così ad apprendere le declinazioni latine, è ridotta in un batter d’occhio, nel linguaggio diagnostico, alla settantreenne con demenza in rapida progressione della camera 703” (Lisa Sanders, Ogni paziente racconta la sua storia, Einaudi 2009). Ecco: la narrazione ― non solo quella che il paziente fa di sé, ma anche quella che altri fanno di lui ― gli restituisce la sua biografia.

D. La narrazione comporta anche un beneficio dal punto di vista strettamente clinico?

R. L’ascolto che il medico fa della narrazione del paziente ha anche una valenza diagnostica. Per ricorrere ancora a Lisa Sanders, possiamo fare nostra la sua polemica nei confronti di una pratica clinica in cui il medico si affida sempre di più esclusivamente ai referti della diagnostica di laboratorio o per immagini. Guarda i referti, non ascolta il paziente. Ebbene, ricorda Lisa Sanders, “nelle facoltà di medicina si ripete continuamente ai futuri medici che se ascolteranno il paziente, questi dirà loro cos’ha” (ibid.).

D. La narrazione è dunque una chiave che apre ambienti che la medicina sì è programmaticamente preclusi. Ne possiamo individuare anche qualche altro, oltre quelli descritti?

R. Oso aggiungere anche un’altra funzione della narrazione, a mio avviso anche più preziosa delle precedenti, per quanto sia difficile da descrivere. Ha a che fare con un altro riduzionismo della medicina che, per diventare techné, ha preso le distanze dalla religione e dalla metafisica. Il medico non entra nel territorio del senso e delle questioni ultime, che sono proprie della filosofia. Non surroga neppure il compito dell’etica (per dirlo con le parole del dott. Gillespie, dalla serie Il dottor Kildare: “Il nostro lavoro consiste nel tener viva la gente, non nell’insegnargli come vivere”). Tuttavia quelle questioni sussistono ed emergono violentemente proprio nel momento della malattia. La narrazione può, con discrezione, costituire una porta di accesso.

Lo dirò con una metafora, prendendo la questione molto da lontano. Come introduzione a questa accezione della narrazione consiglio la lettura del libro autobiografico del grande giornalista Ryszard Kapuscinski: In viaggio con Erodoto (Feltrinelli 2005). Appena laureato, senza mezzi economici e senza appoggi, parte dalla natia Polonia isolata dell’epoca comunista per fare il corrispondente nelle più diverse realtà geopolitiche, di cui non conosce niente, né la lingua né la cultura: prima in India, poi in Cina e a seguire l’Africa, l’America Latina... Come far fronte al caos, sia nel microcosmo

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dei vissuti umani, sia nel macro cosmo delle vicende storiche? Dalla capo- redattrice del suo giornale riceve come viatico un libro: le Storie di Erodoto, che diventa il suo unico compagno di viaggio. Non è una coincidenza. Anche Erodoto si è trovato, nel V sec. a.C., in una situazione analoga. Voleva capire e raccontare il grande scontro che aveva contrapposto Greci e Persiani. Diffidando delle spiegazioni mitologiche che circolavano, adotta un metodo diverso: quello della historìe. In greco la parola significa “ricerca” (i 9 libri che pubblicherà si chiameranno Historiai, propriamente “inchieste, ricerche”, piuttosto che Storie, come traduciamo con approssimazione fuorviante). Il metodo comporta il mettersi in viaggio, raccogliere dati, confrontarli ed esporli, domandare e ascoltare i racconti, con tutte le necessarie riserve per le storie riferite da altri. Senza carte geografiche, senza libri: la conoscenza acquista la forma di narrazioni comparate. Ciò ha permesso a Erodoto di viaggiare per tutto il mondo antico, scoprendo e accettando la pluralità culturale del mondo.

Annota Kapuscinski: “Nel mondo di Erodoto l’unico (o quasi unico) depositario della memoria è l’uomo. Se si vuole conoscere ciò che è stato memorizzato, bisogna consultare l’uomo. Se quest’uomo vive lontano dobbiamo metterci in cammino, raggiungerlo e, una volta trovato, sederci ad ascoltare ciò che ha da dirci. Ascoltare, memorizzare, magari annotare. Erodoto, quindi, viaggia per il mondo, incontra altri uomini e ascolta quello che hanno da dirgli. Raccontano chi sono, narrano la propria storia (...). La conoscenza assume la forma di racconti”.

Non è senza significato che nello stesso periodo storico andava prendendo forma la historìe come strumento per la techné medica, proposta dalla scuola di Ippocrate. Il metodo della historìe è centrale anche nella scienza che si avventura nel caos della malattia. Anche il medico rinuncia alle spiegazione mitologiche e soprannaturalistiche (vedi il trattato ippocratico Sul male sacro, con lo scetticismo verso le spiegazioni di ordine magico-religioso), si affida all’indagine e sollecita il racconto. Perché, appunto, “ogni paziente racconta la sua storia”...

D. È una semplice coincidenza che nello stesso magico V secolo a.C. siano nate contemporaneamente in Grecia sia la storia che la medicina?

R. Non credo. Soprattutto se consideriamo che tutt’e due, con le loro enormi differenze, procedono utilizzando l’historìe come metodo. L’evoluzione le ha poste poi a collocarsi agli antipodi, l’una come emblema delle scienze umane, l’altra delle scienze della natura. Ma oggi sono destinate a uno spettacolare riavvicinamento, se la medicina accetta come compito e sfida anche l’esplorazione dei mondi personali.

Per capire la vita di ognuno è necessario un lungo viaggio, per il quale non sono disponibili carte geografiche e navigatori satellitari: solo il racconto ci può guidare. Accogliendo il racconto spontaneo, ma anche sollecitando e favorendo il racconto di chi si sente mancare le parole appropriate

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(cfr. Felice Di Lernia, Ho perso le parole. Potere e dominio nelle pratiche di cura, La Meridiana 2008).

Mettendoci in viaggio con il metodo di Erodoto si può scoprire come ogni vicenda di salute contenga un mondo: sublime talvolta, terribile molto spesso, indaginoso sempre. E non meno di Erodoto chi osa fare questo viaggio è destinato a essere sorpreso dalla varietà dell'umano, impensabile per il greco che non si è mosso dalla sua agorà e, affetto da culturocentrismo, considera tutti gli altri barbari. È un viaggio che si può fare solo con la medicina narrativa, ricordando con Jean Starobinski che La parola è per metà di colui che parla (Archinto 2013); e per metà di colui che ascolta. Questa più profonda e impegnativa accezione di medicina narrativa induce a sottoscrivere l’affermazione di Edmund Pellegrino, che definiva la medicina come “la più umana delle scienze, al più empirica delle arti e la più scientifica delle humanities”.