La liceità dell’atto medico: considerazioni etiche

Book Cover: La liceità dell'atto medico: considerazioni etiche
Parte di Bioetica sistematica series:

Sandro Spinsanti

LA LICEITÀ DELL'ATTO MEDICO: CONSIDERAZIONI ETICHE

in Amman Gainotti, Badura, Baraldi, Bimbi, Buscema, Cardamone, de Leonardis, de Sandre, Greco, Greppi, Iacono, Ingrosso, Lafaille, Man-ghi, Melucci, Mongelli, Nordia, Pearce, Pizzini, Ranci Ortigosa, Rijke, Sbattella, Schirippa, Spinsanti, Tognietti Bordogna, Valenti, La salute come costruzione sociale, a cura di Marco Ingrosso

FrancoAngeli, Milano 1994

pp. 301-307

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Prima ancora che la società si preoccupasse di stabilire norme e regole entro le quali l’attività terapeutica può essere considerata lecita, la professione medica si è data cura di riflettere su ciò che legittima dall’interno l’intervento sul corpo malato, a partire dal senso e dalla finalità intrinseca dell’atto medico. Questo approccio è propriamente deontologico, in quanto si fonda sulle regole consensualmente stabilite dai professionisti; tuttavia ha legami profondi con l’etica, ovvero con i valori condivisi da una determinata società.

Tradizionalmente l’ethos ippocratico ha fatto derivare la liceità dell’atto medico dal bene che esso intende procurare al paziente. Nel giuramento di Ippocrate questa giustificazione si esprime nella cosiddetta “clausola terapeutica”:

Prescriverò agli infermi la dieta opportuna che loro convenga per quanto mi sarà permesso dalle mie cognizioni e li difenderò da ogni cosa ingiusta e dannosa.

Per cogliere il significato che questa concezione può rivestire anche per gli uomini del nostro tempo, possiamo riferirci alla versione modernizzata che è stata redatta in occasione del Processo a Ippocrate organizzato nell’ambito di “Milano medicina” del 1988. Un comitato di esperti ha così riformulato la “clausola terapeutica”:

Eserciterò la mia arte secondo un sapere che mi impegno ad accrescere costantemente, e prescriverò farmaci secondo un giudizio che manterrò puro e retto, e che sempre mi guiderà nello scegliere quei rimedi che sicuramente si siano dimostrati giovevoli. Non farò della mia arte ingiusto lucro, né anteporrò alcun interesse a quello del malato, nemmeno se richiesto dal potere di chi amministra e governa la cosa pubblica.

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Dal confronto con l’originale ippocratico emerge la sostanziale continuità nell’orientamento al “bene del paziente” come giustificazione dell’atto medico. Gli elementi costitutivi del rapporto medico-paziente sono: l’asimmetria dei rapporti (non si stabilisce un contratto bilaterale, ma piuttosto un’”alleanza terapeutica”, con forti connotazioni religiose); subalternità del malato (in merito all’atto terapeutico il malato non ha propriamente niente da dire; è chiamato a strutturare l’atto medico solo fornendo i sintomi, di cui il sanitario interpreterà il messaggio: non è il malato che parla, ma i sintomi che si prestano alla lettura); ruolo pilota della scienza (il medico è impegnato ad accrescere sempre più il proprio sapere); controllo fornito dalla coscienza e dal senso di responsabilità del medico (di qui la formuletta compendiosa “in scienza e coscienza”, solitamente utilizzata per tagliar corto nei lunghi discorsi sulle dimensioni etiche della pratica della medicina).

Di fronte a questa concezione così lineare della medicina, che è giunta fino a noi attraverso i secoli sostanzialmente immutata, ci dobbiamo domandare: è ancora valida ― salvo qualche piccola azione di cosmesi, per darle un volto più attuale ―, oppure dobbiamo elaborare un nuovo paradigma? È questo l’interrogativo di fondo che deve affrontare oggi l’etica dell’atto medico.

Per annunciare subito la mia tesi: quando l’atto medico diventa “moderno”, si sottrae al paradigma ippocratico e deve essere ripensato con altre categorie. Devo però subito specificare che non intendo “moderno” nel senso più ampio del termine ― per esempio, come ciò che è più aggiornato secondo gli ultimi ritrovati della tecnologia ― ma nel senso storiografico. L’epoca moderna è quella che inizia, per definizione, con l’illuminismo. È l’epoca che Kant annunciava nel suo scritto Che cos’è l’Illuminismo? con quella frase molto incisiva che abbiamo trovato sui libri di scuola quando studiavamo filosofia: l’illuminismo è «l’uscita da ogni minorità non dovuta»; «sapere aude: abbi il coraggio di servirti della tua ragione, rinunciando ad ogni minorità non dovuta».

La caratteristica fondamentale di una medicina che voglia essere “moderna” è di accettare questo cambiamento. Esso ha progressivamente modificato la vita politica, i rapporti sociali, quelli economici e perfino la vita religiosa, mentre è rimasto sempre al di fuori della medicina. Quando l’atto medico diventa “moderno”, comporta l’uscita da quella “minorità non dovuta” che è la malattia e l’abbandono dall’atteggiamento paternalista che conferisce a qualcuno la facoltà di decidere per l’altro qual è il suo bene. La modernità porta a un rovesciamento di prospettiva: il primato non spetta all’orientamento a

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fare il bene dell’altro (principio di beneficità), ma al rispetto della sua caratteristica di soggetto autonomo (principio di autonomia).

Per l’etica di Kant l’autonomia è un principio formale, non un principio materiale. Non ci dice qual è l’azione buona, ma quali sono le condizioni perché l’azione sia buona. Se adottiamo questo punto di vista, non possiamo più chiamare buona l’azione per il fatto che produce buoni risultati. È buona l’azione che rispetta il principio formale dell’autonomia, e dell’autodeterminazione del soggetto. Salvare la vita di un paziente con un intervento medico è indubbiamente un bene, dal punto di vista di un’etica contenutistica; ma se per salvargli la vita si dovesse far violenza alla sua volontà sana e autodeterminata, calpestando valori che orientano la sua vita, non sapremmo più giustificare eticamente la pur nobile azione rivolta a ottenere un bene. Perché l’azione sia buona, anche nell’ambito della cura della salute, bisogna che sia corretta non solo sotto l’aspetto dei contenuti, ma anche di quello delle procedure.

Questo, in sostanza, è il contenuto del principio del consenso informato introdotto in medicina. Spesso si tende a vedere le pratiche americane del consenso informato, diffuse anche al di fuori degli Stati Uniti, sotto l’aspetto medico-legale, cioè come se fossero procedure rivolte unicamente a proteggere il medico dalle possibili conseguenze di ordine giudiziario dei suoi atti. Credo che questa prospettiva manchi il bersaglio. Anche se l’autotutela del medico è un elemento dell’insieme, nella pratica del consenso informato l’orizzonte è più ampio e include un senso profondamente etico, che deriva dall’accettazione dell’autonomia dell’individuo, in quanto soggetto capace di determinare i propri fini. Non è buono, in altri termini, l’atto che non considera l’adulto come adulto. Anche se si tratta di un atto medico. Anche quando avessimo a che fare con un atto che salva la vita del paziente, infrangendo però eventuali limiti che questi abbia posto in maniera autonoma.

Ne consegue che questa medicina moderna diventa molto sensibile ai valori del paziente. E questo è tanto più vero, forte e dirompente nello stato attuale del progresso medico. Oggi la medicina dispone di un arsenale terapeutico molto vario e aperto su diversi esiti. È proprio là dove esiste una pluralità di scelte che i valori del paziente diventano rilevanti. Ciò che il paziente intende come salute, benessere, vita buona ― di conseguenza, i suoi obiettivi etici ― deve entrare strutturalmente nell’atto medico. Come modello teorico di questa medicina che ha adottato pienamente il paradigma della modernità mi limito a rimandare

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a un’opera che ormai è conosciuta anche in Italia: il Manuale di Bioetica di Tristam Engelhardt. Esso presenta nel modo più radicale il rovesciamento della medicina dall’orientamento secondo il principio di beneficità al rispetto formale e assoluto del principio di autonomia.

Di fronte a questa medicina che è entrata nell’epoca moderna e si è modificata in conseguenza, notiamo due atteggiamenti fondamentali. Uno è quello dell’ostilità aprioristica. In Italia l’ostilità è molto diffusa ― non lo dico in senso accusatorio, ma come rivelazione oggettiva di un dato ― soprattutto nel mondo medico. I medici per lo più preferiscono rimanere all’interno del paternalismo, magari riproposto in forme più blande e illuminate. Hanno molti motivi per considerare la malattia come una situazione in cui in fondo l’autonomia personale viene sospesa, in quanto l’adulto ritorna in uno stato di dipendenza. La dipendenza viene talvolta cercata esplicitamente: il malato si mette nelle mani del sanitario, con la speranza che questi, in conformità all’ethos ippocratico, si sia impegnato a sviluppare al massimo il proprio sapere clinico e che, oltre alla scienza, si sia formato anche una coscienza che gli impedisce di prevaricare, traendo vantaggio dalla situazione del paziente. In questa strutturazione del rapporto di fondo è il medico che, spesso in collusione con i familiari e magari da questi sollecitato, decide quali informazioni dare al paziente e sceglie per lui il trattamento più indicato. Il medico sceglie quali percorsi il malato deve seguire verso la salute, e soprattutto decide per lui il cammino verso la morte.

L’altro atteggiamento estremo nei confronti del paradigma “moderno” della medicina è l’accettazione acritica e incondizionata. Questa resa totale al modello autonomista si traduce in pratica in un’informazione indifferenziata, data in qualsiasi modo, senza alcuna considerazione dell’emotività del paziente. Oppure nel ricorso puramente strumentale ai “protocolli di consenso informato”: un mezzo per mettere in chiaro, nero su bianco, che il paziente è stato informato, a tutela del sanitario. Oppure nelle deleghe deresponsabilizzanti ai comitati di etica.

È possibile assumere, rispetto a questo cambiamento di paradigma in medicina, un atteggiamento che non sia di rifiuto aprioristico, né di accettazione acritica? A mio avviso, la modernizzazione dell’etica medica deve essere considerata come un fenomeno irreversibile: in tempi più o meno lunghi, cambierà anche nella nostra società il criterio per considerare “buona” o “cattiva” la medicina dal punto di

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vista etico. Di conseguenza, è sospesa per i medici l’autorizzazione a procedere a qualsiasi misura terapeutica essi ritengano andare a beneficio del malato, sulla base di un criterio esclusivamente medico. Questo spazio dell’assolutismo ― assolutismo, anche se illuminato e benefico! ― in cui come una specie di “pater-familias” il medico decideva qual’era il bene del malato, dobbiamo considerarlo come un’altra regione conquistata dallo spirito moderno.

L’informazione e l’acquisizione del consenso saranno quindi sempre meno un “optional” e sempre più un obbligo non solo giuridico e deontologico ma etico; quindi una condizione perché si possa parlare di buona medicina. Certo, è possibile immaginare uno scenario infausto di sviluppo della modernità, in cui per esempio questo diritto alla libertà decisionale si tramuti in un diritto ad essere lasciato solo, senza alcun sostegno, e in cui il consenso informato venga utilizzato come un espediente per rifilare al malato la responsabilità di decisioni che invece andrebbero condivise.

Tra le due strade della riproposta del paternalismo medico e della resa incondizionata al principio di autonomia nella sua versione più individualista, con i possibili risvolti di isolamento, solitudine e in fondo di rottura dell’alleanza terapeutica, sentiamo il bisogno di una via media. Le vie medie non sono soltanto difficili da seguire: la “aurea mediocritas”, non significa non essere né carne né pesce, ma implica la capacità di stare veramente al centro, abbracciando gli estremi. Oltre che da seguire, queste vie medie sono molto difficili anche da concettualizzare.

C’è sicuramente una competizione tra i due modelli che attualmente si stanno contendendo il primato: uno è il modello ippocratico, l’altro è il modello libertario autonomista; l’uno punta tutto sul bene del paziente, l’altro ha a cuore solo la sua autodeterminazione; da una parte tutto il potere al medico, dall’altra tutto il potere al malato. Ciò che ci impedisce di abbracciare una delle due alternative non è solo una scelta teorica, ma la consapevolezza che adottare l’uno o l’altro modello in maniera esclusiva comporta un prezzo molto alto di sofferenze. Da una parte la sofferenza dei malati: non quella legata alla malattia, ma quella più sottile ― ma non per questo meno reale ― di dipendere come bambini eterodeterminati, di essere espropriati di diritti che nessun codice potrà mai convalidare, ma che sono proprio quelli che ci fanno uomini: il diritto di decidere quello che ci riguarda di più nella vita e soprattutto di fronte alla morte. Ma non bisogna neppure dimenticare le sofferenze legate al modello autonomista a

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oltranza: quelle dei malati, abbandonati spesso alle loro angosce, e quelle dei medici, degradati a puri esecutori di desideri e di preferenze arbitrarie, in una medicina ridotta a un supermercato in cui si acquista o si lascia, secondo il gusto personale.

Ho l’impressione che siamo soltanto all’inizio di questa ricerca della via media. Ma per evitare una conclusione troppo generica mi permetto di citare un modello che, a mio avviso, merita un’attenta considerazione: l’approccio all’etica medica di Edmund Pellegrino e David Thomasma. Il loro libro più recente, appena tradotto in italiano, ha un titolo provocatorio per l’etica centrata sull’autonomia: Per il bene del paziente. Tradizione e innovazione nell’etica medica (1992). È un serio tentativo di trovare una via media che concili beneficità e autonomia, vedendole come due dimensioni essenziali dell’atto medico. Il punto focale rimane il bene del paziente, che deve essere garantito. La considerazione esclusivamente autonomista lascia il paziente nella sua vulnerabilità e umanità ferita ― non per niente è “in-firmus”, cioè non solido ―; l’autonomia spesso non è presente come un dato obiettivo, ma come una meta. L’autonomia è qualche cosa da far crescere, tendendo ad essa come a un obiettivo.

Alla via intermedia Pellegrino e Thomasma attribuiscono il nome programmatico di “beneficità nella fiducia”. Mi rendo conto che la formula in quanto tale dice ben poco; ha bisogno di essere illustrata in modo analitico. Ma un punto essenziale è possibile cogliere intuitivamente: questo modello domanda che ci sia una rispondenza intrinseca tra il “buon medico” e il “buon paziente”. Non ci può essere, in altri termini, una buona medicina che non domandi anche una crescita etica del paziente, affinché sia in grado di entrare in modo costruttivo nel rapporto di “beneficità nella fiducia”.

Per questo la nuova etica che deve regnare in medicina non può essere elaborata unilateralmente dalla professione medica. Il buon medico e il buon paziente hanno dei mutui obblighi all’interno del rapporto terapeutico. Questa crescita comune è essenziale per identificare la via media che mette insieme autonomia e beneficità.

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BIBLIOGRAFIA

Engelhardt H.T. (1991), Manuale di bioetica, Il Saggiatore, Milano.

Faden R. e Beauchamps T. (1986), A History and Theory of Informed Consent, Oxford UP, New York.

Gracja D. (1993), Fondamenti di bioetica, San Paolo, Cinisello Balsamo.

Kant I. (1975), Risposta alla domanda: che cos’è l'Illuminismo?, in N. Bobbio (a cura), Scritti politici e di filosofia della teoria e del diritto, Utet, Torino, pp. 141-149.

Pellegrino E. e Thomasma D. (1992), Per il bene del paziente. Tradizione e innovazione nell'etica medica, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo.

Spinsanti S. (1990), La formazione del consenso con la famiglia: un orizzonte dell’etica clinica, in Il policlinico, vol. 97, n° 4.