![Book Cover: L'ascolto che guarisce](https://sandrospinsanti.eu/wp-content/uploads/2019/09/12-c-lascolto-che-guarisce-Custom.jpg)
- Interessi plurali, interessi in conflitto nella pratica clinica
- Conflitto di interessi
- L'alleanza terapeutica
- Chi ha potere sul mio corpo?
- Curare e prendersi cura
- Il medico e il paziente, una relazione complessa
- Le mani sulla vita
- Come riconoscere il medico giusto
- Cambiamenti nella relazione tra medico e paziente
- L'educazione come terapia
- «Dottore, sto male» - «Mi racconti»
- Narrative based medicine
- We have a dream
- L'ascolto che guarisce
- La comunicazione medico-paziente
- La gestione dei conflitti in ambito sanitario
- Ripensare la cura nel contesto di una società conflittuale
- La necessità di porre limiti alla medicina
- Parlare o tacere?
- Il rapporto medico-paziente
- Il recupero del soggetto
- Etica della vita e intervento sanitario
- Elogio della indecisione
- Comunicare e informare: quale empowerment per il cittadino?
- L'ascolto che guarisce: conclusioni
- Dignità del malato e dignità del medico
- Aspetti etici della relazione medico-paziente
- La decisione cardiochirurgica: aspetti etici
- Il segreto nel rapporto con il paziente sieropositivo
- Il rapporto medico-paziente: modello in transizione
- La formazione culturale del curante
- Le professioni della salute si incontrano
- Le separazioni nella vita
- Quando inizia l'accanimento diagnostico e terapeutico?
- L'accanimento diagnostico e terapeutico
- La persona è al centro della comunicazione
- Il medico impari a non «scomunicare»
- Ma il malato deve o vuole sapere?
- Il dottor Knock si aggiorna
- Il tempo come cura
- A una donna come me
- La difficile virtù di saper ascoltare
- Dottore, ma l'operazione s'ha proprio da fare?
- Certezze e incertezze del sapere medico
- Le mani sulla vita
- L'educazione come terapia
- L'ascolto che guarisce
- L'ascolto che guarisce: conclusioni
- Le professioni della salute si incontrano
- Dottore, mio figlio sarà sano?
- Antropologia medica
- Antropologia medica
- Antropologia cristiana
- L'etica cristiana della malattia
- Vita fisica
- Salute
- Salute, malattia, morte
- Malattia
- Malattia
- La malattia come autoguarigione
- La malattia sotto il segno dell'ambiguità
- Passeggiando per i territori di cura: gli dei, i riti
- Comprendere la malattia
- L'approccio medico della sessualità
- La sessualità giovanile al tempo dell'aids
- Per un rinnovamento dell'etica cristiana della malattia
- Come ti senti?
- La forza di vivere
S. Spinsanti - A. Malliani - C. Brutti - L. Boggio Gilot - B. Giordani - M.C. Koch Candela - L. Bovo - M.C. Picciotti - C. Pontalti - R. Menarini - D. Franzoni - N. Borri
L'ASCOLTO CHE GUARISCE
Psicoguide, Cittadella Editrice, Assisi 1989
pp. 13-25
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L’ASCOLTO NELLA PRATICA SANITARIA
GLI INTERROGATIVI FONDAMENTALI
L’ascolto che guarisce: appena formulato il tema, navighiamo già nell’ambiguità, a cominciare da quella di natura grammaticale. A interrogare bene, infatti, l’enunciato del titolo dell’incontro, ci accorgiamo che la funzione terapeutica può congiungersi all’ascolto in due modi: la guarigione può essere considerata come una conseguenza dell’ascolto, in una catena causale in cui la guarigione è il benefico risultato dell’atto dell’ascolto da parte del terapeuta; il che guarisce, aggiunto all’ascolto, ha grammaticalmente in questo caso il valore di una proposizione relativa. In una seconda accezione, la funzione guaritrice può essere vista come una specificazione dell’ascolto: tra le varie specie di ascolto, a noi interessa quella che ha un effetto terapeutico. Potremmo infatti facilmente supporre che esistono varie specie di ascolto, così come Buber identifica varie specie di dialogo 1; non ogni ascolto guarisce, ma solo quello
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che risponde a determinate condizioni. In questo caso potremmo interpretare il nostro incontro come la ricerca di quelle condizioni che permettono di identificare l’ascolto che ha qualità terapeutica.
L’ambiguità grammaticale è una buona introduzione alle molteplici ambiguità sostanziali del tema. La facoltà di guarire attribuita all’ascolto va intesa come un processo terapeutico in senso stretto, oppure come una metafora, se non addirittura come una figura retorica? Della guarigione di chi stiamo parlando: di colui che domanda l’ascolto o di chi l’esercita? L’ascolto a cui ci riferiamo è quel lo già implicito in ogni procedura terapeutica, elaborata in modo specifico dalle diverse professioni sanitarie, o è qualcosa d’altro, che deve essere aggiunto alla procedura stessa, affinché questa produca un effetto terapeutico?
Possiamo assumere come concreto punto di partenza per questi interrogativi sull’ascolto i sentimenti di delusione e di risentimento che serpeggiano sovente tra coloro che ricorrono a quanti per professione si dedicano alla guarigione degli altri. Tra le attese dei malati e la realtà c’è un divario di notevoli dimensioni. I malati hanno l’impressione di essere traditi da coloro dai quali si aspettano di essere ascoltati, e che invece fanno tutt’altro che esercitare l’ascolto. La scontentezza rimane, anche se l’agire degli operatori è inteso andare
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a beneficio della salute del malato (come richiedere analisi sempre più minuziose o prescrivere farmaci su farmaci). Principali imputati di un rapporto professionale da cui è escluso l’ascolto sono i medici. Si rimprovera loro di tendere a una pratica della medicina in cui il rapporto di parola viene sempre più schiacciato dall'importanza della tecnologia. Come tappa finale di questo sviluppo si profila una medicina assolutamente indipendente dalla parola detta e ascoltata. Nella descrizione che ne fa Paul Lüth, «la nostra medicina moderna, quando ha successo, nei casi gravi, è muta. La parola è un fronzolo, un contorno, in ogni caso non un’autentica parte costitutiva della terapia. La terapia è averbale. Ciò crea il malessere nella medicina moderna, quella di successo» 2.
Anche i pastori possono essere bersaglio dello scontento, quando sostituiscono all'attività circolare dell’ascolto quella unidirezionale della predicazione o della prescrizione di norme morali. Nelle riflessioni su La vita comune già Dietrich Bonhöffer faceva acute osservazioni sulle carenze nella pratica dell'ascolto all’interno della comunità cristiana: «Come l’amore di Dio incomincia con l’ascolto della sua Parola, così l’inizio dell'amore per il fratello sta nell’imparare ad ascoltarlo. I cristiani, specialmente i predicatori, credono di dover sempre "offrire" qualcosa all’altro, quando si trovano con lui; e lo ritengono come loro unico compito. Dimenticano che ascoltare può essere un servizio ben più grande
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che parlare. Molti uomini cercano un orecchio che sia pronto ad ascoltarli, ma non lo trovano tra i cristiani, perché questi parlano pure lì dove dovrebbero ascoltare» 3.
Dietro queste e analoghe espressioni di disappunto nei confronti di coloro dai quali ci si aspetta, in forza della professione che esercitano, un particolare ascolto, indoviniamo una concezione ingenua che possiamo sinteticamente così formulare: i professionisti della salute non ascoltano per cattiva volontà. Il corollario è allora un’esortazione morale: mettano più impegno ― vale a dire: più tempo, più buona volontà ― per ascoltare!
Questa dimensione volontaristica dell’ascolto e del non ascolto è estremamente riduttiva. Se vogliamo capire questi fenomeni, dobbiamo collocarli su uno sfondo più vasto. Sociale, anzitutto: ciò che avviene nell’ambito sanitario non è che un aspetto particolare di qualcosa che condiziona la società tutta intera. Come figli del nostro tempo, siamo incapaci di un ascolto pieno. Max Picard ha definito l’uomo moderno come «un’appendice del rumore» 4. Immersi in un mondo di suoni, costituiamo una società in cui tutti parlano e nessuno ascolta 5. La scuola stessa è finalizzata
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a renderci professori della parola, ma analfabeti dell’ascolto. La diffusione dei media, che tendono a passivizzare l’utente, può essere ulteriormente indicata come responsabile di comportamenti collettivi di non ascolto reciproco.
Questi aspetti fanno parte di una litania obbligata, e tanto spesso ripetuta, di accuse alla società come responsabile dell’atrofia dell’ascolto. Tuttavia la prospettiva sociale è insufficiente a farci rendere conto pienamente del fenomeno. È necessario spingerci più in profondità, analizzando la cultura occidentale in tutto il suo sviluppo longitudinale. La critica filosofica che Heidegger ha fatto dell’impianto logocentrico della cultura dell’Occidente può fornirci un’indicazione più illuminante delle abituali reprimende contro la civiltà dell’immagine e la diffusione della comunicazione audiovisiva 6.
Il contributo del pensiero greco all’Occidente è stata la teorizzazione del logos. Questo termine ― che possiamo variamente tradurre con ragione, discorso, verbo, espressione, studio ― considera come tratto fondamentale del pensiero il parlare. Per l’Occidente la parola diventa, di conseguenza, l’atto fondante del pensiero logico. Il detentore del logos ritiene di
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poter parlare per primo, antecedentemente al saper ascoltare. Potremmo schematicamente ridurre il processo all’assioma: «Parlo: e per questo qualcuno mi ascolta» 7.
Questa concezione fortemente sbilanciata dalla parte del logos espressivo spiega perché l’impianto gnoseologico del pensiero occidentale tende a ignorare i processi di ascolto. Di fatto la nostra cultura si dispiega in una produzione vastissima di studi concernenti il linguaggio, mentre ben poca attenzione è dedicata agli itinerari dell’ascolto. Prima che intervengano i processi della volontà ― la buona o cattiva volontà di ascoltare, che il moralismo rende responsabile del processo dell’ascolto ― è la nostra stessa logica che sa dire quasi tutto, mentre sa ascoltare ben poco. Alla logica occidentale è estranea l’esperienza integrale del dialogo. Il sapere si esprime in una produzione ipertrofica di discorsi che pretendono di poter far a meno dell’ascolto, ovvero di un «prender dimora insieme», in una condivisione di destino.
Tutta la traiettoria del pensiero occidentale soggiace alla critica di Heidegger, per il quale la concezione del logos che sorregge il nostro pensiero è dimidiata. In realtà, il verbo leghein (da cui deriva il logos) ha due fondamentali accezioni: oltre dire, parlare, enunciare, significa anche: raccogliere, cogliere, lasciar stare, serbare. Questa seconda accezione, che contiene in nuce tutto il dinamismo dell’ascolto, è stata lasciata completamente
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in ombra, in posizione subalterna e minoritaria rispetto alla prima. La nostra fierezza di rappresentare la civiltà della ragione è quindi insidiata dalla presa di coscienza che in realtà quello che chiamiamo logos è soltanto la metà di un processo completo.
Le istanze heideggeriane di ricostruzione di un logos integrale, come base più solida per tutto il nostro edificio culturale, sono state raccolte e sviluppate in particolare dalle correnti personaliste della filosofia contemporanea. Basti fare, per tutti, il nome di Martin Buber, che ha fatto del «principio dialogico» il punto di partenza della sua concezione antropologica. Lo stesso Buber, tuttavia, ci avverte che il dialogo non è un fronzolo da aggiungere a un sistema precostituito dell'essere: «Non si cerchi di indebolire il significato della relazione: essa è contrapposizione» 8.
È proprio la maggiore comprensione del dialogo che mette in luce la vera natura del rifiuto di ascoltare. La resistenza all'ascolto è una forma di confusa consapevolezza degli scambi gravosi che si prospettano, se ci apriamo davvero all’altro. La mancanza di ascolto, perciò, non è solo frutto di cattiva volontà e di debolezza morale. Bisogna tener conto anche di una resistenza inconscia di fronte a un incontro interpersonale, oscuramente percepito come una minaccia al nostro equilibrio e alla nostra integrità. «L’apertura verso gli altri ― secondo Gadamer ― implica il riconoscimento che io devo lasciare che in me si affermi qualcosa come contrapposto a me,
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anche quando non ci sia di fatto nessuno che lo sostenga contro di me» 9.
La relazione non è solo un’appendice irenica al nostro «io»: è anche contrapposizione, talvolta conflitto. A una vera relazione interpersonale si arriva passando attraverso un processo di destrutturazione e una rimessa in discussione di se stesso 10. L’invocazione di aiuto dell’altro ci investe come un’ondata carica di pericolo. «Chi sente gridare un bambino ― ha affermato Wittgenstein ― e lo comprende, sa che in quelle grida sonnecchiano tremende forze dell’anima, e diverse da quelle che si presumono abitualmente. Furia profonda e dolore e brama di distruzione» 11.
Occorre tener presente questa dimensione profonda dell’ascolto, se non vogliamo banalizzarlo riducendolo a un atteggiamento fatto di correttezza formale e di generica benevolenza. Bisogna quindi presupporre che ognuno di noi si barrica in qualche modo di fronte a chi chiede ascolto, mettendo in atto delle difese. Anche l’operatore della salute ha le sue, di cui deve prendere consapevolezza. La prima forma di difesa è ovviamente rifiutare l’ascolto. Ci sono forme grossolane di non
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ascolto. Sono quelle più evidenti e di cui si è soliti lamentarsi, perché feriscono in modo più acuto la sensibilità delle persone. Nel complesso, però, non sono le più gravi. Ben peggiori sono le forme mascherate o subdole di non ascolto. Si può, ad esempio, dare ascolto, cioè accondiscendere a una domanda di aiuto, quale che sia, al fine di non ascoltare, ovvero di non permettere che ciò che dell’altro è veramente importante venga allo scoperto.
Quella guarigione totale in cui consiste l’autorealizzazione della persona attraverso i percorsi tortuosi della malattia e della salute, richiede che si ascolti non soltanto quello che preme per essere ascoltato (spesso si tratta di un’organizzazione di sintomi che fa da paravento alla vera causa del malessere, impedendo alla persona di modificarsi in profondità), ma anche e soprattutto quello che è stato «scomunicato», cioè sottratto alla comunicazione. Si può, in altre parole, usare la propria competenza nel guarire per «tenere a distanza» ciò che è veramente importante 12.
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Questa modalità di non ascolto è molto più insidiosa di quella macroscopica del non prestare attenzione, anche perché è più difficile smascherarla. L’ascolto dirottato sui sintomi, ovvero su qualcosa di secondario e periferico, affinché non emerga l’essenziale, avviene per lo più con la collaborazione inconscia del paziente stesso. Può essere questi a condurre il gioco, puntando sull’ambiguità fondamentale della malattia 13, e a depistare il terapeuta. Mediante l’ascolto questi finisce impantanato in un terreno di inautenticità, mentre la capacità di ascoltare si risolve in una recettività amorfa e non selettiva. Ascoltare equivale allora a colludere con quella parte del paziente che banalizza il male e gli toglie la funzione di stimolo per la crescita in autenticità. L’ascolto perde in tal caso la capacità di essere anche una «confrontazione».
Una delle modalità più diffuse di difendersi dalle scomode esigenze dell’ascolto totale è quella di frazionare la richiesta. Ogni operatore acquisisce insensibilmente con l’esercizio della professione una certa deformazione, che lo porta a ricondurre la domanda della persona sofferente a ciò che è rilevante per la sua professione. Si realizza così una «educazione» del paziente a far entrare i propri sintomi entro il quadro di leggibilità proprio del terapeuta. Sempre più spesso si presenta, di conseguenza, la situazione del malato che, agli occhi del medico, «non ha niente»,
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e viene perciò inviato a un altro professionista sanitario (il più di frequente allo psicologo, con l’implicita allusione che i suoi mali siano non reali, ma fittizi, di carattere emotivo...).
Secondo Balint, specialista nell’analisi del rapporto terapeutico, i malati «offrono» i sintomi; di volta in volta l’operatore sceglie di accettare o no ciò che il paziente gli porge. Su questo piano inclinato si procede, con l’aiuto della specializzazione, verso quella focalizzazione sulla malattia, piuttosto che sul malato, che favorisce l’anonimato e i rapporti impersonali.
Un modo ancora di alzare una difesa nei confronti della domanda di ascolto dell’altro consiste nel predeterminare la conoscenza di quella domanda. Lo si ottiene appoggiandosi a una solida teoria: quella che l’operatore sanitario riceve dalla formazione universitaria che gli impartisce l’insegnamento della medicina, o lo psicoterapeuta dalla scuola psicologica a cui aderisce, o il pastore dal sistema dottrinale ortodosso dell’istituzione religiosa che rappresenta. Ascoltare l’altro equivale allora a riferirlo mentalmente alla teoria, modellarlo su di essa, espungere l’eccedenza come non significativa. La teoria ― protocolli clinici e terapeutici, modelli di intervento psicoterapeutico, indicazioni prescrittive del magistero ecclesiastico ― riempie l’operatore, che si trova cosi sollevato dal compito gravoso, e pericoloso, di colmare la propria ignoranza mediante un ascolto dell’altro nella sua concretezza e unicità personale. L’interiorizzazione dei modelli teorici può costituire un argine allo straripamento dell’altro, con la carica dirompente della sua diversità.
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La teoria, dando l’impressione di poter capire gli altri in anticipo, adempie in realtà la funzione di tener lontano da sé le loro pretese più esigenti. E soprattutto quegli aspetti inquietanti del mondo che trapelano attraverso il dolore degli altri: la comune destinazione alla morte, di cui ogni malattia fisica è il non gradito messaggero; la follia, a cui tutti paghiamo un piccolo o grande tributo; il peccato e la colpa, più presenti che mai là dove si cerca vanamente di tenerli lontano con sistemi di autogiustificazione.
Colui che, in stato di bisogno corporeo, psichico o spirituale, domanda l’ascolto terapeutico di un operatore, lo mette con ciò stesso di fronte ad aspetti della propria realtà che questi cerca di eludere proprio con il ricorso all’esercizio professionale della terapia. Per poter veramente ascoltare, il medico deve accettare, di fronte al malato, l’idea della limitatezza della propria vita. Il disagio psichico e la miseria spirituale, d’altra parte, costringono chi esercita la professione psicoterapeutica o il ministero pastorale a confrontarsi con la propria insanità mentale e il proprio peccato.
Essendo così forti le ragioni che ci dissuadono dal prestare ascolto, a causa della carica eversiva che esso può avere per la nostra stabilità; essendo così raffinati i sistemi che, individualmente e con l’aiuto di quella che viene riconosciuta come una «buona» formazione professionale, siamo in grado di mettere in atto per difenderci dall’ascolto, c’è motivo piuttosto di stupirsi che qualche volta l’ascolto avvenga. Dobbiamo parlarne non come del risultato programmato della sinergia tra buona disposizione della volontà e metodiche di
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educazione all’ascolto. L’ascolto in questo senso pregnante è piuttosto qualcosa che «succede». Ha legami più profondi con lo stupore, da cui secondo Platone ha origine l’attività filosofica, piuttosto che con la benevola compiacenza o con la filantropia tradizionalmente richieste a chi esercita una professione sanitaria. L’ascolto si apre sulla novità, piuttosto che su dati che cadono, quali casi esemplari, su una griglia di sapere precostituito.
Un ascolto pieno presuppone che si sia in qualche modo passati attraverso il grande deserto, assumendo la distanza infinita che separa una persona dall’altra. 0 piuttosto: l'ascolto avviene nel deserto, perché quella distanza non sarà mai abolita, malgrado ogni occasionale balenio di reciprocità delle coscienze. Quell’ascolto pieno rivela il suo lato benefico non solo per chi è ascoltato, ma anche per l’operatore che lo esercita. Ascoltando l’altro, egli si apre alla propria realtà umana in pienezza, compresa la sua inevitabile parte di ombra.
Mediante l’ascolto, cioè mediante l'accoglienza rispettosa di noi stessi e degli altri ― comprese le parti che, in quanto «scomunicate» dalla vita, non riescono a diventare parola ― noi, malati di attivismo e di unilateralità, reintegriamo il nostro essere.
Esercitare una professione di aiuto, qualunque essa sia, è una via a un modo più completo di essere uomini. Come, d’altra parte, il solo aiuto efficace che possiamo offrire a qualcun altro, dentro e fuori l’esercizio di ima professione sanitaria, è quello di vivere davanti a lui e con lui il nostro essere uomini.
Note
1 «Io conosco tre specie di dialogo: quello autentico ― non importa se parlato o silenzioso ― dove tutti i partecipanti si rivolgono all’unico o ai diversi interlocutori con l’intenzione di far nascere una vera reciprocità, per arrivare a una reale comprensione delle diverse forme dell’esistenza umana; quello tecnico, informato unicamente al bisogno dell'intesa oggettiva; e il monologo travestito da dialogo, in cui due o più persone parlano sempre con se stesse»: M. Buber, Il principio dialogico, ed. Comunità, Milano 1959, p. 127.
2 Citato da L. Geisler, «Arzt und Patient im Gespräch. Wirklichkeit und Wege», in Deutsches Aerzteblatt 85 (1988), n. 50, p. 16.
3 D. Bonhoeffer, La vita comune, ed. Queriniana, Brescia 1978, pp. 123-125.
4 Cfr. M. Picard, Il mondo del silenzio, ed. Comunità, Milano 1951.
5 Una descrizione letteraria di questo tratto della società moderna è offerta da un romanziere: «Uno degli aspetti più sconcertanti di questo mondo odierno è che non ci si ascolta a vicenda. Se siete malato o anche morente, nessuno vi ascolta. Se siete spaventato o sperduto o privo di tutto, o solo, o infelice, nessuno vi ascolta realmente. Anche i sacerdoti hanno fretta e sono stanchi. Nessuno ha tempo di ascoltarvi, neppure quelli che vi amano e che sarebbero pronti a morire per voi»: da T. Caldwell, Il mio cuore ascolta, ed. Accademia, Milano 1974, pp. 14s.
6 Il pensiero di Heidegger è sviluppato soprattutto nelle seguenti opere: Che cosa significa pensare? Qual è l’essenza nascosta della tecnica moderna, Sugarco Ed., Milano 1979; Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976; In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1973.
Una presentazione sistematica della critica heideggeriana al logos dimidiato è offerta da G. Corradi Fiumara, Filosofia dell’ascolto, Jaca Book, Milano 1985.
7 «La logica in quanto dottrina del logos considera il pensiero come un asserire qualcosa su qualcosa. Il tratto fondamentale del pensiero è secondo la logica questo parlare»: M. Heidegger, Che cosa significa pensare?, cit., p. 40.
8 M. Buber, Il principio dialogico, ed. Comunità, Milano 1959, p. 13.
9 G. Gadamer, Verità e metodo, ed. Fabbri, Milano 1972, p. 417.
10 «Nel rapporto con gli altri ciò che importa è esprimere il tu come tu, cioè sapere ascoltare il suo appello e lasciare che ci parli. Questo esige apertura. Ma questa apertura, in definitiva, non è solo apertura a qualcuno da cui si vuole farsi dire qualcosa; bisogna invece dire che chi si mette in atteggiamento di ascolto è aperto in un modo più fondamentale. Senza questa radicale apertura reciproca, non sussiste alcun legame umano, L’essere legati gli uni agli altri significa sempre, insieme, sapersi ascoltare reciprocamente»: G. Gadamer, loc. cit.
11 L. Wittgenstein, Pensieri diversi, Adelphi, Milano 1980.
12 Vediamo profilarsi sullo sfondo una figura che appartiene a tutte le tradizioni sapienziali: l’ammonizione a «non dare ascolto al maligno». Siamo qui trasportati in una dimensione ulteriore dell’ascolto e del non ascolto, che possiamo chiamare trans-personale, in quanto si colloca al di là del rapporto umano che si stabilisce da persona a persona (rapporto «io»-«tu»). In questa dimensione l'ambiguità è la norma. Simbolicamente, il maligno si presenta in forma di angelo di luce... Percorrendo questa traccia, possiamo arrivare a ipotizzare che malattie e guarigioni in senso fenomenologico possono non corrispondere al loro significato transpersonale; ovvero: ci sono guarigioni che non sono tali e malattie che sono delle vere guarigioni. Con questa chiave possiamo comprendere diversi episodi evangelici di contenuto terapeutico, che altrimenti si presentano come enigmatici.
13 Sull’ambiguità esistenziale della malattia si veda il precedente incontro tra operatori della salute, svoltosi nel novembre 1986: La malattia, follia e saggezza del corpo. Gli atti sono pubblicati con lo stesso titolo, Cittadella ed., Assisi 1987.