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Sandro Spinsanti
STAGIONI DELL'ETICA E MODELLI DI QUALITÀ IN MEDICINA
in Contributi per una gestione manageriale della sanità, I Quaderni di Mecosan
a cura di Sandro Spinsanti
Sipis Editrice srl, Roma 1996
pp. 148-155
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Sommario: 1. L’etica medica come etica dei medici - 2. La stagione della bioetica - 3. Quando l’ospedale si organizza come un’azienda di servizi - 4. I problemi etici della soddisfazione del paziente.
1. L’etica medica come etica dei medici
Noi oggi, alla fine del XX secolo, cerchiamo una «buona» medicina per rispondere ai nostri problemi di salute, non meno di quanto abbiano fatto i nostri antenati o i nostri padri, soltanto una generazione fa. Ma la nostra idea di ciò che corrisponde a buona o cattiva medicina è cambiata, così come sono cambiate le nostre attese nei confronti di un ospedale o del servizio sanitario pubblico. Più precisamente, possiamo dire che ci troviamo presi in un processo storico che ha visto il susseguirsi di almeno tre grandi modelli di buona medicina, ognuno dei quali prospetta in modo coerente come si devono comportare i diversi protagonisti del sistema delle cure: i medici, i malati, le varie professioni sanitarie, la società del suo insieme.
Ogni modello che si sussegue nel tempo ci obbliga a ripensare ogni volta la
medicina intera sotto una diversa luce di qualità. In modo sintetico, possiamo dire che i tre modelli rappresentano tre diverse stagioni dell’etica in medicina.
Per illustrare i cambiamenti di tutto ciò che associamo all’idea di «buona»
medicina, ci serviremo di uno schema.
Come ogni schema, introduce una certa semplificazione nella realtà delle re l’attenzione sui punti nevralgici del cose, ma ha il vantaggio di concentra cambiamento.
STAGIONI DELL'ETICA IN MEDICINA
|
Epoca premoderna Etica medica
|
Epoca moderna Bioetica |
Epoca postmoderna Etica dell'organizzazione
|
La buona medicina |
Quale trattamento porta maggior beneficio al paziente? |
Quale trattamento rispetta il malato nei suoi valori e nell’autonomia delle sue scelte
|
Quale trattamento ottimizza l’uso delle risorse e produce un paziente/cliente soddisfatto? |
L’ideale medico
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Paternalismo benevolo (scienza e coscienza) |
Autorità democraticamente condivisa
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Leadership morale, scientifica, organizzativa |
Il buon paziente
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Obbediente (compliance) |
Partecipante (consenso informato)
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Cliente giustamente soddisfatto e consolidato |
Il buon rapporto |
Alleanza terapeutica (il dottore con il suo paziente) |
Partnership (professionista- utente) |
Stewardship (fornitore di servizi-cliente) Contratto di assistenza: Azienda/popolazione
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Il buon infermiere |
“Paramedico” Esecutore delle decisioni mediche Supporto emotivo del paziente
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Facilitatore della comunicazione, a beneficio di un paziente autonomo |
Manager responsabile della qualità dei servizi forniti |
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Il primo modello presentato dallo schema può essere chiamato pre-mo- demo. Ha caratteristiche di grande antichità e di forte tenuta nel tempo. La sua antichità è indiscussa, in quanto in Occidente risale almeno a Ippocrate. Ma anche la sua forza è notevole, in quanto non esiste in tutta la tradizione occidentale un modello culturale che abbia resistito tanto a lungo. L’Occidente ha cambiato una quantità di cose nell’organizzazione sociale — l’economia, la famiglia, la religione, il diritto, la politica — dall’antichità greco-romana ad oggi.
La medicina stessa si è profondamente modificata nel corso del tempo, sia nei modelli teorici che nel modo di fornire aiuto ai malati. Tra il medico seguace di Galeno — che interpreta le malattie secondo la teoria degli umori ― il medico scienziato dell’ottocento ― che ricorre al metodo della scienza sperimentale per spiegare come funziona l’organismo sano o malato — e il medico della nostra epoca — che è capace di ricondurre le malattie a un difetto del corredo genetico ed è in grado di prevederne l’insorgenza con anni di anticipo — le differenze sono enormi. La stessa cosa si può dire riguardo al ricorso di salassi, ai vaccini e all’ingegneria genetica, se ci spostiamo sul versante delle risorse terapeutiche con cui far fronte alla patologia.
Per l’etica, invece, non è avvenuto così. Le convinzioni su ciò che è bene o male fare in medicina, sui comportamenti giusti o ingiusti nei confronti del malato sono rimaste relativamente stabili per secoli. Praticamente si tratta di una tradizione ininterrotta che in Occidente è durata per più di 25 secoli, dall’epoca di Ippocrate fino ai nostri giorni: in tutto questo tempo non abbiamo mai sentito il bisogno di modificare il concetto, condiviso dai medici e dai pazienti, di quelle pratiche di cura della salute a cui attribuire un valore morale positivo.
Ci possiamo riferire a quest’epoca come alla stagione premoderna dell’etica in medicina. Sinteticamente la denominiamo etica medica. L’aggettivo è giustificato. L’etica a cui ci riferiamo, infatti, è sostanzialmente l’etica «del medico». È il medico che la determina e la professione medica che se ne fa garante. In questa etica sono prescritti comportamenti per i malati, per i familiari, per le professioni che collaborano con il medico; tutti svolgono, tuttavia, funzioni subordinate e sono chiamati a modellarsi sulle richieste che provengono dai medici, i quali hanno un ruolo decisivo nello stabilire che cosa sia «buona» medicina. La qualifica di «paramedici» data a coloro che esercitano professioni sanitarie non mediche rispecchia bene questa situazione di centralità del medico. Anche l’etica dei non medici in questa stagione è un’etica «paramedica».
La domanda fondamentale a cui risponde la medicina di qualità dell’epoca pre-moderna è: «Quale trattamento porta maggior beneficio al paziente?». Troviamo questa preoccupazione già nel giuramento di Ippocrate, nella cosiddetta clausola terapeutica: «Prescriverò agli infermi la dieta opportuna che loro convenga per quanto mi sarà permesso dalle mie cognizioni e li difenderò da ogni cosa ingiusta e dannosa». Tutta l’azione del medico è diretta a procurare il bene del paziente, identificato con la soluzione positiva al problema creato dalla patologia.
Le risorse che il medico utilizzerà sono ovviamente quelle che la scienza del tempo gli mette a disposizione: per il medico dell’antichità era la «dieta» (cioè il regime terapeutico che tendeva a ristabilire nella vita del malato l’equilibrio turbato); per il medico dei nostri giorni i trattamenti appropriati potranno essere gli antibiotici o i trapianti di organo. Qualunque sia la scienza di riferimento, il modello rimane tuttavia lo stesso: il medico si impegna a fare il bene del paziente.
Questa accentuazione è presente anche in altre tradizioni mediche che afferiscono al filone ippocratico. Pensiamo, ad esempio, alla medicina omeopatica. Il libro fondamentale di Samuel Hahnemann, L’Organon dell’arte di guarire, inizia con una frase programmatica, che circoscrive il dovere del medico in un perimetro molto preciso: «L’unico compito del medico è guarire presto, dolcemente, durevolmente». Tutto il resto dell’opera è dedicato al «come» ottenere la guarigione, vale a dire ai rimedi appropriati alle patologie. La prima frase compendia il fondamento etico di tutta l’impresa terapeutica, ricondotta alla volontà di procurare la guarigione del paziente.
I principi fondamentali di questa etica, riconducibili all’imperativo di fare il bene del paziente, presuppongono un modello ideale del medico fondamentalmente paternalista. «Paternalismo» in questo contesto non equivale a un giudizio di valore: vuol essere solo la descrizione di una modalità di rapporto. Vuol dire che tra chi cura e colui che riceve le cure c’è lo stesso rapporto asimmetrico che esiste tra un buon padre e una buona madre e i figli del cui bene sono responsabili. Il medico è colui che sa qual è il bene del paziente e vuole realizzarlo, mettendovi tutto il suo impegno e tutta la dedizione. È la scienza in continuo progresso che lo guida nel percorso della terapia, mentre la coscienza gli impedisce di trarre profitto dalla debolezza del paziente (per esempio, strumentalizzandolo ai fini di ingiusto lucro o di fama). Questa duplice guida è riassunta da una formuletta, molto amata e citata dai medici, quando rivendicano a se stessi l’obbligo di prendere le decisioni «in scienza e coscienza». Nel linguaggio della bioetica americana, si parla a questo proposito di una medicina
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ispirata al principio della beneficence, ovvero di «beneficità».
Il malato contribuisce alla buona medicina impegnandosi a essere docile e osservante delle prescrizioni, in un rapporto di affidamento fiduciale. Egli non ha, di per sé, nulla da dire in merito all’atto terapeutico, che rimane affidato a quanto il medico stabilisce per il suo bene. Tutto quello che il malato ha da fare, è di diventare «paziente», in tutti i significati del termine. Il buon paziente è il paziente «osservante». A lui si richiede di entrare nel trattamento mediante la compliance. Come affermava l’illustre spagnolo Gregorio Maranon, che ha rappresentato nella prima metà del secolo il permanere dell’ideale ippocratico: «Il malato che non sa essere paziente diminuisce le sue possibilità di guarire. Obbedire al medico è incominciare a guarire».
In questo modello il buon rapporto è l’alleanza terapeutica tra colui che si dedica all’opera della guarigione e chi riceve questo servizio. Il termine «alleanza» fa parte della tradizione religiosa. Il rapporto medico-paziente ha, di fatto, una connotazione fortemente religiosa in senso ampio, in quanto, allo stesso modo dell’alleanza che è il pilastro centrale della religione ebraico-cristiana, mette in relazione due fondamentali diseguaglianze. Nell’alleanza religiosa si tratta del legame che si instaura tra la potenza della divinità, in quanto fonte di forza e di salvezza, e la situazione di necessità propria del popolo di Israele. L’unione dei due mediante l’alleanza produce la salvezza. Analogamente, la guarigione in medicina, nel modello tradizionale, si ottiene mediante l’unione tra la scienza-coscienza del medico (che include il suo sapere, la filantropia, la volontà di fare il bene del paziente) e la volontà del paziente di mantenersi dentro questo rapporto di alleanza.
Il seguire la prescrizione medica è la condizione essenziale perché l’alleanza possa esplicare i suoi effetti benefici, e quindi procurare la guarigione. Il contraente dell’alleanza, che è il malato, si deve affidare e accettare le condizioni che gli vengono poste per la guarigione; il medico, che concede l’alleanza, lo guida verso il suo proprio bene. Dai collaboratori del medico, in quanto «paramedici», ci si attende che collaborino anche a indurre i malati a essere «osservanti». Questo modello riconduce la qualità etica di un atto medico a un unico parametro: quello costituito da un vettore che visualizza la maggiore o minore rispondenza di ciò che si fa al paziente a ciò che gli porta un beneficio, in quanto è clinicamente indicato (figura 1).
I valori sono scalari per alludere al fatto che il bene procurato al paziente può essere maggiore o minore (e anche, nei casi estremi, nullo o addirittura costituire un fatto nocivo; per questo l’etica medica ippocratica ha messo come guardiano di tutto l’edificio costituito dai doveri del medico l’imperativo fondamentale: «Primum non nocere»).
Questo modello continua ancora a strutturare i nostri comportamenti sociali, sia dei professionisti che lavorano in sanità sia dei pazienti. Soltanto quando diventiamo «moderni» il modello entra in crisi.
2. La stagione della bioetica
Quando comincia l’epoca moderna? I manuali di filosofia e di storia generalmente fanno iniziare la modernità con l’illuminismo, nel XVIII secolo. Ci dicono che nella storia è avvenuto un cambiamento profondo, una di quelle fratture che hanno ripercussioni generalizzate su tutta la struttura dell’esistenza. L’Illuminismo ha modificato l’insieme della vita politica e sociale; solo in un ambito non è entrato: in medicina. Nei rapporti sociali che si stringono attorno a chi somministra e a chi riceve le cure sanitarie, l’epoca moderna non è incominciata fino a pochissimo tempo fa. Soltanto da una ventina di anni sono diventati visibili i segni di una frattura che indica che la medicina è entrata nell’epoca moderna. Di conseguenza, cambiano tutti i parametri che costituiscono il modello di «buona medicina» proprio dell’epoca premoderna.
Rinunciando a una descrizione approfondita, ci limitiamo, seguendo lo schema, a mettere delle parole chiave attorno a questi cambiamenti. Il fine generale della medicina non è più soltanto quello di portare il maggior beneficio al paziente: perché un trattamento medico abbia un carattere di qualità, ci dobbiamo anche domandare se rispetta il malato nei suoi valori e nell’autonomia delle sue scelte. Nell’epoca moderna, infatti, il malato va fondamentalmente considerato come una persona autonoma, capace di autodeterminare le proprie scelte.
L’autonomia della persona è fondamentale nell’epoca moderna. Così lo ha espresso Immanuel Kant nel famoso saggio Risposta alla domanda: che cos’è l'Illuminismo? L’Illuminismo
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comincia quando si decide di uscire dallo stato di minorità dovuta all’uomo stesso, intendendo per minorità «l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro». Il primo paragrafo dello scritto, che sintetizza il programma di vita dell’uomo moderno, termina con l’esortazione: «Sapere aude»: abbi il coraggio di servirti dell’intelletto come guida.
Il malato dell’epoca moderna è quello che ha la capacità e il coraggio di non farsi trattare come una persona eterodeterminata, ma assume il peso e la responsabilità delle decisioni che lo riguardano. Ciò mette in crisi il modello secondo cui nella medicina tradizionale il malato è per definizione uno che non può audeterminarsi. Riconosciamo l’influenza di concezioni antiche, come quelle espresse da Aristotele quando ha affermato che il malato, proprio per la sua condizione, non è capace di dare giudizi razionali, in quanto è turbato dalle passioni, come ad esempio la paura per la propria vita; nello stato di malattia deve quindi subentrare la struttura paternalistica di contenimento: qualcun altro prende le decisioni per il bene del malato, dal momento che questi non lo può fare. Dire che la medicina entra nell’epoca moderna significa prima di tutto rimettere in discussione questo paradigma profondo, che presuppone una fondamentale diseguaglianza tra le persone autonome e quelle che non lo sono (le scelte di queste ultime essendo determinate dalle prime).
Nell’epoca moderna i valori del malato, intesi come un quadro di riferimento che guida l’autonomia delle sue scelte, diventano un momento fondamentale del fare «buona» medicina. La potente ed efficace medicina che la scienza, abbinata alla tecnologia, ci mette oggi a disposizione si apre su scenari diversi. L’arsenale medico è potente e vario, e ci mette di fronte ad alternative create dai valori soggettivi. A seconda del concetto soggettivo di buona vita, ovvero di ciò che vogliamo perseguire nella nostra vita, un intervento medico può essere appropriato o no.
Perché si abbia buona medicina non ci si può limitare a rispondere alla domanda: «Questo intervento porta oggettivamente un beneficio al paziente?». Non basta stabilire — per esempio — che l’atto medico ha di fatto prolungato la vita del paziente. Se quanto il medico intraprende va contro i suoi valori e le sue decisioni, non possiamo parlare di buona medicina. L’autodeterminazione del paziente, in quanto articolazione fondamentale dei suoi diritti (per capire la differenza del paradigma, basti pensare che nel modello tradizionale si parla solo di doveri del medico e non di diritti del paziente) diventa un criterio di qualità. L’intervento sanitario non può essere più deciso unilateralmente dal medico che si basa sul sapere della sua professione, ma deve essere individuato insieme al paziente, spesso con un faticoso processo di contrattazione.
Superato il paternalismo benevolo, l’ideale medico in questo modello diventa un’autorità democraticamente condivisa; il buon paziente è un paziente partecipante alla decisione. Il cardine di questa strutturazione concettuale è il «consenso informato». L’idea di qualità dell’ atto medico si arricchisce di una nuova componente: è buono l’intervento sanitario che ha anche una correttezza formale, vale a dire il rispetto delle procedure volte a far partecipare il paziente alle scelte diagnostiche e terapeutiche che lo riguardano.
Questa è la nozione di consenso informato che troviamo nell’importante documento dottrinale proposto dal Comitato nazionale per la bioetica: Informazione e consenso all’atto medico (20 giugno 1992): «Il consenso informato, che si traduce in una più ampia partecipazione del paziente alle decisioni che lo riguardano, è sempre più richiesto nelle nostre società. Si ritiene tramontata la stagione del «paternalismo medico» in cui il sanitario si sentiva, in virtù del mandato da esplicare nell’esercizio della professione, legittimato a ignorare le scelte e le inclinazioni del paziente, e a trasgredirle quando fossero in contrasto con l’indicazione clinica in senso stretto». La sottolineatura che specifica la natura del consenso informato quando lo consideriamo dal punto di vista etico — «una più ampia partecipazione del paziente alle decisioni che lo riguardano» — ci permette di dissociarci dall’uso del consenso informato che si va diffondendo anche in Italia, concepito per lo più in funzione difensiva del medico, non finalizzato a promuovere l’autonomia del paziente.
Nella prospettiva che abbiamo adottato, il paziente non ha più solo diritti ma anche dei doveri. La sua posizione non è esclusivamente di privilegio, ma anche di scomoda responsabilità, in quanto deve partecipare al processo decisionale. Non possiamo escludere che talvolta il paziente potrebbe preferire piuttosto di delegare la decisione, affidandola interamente al medico («Faccia quello che è necessario: il dottore è lei, non io!»). Il paziente partecipante nelle scelte ha il compito di diventare un buon paziente. Per diventarlo non basta che si limiti a non far storie, non porre troppe domande, essere docile e seguire le prescrizioni mediche; il buon paziente ha anche un compito etico: deve realizzare tutto quello che è necessario per essere un buon paziente. Il buon rapporto è una partnership, che si instaura tra professionista e utente.
Il termine «utente» può suscitare delle associazioni che sembrano fuori luogo in sanità. Per ricondurlo entro l’ambito appropriato, basta pensare al senso etimologico della parola. L’utente
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è colui che «utilizza» la competenza del medico; in quanto utente, ha il dovere di usarla bene, responsabilmente, per fare insieme al professionista le scelte appropriate.
L’idea di qualità, dunque, include il concetto di partecipazione. Il termine bioetica, usato per designare questo modello di qualità dell’atto medico, è un neologismo, indicato per un modello di qualità in medicina veramente inedito. E la buona medicina appropriata per la stagione dell’etica in medicina che abbiamo chiamato «moderna». Sentiamo il bisogno di cambiare etichetta anche perché non ci troviamo più nell’ambito dell’etica medica, cioè del medico, concentrata sul medico, elaborata dalla professione medica a beneficio anche del malato. La bioetica implica uno spostamento dell’accento, per cui la qualità non è più determinata in maniera unica ed esclusiva dal sapere e dal potere del medico, ma viene stabilita in modo dialogico, insieme al paziente, il quale deve partecipare alle decisioni con i suoi valori, nell’ambito del consenso sociale. Quindi nella bioetica entra la società, l’etica civile, l’accordo ottenuto trasversalmente alle diverse comunità morali di appartenenza, includendo anche gli «stranieri morali».
In questo quadro cambia anche ciò che ci attendiamo dal buon infermiere. Nell’orizzonte della bioetica diventa un professionista più qualificato. L’infermiere ha una funzione importante nella medicina del dialogo, in quanto facilitatore della comunicazione, a beneficio di un paziente autonomo. Infatti l’autonomia della persona non è un punto di partenza, ma di arrivo; favorire l’autonomia del paziente diventa un obiettivo da raggiungere. Poiché quello che diceva Aristotele è sacrosanta verità: quando siamo malati, profondamente malati, precipitiamo in una condizione di non autonomia, in quanto siamo sopraffatti dalle passioni. Facilitare la comunicazione è una funzione importante in questo modello di qualità, tanto da mobilitare tutta la professionalità dell’infermiere e degli altri operatori sanitari che hanno un rapporto diretto con il paziente.
Questo modello di qualità, che nella nostra cultura non abbiamo nemmeno ben cominciato ad articolare, si diffonde con estrema difficoltà. Lo contrasta una profonda resistenza, sia da parte del mondo medico, sia da parte dei cittadini. Si avverte che è necessario accrescere le conoscenze e mobilitare tutte le energie concettuali e morali, al fine di entrare in questo modello. Tanto i professionisti della sanità quanto i pazienti sono obbligati a cambiare modelli di riferimento che hanno una lunghissima tradizione. E un passaggio epocale, che sposta l’accento della qualità da un modello a un altro, inaugurando un’altra epoca della qualità e dell’etica nella medicina.
Per evitare facili equivoci e smantellare almeno alcune riserve — quelle che nascono dal timore che intenda abbandonare l’etica medica tradizionale — è necessario sottolineare che i due modelli non sono diacronici, ma sincronici. In altre parole, non si susseguono nel tempo, sostituendo con il modello moderno i valori tradizionali, ma sono chiamati a convivere. Le scelte in medicina si collocano su un piano a due dimensioni: la contrattazione tra l’indicazione clinica e le preferenze del paziente (figura 2).
3. Quando l’ospedale si organizza come un’azienda di servizi
Mentre proviamo ancora tanta difficoltà a entrare nella stagione della medicina moderna, forti spinte ci stanno già indirizzando verso l’epoca postmoderna. Ci stiamo muovendo, infatti, come abbiamo visto nel paragrafo precedente, verso l’introduzione dello «stile azienda» in sanità. Il modello di qualità comporta un rapporto nuovo con il paziente. Sommariamente possiamo dire che non solo il malato deve essere informato e responsabilizzato per partecipare in modo autonomo alle decisioni terapeutiche, ma deve essere considerato come un «cliente». Oltre ad avere diritti da rivendicare, vuole anche essere soddisfatto.
Questa prospettiva caratterizza quel tipo di organizzazione sanitaria che è stata messa in moto con la riforma della riforma e che si sintetizza nel concetto di azienda sanitaria. Soddisfare i pazienti diventa un’esigenza strategica per la sopravvivenza dell’azienda stessa. Il paziente, infatti, spostandosi da una struttura all’altra, porta dietro la sua capacità di spesa, rappresentata dalla sua quota capitaria. Quindi è importante una gestione oculata dell’azienda: se perde i pazienti, perché questi preferiscono un’altra struttura,
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l’azienda esce dal mercato. Se i sanitari non trattano bene i pazienti per motivi ideali (carità cristiana o filantropia) oppure per la ragione che è loro diritto in quanto cittadini avere una buona assistenza, devono farlo almeno per interesse dell’azienda.
Il modello di qualità postmoderno comporta delle variazioni anche in tutte le altre articolazioni fondamentali del sistema di rapporti entro cui si svolge l’azione sanitaria. Innanzi tutto l’interrogativo fondamentale che dovrà porsi chiunque abbia delle responsabilità nelle scelte ruoterà intorno a elementi della qualità di carattere gestionale: quale trattamento ottimizzerà l’uso delle risorse e produrrà un paziente-cliente soddisfatto? La fisionomia stessa dell’interrogativo etico viene modificata.
Nell’etica medica il registro per valutare la qualità è quello della bontà (l’azione è buona in quanto porta il beneficio della guarigione); la bioetica si colloca entro la tradizione etica coltivata nel mondo anglosassone, che valuta se l’azione sia giusta o ingiusta, in rapporto ai diritti e nel rispetto delle procedure; la nuova stagione che si è aperta ci obbliga a interrogarci se l’azione sia appropriata rispetto ai fini da conseguire, che comportano sia una più acuta sensibilità per il bene comune e l’equità sociale, sia attraverso l’attenzione agli interessi dell’azienda.
La qualità, ovvero il valore etico di un intervento sanitario, oggi è molto più complessa. I criteri più recenti non devono sostituire quelli precedenti, ma integrarsi con essi. La «buona» medicina è quella che, come diceva Hahnemann, deve mirare a guarire in maniera rapida, efficace e duratura. Ma questo non basta: deve anche preoccuparsi di essere «giusta», rispettando i diritti del malato e promuovendo la sua autonomia. A queste considerazioni si aggiungono poi anche quelle relative a ciò che si dimostra appropriato nell’orizzonte della giustizia in considerazione dell’accesso ai servizi e dell’equa distribuzione delle risorse.
La buona medicina, quella dotata di qualità, è quella che nasce dall’integrazione delle esigenze che nascono dall’etica medica, da quelle della bioetica, e delle esigenze, infine di quella nuova stagione dell’etica in medicina che sentiamo incombere, sotto la spinta delle nuove condizioni sociali e della pressione dell’economia, e che possiamo chiamare etica dell’organizzazione. Per la precisione, da tutt’e tre contemporaneamente. Le stagioni dell’etica in medicina, con le rispettive esigenze riguardo a ciò che è giusto e appropriato nell’assistenza sanitaria, non vanno viste come modelli conclusi che si succedono nel tempo, ma come esigenze contemporanee e contestuali. La figura 3 pone le scelte in uno spazio tridimensionale, può visualizzare la complessità della situazione attuale.
Finché la qualità dell’intervento sanitario sul paziente si misurava esclusivamente con il metro del beneficio del paziente (epoca premoderna), maggiore era il beneficio — nello schema viene indicato simbolicamente con una retta numerata da 0 a 15 — che il malato riceveva da quello che si poteva fare per lui, maggiore era la qualità, anche etica, dell’atto medico. La modernità, con l’introduzione dell’autonomia del paziente, ha introdotto un altro parametro, indicato nello schema come asse delle preferenze. La buona scelta medica dovrà tener conto temporaneamente di due fattori: il beneficio da procurare al paziente e il suo consenso a ciò che il malato ha individuato e scelto come suo bene. La scelta si realizza sul piano orizzontale di una contrattazione, che spesso produce un compromesso (non è detto, infatti, che ciò che costituisce dal punto di vista clinico il maggior beneficio per il paziente corrisponda alle sue preferenze, o inversamente: ciò che il paziente informato vuole per sé può non coincidere con quanto la medicina sarebbe in grado di fare per lui).
A queste due dimensioni oggi dobbiamo aggiungere una terza, così che la decisone clinica ci appare collocata in uno spazio tridimensionale. Dobbiamo
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considerare, infatti, anche l’appropriatezza sociale degli interventi sanitari, in una prospettiva di uso ottimale di risorse limitate, solidarietà con i più fragili ed equità. Quello che possiamo fare per un malato, anche se valutabile con un punteggio alto sul parametro deH’appropriatezza clinica e su quello delle preferenze personali, potrebbe collocarsi molto in basso rispetto al criterio del buon uso delle risorse.
La buona medicina ci appare così come il frutto di una «contrattazione» molteplice, che deve tener conto di tre diversi parametri: l’indicazione clinica (il «bene» del paziente), le preferenze e i valori soggettivi del paziente (il «consenso informato») e infine l’appropriatezza sociale. L’assistenza sanitaria, dovendo conciliare nelle sue scelte esigenze diverse e talvolta contrastanti, senza minimamente rinunciare alle esigenze della scienza, ci appare più che mai un’arte.
L’ideale medico dell’epoca postmoderna è una leadership morale. Il modello paternalista non funziona più là dove si assume lo stile dell’azienda post-moderna: è necessario di dotarlo di autorevolezza. Non ci possiamo più basare su una divisione dei compiti di tipo burocratico. Soltanto chi ha quella che la cultura del management chiama la vision, cioè la visione strategica degli obiettivi e dei mezzi, sviluppa una forza morale capace di trascinare gli altri membri dell’équipe.
Il buon paziente è il cliente soddisfatto e consolidato; ma bisogna subito aggiungere che il nostro obiettivo non è il cliente in qualsiasi modo soddisfatto e consolidato, bensì il cliente giustamente soddisfatto. Il buon rapporto è la stewardship, che implica un atteggiamento non centrato sul professionista, ma sugli standard di qualità del servizio. È il presupposto che sta alla base della «Carta dei servizi pubblici sanitari», predisposta recentemente dai ministri della Funzione pubblica e della sanità. La Carta — leggiamo nella presentazione — intende assegnare «un ruolo forte sia agli enti erogatori dei servizi, sia ai cittadini neH’orientare l’attività sei servizi pubblici verso la loro “missione”: fornire un servizio di buona qualità ai cittadini-utenti».
Per quanto riguarda l’infermiere, in questo quadro lo possiamo considerare come il manager responsabile della qualità dei servizi offerti. È un compito nuovo, che affida all’infermiere non soltanto le funzioni puramente esecutive del primo modello e quelle umanistiche-interpersonali del secondo, ma anche un compito veramente promozionale della qualità. La qualità percepita dal paziente può essere monitorata molto meglio da un caposala che da un medico (il quale, oltre tutto, è vincolato dal rapporto particolare che si crea con il paziente).
4. I problemi etici della soddisfazione del paziente
Il terzo modello, quello che abbiamo chiamato «aziendale» o post-moderno, è particolarmente insidioso. Quando portiamo nella sanità lo stile azienda e consideriamo il rapporto con il paziente come cliente dobbiamo essere consapevoli che abbiamo anche messo le premesse per affossare valori importantissimi che ci sono stati trasmessi in 25 secoli di medicina, come l’orientamento al bene del paziente. Promuovendo il paziente cliente, non dobbiamo dimenticare che la soddisfazione del paziente non è un imperativo assoluto, sciolto cioè da vincoli morali. Qualsiasi azienda, ma soprattutto l’azienda sanitaria, deve essere sottoposta alle esigenze dell’etica. Il paziente non va soddisfatto in qualsiasi modo, ma solo in modo giusto. Un supporto sistematico per visualizzare i problemi della soddisfazione in rapporto con le esigenze dell’etica può essere fornito dalla figura 4.
Le ragioni dell’insoddisfazione sono diverse. È ovviamente insoddisfatto il paziente a cui, per incuria o incompetenza, non sia stato diagnosticato e trattato il suo male: egli ha diritto che, secondo il modello dell’etica medica, sia messo in atto tutto ciò che gli procura il beneficio che è autorizzato ad aspettarsi. Ma sarà insoddisfatto anche il paziente diabetico — per fare un esempio — che venga «messo a insulina» d’autorità, senza che gli sia spiegato il significato e la necessità della decisione terapeutica, i vantaggi che ne ricava e le esigenze di com- pliance. La soddisfazione del paziente non può diventare un assoluto, ma va confrontata con alcune esigenze imprescindibili, in base alle quali possiamo dire che il paziente è giustamente soddisfatto. Per portare un esempio tratto dal nursing: come sanno gli infermieri che lavorano in ambito geriatrico, gli anziani spesso non sentono lo stimolo della sete e rifiutano di bere. Sarebbe soddisfatto, ma ingiustamente, l’anziano che fosse lasciato semplicemente alle sue preferenze e non trattato secondo le esigenze della scienza infermieristica. In questo caso ciò che determina se la soddisfazione soggettiva del paziente sia giusta o ingiusta è il sapere che è proprio del professionista.
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I modi di ottenere una soddisfazione ingiusta possono essere molti. Alcuni a danno del paziente (si può arrivare anche a dargli delle informazioni inesatte, fino al vero e proprio imbroglio), altri a danno di terzi (è chiaro che il paziente a cui faccio, per un privilegio, saltare la lista d’attesa è soddisfatto; ma è ingiustamente soddisfatto se considero le esigenze di equità).
Se la soddisfazione non è l’ultimo criterio di qualità, ma va piuttosto misurata con le esigenze dell’etica, la stessa cosa possiamo dire dell’insoddisfazione. Ci sono casi in cui il paziente è ingiustamente insoddisfatto. Questo è il caso del paziente che va dal medico di medicina generale con la sua richiesta di un farmaco (magari quello che ha fatto tanto bene al vicino o di cui si parla di più...), oppure vuole un trattamento di compiacenza, come un certificato falso di malattia. Se questo paziente non viene soddisfatto, cioè gli si nega ciò che richiede in modo illegittimo, allora è ingiustamente insoddisfatto.
La prospettiva interessante che apre il «quadrilatero della soddisfazione» è quella di proporre una visione dinamica dell’etica. Troppo spesso identifichiamo l’etica con una istanza che giudica i comportamenti — buono o cattivo, giusto o ingiusto, appropriato o non appropriato — ma meno adatta a ottenere delle trasformazioni significative dei comportamenti.
La prospettiva cambia se, tenendo a mente il quadrilatero della soddisfazione, ci domandiamo: quale intervento dobbiamo mettere in atto affinché un paziente, che nel grafico si trova in un quadrante inferiore, passi in uno superiore? L’obiettivo ideale è che si collochi nel primo a sinistra, tra coloro che sono giustamente soddisfatti; ma se ciò non è possibile, almeno nel secondo, vale a dire che il paziente sia giustamente insoddisfatto (questa possibilità di una insoddisfazione insanabile ci libera da un complesso di onnipotenza: non possiamo far sì che tutti siano soddisfatti, ma possiamo evitare almeno che lo siano ingiustamente...).
L’etica ci appare così uno strumento operativo: ci stimola a fare qualcosa per modificare una situazione. L’etica è essenzialmente un insieme di interventi dinamici, tesi a un risultato. La qualità dell’intervento sanitario, infine, sta nella sua capacità di integrare i diversi elementi: ciò che la scienza medica ritiene assodato e raccomandabile (da questo punto di vista non si potrà mai accettare in medicina una logica del «cliente» che ha sempre ragione...), ciò che è conciliabile con le esigenze dei diritti umani e con l’autodeterminazione del paziente, ciò che promana dall’orizzonte dell’ottimizzazione delle risorse che inaugura l’èra delle aziende sanitarie.