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Sandro Spinsanti
IL VALORE DELLA COMPLESSITÀ E LA METODOLOGIA CLINICA
tavola rotonda
in Annali Italiani di Medicina Interna
vol. 12, ottobre 1997, suppl. 2, pp. 19S-21S
19S
TAVOLA ROTONDA
La brevità delle considerazioni seguenti chiede di essere benevolmente interpretata come inversamente proporzionale all’importanza dell’etica per la Medicina Interna, che è entrata nell’era della complessità. Parlerò dell’etica, o piuttosto di “etiche”: questo plurale, anche se piuttosto inusuale, mi sembra correlarsi meglio alla complessità dei valori coi quali si deve confrontare oggi qualsiasi iniziativa terapeutica. Per visualizzare le diverse stagioni dell’etica in medicina, farò ricorso a uno schema, che le presenta in maniera sinottica (Tab. I).
Se mai la medicina è stata un’azione semplice ― si potrebbe sostenere con buoni argomenti che non lo è mai stata, anche prima dell’inizio dell’età della complessità ― l’elemento di semplificazione per eccellenza è stata l’etica. Per quanto difficile sia il percorso per arrivare a una diagnosi e a una terapia, quando si trattava di dire che cosa era doveroso fare per il malato, l’etica assicurava il tranquillo possesso di certezze da tutti condivise. Nell’ambito della medicina occidentale per 25 secoli si è costantemente ripetuto che bisogna fare quello che costituisce il bene del malato. L’etica medica si riassume nell'imperativo di procurare un beneficio al malato. Questa etica medica così lineare, che è rimasta inalterata passando attraverso tutte le trasformazioni che abbiamo avuto in occidente, forniva all’agire sia un contenuto ― fare il bene del malato, che nella teorizzazione della bioetica contemporanea è stato riassunto nel principio di “beneficità” ― sia una ragione formale, ossia il motivo che giustificava il comportamento prescritto. Il motivo è anch’esso riassumibile in una formula: l’ethos ippocratico.
Un libro importante, e spero non dimenticato, di Giacomo Mottura, dedicato al giuramento di Ippocrate, considerato in tutto lo sviluppo della storia della medicina, concludeva affermando che per i medici il giuramento di Ippocrate e l’ethos che ad esso si ispira non è tanto un blasone di cui fregiarsi, o un feticcio da appendere al muro: “Si tratta di dare una risposta al ‘chi me lo fa fare’, motto terribilmente sconfortante quando lo si sente usare cinicamente, appunto come replica senza risposta”.
Di fronte al malato il medico, anche se non era motivato come un buon samaritano, trovava un’ispirazione nell’ethos ippocratico che lo orientava a fare il bene del malato, all’interno di un rapporto che lo identificava come colui a cui il malato era autorizzato a rivolgersi per chiedere aiuto.
Questo è stato l’ideale dell’etica medica per 25 secoli. E speriamo che lo sia anche per i prossimi 25 secoli, perché questo nucleo fondamentale è un importante valore da conservare. Ma questo orientamento di valore oggi non basta più. Si può dire che l’etica medica è entrata in una fase di complessità quando è sopravvenuta una trasformazione epocale che ha portato la medicina nell’epoca moderna. La modernizzazione a cui mi riferisco è quell’insieme di rapporti diversi tra i soggetti sociali che possiamo far risalire all'illuminismo. Con la modernità la società civile comincia ad articolare le relazioni tra i cittadini
Tabella 1 - Stagioni dell'etica in medicina
|
Epoca premoderna Etica medica
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Epoca moderna Bioetica |
Epoca postmoderna Etica dell'organizzazione |
La buona medicina |
Quale trattamento porta maggior beneficio al paziente? |
Quale trattamento rispetta il malato nei suoi valori e nell’autonomia delle sue scelte
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Quale trattamento ottimizza l’uso delle risorse e produce un paziente/cliente soddisfatto? |
L’ideale medico
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Paternalismo benevolo (scienza e coscienza) |
Autorità democraticamente condivisa |
Leadership morale, scientifica, organizzativa
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Il buon paziente
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Obbediente (compliance) |
Partecipante (consenso informato) |
Cliente giustamente soddisfatto e consolidato |
Il buon rapporto |
Alleanza terapeutica (il dottore con il suo paziente) |
Partnership (professionista-utente) |
Stewardship (fornitore di servizi-cliente) Contratto di assistenza: azienda/popolazione
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20S
sulla base di diritti e mette a fondamento dell’agire l'autodeterminazione individuale (secondo la celebre definizione di Kant, “l’Illuminismo è l’uscita degli uomini dallo stato di minorità a loro stessi dovuto. Minorità è l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. A loro stessi è dovuta questa minorità, se la causa di essa non è un difetto dell'intelletto ma la mancanza di decisione e del coraggio di servirsene come guida”).
La medicina non è stata toccata da questo modello. Per un paio di secoli, dopo che la cultura europea aveva decretato la fine dell’assolutismo e l’introduzione del liberalismo in ogni ambito della vita sociale, ha continuato ad essere tranquillamente paternalista e orientata al valore della beneficità. Quando la medicina diventa moderna, i rapporti tra il medico e il paziente sono costretti a trasformarsi. Abbiamo una misura delle difficoltà che implica tale cambiamento nelle norme del Codice deontologico relative alle informazioni da dare ai pazienti e al loro consenso agli atti diagnostici e terapeutici. Solo nell’ultima revisione del Codice, quella del 1995, si è riconosciuto il “consenso informato” come base del rapporto terapeutico (Art. 31: “Il medico non può intraprendere alcuna attività diagnostica o terapeutica senza il consenso del paziente validamente informato”).
La nuova etica porta l’innovazione iscritta nel linguaggio stesso in cui si esprime. Mentre l’etica si articola riferendosi al bene/male (fare il bene del malato; non nuocere al malato: “primum non nocere”) l’etica dei diritti e dell’autonomia ricorre alle categorie di giusto/ingiusto. Il grande cambiamento introdotto nel rapporto tradizionale comporta che anche il bene del paziente, se è ottenuto contro la sua volontà o impedendogli di partecipare alle decisioni che lo riguardano (cfr. il documento del Comitato Nazionale per la Bioetica: Informazione e consenso all’atto medico del 1992: “Il consenso informato, che si traduce in una più ampia partecipazione del paziente alle decisioni che lo riguardano...”), è ingiusto.
Accanto a questo modello noi dobbiamo oggi introdurre un terzo modello di etica che potremmo chiamare, per brevità, l’etica dell’organizzazione.
Per la sanità italiana il cambiamento è stato introdotto dalle leggi di riordino che hanno portato ad “aziendalizzare” le strutture che erogano servizi sanitari. Per “aziendalizzazione” non intendiamo soltanto una diversa organizzazione e l’introduzione di elementi economici ― che pur rivestono una fondamentale importanza nella nuova sanità ― ma anche un diverso rapporto con l’utente dei servizi, una sua centralità quasi fosse un “cliente” che va soddisfatto, una preoccupazione costante per ottimizzare l’uso di risorse limitate per rispondere a bisogni sempre maggiori.
Rispetto ai bisogni globali, noi possiamo trovare delle risposte che sono migliori ― perché più adeguate a rispondere alla domanda qualificata del maggior numero di persone ― o peggiori. L’appropriatezza sociale delle nostre scelte in sanità è l’imperativo etico dell’epoca postmoderna. Il linguaggio dell’etica diventa più complesso: accanto alle categorie bene/male e giusto/ingiusto che caratterizzano rispettivamente l’etica dell’epoca moderna e post-moderna, subentra la categoria migliore/peggiore che caratterizza l’appropriatezza delle nostre scelte.
Le tre epoche dell’etica in medicina, correlate con i cambiamenti culturali che hanno portato a modificare i rapporti tra sanitari e pazienti/utenti/clienti, possono essere visualizzate dalla tabella I, che presenta sinotticamente i valori ideali che costituiscono, rispettivamente, la buona medicina, il buon medico, il buon paziente, il buon rapporto tra di loro.
La pluralità di queste etiche costituisce già di per sé un elemento di “complessificazione”, perché non abbiamo più soltanto un modello etico o un solo linguaggio dell’etica. Abbiamo tre punti di riferimento, ovvero tre diversi aspetti della qualità dell’atto medico. Il problema principale è costituito dal modo in cui si decide di rapportare tra loro i tre modelli. Si potrebbe essere indotti a considerarli come diacronici, succedutisi nel tempo in modo che il modello più recente sostituisca quello precedente. Come dire: quando entriamo nell’epoca moderna non conta più quell’indicazione che si può ricondurre al bene del paziente così come lo vede il medico ― indicazione clinica ― ma conta solo ciò che vuole il paziente, il quale decide autonomamente quale prestazione ricevere. E nell’epoca post-moderna conta quello che l’azienda ritiene più appropriato rispetto agli obiettivi che si propone (fossero questi magari soltanto dei pareggi di bilancio...).
Personalmente ritengo che l’unico modo accettabile di considerare questi modelli etici è di vederli non come diacronici, ma come sincronici. Il risultato è un grafico tridimensionale, costituito da tre parametri, che rappresentano le tre priorità (Fig. 1). Nel modello pre-moderno l’unico elemento da considerare è il beneficio del paziente che può essere minimo o massimo. La modernità ha introdotto nello schema un altro parametro, indicato nello schema come asse delle preferenze. La buona decisione medica dovrà tener conto contemporaneamente di due fattori: il beneficio da procurare al paziente e il suo consenso a ciò che è oggetto dell’indicazione clinica. La scelta
Figura 1 - Lo spazio dell'etica in medicina
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si realizza sul piano orizzontale di una contrattazione, che spesso produce un compromesso (non è detto, infatti, che ciò che costituisce dal punto di vista clinico il maggior beneficio per il paziente corrisponda alle sue preferenze; o inversamente: ciò che il paziente informato vuole per sé può non coincidere con quanto la medicina sarebbe in grado di fare per lui). Se la contrattazione è necessaria, il buon clinico sa dove trovare il punto di accordo che consideri sia il punto di vista medico, sia le preferenze del paziente.
Il modello tridimensionale visualizza la “complessificazione” che si ottiene quando, contemporaneamente alle prime due dimensioni, si introduce la valutazione dell’appropriatezza sociale. Bisogna tener conto, infatti, che le nostre scelte devono anche mirare a un’ottimizzazione delle risorse, secondo quella concezione aziendale della sanità che mira, con le risorse date, a fare il meglio, rispondendo al bisogno di salute di tutta la popolazione alla quale l’azienda è legata da un implicito contratto. Anche qui troviamo una contrattazione, che non è più di natura individuale, ma di portata sociale. Questo modello tende a ricollocare l’etica nell’ambito delle decisioni pratiche, là dove l’aveva considerata Aristotele, sotto la guida della “frònesis” (che i latini hanno tradotto come prudentia).
Vorrei mostrare la natura operativa del modello mediante due esempi. Il primo si riferisce a quella contrattazione che ha luogo tra l’indicazione clinica e le preferenze del paziente. Lo traggo dal numero più recente di una rivista diretta ai medici di medicina generale: Occhio Clinico. Un medico scrive: “Viene il paziente che mi dice: ho bisogno di una settimana di mutua. Viene tutti gli anni, è sano come un pesce, ma vuole ogni anno una settimana di mutua. Gli dico che lui non ha niente, non gliela posso dare. Il paziente, questa brava persona, mi dice che preferisce trovarsi un altro medico. Niente da eccepire gli rispondo. Anzi, meglio così. Però poi rifletto e mi amareggio. Perché, se questa persona è disonesta, alla fine sono io a rimetterci?”.
Le preferenze del paziente, dal punto di vista morale, sono sotto lo zero. Non sempre il paziente ha delle preferenze di alto profilo etico. Peraltro va detto che anche il medico può muoversi nelle sue scelte in un’area criticabile dal punto di vista etico (non per niente il primo imperativo dell’ethos ippocratico è stato formulato come “primum non nocere”!).
“Probabilmente adesso cambierà medico tutta la famiglia, ben sei persone: allora, che fare? È mai possibile che per portare a casa quel cavolo di stipendio bisogna sempre ingoiare tutti i rospi del mondo? E voi colleghi, come vi comportate quando arriva un paziente di questo genere: stringete i denti e vi tappate occhi e orecchie?”.
La cosa che trovo molto importante è che questo tipo di interrogativo è stato raccolto da altri medici di medicina generale che in un sito di Internet hanno cominciato a dialogare su questo tema squisitamente etico. Che cosa fanno con pazienti di questo genere: si ribellano, si sottomettono? Ciò che trovo affascinante in questo esempio è che l’etica ritorna in mano ai medici. Non è data in appalto agli esperti (bioeticisti o altrimenti qualificati). Ritorna, anzi, addirittura, nel suo luogo originario: in piazza. Grazie alla telematica, ritorna là dove l’ha collocata Socrate, quando le ha dato forma in Occidente, come un domandarsi reciproco e un trovare insieme le soluzioni.
Il secondo brevissimo esempio che voglio portare presuppone un interrogativo che inquieta alcuni, di fronte alla prospettiva di coinvolgere i pazienti nelle scelte cliniche: se le decisioni non vengono più prese unilateralmente dai medici ― sulla base del proprio sapere clinico e della propria retta coscienza ― non avverrà che i pazienti ci trascineranno in un mercato ingestibile, in quanto chiederanno sempre il massimo e accresceranno continuamente il livello della domanda?
Un’indicazione di risposta può venire da un articolo di Wenberg, apparso nel New England Journal of Medicine (1990; 223: 1202-4). Il titolo ci colloca al centro della problematica che ci sta a cuore: “Ricerca sugli esiti, contenimento delle spese e la paura del razionamento in sanità”. L’articolo riporta una ricerca fatta coinvolgendo direttamente i pazienti nelle scelte di trattamenti alternativi per la cura dell’ipertrofia prostatica benigna. Ecco, nella conclusione, il risultato dello studio: “I livelli correnti di utilizzazione delle tecnologie mediche molto sofisticate sono più alti di quelli voluti dai pazienti. Perché quando occorre sottoporsi a un rischio per ridurre i sintomi o per migliorare la qualità della vita, i pazienti tendono a essere più riluttanti di quanto lo siano i medici. Se viene loro offerta una possibilità di scelta, i pazienti optano per strategie meno invasive di quanto facciano i medici. Se così è, la libera espressione di preferenza del paziente dovrebbe comportare un abbassamento della domanda. Ciò sembra vero anche nelle cure rivolte ai pazienti terminali. In quanto, di fronte all’inevitabilità della morte, i pazienti in molte situazioni preferiscono che si faccia dì meno piuttosto che di più. Una migliore informazione sugli esiti clinici, un miglior dialogo tra pazienti e medici sulle opzioni possibili, può, dunque, far diminuire la domanda di trattamenti più costosi”.
Non sono in grado di dire in che misura questa conclusione si possa generalizzare. Ma mi piace citarla come un esempio costruttivo di una considerazione sincronica delle tre etiche con cui in medicina ci si deve confrontare: l’etica che considera il bene del paziente, quella che rispetta i suoi diritti ― e soprattutto il diritto di partecipare alle scelte che lo riguardano ― e l’etica che considera l’interesse di tutta la società.