L’etica in medicina

Book Cover: L'etica in medicina
Parte di Bioetica sistematica series:

L’ETICA IN MEDICINA

Intervista a Sandro Spinsanti

a cura di Michele Gangemi

in Medico e bambino

vol. 30, n. 6, 30 giugno 2011, pp. 387-388

387

La bioetica è una disciplina che si occupa delle questioni morali collegate alla ricerca biologica o alla medicina (Wikipedia). Concordi con questa definizione o ritieni che vada meglio precisata?

Per definire la bioetica si può fare di meglio. Naturalmente non si può escludere che ci sia anche chi fa di peggio... Quando sentiamo parlare, per esempio, della bioetica come parte integrante del programma di un partito, o di un sottosegretario del governo con delega per la bioetica, praticamente la si viene a identificare con le norme giuridiche che si ritiene debbano delimitare i comportamenti accettabili nell’ambito della biologia e della medicina, ovvero con il biodiritto. In pratica questo modo di concepire la bioetica la identifica con il contenzioso sociale riguardo a ciò che una società possa permettere o debba proibire. La definizione di Wikipedia non è così ristretta; il suo limite tuttavia è di non delineare i confini delle “questioni morali” rilevanti nella pratica biomedica. C’è una notevole differenza se abbiamo in mente solo i problemi che nascono sul confine estremo del progresso tecnologico o dell’intervento sulla vita (come la clonazione, i trapianti di organi, la procreazione medicalmente assistita, la sopravvivenza in coma vegetativo...) o le situazioni più semplici e routinarie. Per identificare questo ambito Giovanni Berlinguer ha proposto l’etichetta “bioetica del quotidiano”. Personalmente mi oriento a considerare la bioetica come un cambiamento di paradigma rispetto alla tradizionale “etica medica”, che modifica i comportamenti anche rispetto a tutto ciò che non si presenta come vistosamente eccezionale o di frontiera. Fare medicina applicando le regole comportamentali della bioetica è diverso dal farla seguendo quelle formulate dall’etica medica, quand’anche le patologie trattate fossero le stesse e i trattamenti non fossero il prodotto della tecnologia più avanzata.

Quali sono i principali nodi bioetici in pediatria?

La pediatria si presta bene a illustrare la differenza tra le due concezioni della bioetica che possiamo chiamare, appunto, bioetica di frontiera e bioetica del quotidiano. Nella prima accezione si tratta del sapere appropriato per affrontare questioni scottanti come il nuovo ambito della procreazione medicalmente assistita, con tutto il suo arsenale di tecniche rivolte a scavalcare l’incapacità ad avere figli attraverso la via prevista da madre natura. Oppure pensiamo alla clonazione, alla ricerca che utilizza gli embrioni, alla diagnosi prenatale; per non parlare dei problemi dell’assistenza a neonati ad alto rischio e del limite necessario alle cure intensive neonatali. Se invece la bioetica non è confinata alle questioni legate al progresso tecnologico, in quanto si identifica con la pratica della medicina in quanto tale, ma con altre “regole del gioco” rispetto al modello trasmesso dalla tradizionale etica medica, allora il nodo principale è costituito dal superamento del paternalismo medico. Questo era in vigore non solo in pediatria ma in tutto l’ambito della medicina. In pratica, consisteva nel trattare i pazienti ― di qualsiasi età, qualunque fosse la loro condizione mentale ― come un buon padre (o una buona madre) tratta un infante. Non dimentichiamo che “in-fante” significa, etimologicamente, chi non è in grado di parlare; la pratica della medicina alla quale attribuiamo l’atteggiamento paternalistico non aveva bisogno della parola del paziente (Virgilio nell’Eneide per parlare di un medico dice che esercitava la “muta ars”...). Secondo il modello paternalistico chi sta nella posizione dominante ritiene di sapere qual è il bene per la persona di cui ha la responsabilità, senza bisogno di ascoltarla; e persegue il migliore interesse di questa prendendo decisioni che non richiedono il consenso. In breve, mentre il modello paternalistico, promosso dall’etica medica, tratta gli adulti come bambini, il rapporto che si iscrive dentro le regole della bioetica deve tendere a trattare anche i bambini come adulti (almeno potenziali). E naturalmente la bioetica richiede che gli adulti siano pienamente coinvolti nel processo decisionale.

Quali discipline sono collegate alla bioetica e quale è la tua formazione?

388

Tra i neologismi si va diffondendo, parallelamente alla bioetica, anche “bioeticista”, per indicare il professionista che si occupa di bioetica. La novità della disciplina ci autorizza ad affermare che non ci sono bioeticisti prodotti da uno specifico sapere accademico (così come studiando il diritto si diventa giuristi, la biologia produce biologi o la conoscenza della storia fa gli storici...). Direi che cultori di bioetica si diventa, muovendo oltre la propria disciplina specifica. Ci sono studiosi che hanno portato un notevole contributo a questo ambito partendo dalla filosofia, o dal diritto, o dalle scienze sociali, o dalla storia. Nel volume La bioetica. Biografie per una disciplina (ed. Franco Angeli, 1995) ho tracciato il profilo di 25 bioeticisti che, all’epoca, godevano di una più alta considerazione a livello internazionale. Ebbene, nella generazione dei pionieri della bioetica non ho riscontrato un percorso che assomiglia a un altro: ognuno ha seguito una traiettoria biografica e concettuale diversa. Personalmente il mio cammino si è svolto a partire dalla teologia e dalla psicologia. Ma in generale direi che è più importante considerare verso dove si va, piuttosto che da dove si muove.

Narrazione e bioetica: quale relazione si può stabilire tra questi due approcci?

Da qualche tempo si parla molto di Narrative Based Medicine. Nell’interpretazione più diffusa è presentata come un correttivo all’Evidence Based Medicine, intesa come rigoroso riferimento alle prove di efficacia che legittimano qualsiasi trattamento medico. Mentre l’Evidence confronta il clinico come il rigore della scienza, la narrazione lo riporterebbe alla soggettività e al vissuto di malattia, diverso da persona a persona. Anche senza artificiose contrapposizioni tra EBM e NBM, possiamo affermare che la narrazione è intrinseca a quel nuovo approccio alle decisioni in medicina che abbiamo chiamato bioetica, nel senso estensivo e quotidiano. Questa presuppone, infatti, che la decisione sia presa insieme, dal clinico e dal soggetto coinvolto. In ambito pediatrico, poi, bisogna ulteriormente considerare che la persona a cui si rivolgono le cure è un minore, la cui autonomia si sta sviluppando su un asse temporale e psicologico, e che la famiglia è necessariamente coinvolta nella sua interezza. Ebbene, la condivisione della decisione presuppone, prima ancora dell’informazione, l’ascolto. È questo il luogo originario della narrazione. Ogni paziente racconta la sua storia ha intitolato Lisa Sanders il saggio in cui delinea “l’arte della diagnosi” richiesta dalla medicina del nostro tempo (tr. it. Einaudi, 2009). Trovare la cura giusta per il paziente giusto è l’impresa ardua che neppure il clinico più competente può portare a termine senza la collaborazione attiva del soggetto che viene curato. In questa prospettiva medicina narrativa e bioetica vengono praticamente a sovrapporsi.

Quale ruolo può giocare il Comitato Etico nella ricerca in ambito pediatrico? È utile la presenza di un pediatra nel Comitato?

Partiamo all’atteggiamento di fondo verso la ricerca: se la si considera un optional, o un espediente per avere accesso al ricco budget di qualche azienda farmaceutica, è impossibile coniugare ricerca ed etica. Anche se il protocollo riceve l’approvazione di un Comitato Etico, la qualità morale della ricerca risulta molto discutibile (se non altro perché molte ricerche condotte con questo spirito non mirano a risolvere quesiti clinici veri e rilevanti). La ricerca è necessaria non solo per poter disporre, in futuro, di farmaci più efficaci, ma per migliorare l’esercizio stesso della quotidiana prassi di diagnosi e cura. Un accento particolare va poi messo sulla necessità della ricerca in pediatria. Le conoscenze che derivano dai grandi trial clinici non sono a misura di bambino. I farmaci vengono sperimentati su soggetti adulti, così che in pediatria anche i farmaci di più provata validità scientifica sono spesso off label. Naturalmente il Comitato Etico deve garantire che la ricerca sia condotta con tutte le garanzie richieste di sicurezza e tutela dei soggetti fragili. Se non è visto come un mero organismo burocratico, il Comitato può diventare un alleato dei migliori ricercatori. La presenza di un pediatra (e/o “medico di libera scelta”, specificano i decreti ministeriali istitutivi dei Comitati) è prevista. Diventa preziosa se riesce a esplicitare la necessità di portare anche in pediatria l’approccio della ricerca, proprio della migliore medicina.

Alcune Regioni ― per esempio il Veneto e la Toscana ― hanno istituito anche una rete di Comitati per l’etica clinica, parallela a quella dei Comitati che si occupano della ricerca. Quale può essere l’utilità di questi Comitati?

Dipende dall’uso che ne fanno i clinici. Potrebbero essere utilizzati come strategia per scaricare le proprie responsabilità (“Facciamo come ci ha prescritto il Comitato”...). Ciò porterebbe fatalmente a un impoverimento della qualità etica delle professioni sanitarie. Ma i Comitati possono anche essere vissuti come un luogo dove emergono le perplessità che incontrano i clinici e si elaborano comportamenti condivisi. Facciamo solo un esempio. Non molto tempo fa a Treviso la stampa ha dato una pubblicità negativa alle decisioni dei medici del reparto di Patologia neonatale di mettere un limite a dei trattamenti rivolti a un bambino che stava andando inevitabilmente verso la fine, permettendogli di morire in modo meno straziante, in seno alla famiglia. Il fatto è stato ricondotto dentro la logica dei fronti bioetici contrapposti ― quella bioetica caricaturale che ama contrapporre posizioni “pro vita” ad altre accusate di essere “pro morte”― e denunciato come esempio di “eutanasia” neonatale, alternativa alla logica della sacralità della vita. Ma la polemica è stata subito disinnescata dalla diffusione delle linee-guida, discusse preventivamente dal Comitato con i clinici e diffuse dal documento: “L’accompagnamento del bambino e della sua famiglia al momento della fine della vita”. Un Comitato che lavori in questo modo, dando voce ai clinici e sostenendo la loro ricerca dei comportamenti eticamente giustificabili, può essere un valido aiuto per i molti dilemmi che si presentano a chi pratica una medicina che deve cercare di definire in modo nuovo che cosa è appropriato fare e che cosa invece merita la condanna morale del “troppo” o del “troppo poco”.