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- Stagioni dell'etica e modelli di qualità in medicina
- Stagioni dell'etica e modelli di qualità in medicina
- We have a dream
- Etica della vita e intervento sanitario
- La buona morte
- La narrazione nei territori di cura
- Qualità della vita o santità della vita?
- La qualità nei servizi sociali e sanitari
- La qualità nei servizi sociali e sanitari: tra management ed etica
- La qualità nei servizi sociali e sanitari: tra management ed etica
- Il buon ospedale: modelli di qualità in prospettiva storica
- Spersonalizzazione e ripersonalizzazione
- Riemergenza dei valori nell'ambito della salute
- Per il bene del paziente
- La cultura del limite nell'agire medico: quando meno è meglio
- Is prevention an ethical problem?
- EBM e EBN: interrogativi etici
- Qualità della vita o sanità della vita
- Interessi plurali, interessi in conflitto nella pratica clinica
- Conflitto di interessi
- L'alleanza terapeutica
- Chi ha potere sul mio corpo?
- Curare e prendersi cura
- Il medico e il paziente, una relazione complessa
- Le mani sulla vita
- Come riconoscere il medico giusto
- Cambiamenti nella relazione tra medico e paziente
- L'educazione come terapia
- «Dottore, sto male» - «Mi racconti»
- Narrative based medicine
- We have a dream
- L'ascolto che guarisce
- La comunicazione medico-paziente
- La gestione dei conflitti in ambito sanitario
- Ripensare la cura nel contesto di una società conflittuale
- La necessità di porre limiti alla medicina
- Parlare o tacere?
- Il rapporto medico-paziente
- Il recupero del soggetto
- Etica della vita e intervento sanitario
- Elogio della indecisione
- Comunicare e informare: quale empowerment per il cittadino?
- L'ascolto che guarisce: conclusioni
- Dignità del malato e dignità del medico
- Aspetti etici della relazione medico-paziente
- La decisione cardiochirurgica: aspetti etici
- Il segreto nel rapporto con il paziente sieropositivo
- Il rapporto medico-paziente: modello in transizione
- La formazione culturale del curante
- Le professioni della salute si incontrano
- Le separazioni nella vita
- Quando inizia l'accanimento diagnostico e terapeutico?
- L'accanimento diagnostico e terapeutico
- La persona è al centro della comunicazione
- Il medico impari a non «scomunicare»
- Ma il malato deve o vuole sapere?
- Il dottor Knock si aggiorna
- Il tempo come cura
- A una donna come me
- La difficile virtù di saper ascoltare
- Dottore, ma l'operazione s'ha proprio da fare?
Sandro Spinsanti
ETICA DELLA VITA E INTERVENTO SANITARIO
in L'umanizzazione dell'intervento sanitario, a cura di Emanuele Ranci Ortigosa
FrancoAngeli, Milano 1991
pp. 71-79
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4.1. È possibile proporre un’umanizzazione senza moralismo?
Perché l’intervento sanitario sia fatto "bene", non basta che sia eseguito in accordo con quanto esige lo stato attuale del sapere medico e con il supporto delle risorse tecnologiche di cui dispone la medicina attuale: l’azione del sanitario, per poter essere qualificata come "buona" tout court, deve avere anche altre caratteristiche. Questa affermazione, colloquiale e generica, può esprimere la richiesta diffusa di un "di più" collegato con la pratica quotidiana della medicina affinché possa essere qualificata come "buona medicina". In termini più formali, si parla ormai correntemente di esigenza di "umanizzazione" dell’assistenza sanitaria, mentre si invoca per la medicina un confronto sistematico con le esigenze dell’etica.
Alla scelta delle parole bisogna dedicare un’attenzione accurata: nei casi più fortunati esse possono essere preziose alleate per la causa che si vuol promuovere; ma può succedere anche il contrario, che costituiscano cioè un intralcio. Il termine "umanizzazione", ad esempio, rischia di presentare piuttosto un saldo passivo, quando gli si affida il compito di veicolare quella richiesta di un "di più" che garantisca all’intervento sanitario un miglioramento qualitativo. La richiesta di umanizzazione, applicata alla pratica della medicina, suona inevitabilmente come un’accusa agli operatori della sanità: implicitamente si rimprovera loro di praticare ima medicina "disumana"; ovvero, ancor più radicalmente, di "essere disumani".
Possiamo inquadrare questa aggressiva imputazione come una mossa di quel gioco che consiste nel trovare un capro espiatorio nell’attuale situazione dei servizi sanitari caratterizzata da disastrose carenze. Le colpe vengono attribuite, a seconda di chi assume il ruolo dell’accusa e delle preferenze personali, ai politici, ai medici (o a determinate categorie del corpo medico), alle strutture universitarie, agli operatori della sanità non medici ecc. La medicina che viene praticata è disumana, si sente dire in modo esplicito o implicito, perché gli operatori non vi mettono cuore, non sono motivati in senso
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altruistico e filantropico, non assumono nei confronti del malato l’atteggiamento del buon samaritano, non curano per "vocazione", ma per mestiere...
Questo procedimento accusatorio può essere ricondotto ad una variante del moralismo. Si fa del moralismo quando si cerca preliminarmente di colpevolizzare la persona dalla quale ci si aspetta un determinato comportamento: l’accusa implicita di "disumanità" è funzionale a tale scopo. La persona resa responsabile viene inoltre manipolata, affinché ritenga che il passaggio dal negativo al positivo dipenda dalle sue disposizioni interiori, dal surplus di zelo, dedizione, abnegazione che ci si aspetta da lei.
Le vie della colpevolizzazione sono numerose. Le più insidiose sono quelle indirette, che passano attraverso ima proposta di modelli comportamentali molto elevati. Mentre infatti dalle accuse dirette ci si può difendere ― è un fatto: i vari tentativi di addossare la colpa della "disumanizzazione" della medicina all’una o all’altra categoria non producono altro che irrigidimenti e chiusure, controaccuse ed elaborazione di strategie di difesa ― le colpevolizzazioni che viaggiano sull’onda dei più nobili ideali ci trovano più facilmente disarmati.
Una percezione molto lucida di questi meccanismi mi è stata fornita di recente da una infermiera, in occasione di un seminario di studio dedicato ai malati che si trovano nello stato vegetativo permanente. Gli studiosi che vi partecipavano avevano apportato tutte le loro conoscenze mediche e antropologiche per definire questo particolare stato-limite, giungendo alla conclusione che queste persone non si possono considerare morte, almeno secondo i criteri attualmente condivisi di morte cerebrale. Su questo assunto si innestavano le considerazioni etiche: premesso che bisogna utilizzare tutte le conoscenze cliniche attualmente a nostra disposizione per prevenire che si creino questi casi ― la rianimazione non è dunque un imperativo sempre e in qualsiasi condizione, se è prevedibile che vada a sfociare sul binario morto del coma vegetativo cronico ―, gli esperti di etica partecipanti al seminario sottolineavano l’alto valore morale della assistenza prestata a questo tipo particolare di malati. È a questo punto che l’infermiera ha ritenuto di non poter più tacere. Ha fatto rilevare che sono in pratica le infermiere a sopportare tutto il peso di queste situazioni, che si prolungano per mesi e anni: "Al
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capezzale di questi malati non ci sono più i medici né i filosofi o i bioetici; ci siamo noi infermiere, costrette oltretutto a sentirci al di sotto dello standard etico quando interiormente ci ribelliamo a questa stressante erogazione di assistenza".
Nelle parole dell’infermiera si poteva cogliere la protesta contro una medicina ad alto profilo etico, quando coloro che innalzano le esigenze non sono gli stessi che ne pagano il prezzo. Una "buona" medicina ha un prezzo, anche quando la bontà è di natura etica. È immorale, oltre che profondamente ingiusto, elevare lo standard facendone portare le conseguenze ad altri. Inevitabilmente il pensiero corre alle dure parole di Gesù contro i dottori della Legge del suo tempo: "Guai a voi, maestri della Legge! Voi caricate sugli uomini pesi difficili da portare, ma personalmente non li toccate nemmeno con un dito" (Lc. 11,46).
Lo scenario del moralismo, con il suo corteo di piccole e grandi ipocrisie, deve essere ben presente quando si cerca di promuovere dei valori nella pratica della medicina. Considerando questi possibili esiti negativi del tema dell’umanizzazione, è preferibile evitare questo termine. Il consenso che suscita è illusorio, mentre reali sono i pericoli di un uso accusatorio e moralistico di esso.
La stessa questione etica ― "che cosa è giusto fare?" ― non vive da sola. Essa ha bisogno di essere collocata sull’orizzonte ampio degli interrogativi fondamentali che riguardano la conoscenza e la speranza dell’essere umano. La domanda sul "che cosa devo fare?" produce buoni esiti solo se è collegata con quella epistemologica ("che cosa posso sapere?") e quella antropologica ("che cosa mi è lecito sperare?").
In questa imbricazione tra etica, epistemologia e antropologia, classicamente formulata da Kant, ritroviamo lo stesso intreccio che, sul piano spirituale, caratterizza le virtù teologali: fede, amore e speranza procedono insieme, hanno struttura sistemica.
4.2. Umanizzazione come applicazione delle scienze umane
La questione epistemologica assume una posizione centrale in tutto il problema di una medicina umanizzata, in quanto ci permette di criticare un sapere sull’uomo che si basi unicamente sulla scienza
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della natura. Si tratta di riportare in medicina quel sapere rappresentato dalle scienze umane o dell’uomo (Humanwissenschaften, nella terminologia tedesca in uso già fin dal secolo scorso), in quanto specificamente diverse, per metodo e per contenuti, dalle scienze della natura (Naturwissenschaften). La "disumanità" della medicina attuale, in questa prospettiva, non va fatta risalire agli atteggiamenti interiori degli operatori o alla loro qualità morale, bensì al fatto che essa ha perso l’uomo nella sua integralità; in particolare, essa ha smarrito la capacità di trattare la dimensione della soggettività.
L’inizio di questo processo va ricondotto al momento in cui la medicina ha adottato lo statuto epistemologico delle scienze naturali, nella prima metà del XIX secolo. Essa ha cercato di adeguarsi a quella forma particolare di conoscenza che è fondata sulla razionalità e si acquisisce mediante l’osservazione e l’esperimento, secondo una particolare metodologia "critica". In quanto scienza naturale, la medicina procede empiricamente. La sua base è costituita da fisiologia e patologia; disfunzione e malattia sono considerate come conseguenze di processi materiali-organici.
La razionalizzazione di tipo naturalistico porta a spogliare il fatto morboso di ogni carattere storico e personale. Esso diventa significativo per la medicina solo in quanto è un caso "tipico". La stessa organizzazione della clinica riposa sul modello organicistico. Questa medicina è la medicina dei pezzi; e, con la specializzazione crescente, di pezzi sempre più piccoli.
Da quando la medicina si è organizzata come scienza della natura, è cominciato per l’arte del guarire un periodo di splendore. I progressi della chirurgia, della batteriologia, della farmacologia non sarebbero stati ottenuti, se la medicina non si fosse allineata con le scienze della natura. Proprio questi successi, fungendo da rinforzo positivo, portano a consolidare la convinzione che la strada imboccata era quella giusta, impedendo di rendersi conto dei pericoli insiti in essa.
Senza misconoscere i momenti positivi della concezione natural-scientifica (in particolare, il principio della ricerca empirica esatta e il significato fondamentale del lavoro di indagine di tipo fisiologico e biochimico), si dovrà però prendere coscienza che, quando l’uomo è considerato semplicemente come un pezzo di natura tra gli altri, si
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opera una violenta mutilazione antropologica.
La crisi della medicina non sarà superata finché non avremmo rifiutato di considerare come esclusivo il punto di vista delle scienze della natura. L'"umanizzazione" da introdurre nella pratica dell’arte sanitaria è più radicale del semplice recupero degli aspetti filantropici da includere, insieme a quelli di competenza professionale, nel rapporto con il malato. La disposizione interiore dell’oblatività e le virtù personali sono ovviamente necessarie per un buon intervento sanitario. Ma questa "bontà", da sola, non basta a umanizzare la medicina, se quest’ultima non recupera la capacità di considerare la totalità dell’essere umano.
Ciò vuol dire, in concreto, che il sapere mutuato dalle scienze della natura deve essere abbinato con quello che è specifico delle cosiddette scienze umane: la storia, la sociologia, la psicologia, l’antropologia culturale, il diritto, la filosofia, la teologia, solo per menzionare le più importanti. Esse meritano il nome di "umane" perché considerano nell’uomo la formalità che lo specifica, ciò per cui si differenzia dagli altri esseri animati: la sua storicità, il rapporto con la cultura, la dimensione psicologica, la gestione delle emozioni, la spiritualità. In una parola, l’uomo come soggetto. Mentre invece è procedimento tipico delle scienze della natura evacuare il soggetto. Come è stato detto efficacemente, per essere più scienza la medicina perde il malato. Con altra formula a effetto, qualcuno ha denunciato il rischio per la medicina di morire di obesità scientifica...
La congiuntura culturale sembra oggi favorevole a una medicina che voglia ricucire lo strappo creatosi tra scienze della natura e scienze umane. Un primo fatto positivo da segnalare è la raggiunta maturità delle scienze umane, le quali non mostrano più di nutrire quel complesso di inferiorità che le ha tradizionalmente caratterizzate nei confronti delle prime.
Un secondo elemento congiunturale è la crisi in atto nelle scienze naturali: crisi non di disgregazione ma di crescita. Secondo l’analisi dell’epistemologo Thomas Kuhn, si sta registrando nelle scienze un tipico periodo di transizione dalla "scienza normale" al caos che precede il cambiamento di paradigma. L’epistemologia contemporanea ci ha reso consapevoli che le scienze non procedono per accumulo lineare di conoscenze, ma per rivoluzioni, nel corso delle
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quali ha luogo l’abbandono di un paradigma globale utilizzato per inquadrare i fenomeni e l’assunzione di uno nuovo. Si pensi al passaggio dalla fisica di Aristotele a quella di Newton, e da questa alla fisica di Einstein; al passaggio dal sistema geocentrico di Tolomeo all’astronomia di Copernico e di Galileo; alla transizione dalla teoria del flogisto alla clinica di Lavoisier: altrettanti esempi di una ristrutturazione del sapere sulla base di un "nuovo paradigma" che emerge dal caos.
Lo stesso clima si può cogliere oggi nelle scienze bio-mediche. È legittimo attendersi che nel nuovo paradigma emerga un’antropologia diversa da quella implicita nella medicina scientifica finora invalsa. Ciò implica una rottura con il naturalismo, che considera l’uomo come un essere vivente in tutto e per tutto simile agli altri esseri viventi, e si attiene a una metodologia che esclude sistematicamente gli aspetti psichici, spirituali, storico-biografici e sociali dell’esistenza umana (o quanto meno non li ritiene rilevanti nei confronti del processo patologico e di quello terapeutico).
Non abbiamo a che fare solo con un sapere diverso sull’uomo, ma con un sapere abbinato a un fare. Le scienze umane, infatti, si traducono in prassi professionali specifiche ― referenti delle quali vanno considerati lo psicologo, l’assistente sociale, il pastore o assistente spirituale ― che si integrano come momenti di un processo unitario. Il rispetto e la valorizzazione di queste diverse professionalità costituiscono una tappa indispensabile dell'umanizzazione" dei servizi sanitari.
L’umanizzazione passa per la professionalità. Non si tratta di sostituire il bisturi o la chemioterapia con una calda mano sulla fronte... E tanto meno di rinfocolare la polemica tra medicina scientifica e medicine alternative (e ancor meno di contrapporre a un sapere razionale dei saperi esoterici!). Bisogna piuttosto attribuire a ogni professione, anche a quelle che si basano sulle scienze umane, il giusto rilievo e la debita autonomia, sviluppando allo stesso tempo nei sanitari la capacità di lavorare in équipe.
4.3. Umanizzazione come orizzonte di civiltà
Se la prospettiva appena considerata ci porta a correlare i problemi
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dell’umanizzazione della pratica sanitaria con i problemi del sapere scientifico e della conoscenza umana in generale, e quindi con l’epistemologia, l’orizzonte che ci fornisce l’antropologia è ancora più ampio. Anch’esso ci porta al di là dell’etica (invocata spesso a proposito e a sproposito in rapporto ai problemi sanitari, con una valenza totalizzante che le attribuisce un valore quasi esoterico; in ogni caso, inflazionando il termine "etica" fino al limite della sopportabilità...). La questione antropologica è collegata con la problematica della speranza. In termini kantiani, si tratta di domandarci: "che cosa ci è lecito sperare?". Sullo sfondo si staglia l’interrogativo circa il grado di autorealizzazione dell’uomo, che piuttosto immodestamente si è attribuito la qualifica di "sapiens".
In termini negativi potremmo circoscrivere l’orizzonte antropologico con un’affermazione sprezzante: ogni civiltà ha la medicina che si merita; ovvero : come possiamo pretendere per la nostra società una pratica sanitaria che si elevi al di sopra del basso profilo che caratterizza la nostra vita individuale e politica? Con una formulazione meno drastica (e più aperta alla speranza!) possiamo dire che la pratica medica è correlata con il grado di autorealizzazione spirituale di ogni cultura. Tale autorealizzazione non è un processo lineare: può subire momenti di stasi ed anche di involuzione. Abbiamo un obbligo morale di sottoporre la nostra cultura a un discernimento critico, per individuare e promuovere gli elementi di sviluppo.
Siamo un’umanità "sapiens" nei confronti della vita? Su questa domanda di fondo possiamo considerare quel processo maturativo che sta avvenendo nella nostra società sotto il nome di "bioetica". Questa disciplina, sviluppatasi da circa un ventennio, ha privilegiato all’inizio i toni allarmistici. Si trattava di aprire gli occhi sui possibili esiti catastrofici dell’applicazione della logica che regge la tecnica (tradurre in atto tutto ciò che è tecnicamente possibile) nell’ambito della medicina e della biologia.
Il progresso bio-medico rischia di peccare di "hybris" e di calpestare valori fondamentali dell’essere umano, al cui servizio invece pretende di essere. L’allarme per gli interventi sul patrimonio ereditario dell’uomo mediante l’ingegneria genetica; le preoccupazioni per ricerche e sperimentazioni che rispettano i fondamentali diritti umani;
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le riserve per una medicina che si mette al servizio di un qualsiasi desiderio arbitrario nella procreazione di un figlio (le innumerevoli combinazioni della generazione medicalmente assistita, o "procreatica") o che prolunga insensatamente la fine della vita, procurando gratuite sofferenze ("accanimento terapeutico"): sono altrettanti capitoli di una bioetica che si è sentita investita del compito storico di elevare delle barriere a nuove forme di barbarie.
Sempre più chiaramente, tuttavia, ci rendiamo conto che la funzione più propria della bioetica non è quella di sentinella che vigila sulla frontiera dei diritti umani (una funzione che pur è necessaria, ma va piuttosto attribuita ad un corpo legislativo che si modifica al passo della società). La bioetica può e deve essere lo strumento per favorire quella modifica della coscienza che scandisce il processo mediante cui l’umanità diventa veramente umana. Ciò permette alla bioetica di accettare senza riserve un atteggiamento verso la vita che si nutre di spiritualità.
La difesa della vita in nome della persona umana è stato il filo conduttore nella riflessione bioetica negli anni ’70 e ’80. Bisognava ― e bisogna ancora, in quanto non si tratta di un compito concluso una volta per tutte ― stabilire dei confini al potere dell’uomo nella vita propria ed altrui, senza dimenticare la vita animale e la vita del pianeta nel suo insieme. Riagganciare la bioetica alla sua profonda ispirazione spirituale significa aprire l’orizzonte della vita intesa come luogo in cui il divino interpella l’uomo e stabilisce un processo di comunicazione con l’Essere. È un orizzonte che vorremmo chiamare "transpersonale".
Sentiamo una certa riluttanza ad abbandonare il concetto di "persona", sul quale una corrente molto forte della riflessione bioetica tende ad attestarsi per porre dei limiti alle prevaricazioni che avvengono in ambito bio-medico, tanto sotto la figura della terapia, quanto sotto quella ricerca. Non si tratta però di rinnegare la persona ed i suoi valori, quanto piuttosto di trascenderli.
Il punto di vista "transpersonale" sulla vita promosso dall’esperienza spirituale sì accorda con quella corrente culturale che ha assunto il nome programmatico di "Movimento transpersonale". Reagendo alla visione frammentaria che considera l’uomo separato dalla natura, e la natura stessa suddivisa in parti, l’istanza transpersonale
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promuove una visione olistica che riconosce l’unità originaria, l’interconnessione delle parti nella solidarietà, la mutua rappresentatività del tutto e delle parti, in una concezione della natura come organismo, non come meccanismo (Evelyn Merchant).
Il trascendimento della separatezza e il conseguimento dell’unità, che il Movimento transpersonale promuove sotto il programma di riconciliazione tra scienza occidentale e saggezza antica (o philosophia perennis), è l’ambito proprio della religione, in quanto questa rende accessibile all’individuo l’esperienza mistica dell’appartenenza alla vita. Questa non si presenta al credente come un bene di cui disporre (un oggetto, un "esso", su cui esercitare un dominio, anche se guidato dal principio della responsabilità), e neppure come un "tu", fonte di quei diritti e doveri speculari che costituiscono l’intreccio dell’etica dialogica. La figura fondamentale che nell’esperienza religiosa determina la giusta relazione con la vita è quella del rapporto "Io-Sé", in cui l’io si risolve in un Tutto che, senza abolirlo, lo comprende ad un livello superiore.
L’accesso a questa dimensione della vita, che si staglia al di là della "persona", sintesi suprema, ma anche maschera; epifania dell’Essere, ma anche sua parziale eclissi, è quello mistico ed esperienziale, con il suo correlato etico costituito dall’educazione della parte pulsionale dell’uomo, che fa resistenza al processo di assimilazione del divino.
Intesa in questo senso, la bioetica equivale a un commercio spirituale, che implica un progressivo cambiamento di atteggiamento etico verso la vita, sia nel suo insieme che nelle sue varie manifestazioni: dalla vita come possesso da difendere, in funzione dell’Ego, alla vita come festoso ― tragico gioco dell’Essere. Se ciò che siamo autorizzati a sperare è questa autorealizzazione spirituale dell’uomo, allora l’"umanizzazione" che deve avvenire nell’ambito della pratica sanitaria equivale alla promozione di un senso gioioso della vita, sotto il segno della finitezza ed entro l’orizzonte della chiamata alla pienezza.