La bioetica clinica

Book Cover: La bioetica clinica
Parte di Bioetica sistematica series:

Sandro Spinsanti

LA BIOETICA CLINICA

Per un nuovo rapporto medico-paziente

in Fidia biomedical information

anno 8, n. 4/5, luglio 1991, pp. 15-16

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La qualificazione di “clinica” per la disciplina che si occupa delle applicazioni della filosofia morale al progresso della biologia e della medicina — un ambito per il quale quasi ovunque si è imposto il neologismo “bioetica” — può suonare insolita a più di un lettore. Che cosa si può intendere sotto l’etichetta di “bioetica clinica”? Le associazioni mentali possono essere le più disparate. Forse qualcuno può aver preso nota di un dibattito avvenuto un paio d’anni fa sulle pagine di “Medicina e Morale”. Un editoriale della rivista proponeva una definizione di bioetica clinica, intesa come Bioetica con la maiuscola. Secondo questa concezione, la Bioetica stabilisce i princìpi, sviluppa le argomentazioni e determina le norme comportamentali alle quali deve conformarsi un’azione in ambito biomedico per qualificarsi come etica; la bioetica clinica — come bioetica con la minuscola! — si occupa di applicare tutto ciò al letto del malato. Un illustre clinico si opponeva a questa definizione, rivendicando per la bioetica clinica un ruolo più attivo, non di semplice esecutore di quanto è stato stabilito da un’istanza accademica posta più in alto. Dopo un paio di scambi, il dibattito si arenò, senza alcun visibile cambiamento delle posizioni iniziali. Personalmente, ho avuto bisogno di un soggiorno di studio nella Cleveland Clinic Foundation a Cleveland, nell’Ohio — soggiorno resomi possibile da un ‘grant’ della Fidia — per conoscere dal vivo la realtà della bioetica clinica. La Cleveland Clinic Foundation occupa un posto di tutto rispetto nella medicina di avanguardia. Ha già 70 anni di storia alle spalle. È stata creata nel 1921, come alternativa alla pratica individuale dei medici e chirurghi dell’epoca. I quattro medici che l’hanno fondata credevano nella possibilità di migliorare sia la pratica della medicina, sia la ricerca e la formazione dei futuri medici, mediante la collaborazione di medici e scienziati in una stessa organizzazione.

Con un programma essenzialmente centrato sulla cooperazione e l’unità, ha preso l’avvìo una istituzione destinata a diventare uno dei più grandi centri medici del mondo. Grandi non solo nel senso delle dimensioni (benché anche queste siano del tutto rispettabili: con 14 edifici che costituiscono il ‘campus’, 8.500 dipendenti e uno staff di quasi 500 medici, eccede ampiamente le dimensioni alle quali siamo abituati in Italia), ma soprattutto nel senso della qualità. Lo staff medico ha una reputazione di eccellenza nel trattamento di casi clinici complessi, in modo particolare nelle malattie cardiocircolatorie e nei trapianti di organo. ‘Nothing but the best’: così ha sintetizzato il programma della CCF il dott. Floyd Loop, presidente del consiglio di amministrazione della Fondazione, in occasione del 70° anniversario della Clinica, il 28 febbraio scorso. ‘Solo il meglio’: potrebbe essere uno slogan altisonante per la pubblicità, o una fastidiosa vanteria; alla CCF è semplicemente la sobria consapevolezza della propria eccellenza. Non sorprenderà che la Cleveland Clinic, leader in molti ambiti della ricerca e della pratica clinica, lo è anche in quello dell’integrazione delle scienze umane nella pratica della medicina, in particolare la bioetica. Più che un’abile scelta strategica per legare alla propria immagine una disciplina che gode crescente interesse nell’opinione pubblica, lo spazio concesso alla bioetica nella CCF appare coerente con l’aspirazione a praticare una buona medicina; anzi, la migliore possibile. Negli Stati Uniti, dopo venti anni di promozione delle ‘medical humanities’ e della bioetica, si è giunti alla consapevolezza che una buona pratica medica deve includere oggi anche una componente etica. Le decisioni che il medico è chiamato a prendere non sono solo tecniche — mediante l’applicazione delle conoscenze di base e delle scienze cliniche ai problemi del singolo paziente —, ma anche morali. Questa seconda dimensione cresce proporzionalmente alla prima: i valori culturali, le aspirazioni soggettive, la concezione della qualità della vita propria del paziente fanno sì che le ‘indicazioni mediche’, particolarmente quelle di una medicina così sofisticata e potente come è quella dei Paesi ad alto sviluppo tecnologico, non coincidano necessariamente con ‘il bene del paziente’. La componente

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tecnica della medicina dice quello che si può fare, mentre quella morale dice ciò che si dovrebbe fare. L’armonizzazione tra l’una e l’altra dimensione è il compito della bioetica clinica. Essa è una componente essenziale di una pratica sanitaria che si prefigga un alto livello di qualità.

Il decennio trascorso ha visto crescere, parallelamente allo sviluppo della riflessione bioetica negli ambiti della biologia, della genetica, dell’ecologia e delle politiche sanitarie, l’attenzione ai problemi etici che sorgono al letto del malato. L’etica (o bioetica, per sottolineare la novità dell’approccio e della disciplina correlata) clinica si è confrontata sempre più con l’identificazione, l’analisi e la soluzione di problemi etici collegati con la pratica medica. Molti studiosi vi hanno dedicato le migliori energie intellettuali e organizzative, con risultati soddisfacenti. Ora l’etica clinica è diventata un punto di riferimento nel pensiero e nella pratica di molte istituzioni sanitarie.

Il passaggio dall’infanzia all’adolescenza della disciplina può essere individuato nella creazione del Journal of Clinical Ethics, che ha iniziato la pubblicazione nel 1990. Sfogliando la rivista, troviamo puntualmente affrontati tutti gli interrogativi che accompagnano il sorgere di una nuova disciplina: da quelli relativi alla sua definizione e giustificazione, ai problemi concernenti la qualificazione professionale (chi è autorizzato a fare bioetica clinica: deve essere un medico o un filosofo? deve costituire una speciale professione o essere una dimensione del lavoro professionale del clinico?), dagli ambiti applicativi della disciplina (formazione, ricerca, istituzioni, come i comitati di etica) ai problemi didattici (a chi, quando e come insegnare la bioetica clinica?).

Il contatto diretto con la pratica della bioetica clinica nella CCF può rispondere a molti di questi interrogativi. Ivi la bioetica costituisce un dipartimento, integrato nella divisione che si occupa della formazione (‘Education’), con tre persone a tempo pieno e una rotazione continua di medici specializzandi e studenti di medicina, che vi trascorrono ‘stages’ di formazione di lunghezza variabile. Coordinatore del dipartimento è George Kanoti, al quale va il merito di avere introdotto la bioetica alla CCF fin dalla metà degli anni ’80. Non medico, con una formazione teologica e psicologica alle spalle, è riuscito tuttavia a entrare in perfetta sintonia con i bisogni della Clinica, proponendo esattamente il modello di etica clinica necessario al medico che deve prendere delle decisioni al letto del malato. Il sanitario non ha bisogno di un filosofo che gli insegni la teoria di Kant sulla “Ragione pratica”; tanto meno di un indottrinamento circa il lecito e l’illecito secondo una determinata morale confessionale. I suoi dilemmi morali sono riferiti al singolo paziente e ai conflitti che sorgono nel cercare di determinare, con il paziente e per il paziente (e non al posto del paziente, come predilige ancora fare la medicina di stampo paternalistico!) il trattamento che corrisponde per lui alla migliore qualità.

Questa prospettiva definisce subito il ruolo di colui che rappresenta la bioetica in ambito clinico: è essenzialmente un consulente. Non decide al posto del medico (e ovviamente non al posto del paziente!); porta il contributo delle conoscenze teoriche che gli derivano dall’etica come disciplina, affinché le parti in causa, cui spetta di prendere una decisione clinica, possano percorrere nel migliore dei modi il processo decisionale.

Un consulente di etica, non di problemi medico-legali! A coloro che insinuano che il grande sviluppo negli Stati Uniti dell’etica applicata alla medicina sia dovuto alla litigiosità giudiziaria propria di questo Paese e alla diffusione delle cause per malpractice (fatti incontestabili, del resto!) può esser fatto notare che un’istituzione come la CCF ha il suo proprio ufficio legale, che esercita l'opportuna consulenza in questo settore. Esso, tuttavia, non assorbe l’etica; anzi, la differenziazione delle funzioni favorisce che si evidenzi la rilevanza propria dei problemi etici.

Alcuni settori propri della pratica clinica costituiscono come la linea di fuoco del fronte, dove la presenza del consulente di etica è continua. A questi appartiene la pratica della terapia intensiva. In particolare, quando il paziente è inserito nella procedura del DNR (Do not Resuscitate, che prevede la rinuncia alla rianimazione in caso di arresto cardiocircolatorio): una situazione di questo genere è per definizione carica di interrogativi morali, che è necessario esplicitare e valutare. Oppure l’arresto della nutrizione e dell’idratazione artificiali in pazienti in stato di coma vegetativo permanente. Durante il mio soggiorno, un caso particolarmente drammatico di questo genere, riguardante una donna di 42 anni, mi ha permesso di valutare l’importanza della consulenza etica in un processo decisionale che coinvolge profondamente i familiari, i medici e il personale infermieristico.

Anche i trapianti di organo fanno parte delle pratiche cliniche che prevedono l’intervento sistematico del consulente di bioetica. Il colloquio che questi ha con il candidato al trapianto è rivolto a completare i dati più propriamente medico-clinici, esplicitando la consapevolezza che il paziente ha dell’intervento, verificando la congruenza con i suoi valori etici e spirituali, e sollecitando quelle che vengono chiamate le “advance directives”, cioè le disposizioni del paziente circa il corso del trattamento, nel caso in cui non sia più in grado di prendere personalmente delle decisioni (quanti casi drammatici di cosiddetto ‘accanimento terapeutico’ possono essere eliminati in questo modo!).

La presenza, discreta ma efficace, del consulente di bioetica non si limita a queste situazioni estreme: è integrata nella routine quotidiana. Come un membro dell’equipe medica, partecipa alla valutazione della decisione clinica più appropriata e al giro in corsia. In Europa si tende a fare dell’ironia su questi ‘bioetici in camice bianco’, a ritenere la loro presenza o molesta o superflua. Alla CCF si può avere una riprova empirica del contrario: quando propongono se stessi nel modo giusto, i consulenti di bioetica sono bene accolti e il loro contributo si rileva utile. Se non altro, perché con la loro presenza tengono aperto l’interrogativo sulla dimensione etica della pratica medica. Dal momento in cui l’etica viene esplicitata, resa visibile attraverso la funzione del consulente, si cominciano a vedere anche i problemi. “Noi vediamo solo quello che conosciamo”, ha affermato Goethe. C’è da chiedersi se la capacità della medicina di casa nostra di fare a meno dell’etica non dipenda dal fatto che, non conoscendo i problemi etici, non riesce neppure a vederli.