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Sandro Spinsanti
INTRODUZIONE
WE HAVE E DREAM: LA MEDICINA COME CIVILTÀ DELLA CONVERSAZIONE
in Figure della cura
Guerini Scientifica, Milano 2015
pp. 29-33
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Ci vien facile idealizzare il passato. Una storica, Benedetta Craveri, esperta conoscitrice della realtà culturale francese, lo ha fatto portando la conversazione sull’altare della nostalgia. Con La civiltà della conversazione ha ricostruito quel particolare clima creato dalla società aristocratica di Antico Regime in Francia, nei secoli Sei e Settecento. Vi regnava un ideale di socievolezza sotto il segno dell’eleganza e della cortesia. Prendeva corpo nei salotti e si traduceva nell’arte della conversazione:
La conversazione obbediva a leggi severe che ne garantivano l’armonia su un piano di perfetta uguaglianza. Erano leggi di chiarezza, di misura, di eleganza, di rispetto per l’amor proprio altrui. Il talento di ascoltare vi era più apprezzato che quello di parlare, e una squisita cortesia frenava l’irruenza e impediva lo scontro verbale 1.
Una pratica destinata a essere spazzata via dalla ferocia, ideologica prima ancora che fisica, della Rivoluzione francese. Qualcosa di analogo troviamo anche in alcuni ambienti di casa nostra. Era tradizione, soprattutto in Sicilia nel XIX secolo, che i nobili e gli aristocratici si ritrovassero tra di loro per trascorrere il tempo e conversare, isolati dalla gente comune. A Ragusa esiste uno stabile di elegante stile neoclassico, denominato appunto «Circolo di conversazione», costruito nel 1850 appositamente a tale scopo (gli appassionati del commissario Montalbano lo conoscono, perché è la location di alcune realizzazioni della serie televisiva).
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Si possono avere riserve per il carattere elitario di tali pratiche. Ma se elitario è inteso nel senso che certe cose sono meglio di altre, la conversazione ci appare come un modello auspicabile di convivenza. Infinitamente superiore a quello in cui il legame sociale è costituito dalla chiacchiera. Non possiamo fare a meno di sognare quell’ideale di conversazione che sapeva coniugare la leggerezza con la profondità, la ricerca della verità con la tolleranza e il rispetto dell’opinione altrui. Quanto più ci allontaniamo da quell’ideale, tanto più viva se ne fa la nostalgia. Ai nostri giorni la conversazione, annota Benedetta Craveri, «conduce ormai un’esistenza clandestina, ed è appannaggio di pochissimi, eppure niente ci dice che un giorno non possa tornare a renderci felici» 2.
Non è solo il passato remoto della conversazione come elemento della civiltà a sedurci. Anche il passato prossimo - quello racchiuso nell’esperienza personale di molti di noi — proietta una luce di nostalgia sulla conversazione. Sotto la denuncia: La conversazione sparita 3, Giuseppe Fiori ha ricostruito in termini auto- biografici la transizione degli ultimi decenni. Dapprima la bomba tv ha cambiato la conversazione familiare, specialmente quella che aveva luogo a tavola. Infine le forme tradizionali di scambio sono sfociate in un «chattare» forsennato, che ha spazzato via la forma amicale, familiare, coniugale della conversazione. Parliamo tutti di più; solo che parliamo a, non con.
E in medicina? Possiamo affermare in modo rude che in medicina la conversazione non è mai esistita. La parola ha avuto una cittadinanza risicata. Senza arrivare all’estremo di Virgilio che nell’Eneide per parlare di un medico dice che esercitava la «muta ars», in medicina sono circolate sempre poche parole. La distanza siderale tra medici e pazienti ― i pazienti vengono da Giove, i medici da Saturno ― non era compensata da scambi verbali. Si poteva curare facendo a meno della parola. Se parola era, aveva la forma di una sentenza (diagnosi, prognosi) o di una prescrizione (trattamento da seguire). Al più si affidava alla parola una funzione «umanitaria», quale espressione della gentilezza d’animo dei professionisti della cura. Ma non si può dire che ci fosse spazio in medicina per uno scambio di parole che meritasse il nome di conversazione.
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Finché il malato è stato collocato in posizione «down» (anche se l’intento era quello di fare il suo bene!), non poteva esserci conversazione tra chi erogava le cure e chi le riceveva. Solo in uno scenario di cittadini «empowered», anche se malati, si può ipotizzare un rapporto riconducibile allo scenario della conversazione.
Possiamo spingerci a immaginare un rinnovamento della medicina sotto il segno della conversazione? Una condizione previa è di riscattare il concetto stesso di conversazione dal sospetto di evasione e di futilità. Bisogna prenderla sul serio, come ha fatto lo storico britannico Theodore Zeldin con: La conversazione. Di come i discorsi possono cambiarci la vita. Tanto sul serio, da imparentarla con l’eros:
La conversazione è, oltre che tante altre cose, un gioco di lettura del pensiero e un enigma. Dobbiamo costantemente fare delle congetture sul perché gli altri dicono una certa cosa. Non sappiamo mai quando le parole si metteranno a ballare insieme, le opinioni ad accarezzarsi, le immaginazioni a spogliarsi, gli argomenti ad aprirsi. Ma se lo vogliamo possiamo diventare più agili. La conversazione, come l’amore, può essere stimolata dal gioco delle apparenze 4.
Era una dimensione ben presente ai teorici della «civiltà della conversazione» ricostruita da Benedetta Craveri. Sia La Rochefoucaud che La Bruyère sottolineavano l’importanza di saper intuire la personalità di colui con cui ci si voleva intrattenere. Per avere successo nella conversazione bisognava in primo luogo lasciar brillare gli altri. Per piacere occorreva in primo luogo «conoscere il mondo», il che significava dare a ciascuno ciò che gli era dovuto.
Quanto è utopico immaginare una medicina sotto il segno della conversazione? Oggi, in un clima crescente di diffidenza e di aggressione da una parte, e di atteggiamenti difensivi dall’altra, sembrerebbe molto più ragionevole stare all’erta: «à la guerre, comme à la guerre»...
Eppure c’è chi si ostina a proporre il sogno (We have a dream...) come il vero realismo. Anche quando sconvolgimenti sociali rimettono in discussione istituzioni basate su un esercizio di potere asimmetrico: come la scuola ― in un contesto che vede insegnanti sotto assedio da parte di studenti e di genitori che praticano la violenza nei rapporti sociali e degradano la convivenza
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in vita incivile ― o l’esercizio della giustizia, con magistrati contestati e minacciati. Così la medicina. Tenacemente proclamiamo la richiesta di «buona medicina», quando l’analfabetismo sociale pervade anche i rapporti di cura e vengono rimesse in discussione le regole che hanno retto, per tradizione secolare, i rapporti tra curanti e curati. Un modello alto e nobile, capace di mobilitare le energie di chi non si è rassegnato a regredire allo stato di «homo homini lupus» (che in ambito sanitario rischia di diventare «lupissimus»!). La conversazione è l’abito ideale per la medicina, perché nella conversazione sono importanti i volti. La faccia trasmette lo shining (la «luccicanza» di Stephen King...). E la conversazione richiede di guardarsi negli occhi. Conversare è più che informare: è questa l’aspirazione più alta della medicina.
Ah, dimenticavo: la «civiltà della conversazione» di Antico Regime era in mano alle donne. Erano le dame che animavano i salotti e dirigevano ― come un ballo, come una sinfonia ― quello scambio paritario e rispettoso cui diamo il nome di conversazione. Anche il «regime» futuro che costituisce la nostra utopia si realizzerà solo se smantelliamo la società patriarcale e assicuriamo una diversa posizione alle donne. La civiltà della conversazione non può instaurarsi senza una redistribuzione del potere. Di cui la parola è lo strumento principe.
Come nume tutelare del nostro sogno evochiamo la nonna paterna di Angela Staude, la moglie di Tiziano Terzani. È stata una donna piena di interessi artistici e di iniziative, indipendente e cosmopolita. Nella sua vecchiaia, facendo un bilancio di quanto aveva vissuto, era solita dire: «In fondo, che cosa ho fatto io nella vita? Un po’ di conversazione!». Ecco: non la conversazione accanto ad altre cose, bensì la vita stessa come conversazione. È il nostro modello ideale anche per la Medicina Narrativa: non una specialità tra le altre. Allora, potremo tranquillamente lasciar cadere l’aggettivo che ci è servito per ricordarci ciò che sentiamo ancora carente nella pratica delle cure. Avremo la medicina e basta. La medicina in modalità di narrazione. Ovvero la Grande Narrazione sul nostro corpo, i suoi limiti, la sua storia, le sue potenzialità di crescita e di decadenza. La conversazione farà circolare l’Eros per le vie del Pathos.
La salute è l’oggetto immenso della conversazione quotidiana. Potremo dire una parola conclusiva solo quando avremo ascoltato l’esperienza di tutti.
Note
1 B. Craveri, La civiltà della conversazione, Adelphi, Milano 2006, p. 16.
2 B. Craveri, op. cit., p. 17.
3 G. Fiori, La conversazione sparita, Marmi, Roma 2013.
4 Th. Zeldin, La conversazione. Di come i discorsi possono cambiarci la vita, Sellerio, Palermo 2002.